LUDI |
LUDI VOTIVI DI GUERRA
I Ludi Votivi erano i giochi che i generali romani facevano celebrare quando partivano per le guerre o che promettevano di celebrare in caso di un pericolo imminente. Erano sia di natura privata che pubblica.
I voti pubblici, durante la Repubblica, appaiono per la prima ed unica volta su un denario della Gens Nonia. M. Nonius Sufenas. denario, zecca di Roma 59 a.c., il cui rovescio ha per iscrizione SEX NONI PR L V P F (Sexius Noniius Primus o Praetor Ludus Votivus Publicos Fecit).
Alla vigilia di una guerra importante i Romani cercavano di rendersi propizi gli Dei offrendo loro, in cambio della vittoria sperata, voti solenni: piuttosto frequenti risultano essere, a partire dal III sec. a.c., quelli aventi per oggetto la celebrazione di ludi magni.
I voti per i ludi potevano essere: pubblici (ordinari o occasionali) oppure privati:
- I voti erano Pubblici, quando chi assumeva l’impegno nei confronti degli Dei era, tramite il console, la città intera: i magistrati cum imperio, infatti, pronunciando le parole di rito, vincolavano la repubblica e non se stessi, tanto che il voto in seguito veniva per lo più adempiuto da soggetti diversi dai promittenti, ossia dai magistrati eletti per gli anni successivi, i quali assolvevano l'impegno per l’intero popolo nei confronti della divinità.
- I Ludi Magni detti anche Maximi o Romani, che si celebravano annualmente nel mese di settembre, venivano indetti ogni anno dai consoli con voti ordinari. Questi voti venivano pronunciati dai consoli al momento di entrare in carica, per assicurarsi la prosperità corrente e normale dello stato.
- Oppure i voti erano Occasionali, perché tali voti, diversi da quelli ordinari, avevano carattere eccezionale, essendo offerti per impetrare il favore degli Dei per la buona riuscita di un’impresa che ci si accingeva a compiere, in genere, neanche a dirlo, una guerra. I ludi magni votivi, promessi agli Dei in situazioni di imminente e grave pericolo, erano dunque più rari dei voti ordinari e quindi dei ludi maximi.
I LUDI MAXIMI (ordinari)
I Ludi Maximi, o Magni, o Romani erano una festività che ebbe inizio nel 366 a.c. e andavano dal 12 al 14 settembre, connotati come Ludi Ordinari (quindi annuali), che poi furono estesi dal 4 al 19 settembre e con cadenza sempre annuale. Detti Ludi Magni in quanto erano i principali, erano dedicati a Giove e, secondo la tradizione, furono istituiti dal re Tarquinio Prisco per la conquista della città latina di Apiolae, ma per altri autori per la vittoria sui Latini nella battaglia del Lago Regillo (496 a.c.).
Inizialmente i Ludi Romani duravano un giorno solo, ma un secondo giorno fu aggiunto per celebrare l'espulsione dei re da Roma, nel 509 a.c., e un terzo dopo la secessio plebis del 494 a.c. Dal 191 al 171 a.c. ebbero una durata di dieci giorni, mentre poco prima della morte di Gaio Giulio Cesare duravano probabilmente quindici giorni, dal 5 al 19 settembre. Dopo la morte di Cesare fu aggiunto un ulteriore giorno, probabilmente il 4 settembre, e infatti in epoca augustea, in cui i giochi si tengono dal 4 al 19 settembre.
Qui accanto, nel rovescio della moneta, dove sono indetti i Ludi Votivi in onore della vittoria di Silla, la Dea Vittoria incorona Roma seduta sugli scudi. E' la prima moneta che cita Ludi votivi. L'iscrizione cita:
I Ludi Votivi erano i giochi che i generali romani facevano celebrare quando partivano per le guerre o che promettevano di celebrare in caso di un pericolo imminente. Erano sia di natura privata che pubblica.
I voti pubblici, durante la Repubblica, appaiono per la prima ed unica volta su un denario della Gens Nonia. M. Nonius Sufenas. denario, zecca di Roma 59 a.c., il cui rovescio ha per iscrizione SEX NONI PR L V P F (Sexius Noniius Primus o Praetor Ludus Votivus Publicos Fecit).
Alla vigilia di una guerra importante i Romani cercavano di rendersi propizi gli Dei offrendo loro, in cambio della vittoria sperata, voti solenni: piuttosto frequenti risultano essere, a partire dal III sec. a.c., quelli aventi per oggetto la celebrazione di ludi magni.
I voti per i ludi potevano essere: pubblici (ordinari o occasionali) oppure privati:
- I voti erano Pubblici, quando chi assumeva l’impegno nei confronti degli Dei era, tramite il console, la città intera: i magistrati cum imperio, infatti, pronunciando le parole di rito, vincolavano la repubblica e non se stessi, tanto che il voto in seguito veniva per lo più adempiuto da soggetti diversi dai promittenti, ossia dai magistrati eletti per gli anni successivi, i quali assolvevano l'impegno per l’intero popolo nei confronti della divinità.
- I Ludi Magni detti anche Maximi o Romani, che si celebravano annualmente nel mese di settembre, venivano indetti ogni anno dai consoli con voti ordinari. Questi voti venivano pronunciati dai consoli al momento di entrare in carica, per assicurarsi la prosperità corrente e normale dello stato.
- Oppure i voti erano Occasionali, perché tali voti, diversi da quelli ordinari, avevano carattere eccezionale, essendo offerti per impetrare il favore degli Dei per la buona riuscita di un’impresa che ci si accingeva a compiere, in genere, neanche a dirlo, una guerra. I ludi magni votivi, promessi agli Dei in situazioni di imminente e grave pericolo, erano dunque più rari dei voti ordinari e quindi dei ludi maximi.
I LUDI MAXIMI (ordinari)
I Ludi Maximi, o Magni, o Romani erano una festività che ebbe inizio nel 366 a.c. e andavano dal 12 al 14 settembre, connotati come Ludi Ordinari (quindi annuali), che poi furono estesi dal 4 al 19 settembre e con cadenza sempre annuale. Detti Ludi Magni in quanto erano i principali, erano dedicati a Giove e, secondo la tradizione, furono istituiti dal re Tarquinio Prisco per la conquista della città latina di Apiolae, ma per altri autori per la vittoria sui Latini nella battaglia del Lago Regillo (496 a.c.).
DENARIO DELLA GENS NONIA SUFENIA |
Qui accanto, nel rovescio della moneta, dove sono indetti i Ludi Votivi in onore della vittoria di Silla, la Dea Vittoria incorona Roma seduta sugli scudi. E' la prima moneta che cita Ludi votivi. L'iscrizione cita:
SEX NONI PR (praetor) L ( ludos) V ( victoria) P ( primus ) F (fecit).
Prima che essi incominciassero, quando già gli spettatori si erano seduti, uno schiavo fu strascinato per il circo, costretto a portar la forca, mentre intanto lo si percuoteva con le verghe, Poco dopo un romano del contado vide in sogno presentarglisi un tale che gli disse che nei ludi il capo dei danzatori sacri non gli era stato ben accetto, e gli ordinava di far noto ciò al senato.
Quel tale non osò obbedire al sogno. Una seconda volta egli ricevette in sogno quest'ordine e fu ammonito a non sfidare la potenza di colui che gli appariva; ma nemmeno allora osò obbedire. Dopo di ciò suo figlio morì, e in sogno per la terza volta si ripeté quell'ammonizione.
Allora egli, già indebolito, riferì il fatto agli amici, e per loro consiglio fu portato in lettiga nella Curia; e dopo che ebbe raccontato ai senatori il sogno, poté tornarsene a casa a piedi sano e salvo. Accertata la veridicità del sogno, il senato indisse da capo quei ludi: così si narra.
Un altro esempio: Gaio Gracco raccontò a molti - lo riferisce il medesimo Celio - che nel periodo in cui aspirava alla questura gli apparve in sogno il fratello Tiberio e gli disse che indugiasse pure quanto voleva, ma sarebbe morto della stessa morte che era toccata a lui. Celio scrive che, prima che Gaio Gracco fosse eletto tribuno della plebe, egli aveva sentito dire ciò da lui stesso, e che lo aveva detto a molti altri. Che sogno si può citare più sicuro di questo?"
(Cicerone - lib I)
Sempre i comandanti partendo per il campo e talvolta anche nel cuore della battaglia si obbligava con voto alla celebrazione dei giochi in onore degli Dei se loro concedessero la vittoria, perché intimamente persuasi che la Divinità reggesse tutti gli avvenimenti.
Quando il popolo romano decretò che si facesse guerra ad Antioco re della Siria il console Acilio al quale era toccata in sorte una tale spedizione fece per ordine del senato il voto seguente di cui il gran pontefice gli dettava le parole (Liv l 56 c 1):
"Se la guerra che il popolo romano ha ordinato che si faccia ad Antioco riesce e si terminerà secondo i desideri del senato e del popolo romano allora o sommo Giove il romano farà festeggiare i grandi giochi per dieci giorni continui e si offriranno doni a tutti gli altri Dei e s impiegherà per tali cerimonie la somma di denaro che sarà determinata dal senato."
ALTRI GIOCHI ORDINARI, CIOE' ANNUALI:
LUDI VICTORIAE CAESARIS
duravano dal 20 al 30 luglio (dal 27 al 30 al circo). Furono i giochi indetti da Cesare e dedicati a Venere Genitrice, presunta ava e fondatrice della dinastia di Cesare, si svolsero nel circo e proseguirono per tutto l'impero.
LUDI VICTORIAE CAESARIS
duravano dal 20 al 30 luglio (dal 27 al 30 al circo). Furono i giochi indetti da Cesare e dedicati a Venere Genitrice, presunta ava e fondatrice della dinastia di Cesare, si svolsero nel circo e proseguirono per tutto l'impero.
LUDI VICTORIAE SULLANAE
SULLA (SILLA) |
A questi ludi allude la moneta della gens Nonia di cui sopra.
" Ludi Victoriae Sullanae primum anno 81 a.c..n. celebrati sunt per septem dies a 26 Octobris usque ad 1 Novembris ut proelium iuxta Portam Collinam die 1 Novembris 82 a.c. bono successu pugnatum ad honorem deae Victoriae commemoreretur.
Qui ludi etiam Augusto imperatore annuatim celebrabantur. De eis a denario iussu M. Nonii Sufenae anno 63/62 a.c. incuso (incavato) discimus ".
Qui ludi etiam Augusto imperatore annuatim celebrabantur. De eis a denario iussu M. Nonii Sufenae anno 63/62 a.c. incuso (incavato) discimus ".
LUDI ESPIATORI (straordinarii)
Se si propagava un'epidemia o dopo la perdita di una battaglia si celebravano giochi solenni per calmare la collera dei Dei a cui si attribuivano tali disgrazie. Non era importante la ragione per cui gli Dei fossero in collera. I romani, da buoni razionalisti, pur essendo molto religiosi non erano fanatici per cui non cercavano mai i responsabili della collera divina.
Questa poteva dipendere da un rito omesso o fatto male, o da un generale che si era macchiato di colpe, o dal popolo che non aveva onorato sufficientemente gli Dei. Su tutto questo non si indagava evitando così le persecuzioni, cosa che spesso non facevano e non faranno altre religioni, anche più moderne.
Questa poteva dipendere da un rito omesso o fatto male, o da un generale che si era macchiato di colpe, o dal popolo che non aveva onorato sufficientemente gli Dei. Su tutto questo non si indagava evitando così le persecuzioni, cosa che spesso non facevano e non faranno altre religioni, anche più moderne.
VOTO DI VER SACRUM (straordinario)
Il Ver Sacrum veniva celebrato in occasione di carestie e in momenti difficili, o per scongiurare un pericolo grave. Spesso il pericolo era l'eccessiva popolazione che avrebbe portato carestia, per cui tramite questo rituale si favorivano i processi migratori.
Questo rituale era diffuso presso i Sabini e, sporadicamente, praticato anche dai Romani; traeva origine da una promessa al Dio Mamerte (il Dio Marte presso gli Osci) per cui si offrivano, come sacrifici, tutti i primogeniti nati dal I marzo al I giugno (oppure, nel caso dei Sabini, quelli nati dal I marzo al 30 aprile) della seguente Primavera.
Gli animali venivano effettivamente sacrificati, mentre i bambini venivano invece sacrati (consacrati agli Dei) per poi, giunti all'età adulta, dover emigrare per fondare nuove comunità (colonie). La migrazione era guidata secondo una procedura totemica: si interpretavano i movimenti ed il comportamento di un animale-guida, per trarne auspici e indicazioni sulla direzione del viaggio. Ogni tribù aveva un animale sacro agli Dei; per i Sanniti era il toro, per i Lucani il lupo, per i Piceni il picchio ecc.
VOTI EX CERTA PECUNIA
Da Liv. 31,9,10 apprendiamo che le offerte votive dei grandi ludi a Giove erano state fatte, prima del 200 a.c., in ben otto occasioni, "de certa pecunia", ossia con l’inserimento nella formula da pronunciare, predisposta dal collegio pontificale, di una clausola contenente l’indicazione esatta della somma di denaro da accantonare e, eventualmente, da spendere per la celebrazione dei giochi, nel caso di esaudimento della richiesta da parte del Dio.
Abbiamo ampia documentazione del voto del 217 del dittatore Tito Manlio Torquato, che aveva tuttavia offerto dei ludi magni anche prima di quell’anno, e che ne indisse ancora nel 208. Il problema della formula della certa pecunia riguardò i ludi votati nel 217, insieme ad un Ver Sacrum, durante il pontificato massimo di Lucio Cornelio Lentulo Caudino.
In quell’occasione i grandi ludi, che avevano un carattere anche espiatorio, non solo propiziatorio, come sarà nel 200, erano stati prescritti dal collegio dei decemviri sacris faciundis; e non sappiamo se i pontefici fossero stati interpellati per la formula del rito, perchè Livio scrive di una sententia del collegio sulle formule da osservare, ma la riferisce genericamente a tutte le cerimonie prescritte dai sacerdoti in quell'epoca.
Di solito si richiedeva ufficialmente il parere dei pontefici, in caso di novità o di incertezza: ma non era questa la circostanza, visto che voti "ex certa pecunia" per i ludi erano già stati pronunciati in passato.
Ma non si può escludere che il decreto pontificale relativo alla formula del ver sacrum non sia stato applicato anche ai ludi, come sembra suggerire il fatto che la condizione apposta ai due voti era molto probabilmente la stessa (eiusdem rei causa), ovvero la sopravvivenza della repubblica nel successivo quinquennio.
La somma da mettere da parte per la celebrazione dei giochi venne immediatamente fissata e ammontava a 333.333 e 1/3 di asse, secondo quanto attesta Livio; è evidente che il tre ripetuto fosse un numero simbolico che ben si adattava a un tema sacro (probabilmente allusivo alla trinità della Grande Dea arcaica).
L’importo indicato da Livio equivaleva a circa duecentomila assi, che probabilmente era il totale delle somme stanziate per l'investimento nei giochi votati in precedenza, che venne ricompreso nella formula, alla quale il magistrato si sarebbe poi dovuto attenere nella nuncupatio (dichiarazione orale) del voto.
La consultazione del collegium pontificum
La procedura di consultazione nelle materie di diritto sacro pubblico, mirava a ottenere la pronuncia del collegio pontificale su problemi nuovi circa le regole da applicare o i procedimenti da seguire.
Per le questioni di routine, invece il senato si avvaleva dell’esperienza passata.
Il senato, con un suo primo provvedimento, incaricava il magistrato di consultare ufficialmente il collegio dei pontefici, i quali si riunivano, prendevano la decisione, la formalizzavano in un decreto e la comunicavano, tramite il pontefice massimo, alle autorità.
Ed erano ancora i patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione del responso pro collegio. La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che l'esecuzione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa a carico dell'intera cittadinanza.
Un pontefice incaricato dal collegio poteva anche intervenire alla celebrazione della cerimonia; in particolare, ove si trattasse di procedere alla nuncupatio di un voto, e ne dettava al magistrato la formula "praeire verbis" (a voce alta).
I "verba" (le parole) del voto erano suggeriti dal pontefice massimo o da un altro membro del collegio a seconda che il rito si svolgesse a Roma o sul campo di battaglia, o comunque in luogo lontano dalla città. Infatti fino a tutto il III sec. al pontefice massimo, che doveva accudire ai sacra, era fatto espresso divieto di allontanarsi da Roma, o almeno dall’Italia.
Nel caso dei ludi maximi il luogo della pronuncia del voto era sempre Roma e il procedimento sopra descritto fu certo durante tutta l'età arcaica, e risulta ancora osservato fra il III e il II sec. a.c.
La riforma del 200
Nel 200 a.c. la repubblica, già estenuata dallo scontro contro Cartagine, si apprestava a combattere un'altra guerra, quella con Filippo V di Macedonia, che all'inizio appariva forse più impegnativa di quanto poi non si sarebbe rivelata.
Per procurarsi il favore degli Dei, prima ancora che la guerra cominciasse, nel giorno stesso del suo insediamento, le idi di marzo, il nuovo console P. Sulpicio Galba, il quale apparteneva ad una fazione allora avversa a Scipione l’Africano, riferì al senato circa la guerra contro Filippo. Così venne approvata una delibera che ordinava ai magistrati supremi di compiere un sacrificio di vittime adulte e di rivolgere agli Dei una precatio, nel cui testo, riportato da Livio, compare un riferimento esplicito al conflitto che si stava per iniziare.
Le formalità rituali furono quindi correttamente adempiute e dall’esame delle viscere, eseguito dagli aruspici etruschi, si evidenziò l’assenso degli Dei alla guerra: "laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi".
Più oltre si dice che ai consoli furono assegnate le province: la Macedonia toccò in sorte a Galba, il quale presentò ai comizi la rogatio per la dichiarazione di guerra. Ma questa venne respinta dal popolo, che era evidentemente stanco delle continue battaglie, ed era stato sobillato in tal senso dal tribuno Bebio, che, forse alleato di Scipione, avversava allora il console.
Dai fatti che seguono la discussione in senato, si evince che il partito favorevole alla guerra fece ricorso a tutti gli strumenti a sua disposizione per convincere il popolo; e quindi anche alla religione, cercando di diffondere la convinzione che sarebbe stato sacralmente inopportuno non approfittare subito del favore degli Dei, ai quali bisognava anzi ora rivolgersi con più particolare devozione e zelo.
Seguì infatti il voto "ex senatusconsulto" da parte dei consoli di una supplicatio di ben tre giorni e di implorazioni presso tutti i templi degli Dei affinché la guerra che il popolo aveva intimato avesse esito favorevole (bene ac feliciter eveniret).
La "supplicatio" era un rito greco, che si svolgeva al di fuori della tradizione pontificale, caratterizzato dalla partecipazione indifferenziata di tutto il popolo alla cerimonia, in un clima di forte coinvolgimento emotivo.
VOTI EX INCERTA PECUNIA
L'opinione pubblica, che a Roma aveva grandissimo peso, presa da suggestioni e scrupoli religiosi, esercitò una forte sollecitazione sul console affinché si procedesse in modo analogo alle cerimonie che si rivelarono tanto efficaci contro Annibale. Per cui si avanzò la richiesta del voto dei ludi magni e del dono da parte della intera civitas.
Il console dovette chiamare in causa il senato, a cui però egli doveva rendere conto, investito di una competenza sia religiosa che finanziaria. Il problema della somma da utilizzare per il voto, attingibile solo dall’erario, veniva amministrata dal senato, dal quale dipendevano i questori urbani.
Sorse però, da parte del pontefice massimo Publio Licinio Crasso, alleato di Scipione, il problema della inaccettabilità di un voto ex incerta pecunia. Licinio era molto famoso per la sua eloquenza, con cui espresse le sue perplessità, poichè la formula del voto, contrariamente alla tradizione, non indicava la somma di danaro da spendere per i giochi, qualora gli Dei avessero accordato a Roma la vittoria.
Tale somma non poteva, secondo il pontefice, essere confusa con gli altri fondi destinati alla guerra, ma subito determinata e accantonata (seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri).
Neppure per Crasso un voto ex incerta pecunia sarebbe stato di per sé invalido: ma avrebbe comportato un grave rischio, quello della perpetua obligatio, ossia dell’effettiva assunzione di un impegno magari non adempibile, da parte del populo romano, nei confronti degli Dei, dei quali sarebbe potuta venire meno la benevolenza, o peggio, sollevare la collera.
Dunque se l'oggetto della promessa votiva era indeterminato, tale poteva essere anche la "risposta" degli Dei, ed anche nel caso in cui la condizione si fosse avverata, vi sarebbe stato poi il rischio di un adempimento irrituale. Il voto si fondava su una contropartita, e quello che si offriva doveva essere determinato tanto quanto quello che si chiedeva.
La repubblica, finita la II guerra punica, era in una situazione finanziaria precaria, e non poteva permettersi di accantonare e non utilizzare parte del denaro stanziato per la nuova guerra macedonica. Questo denaro, se il voto fosse stato ex incerta pecunia, sarebbe interamente finito nelle mani del console P. Sulpicio Galba, incaricato delle operazioni, che con quella impresa avrebbe cercato di accrescere il prestigio dei Servilii, cui apparteneva, tanto più che dopo la battaglia di Zama questa gens si era molto allontanata dalla fazione scipioniana.
Gli interessi dei Sulpicii Galba erano contrapposti a quelli dell'Africano. Il pontefice massimo, alleato di quest'ultimo, se fosse riuscito a far mettere da parte il denaro, avrebbe reso più difficoltose le operazioni di guerra e far sì che fossero rinviate ad un momento successivo, in cui non P. Sulpicio, ma un uomo politicamente più vicino agli Scipioni avrebbe potuto gestirle.
Il parere di Crasso non era comunque vincolante per gli altri pontefici, si che al console venne ordinato di interpellare il collegio pontificale, proponendo quindi un'impugnazione contro il parere del pontefice massimo.
Nel 200, i pontefici erano:
Pontefice massimo (plebeo): P. Licinio Crasso
Membri patrizi:
- M. Cornelio Cetego;
- Cn. Servilio Cepione;
- Ser. Sulpicio Galba;
- C. Sulpicio Galba
Membri plebei:
- Q. Cecilio Metello;
- C. Livio Salinatore;
- C. Servilio Gemino;
- C. Sempronio Tuditano (o ancora Q. Fulvio Flacco?).
Di questi, in particolare:
P. Licinio Crasso: esponente di un'antica gens tornata alla ribalta verso la metà del III sec., primo di quella famiglia ad essere insignito dell'epiteto Dives, era nato intorno al 235, cooptato nel collegio prima del 216, forse nel 218, e fu pontefice fino al 183, ma anche censore nel 210, pretore nel 208 e console nel 205..
Sulla sua edilità, per alcuni sarebbe da collocarsi nello stesso anno 212, in cui fu eletto pontefice massimo, così che egli fu il primo capo del collegio, dai tempi di P. Cornelio Calussa, ad essere investito della carica senza aver mai occupato magistrature curuli; secondo altri invece, Licinio Crasso era già stato edile l'anno prima, ed aveva acquisito attraverso i ludi da lui suntuosamente organizzati, grazie anche alla sua ricchezza personale (cfr. Plin. nat. 21,4,6) quella popolarità che poi gli fruttò l'elezione.
In realtà fu determinante la fama di esperto giurista (cfr. Liv. 30,1,4-6) che, già così giovane, egli si era guadagnato, oltre all'appoggio ricevuto dai suoi alleati politici. Crasso fu sempre molto amico di Scipione di cui era pressappoco coetaneo; le loro carriere politiche furono anzi parallele.
Ma contrariamente ad altri scipioniani, egli non fu mai coinvolto in scandali e processi, tanta era la stima che si era meritato per la serietà con cui esercitò il pontificato massimo.
M. Cornelio Cetego: forse già investito del flamonium Diale, era stato costretto ad abdicarvi nel 223 per un errore commesso nell'esercizio delle sue funzioni; ma a partire dal momento, in cui viene cooptato all'interno del collegio pontificale, nel 213 (cfr. Liv. 25,2,2), egli inizia la sua brillante carriera politica: pretore nel 211, censore nel 209, console nel 204.
Per imporsi sulla scena pubblica si avvalse anche della sua capacità di convinzione e della sua abilità oratoria: Ennio, nei suoi Annales (v. in Cic. Brut. 14,58), lo elogia come "suaviloquenti ore". A L. Cornelio Lentulo Caudino, nel 213, sarebbe potuto subentrare, nel collegio dei pontefici, anche Scipione, futuro Africano, ma gli venne preferito Cetego, appartenente ad una famiglia meno influente della stessa gens: forse perchè si oppose Q. Fabio Massimo, che allora dominava il collegio ed era avversario degli Scipioni; anche se non poté impedire la cooptazione di Cetego, che comunque era loro alleato.
Cn. Servilio Cepione: cooptato nel 213 (cfr. Liv. 25,2,1-2), appartenente al ramo patrizio dei Servilii, fece parte del collegio fino al 174; fu anche pretore nel 205 e console nel 203 . Il suo avvicendamento a Caio Papirio Masone non turbò gli equilibri interni del collegio: in quel momento i Servilii, come i Papirii, erano legati al gruppo emiliano-scipioniano, anche se poi, come già detto, cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, costituendo, in collegamento coi Claudii e forse coi Fulvii, una forte coalizione a sé stante.
Secondo Cassola, op. cit., p. 415-416, 419, egli aderì alla linea dell'imperialismo estremista già sostenuta da Lentulo Caudino, differenziandosi forse in questo anche dai Servilii Gemini.
Ser. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 203, fu anche edile nel 209; fece parte della legazione inviata a raccogliere la Magna Mater in Asia. Era forse fratello di Publio, console del 200. La sua cooptazione all'interno del collegio fu probabilmente imposta dai Servilii, di cui i Sulpicii Galba erano alleati e che in quegli anni si erano molto rafforzati (ben due Servilii erano consoli nel 203, Cn. Cepione e C. Gemino, entrambi pontefici).
C. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 202 (Liv. 30,39,6), forse pretore nel 211, certamente parente di quel Ser. Sulpicio Galba divenuto pontefice l'anno prima e del Publio console nel 200 . Anche nella cooptazione di Caio giocò sicuramente un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii, ormai tanto forti da imporre nel collegio la compresenza di due membri di una stessa famiglia amica.
Q. Cecilio Metello: divenuto membro del collegio nel 216, era figlio del pontefice massimo Lucio, in onore del quale pronunciò una commossa orazione funebre (cfr. Plin. nat. 7,43,139); fu anche edile nel 209, console nel 206 senza aver rivestito la pretura, dittatore nel 205. Di parte scipioniana, Metello divenne in seguito il vero braccio destro dell'Africano, dopo la cui morte - avvenuta nel 183 - si avvicinò forse agli Emilii.
C. Livio Salinatore: pontefice dal 211 al 170, fu anche pretore nel 202 e nel 191, console nel 188 . Figlio del vincitore del Metauro, coetaneo di Catone (cfr. Cic. sen. 3,7), era ancora molto giovane quando nel 211 fu cooptato all’interno del collegio.
Pur appartenendo al partito emiliano-scipioniano, come gli altri Livii, egli qui forse assunse orientamenti diversi, come già in passato aveva fatto il padre.
C. Servilio Gemino: subentrato a T. Otacilio Crasso nel 210, fece parte del collegio pontificale fino al 180; negli ultimi tre anni di vita ricoprì anche la carica di pontefice massimo, succedendo a P. Licinio Crasso. Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203 e dittatore nel 202.
C. Gemino apparteneva al ramo plebeo della gens Servilia, ed infatti nel collegio sostituì un plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando rivestì l'edilità, C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano, come tutti i Servilii. Questi però negli anni successivi abbandoneranno i vecchi alleati.
Q. Fulvio Flacco: cooptato nel 216, fece parte del collegio fino a dopo il 205, non se ne conosce la data di morte. Fu console nel 237, 224, 212 e 209, pretore nel 215 e 214, censore nel 231, dittatore nel 210. Si tratta di una delle più grandi personalità di quell'epoca, noto per il suo valore militare, che manifestò soprattutto nella riconquista di Capua passata al nemico.
Certo i Fulvii non sostenevano gli Scipioni, e forse appartenevano ancora, addirittura, al partito conservatore, il più avverso a Scipione e ai suoi alleati.
C. Sempronio Tuditano: Livio non riferisce del suo avvicendamento a Q. Fulvio Flacco, ma esso quasi certamente avvenne tra i due, dato che Flacco è l’unico pontefice di quell’epoca di cui non si conosce la data di morte e, corrispondentemente, Tuditano l’unico di cui non si conosce la data di cooptazione.
Era probabilmente fratello del Publio console nel 204 o del Marco console nel 185. Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna; l'anno successivo gli fu prorogato il comando, ma di lì a poco morì (Liv. 33,42,5). Non vi è accordo circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo claudiano-serviliano, chi addirittura del partito scipioniano.
Le fazioni
Come si vede, al partito del console appartenevano, quanto meno, i due Servilii (Cn. Cepione e C. Gemino), i due Sulpicii Galba (Servio e Caio, che erano addirittura suoi parenti), e Q. Fulvio Flacco (ammesso che fosse ancora vivo), tutti in qualche modo legati al gruppo claudiano-serviliano. Il pontefice massimo invece poteva teoricamente contare, forse, soltanto sull’appoggio di Q. Cecilio Metello e M. Cornelio Cetego.
Comunque il collegio si pronunciò a favore della "nuncupatio" di un "votum ex incerta pecunia", nel corso di una seduta alla quale, non sappiamo quanti e quali pontefici abbiano effettivamente preso parte. Cicerone informa che le decisioni del collegio venivano adottate anche con tre soli voti favorevoli, per cui fossero sufficienti, per la validità delle sedute, anche quattro pontefici.
Il responso collegiale
Ne conseguì che il voto di una somma indeterminata era consentito ed anzi preferibile. L'orientamento tradizionale era rovesciato, ma il cambiamento si diceva ispirato ad una applicazione più coerente, rispetto a prima, del ius divinum al singolo caso.
Si potrebbe ipotizzare che solo una formula siffatta avrebbe potuto poi salvaguardare la corrispondenza della quantità da spendere con l’entità del beneficio, conseguito col favore di Giove, della vittoria e della pace per il quinquennio: l’adempimento sarebbe stato così, in un certo senso, più rituale.
Se quest’ipotesi fosse fondata, gli avversari di Crasso avrebbero rovesciato la posizione del pontefice massimo. I pontefici approfittano qui dell'occasione per affidare al senato il compito di fissare la spesa al momento dell'esecuzione: incombenza, questa, che, essendo il senato organo competente nell’amministrazione dell’aerarium, non poteva che gravare sui patres, i quali vi ottempereranno senz’altro.
L’esecuzione del decreto
Il decreto pontificale fu trasmesso al senato, che con sua delibera lo rese esecutivo. All’attuazione del voto partecipa lo stesso P. Licinio Crasso che, pur costretto a dettare al console le parole di quella formula che aveva avversato, conservò intatto il suo prestigio, che gli derivava soprattutto dalla profonda conoscenza del ius pontificium e della tradizione, di cui era ancora una volta garante.
Nella pronuncia solenne di un voto pubblico, che coinvolgeva l’intera comunità, il pontefice massimo era tenuto a praeire verbis, ossia a suggerire, precedendolo, le parole della formula al magistrato, il quale le doveva declamare con assoluta esattezza.
La cooperazione del pontifex maximus era indispensabile: la nuncupatio del voto, (noncupatio è l'esperessione solenne a voce) richiedeva attenzione, perché un errore di forma, come saltare una parola o sbagliarla, poteva comportare l'invalidità e la necessità della ripetizione, ma magari anche la assunzione di un impegno non preventivato e difficilmente soddisfacibile dallo stato.
Il pontefice massimo dettava ad alta voce le parole del voto, perché il magistrato le pronunciasse senza commettere errore, non interrompendosi né balbettando. Le formule dettate dal pontefice, la cui versione definitiva era conservata in archivio, come pure i libri pontificii, erano redatte in latino arcaico, ed anche nella redazione di nuove formule, o di nuove clausole di esse, si cercava di rispettarne lo stile.
La formula del voto del 200 è ancora un voto quinquennale, quindi condiziona l'adempimento dell'obbligo alla sopravvivenza della repubblica nei successivi cinque anni, ma si differenzia da quella dei ludi magni pronunciati in precedenti occasioni anche per l'aggiunta della promessa a Giove di un dono.
L’adempimento del voto del 200
Nel 194 il senato, con il medesimo provvedimento con cui dispose la instauratio del ver sacrum, irregolarmente celebrato l’anno prima, ordinò la celebrazione dei ludi magni, che erano stati offerti in voto a Giove nel 200.
Con la vittoriosa conclusione della II guerra macedonica si era avverata la condizione del voto del 200, che ne rendeva doverosa ora l'esecuzione. La spesa implica lo stanziamento di una somma di pari valore a quella del 217, un terzo di un milione di assi, ma dimostra che essa non era già stata fissata nella formula, bensì determinata nell’atto in cui il senato decise di adempiere al votum.
Così la novità del ritenere ammissibile un votum ex incerta pecunia consisteva, più che nell’introdurre la facoltà di fissare successivamente una somma diversa da quella consueta, nel non “immobilizzare” da subito la pecunia destinata all’esecuzione del rito, come invece era nelle intenzioni di Crasso.
Il voto del 191
All’inizio del 191, alla vigilia della guerra contro Antioco III di Siria, il senato dispose per assicurare alla città il favore degli Dei: l’offerta in voto di ludi magni e doni. Così alla vigilia della guerra contro Filippo V di Macedonia, ai consoli fu rivolto l’invito a procedere ad un sacrificio di vittime adulte e ad una solenne precatio agli Dei.
Tali riti sortirono gli effetti sperati, e gli aruspici risposero che quella guerra avrebbe fruttato l’allargamento dei confini, la vittoria e il trionfo (terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi).
Subito dopo aver riferito della sortitio delle province, Livio menziona il senatoconsulto con cui si ordinava ad entrambi i consoli di indire la supplicatio e al solo Marco Acilio Glabrione di offrire in voto ludi magni e doni.
Per procedere alla nuncupatio del voto di ludi magni e doni a Giove, cui pur assistette il pontefice massimo che ne dettò le parole al console Acilio, non vi fu bisogno di interpellare il collegio dei pontefici, del quale non si fa menzione.
Sostanzialmente analogo appare il contenuto della richiesta fatta a Giove, ossia la conclusione vittoriosa della guerra: ma mentre in precedenti occasioni si era fatto espresso riferimento alla sopravvivenza della repubblica nel quinquennio successivo, qui più semplicemente si auspica un andamento della guerra conforme ai divisamenti del senato e del popolo romano.
Sulla repubblica romana non gravava più né, sotto il profilo militare, la minaccia di Annibale nè il rischio di rimanere senza mezzi, dato che la vittoria di T. Quinzio Flaminino a Cinoscefale aveva apportato grandi vantaggi finanziari, come in particolare risulta dalle fonti relative al suo trionfo, oltre che al pagamento di un’indennità di guerra.
Riguardo poi all'oggetto della promessa votiva sono riscontrabili differenze, nell'esatta indicazione della durata dei giochi da celebrare, ben dieci giorni, e nell’aggiunta dell'offerta di doni ai templi di tutti gli Dei; mentre nel 200 era stato promesso, più modestamente, un solo dono, forse anche a causa della crisi finanziaria in cui si dibatteva allora la repubblica.
Il voto congiunto dei ludi e dei doni, cui dopo la vittoria con Antioco si doveva adempiere, non era stato personalmente offerto da Acilio come generale, ma come console su disposizione del senato, e quindi non personalmente. E' il nuovo console in carica, Marco Acilio, destinato al comando della guerra, a pronunciare le parole del voto, che il pontefice massimo gli detta. Anche questo del 191 è un voto ex incerta pecunia, che avrebbe dovuto essere stabilita in un secondo momento dal senato.
La clausola prometteva che questa sarebbe stata correttamente adempiuta (ludi recte facti donaque data recte sunto) qualunque fosse il magistrato il tempo e il luogo in cui vi provvedesse.
Marco Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia
Altra significativa applicazione della riforma attuata nel 200 si ebbe nel 187, in occasione del voto di ludi magni offerto agli Dei da M. Fulvio Nobiliore, una delle più grandi personalità di quel periodo.
Oltre ai voti ordinati dal senato nell’imminenza di gravi pericoli, esistevano anche quelli promessi dai generali di propria iniziativa, "inconsulto senatu", affermatasi da poco tempo, ma destinata a diffondersi con gli atteggiamenti individualistici dei comandanti romani che pronunciavano i voti lontano da Roma, prima di ingaggiare battaglia, chiedendo di vincere in cambio della dedicazione di un tempio o della celebrazione di giochi.
Occorreva l'autorizzazione successiva del senato, in mancanza di quella preventiva alla sua nuncupatio, per verificare la validità del voto e quindi la sua idoneità ad impegnare lo stato, ma anche perché vi era il rischio che i comandanti vittoriosi, per rendere più sontuosa la celebrazione del rito, impiegassero somme eccessive e attingessero comodamente al bottino di guerra.
Il magistrato cum imperio ripartiva la preda bellica: una parte andava all’erario, una parte distribuita fra i soldati, una parte trattenuta dal magistrato stesso, anche per diverso tempo (si trattava delle c.d. manubiae), utilizzandola per scopi sacrali o di pubblica utilità, ma col passar del tempo fiorirono gli abusi.
Sulle ripartizioni del bottino si dovevano spiegazioni al senato, che poteva anche non concedere il trionfo. Per i voti offerti dai comandanti e i fondi da utilizzare per essi, non sempre, per ragioni appunto di ordine finanziario, il senato procedeva alla ratifica del voto: ciò costringeva il magistrato a ricorrere, anziché ad una parte del bottino già versato all’erario, ai suoi fondi personali, oppure alle manubiae.
M. Fulvio Nobiliore, il giorno stesso della conquista di Ambracia, aveva offerto in voto ludi magni a Giove Ottimo Massimo, costringendo poi gli Ambraciesi e gli abitanti delle altre città vinte a contribuire al finanziamento raccogliendo cento libbre d'oro (circa quattrocentomila assi), che erano confluite nel bottino di guerra e che ora, nel 187, egli pensava di utilizzare per il suo voto.
Al senato la somma parve eccessiva ma si temeva che, attenuando la magnificenza dei ludi, si potesse mancare di rispetto agli Dei, non ottemperando alla stessa promessa votiva che il senato riconosceva valida. Il voto era ex incerta pecunia, altrimenti non c'erano discussioni sul destinare o meno le cento libbre d’oro alla celebrazione dei giochi.
Si trattava di stabilire se l’impiego della somma fosse sacralmente vincolante, come il Nobiliore sosteneva, non soltanto per gli interessi politici ed elettorali connessi, ma anche per la formula del voto, che pur contenendo la fissazione successiva della somma da parte del senato (tantam pecuniam quantam senatus decreverit, o simile), tuttavia forse qui ne menzionava anche la fonte (ex auro coronario, per esempio).
Ciò spiega la decisione del senato di interpellare il collegio pontificale da S. Sulpicio Galba, a cui in qualità di pretore urbano, spettava di presiedere il senato, come di norma quando i consoli erano assenti.
Al collegio viene posta la questione se per la celebrazione dei giochi dovesse essere speso "omne id aurum", contando sul fatto che l’oroera stato pur sempre raccolto dopo il voto. Il responso pontificale, rimise al Nobiliore la determinazione della spesa, purché questa non eccedesse gli ottantamila assi (una somma principesca, anche se di circa cinque volte inferiore a quella che il Nobiliore avrebbe voluto, e di molto anche rispetto a quella di 333.333.333, che veniva tradizionalmente impiegata per l'organizzazione dei ludi magni in onore di Giove).
Il voto del 172
Nel 172, alla vigilia della guerra contro Perseo, il senato, analogamente a quanto era avvenuto nel 200 e nel 191, ordinò al console di pronunciare un solenne voto di ludi magni e doni a Giove Ottimo Massimo. La data in cui si tennero i comizi consolari, ossia il 18 febbraio, fu posticipata a causa del ritardo del console C. Popilio Lenate nel tornare a Roma.
Il senato prescrisse ai consoli il solito sacrificio accompagnato dalla precatio (di cui si riporta la formula consueta, priva dell’indicazione dell’avversario): ciò sarebbe dovuto avvenire in seguito, comunque, nel giorno della loro entrata in carica. Livio riferisce poi del buon esito della celebrazione e il solito responso degli aruspici circa gli effetti della guerra, naturalmente vittoriosa.
La celebrazione di ludi magni votivi, probabilmente, finì per diventare una sorta di accessorio dei trionfi, pur restando da essi formalmente distinta. Più precisamente si trattava di ludi atletici, secondo il modello greco, ancora rari in quei primi anni del II sec.
Sebbene infatti del processo di ellenizzazione del costume e dei riti certamente risentissero anche i giochi, occorre tuttavia ricordare che Roma disponeva, già dal tempo degli Etruschi, di una propria autonoma, assai significativa, tradizione ludica.
BIBLIO
- Edward Gibbon - On the Fasti of Ovid - 1764 -
- Edward Gibbon - On the Triumphs of the Romans - 1764 -
- Fasti triumphales - AE 1930 -
- Edward Gibbon - On the Triumphal Shows and Ceremonies (1764) -
Da Liv. 31,9,10 apprendiamo che le offerte votive dei grandi ludi a Giove erano state fatte, prima del 200 a.c., in ben otto occasioni, "de certa pecunia", ossia con l’inserimento nella formula da pronunciare, predisposta dal collegio pontificale, di una clausola contenente l’indicazione esatta della somma di denaro da accantonare e, eventualmente, da spendere per la celebrazione dei giochi, nel caso di esaudimento della richiesta da parte del Dio.
Abbiamo ampia documentazione del voto del 217 del dittatore Tito Manlio Torquato, che aveva tuttavia offerto dei ludi magni anche prima di quell’anno, e che ne indisse ancora nel 208. Il problema della formula della certa pecunia riguardò i ludi votati nel 217, insieme ad un Ver Sacrum, durante il pontificato massimo di Lucio Cornelio Lentulo Caudino.
In quell’occasione i grandi ludi, che avevano un carattere anche espiatorio, non solo propiziatorio, come sarà nel 200, erano stati prescritti dal collegio dei decemviri sacris faciundis; e non sappiamo se i pontefici fossero stati interpellati per la formula del rito, perchè Livio scrive di una sententia del collegio sulle formule da osservare, ma la riferisce genericamente a tutte le cerimonie prescritte dai sacerdoti in quell'epoca.
Di solito si richiedeva ufficialmente il parere dei pontefici, in caso di novità o di incertezza: ma non era questa la circostanza, visto che voti "ex certa pecunia" per i ludi erano già stati pronunciati in passato.
Ma non si può escludere che il decreto pontificale relativo alla formula del ver sacrum non sia stato applicato anche ai ludi, come sembra suggerire il fatto che la condizione apposta ai due voti era molto probabilmente la stessa (eiusdem rei causa), ovvero la sopravvivenza della repubblica nel successivo quinquennio.
La somma da mettere da parte per la celebrazione dei giochi venne immediatamente fissata e ammontava a 333.333 e 1/3 di asse, secondo quanto attesta Livio; è evidente che il tre ripetuto fosse un numero simbolico che ben si adattava a un tema sacro (probabilmente allusivo alla trinità della Grande Dea arcaica).
L’importo indicato da Livio equivaleva a circa duecentomila assi, che probabilmente era il totale delle somme stanziate per l'investimento nei giochi votati in precedenza, che venne ricompreso nella formula, alla quale il magistrato si sarebbe poi dovuto attenere nella nuncupatio (dichiarazione orale) del voto.
La consultazione del collegium pontificum
La procedura di consultazione nelle materie di diritto sacro pubblico, mirava a ottenere la pronuncia del collegio pontificale su problemi nuovi circa le regole da applicare o i procedimenti da seguire.
Per le questioni di routine, invece il senato si avvaleva dell’esperienza passata.
Il senato, con un suo primo provvedimento, incaricava il magistrato di consultare ufficialmente il collegio dei pontefici, i quali si riunivano, prendevano la decisione, la formalizzavano in un decreto e la comunicavano, tramite il pontefice massimo, alle autorità.
Ed erano ancora i patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione del responso pro collegio. La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che l'esecuzione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa a carico dell'intera cittadinanza.
Un pontefice incaricato dal collegio poteva anche intervenire alla celebrazione della cerimonia; in particolare, ove si trattasse di procedere alla nuncupatio di un voto, e ne dettava al magistrato la formula "praeire verbis" (a voce alta).
I "verba" (le parole) del voto erano suggeriti dal pontefice massimo o da un altro membro del collegio a seconda che il rito si svolgesse a Roma o sul campo di battaglia, o comunque in luogo lontano dalla città. Infatti fino a tutto il III sec. al pontefice massimo, che doveva accudire ai sacra, era fatto espresso divieto di allontanarsi da Roma, o almeno dall’Italia.
Nel caso dei ludi maximi il luogo della pronuncia del voto era sempre Roma e il procedimento sopra descritto fu certo durante tutta l'età arcaica, e risulta ancora osservato fra il III e il II sec. a.c.
La riforma del 200
Nel 200 a.c. la repubblica, già estenuata dallo scontro contro Cartagine, si apprestava a combattere un'altra guerra, quella con Filippo V di Macedonia, che all'inizio appariva forse più impegnativa di quanto poi non si sarebbe rivelata.
Per procurarsi il favore degli Dei, prima ancora che la guerra cominciasse, nel giorno stesso del suo insediamento, le idi di marzo, il nuovo console P. Sulpicio Galba, il quale apparteneva ad una fazione allora avversa a Scipione l’Africano, riferì al senato circa la guerra contro Filippo. Così venne approvata una delibera che ordinava ai magistrati supremi di compiere un sacrificio di vittime adulte e di rivolgere agli Dei una precatio, nel cui testo, riportato da Livio, compare un riferimento esplicito al conflitto che si stava per iniziare.
Le formalità rituali furono quindi correttamente adempiute e dall’esame delle viscere, eseguito dagli aruspici etruschi, si evidenziò l’assenso degli Dei alla guerra: "laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi".
Più oltre si dice che ai consoli furono assegnate le province: la Macedonia toccò in sorte a Galba, il quale presentò ai comizi la rogatio per la dichiarazione di guerra. Ma questa venne respinta dal popolo, che era evidentemente stanco delle continue battaglie, ed era stato sobillato in tal senso dal tribuno Bebio, che, forse alleato di Scipione, avversava allora il console.
Dai fatti che seguono la discussione in senato, si evince che il partito favorevole alla guerra fece ricorso a tutti gli strumenti a sua disposizione per convincere il popolo; e quindi anche alla religione, cercando di diffondere la convinzione che sarebbe stato sacralmente inopportuno non approfittare subito del favore degli Dei, ai quali bisognava anzi ora rivolgersi con più particolare devozione e zelo.
Seguì infatti il voto "ex senatusconsulto" da parte dei consoli di una supplicatio di ben tre giorni e di implorazioni presso tutti i templi degli Dei affinché la guerra che il popolo aveva intimato avesse esito favorevole (bene ac feliciter eveniret).
La "supplicatio" era un rito greco, che si svolgeva al di fuori della tradizione pontificale, caratterizzato dalla partecipazione indifferenziata di tutto il popolo alla cerimonia, in un clima di forte coinvolgimento emotivo.
I LUDI CON LA CORSA DELLE QUADRIGHE |
VOTI EX INCERTA PECUNIA
L'opinione pubblica, che a Roma aveva grandissimo peso, presa da suggestioni e scrupoli religiosi, esercitò una forte sollecitazione sul console affinché si procedesse in modo analogo alle cerimonie che si rivelarono tanto efficaci contro Annibale. Per cui si avanzò la richiesta del voto dei ludi magni e del dono da parte della intera civitas.
Il console dovette chiamare in causa il senato, a cui però egli doveva rendere conto, investito di una competenza sia religiosa che finanziaria. Il problema della somma da utilizzare per il voto, attingibile solo dall’erario, veniva amministrata dal senato, dal quale dipendevano i questori urbani.
Sorse però, da parte del pontefice massimo Publio Licinio Crasso, alleato di Scipione, il problema della inaccettabilità di un voto ex incerta pecunia. Licinio era molto famoso per la sua eloquenza, con cui espresse le sue perplessità, poichè la formula del voto, contrariamente alla tradizione, non indicava la somma di danaro da spendere per i giochi, qualora gli Dei avessero accordato a Roma la vittoria.
Tale somma non poteva, secondo il pontefice, essere confusa con gli altri fondi destinati alla guerra, ma subito determinata e accantonata (seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri).
Neppure per Crasso un voto ex incerta pecunia sarebbe stato di per sé invalido: ma avrebbe comportato un grave rischio, quello della perpetua obligatio, ossia dell’effettiva assunzione di un impegno magari non adempibile, da parte del populo romano, nei confronti degli Dei, dei quali sarebbe potuta venire meno la benevolenza, o peggio, sollevare la collera.
Dunque se l'oggetto della promessa votiva era indeterminato, tale poteva essere anche la "risposta" degli Dei, ed anche nel caso in cui la condizione si fosse avverata, vi sarebbe stato poi il rischio di un adempimento irrituale. Il voto si fondava su una contropartita, e quello che si offriva doveva essere determinato tanto quanto quello che si chiedeva.
La repubblica, finita la II guerra punica, era in una situazione finanziaria precaria, e non poteva permettersi di accantonare e non utilizzare parte del denaro stanziato per la nuova guerra macedonica. Questo denaro, se il voto fosse stato ex incerta pecunia, sarebbe interamente finito nelle mani del console P. Sulpicio Galba, incaricato delle operazioni, che con quella impresa avrebbe cercato di accrescere il prestigio dei Servilii, cui apparteneva, tanto più che dopo la battaglia di Zama questa gens si era molto allontanata dalla fazione scipioniana.
Gli interessi dei Sulpicii Galba erano contrapposti a quelli dell'Africano. Il pontefice massimo, alleato di quest'ultimo, se fosse riuscito a far mettere da parte il denaro, avrebbe reso più difficoltose le operazioni di guerra e far sì che fossero rinviate ad un momento successivo, in cui non P. Sulpicio, ma un uomo politicamente più vicino agli Scipioni avrebbe potuto gestirle.
Il parere di Crasso non era comunque vincolante per gli altri pontefici, si che al console venne ordinato di interpellare il collegio pontificale, proponendo quindi un'impugnazione contro il parere del pontefice massimo.
Nel 200, i pontefici erano:
Pontefice massimo (plebeo): P. Licinio Crasso
Membri patrizi:
- M. Cornelio Cetego;
- Cn. Servilio Cepione;
- Ser. Sulpicio Galba;
- C. Sulpicio Galba
Membri plebei:
- Q. Cecilio Metello;
- C. Livio Salinatore;
- C. Servilio Gemino;
- C. Sempronio Tuditano (o ancora Q. Fulvio Flacco?).
Di questi, in particolare:
P. Licinio Crasso: esponente di un'antica gens tornata alla ribalta verso la metà del III sec., primo di quella famiglia ad essere insignito dell'epiteto Dives, era nato intorno al 235, cooptato nel collegio prima del 216, forse nel 218, e fu pontefice fino al 183, ma anche censore nel 210, pretore nel 208 e console nel 205..
Sulla sua edilità, per alcuni sarebbe da collocarsi nello stesso anno 212, in cui fu eletto pontefice massimo, così che egli fu il primo capo del collegio, dai tempi di P. Cornelio Calussa, ad essere investito della carica senza aver mai occupato magistrature curuli; secondo altri invece, Licinio Crasso era già stato edile l'anno prima, ed aveva acquisito attraverso i ludi da lui suntuosamente organizzati, grazie anche alla sua ricchezza personale (cfr. Plin. nat. 21,4,6) quella popolarità che poi gli fruttò l'elezione.
In realtà fu determinante la fama di esperto giurista (cfr. Liv. 30,1,4-6) che, già così giovane, egli si era guadagnato, oltre all'appoggio ricevuto dai suoi alleati politici. Crasso fu sempre molto amico di Scipione di cui era pressappoco coetaneo; le loro carriere politiche furono anzi parallele.
Ma contrariamente ad altri scipioniani, egli non fu mai coinvolto in scandali e processi, tanta era la stima che si era meritato per la serietà con cui esercitò il pontificato massimo.
M. Cornelio Cetego: forse già investito del flamonium Diale, era stato costretto ad abdicarvi nel 223 per un errore commesso nell'esercizio delle sue funzioni; ma a partire dal momento, in cui viene cooptato all'interno del collegio pontificale, nel 213 (cfr. Liv. 25,2,2), egli inizia la sua brillante carriera politica: pretore nel 211, censore nel 209, console nel 204.
Per imporsi sulla scena pubblica si avvalse anche della sua capacità di convinzione e della sua abilità oratoria: Ennio, nei suoi Annales (v. in Cic. Brut. 14,58), lo elogia come "suaviloquenti ore". A L. Cornelio Lentulo Caudino, nel 213, sarebbe potuto subentrare, nel collegio dei pontefici, anche Scipione, futuro Africano, ma gli venne preferito Cetego, appartenente ad una famiglia meno influente della stessa gens: forse perchè si oppose Q. Fabio Massimo, che allora dominava il collegio ed era avversario degli Scipioni; anche se non poté impedire la cooptazione di Cetego, che comunque era loro alleato.
Cn. Servilio Cepione: cooptato nel 213 (cfr. Liv. 25,2,1-2), appartenente al ramo patrizio dei Servilii, fece parte del collegio fino al 174; fu anche pretore nel 205 e console nel 203 . Il suo avvicendamento a Caio Papirio Masone non turbò gli equilibri interni del collegio: in quel momento i Servilii, come i Papirii, erano legati al gruppo emiliano-scipioniano, anche se poi, come già detto, cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, costituendo, in collegamento coi Claudii e forse coi Fulvii, una forte coalizione a sé stante.
Secondo Cassola, op. cit., p. 415-416, 419, egli aderì alla linea dell'imperialismo estremista già sostenuta da Lentulo Caudino, differenziandosi forse in questo anche dai Servilii Gemini.
Ser. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 203, fu anche edile nel 209; fece parte della legazione inviata a raccogliere la Magna Mater in Asia. Era forse fratello di Publio, console del 200. La sua cooptazione all'interno del collegio fu probabilmente imposta dai Servilii, di cui i Sulpicii Galba erano alleati e che in quegli anni si erano molto rafforzati (ben due Servilii erano consoli nel 203, Cn. Cepione e C. Gemino, entrambi pontefici).
C. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 202 (Liv. 30,39,6), forse pretore nel 211, certamente parente di quel Ser. Sulpicio Galba divenuto pontefice l'anno prima e del Publio console nel 200 . Anche nella cooptazione di Caio giocò sicuramente un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii, ormai tanto forti da imporre nel collegio la compresenza di due membri di una stessa famiglia amica.
Q. Cecilio Metello: divenuto membro del collegio nel 216, era figlio del pontefice massimo Lucio, in onore del quale pronunciò una commossa orazione funebre (cfr. Plin. nat. 7,43,139); fu anche edile nel 209, console nel 206 senza aver rivestito la pretura, dittatore nel 205. Di parte scipioniana, Metello divenne in seguito il vero braccio destro dell'Africano, dopo la cui morte - avvenuta nel 183 - si avvicinò forse agli Emilii.
C. Livio Salinatore: pontefice dal 211 al 170, fu anche pretore nel 202 e nel 191, console nel 188 . Figlio del vincitore del Metauro, coetaneo di Catone (cfr. Cic. sen. 3,7), era ancora molto giovane quando nel 211 fu cooptato all’interno del collegio.
Pur appartenendo al partito emiliano-scipioniano, come gli altri Livii, egli qui forse assunse orientamenti diversi, come già in passato aveva fatto il padre.
C. Servilio Gemino: subentrato a T. Otacilio Crasso nel 210, fece parte del collegio pontificale fino al 180; negli ultimi tre anni di vita ricoprì anche la carica di pontefice massimo, succedendo a P. Licinio Crasso. Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203 e dittatore nel 202.
C. Gemino apparteneva al ramo plebeo della gens Servilia, ed infatti nel collegio sostituì un plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando rivestì l'edilità, C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano, come tutti i Servilii. Questi però negli anni successivi abbandoneranno i vecchi alleati.
Q. Fulvio Flacco: cooptato nel 216, fece parte del collegio fino a dopo il 205, non se ne conosce la data di morte. Fu console nel 237, 224, 212 e 209, pretore nel 215 e 214, censore nel 231, dittatore nel 210. Si tratta di una delle più grandi personalità di quell'epoca, noto per il suo valore militare, che manifestò soprattutto nella riconquista di Capua passata al nemico.
Certo i Fulvii non sostenevano gli Scipioni, e forse appartenevano ancora, addirittura, al partito conservatore, il più avverso a Scipione e ai suoi alleati.
C. Sempronio Tuditano: Livio non riferisce del suo avvicendamento a Q. Fulvio Flacco, ma esso quasi certamente avvenne tra i due, dato che Flacco è l’unico pontefice di quell’epoca di cui non si conosce la data di morte e, corrispondentemente, Tuditano l’unico di cui non si conosce la data di cooptazione.
Era probabilmente fratello del Publio console nel 204 o del Marco console nel 185. Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna; l'anno successivo gli fu prorogato il comando, ma di lì a poco morì (Liv. 33,42,5). Non vi è accordo circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo claudiano-serviliano, chi addirittura del partito scipioniano.
IL TRIONFO |
Le fazioni
Come si vede, al partito del console appartenevano, quanto meno, i due Servilii (Cn. Cepione e C. Gemino), i due Sulpicii Galba (Servio e Caio, che erano addirittura suoi parenti), e Q. Fulvio Flacco (ammesso che fosse ancora vivo), tutti in qualche modo legati al gruppo claudiano-serviliano. Il pontefice massimo invece poteva teoricamente contare, forse, soltanto sull’appoggio di Q. Cecilio Metello e M. Cornelio Cetego.
Comunque il collegio si pronunciò a favore della "nuncupatio" di un "votum ex incerta pecunia", nel corso di una seduta alla quale, non sappiamo quanti e quali pontefici abbiano effettivamente preso parte. Cicerone informa che le decisioni del collegio venivano adottate anche con tre soli voti favorevoli, per cui fossero sufficienti, per la validità delle sedute, anche quattro pontefici.
Il responso collegiale
Ne conseguì che il voto di una somma indeterminata era consentito ed anzi preferibile. L'orientamento tradizionale era rovesciato, ma il cambiamento si diceva ispirato ad una applicazione più coerente, rispetto a prima, del ius divinum al singolo caso.
Si potrebbe ipotizzare che solo una formula siffatta avrebbe potuto poi salvaguardare la corrispondenza della quantità da spendere con l’entità del beneficio, conseguito col favore di Giove, della vittoria e della pace per il quinquennio: l’adempimento sarebbe stato così, in un certo senso, più rituale.
Se quest’ipotesi fosse fondata, gli avversari di Crasso avrebbero rovesciato la posizione del pontefice massimo. I pontefici approfittano qui dell'occasione per affidare al senato il compito di fissare la spesa al momento dell'esecuzione: incombenza, questa, che, essendo il senato organo competente nell’amministrazione dell’aerarium, non poteva che gravare sui patres, i quali vi ottempereranno senz’altro.
L’esecuzione del decreto
Il decreto pontificale fu trasmesso al senato, che con sua delibera lo rese esecutivo. All’attuazione del voto partecipa lo stesso P. Licinio Crasso che, pur costretto a dettare al console le parole di quella formula che aveva avversato, conservò intatto il suo prestigio, che gli derivava soprattutto dalla profonda conoscenza del ius pontificium e della tradizione, di cui era ancora una volta garante.
Nella pronuncia solenne di un voto pubblico, che coinvolgeva l’intera comunità, il pontefice massimo era tenuto a praeire verbis, ossia a suggerire, precedendolo, le parole della formula al magistrato, il quale le doveva declamare con assoluta esattezza.
La cooperazione del pontifex maximus era indispensabile: la nuncupatio del voto, (noncupatio è l'esperessione solenne a voce) richiedeva attenzione, perché un errore di forma, come saltare una parola o sbagliarla, poteva comportare l'invalidità e la necessità della ripetizione, ma magari anche la assunzione di un impegno non preventivato e difficilmente soddisfacibile dallo stato.
Il pontefice massimo dettava ad alta voce le parole del voto, perché il magistrato le pronunciasse senza commettere errore, non interrompendosi né balbettando. Le formule dettate dal pontefice, la cui versione definitiva era conservata in archivio, come pure i libri pontificii, erano redatte in latino arcaico, ed anche nella redazione di nuove formule, o di nuove clausole di esse, si cercava di rispettarne lo stile.
La formula del voto del 200 è ancora un voto quinquennale, quindi condiziona l'adempimento dell'obbligo alla sopravvivenza della repubblica nei successivi cinque anni, ma si differenzia da quella dei ludi magni pronunciati in precedenti occasioni anche per l'aggiunta della promessa a Giove di un dono.
L’adempimento del voto del 200
Nel 194 il senato, con il medesimo provvedimento con cui dispose la instauratio del ver sacrum, irregolarmente celebrato l’anno prima, ordinò la celebrazione dei ludi magni, che erano stati offerti in voto a Giove nel 200.
Con la vittoriosa conclusione della II guerra macedonica si era avverata la condizione del voto del 200, che ne rendeva doverosa ora l'esecuzione. La spesa implica lo stanziamento di una somma di pari valore a quella del 217, un terzo di un milione di assi, ma dimostra che essa non era già stata fissata nella formula, bensì determinata nell’atto in cui il senato decise di adempiere al votum.
Così la novità del ritenere ammissibile un votum ex incerta pecunia consisteva, più che nell’introdurre la facoltà di fissare successivamente una somma diversa da quella consueta, nel non “immobilizzare” da subito la pecunia destinata all’esecuzione del rito, come invece era nelle intenzioni di Crasso.
I PONTEFICI |
Il voto del 191
All’inizio del 191, alla vigilia della guerra contro Antioco III di Siria, il senato dispose per assicurare alla città il favore degli Dei: l’offerta in voto di ludi magni e doni. Così alla vigilia della guerra contro Filippo V di Macedonia, ai consoli fu rivolto l’invito a procedere ad un sacrificio di vittime adulte e ad una solenne precatio agli Dei.
Tali riti sortirono gli effetti sperati, e gli aruspici risposero che quella guerra avrebbe fruttato l’allargamento dei confini, la vittoria e il trionfo (terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi).
Subito dopo aver riferito della sortitio delle province, Livio menziona il senatoconsulto con cui si ordinava ad entrambi i consoli di indire la supplicatio e al solo Marco Acilio Glabrione di offrire in voto ludi magni e doni.
Per procedere alla nuncupatio del voto di ludi magni e doni a Giove, cui pur assistette il pontefice massimo che ne dettò le parole al console Acilio, non vi fu bisogno di interpellare il collegio dei pontefici, del quale non si fa menzione.
Sostanzialmente analogo appare il contenuto della richiesta fatta a Giove, ossia la conclusione vittoriosa della guerra: ma mentre in precedenti occasioni si era fatto espresso riferimento alla sopravvivenza della repubblica nel quinquennio successivo, qui più semplicemente si auspica un andamento della guerra conforme ai divisamenti del senato e del popolo romano.
Sulla repubblica romana non gravava più né, sotto il profilo militare, la minaccia di Annibale nè il rischio di rimanere senza mezzi, dato che la vittoria di T. Quinzio Flaminino a Cinoscefale aveva apportato grandi vantaggi finanziari, come in particolare risulta dalle fonti relative al suo trionfo, oltre che al pagamento di un’indennità di guerra.
Riguardo poi all'oggetto della promessa votiva sono riscontrabili differenze, nell'esatta indicazione della durata dei giochi da celebrare, ben dieci giorni, e nell’aggiunta dell'offerta di doni ai templi di tutti gli Dei; mentre nel 200 era stato promesso, più modestamente, un solo dono, forse anche a causa della crisi finanziaria in cui si dibatteva allora la repubblica.
Il voto congiunto dei ludi e dei doni, cui dopo la vittoria con Antioco si doveva adempiere, non era stato personalmente offerto da Acilio come generale, ma come console su disposizione del senato, e quindi non personalmente. E' il nuovo console in carica, Marco Acilio, destinato al comando della guerra, a pronunciare le parole del voto, che il pontefice massimo gli detta. Anche questo del 191 è un voto ex incerta pecunia, che avrebbe dovuto essere stabilita in un secondo momento dal senato.
La clausola prometteva che questa sarebbe stata correttamente adempiuta (ludi recte facti donaque data recte sunto) qualunque fosse il magistrato il tempo e il luogo in cui vi provvedesse.
Marco Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia
Altra significativa applicazione della riforma attuata nel 200 si ebbe nel 187, in occasione del voto di ludi magni offerto agli Dei da M. Fulvio Nobiliore, una delle più grandi personalità di quel periodo.
Oltre ai voti ordinati dal senato nell’imminenza di gravi pericoli, esistevano anche quelli promessi dai generali di propria iniziativa, "inconsulto senatu", affermatasi da poco tempo, ma destinata a diffondersi con gli atteggiamenti individualistici dei comandanti romani che pronunciavano i voti lontano da Roma, prima di ingaggiare battaglia, chiedendo di vincere in cambio della dedicazione di un tempio o della celebrazione di giochi.
Occorreva l'autorizzazione successiva del senato, in mancanza di quella preventiva alla sua nuncupatio, per verificare la validità del voto e quindi la sua idoneità ad impegnare lo stato, ma anche perché vi era il rischio che i comandanti vittoriosi, per rendere più sontuosa la celebrazione del rito, impiegassero somme eccessive e attingessero comodamente al bottino di guerra.
Il magistrato cum imperio ripartiva la preda bellica: una parte andava all’erario, una parte distribuita fra i soldati, una parte trattenuta dal magistrato stesso, anche per diverso tempo (si trattava delle c.d. manubiae), utilizzandola per scopi sacrali o di pubblica utilità, ma col passar del tempo fiorirono gli abusi.
Sulle ripartizioni del bottino si dovevano spiegazioni al senato, che poteva anche non concedere il trionfo. Per i voti offerti dai comandanti e i fondi da utilizzare per essi, non sempre, per ragioni appunto di ordine finanziario, il senato procedeva alla ratifica del voto: ciò costringeva il magistrato a ricorrere, anziché ad una parte del bottino già versato all’erario, ai suoi fondi personali, oppure alle manubiae.
M. Fulvio Nobiliore, il giorno stesso della conquista di Ambracia, aveva offerto in voto ludi magni a Giove Ottimo Massimo, costringendo poi gli Ambraciesi e gli abitanti delle altre città vinte a contribuire al finanziamento raccogliendo cento libbre d'oro (circa quattrocentomila assi), che erano confluite nel bottino di guerra e che ora, nel 187, egli pensava di utilizzare per il suo voto.
Al senato la somma parve eccessiva ma si temeva che, attenuando la magnificenza dei ludi, si potesse mancare di rispetto agli Dei, non ottemperando alla stessa promessa votiva che il senato riconosceva valida. Il voto era ex incerta pecunia, altrimenti non c'erano discussioni sul destinare o meno le cento libbre d’oro alla celebrazione dei giochi.
Si trattava di stabilire se l’impiego della somma fosse sacralmente vincolante, come il Nobiliore sosteneva, non soltanto per gli interessi politici ed elettorali connessi, ma anche per la formula del voto, che pur contenendo la fissazione successiva della somma da parte del senato (tantam pecuniam quantam senatus decreverit, o simile), tuttavia forse qui ne menzionava anche la fonte (ex auro coronario, per esempio).
Ciò spiega la decisione del senato di interpellare il collegio pontificale da S. Sulpicio Galba, a cui in qualità di pretore urbano, spettava di presiedere il senato, come di norma quando i consoli erano assenti.
Al collegio viene posta la questione se per la celebrazione dei giochi dovesse essere speso "omne id aurum", contando sul fatto che l’oroera stato pur sempre raccolto dopo il voto. Il responso pontificale, rimise al Nobiliore la determinazione della spesa, purché questa non eccedesse gli ottantamila assi (una somma principesca, anche se di circa cinque volte inferiore a quella che il Nobiliore avrebbe voluto, e di molto anche rispetto a quella di 333.333.333, che veniva tradizionalmente impiegata per l'organizzazione dei ludi magni in onore di Giove).
Il voto del 172
Nel 172, alla vigilia della guerra contro Perseo, il senato, analogamente a quanto era avvenuto nel 200 e nel 191, ordinò al console di pronunciare un solenne voto di ludi magni e doni a Giove Ottimo Massimo. La data in cui si tennero i comizi consolari, ossia il 18 febbraio, fu posticipata a causa del ritardo del console C. Popilio Lenate nel tornare a Roma.
Il senato prescrisse ai consoli il solito sacrificio accompagnato dalla precatio (di cui si riporta la formula consueta, priva dell’indicazione dell’avversario): ciò sarebbe dovuto avvenire in seguito, comunque, nel giorno della loro entrata in carica. Livio riferisce poi del buon esito della celebrazione e il solito responso degli aruspici circa gli effetti della guerra, naturalmente vittoriosa.
La celebrazione di ludi magni votivi, probabilmente, finì per diventare una sorta di accessorio dei trionfi, pur restando da essi formalmente distinta. Più precisamente si trattava di ludi atletici, secondo il modello greco, ancora rari in quei primi anni del II sec.
Sebbene infatti del processo di ellenizzazione del costume e dei riti certamente risentissero anche i giochi, occorre tuttavia ricordare che Roma disponeva, già dal tempo degli Etruschi, di una propria autonoma, assai significativa, tradizione ludica.
BIBLIO
- Edward Gibbon - On the Fasti of Ovid - 1764 -
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- John H. Humphrey - Roman circuses: arenas for chariot racing - Londra - University of California Press - 1986 -
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