G. GIULIO CESARE - IULIUS CAESAR



Nome originale: Gaius Iulius Caesar
Titoli: Padre della Patria, Divo Giulio
Nascita: Roma, 12 o 13 luglio 100 a.c.
Morte: Roma, 15 marzo 44 a.c.
Coniuge: Cossuzia, Cornelia Cinna Minore, Pompea, Calpurnia
Figli: Giulia, Cesarione, Ottaviano (adottivo)
Gens: Giulia
Padre: Gaio Giulio Cesare il Vecchio
Madre: Aurelia Cotta
Questore: 69 a.c.
Edile: 65 a.c.
Pretore: 62 a.c.
Propretore: 61 a.c.
Console: 59 a.c., 48 a.c., 46 a.c., 45 a.c., 44 a.c.
Proconsole: 58-50 a.c. (in Gallia)
Dittatore: 49-44 a.c.
Pontefice Massimo: 63-44 a.c.


"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore"
(Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Libro V .. XI)


DOMANDE

- Quando nacque Giulio Cesare?
Giulio Cesare nacque a Roma il 12 o 13 luglio dell'anno 100 a.c., ma secondo alcuni dell'anno 101 a.c.
- Quando morì Giulio Cesare?
Giulio Cesare morì a Roma il 14 marzo del 44 a.c.
- Giulio Cesare fu il primo Imperatore di Roma?
Giulio Cesare non fu mai eletto imperatore, lo fu invece, e fu il primo, il suo figlio adottivo Ottaviano.
- Giulio Cesare veniva da una famiglia plebea e povera o da una famiglia patrizia e ricca?
Giulio Cesare veniva da una famiglia aristocratica ma non ricca.
- Giulio Cesare stava nella corrente politica dei patrizi (optimates) o dei plebei (populares)?
Giulio Cesare pur essendo patrizio stava nella corrente politica dei populares, cioè dei plebei.
- Giulio Cesare ebbe precoci lutti in famiglia?
Giulio Cesare perse a 14 anni lo zio Gaio Mario, un grande esempio di valore, coraggio e bravura militare, e a 16 anni perse il padre per cui si ritrovò senza riferimenti maschili.
- Cesare a 18 anni rischiò la vita per essersi rifiutato di lasciare sua moglie? -
Cesare a 18 anni rischiò la vita per essersi rifiutato di lasciare sua moglie obbedendo al dittatore Silla, il vincitore di Gaio Mario.
- Come combattè Cesare nella sua prima battaglia? -
Durante l'assedio di Mitilene Cesare ottenne per il suo coraggio la corona civica, che, secondo le leggi di Silla, gli avrebbe garantito l'accesso al Senato. 
- Cosa fece Cesare ai pirati che l'avevano imprigionato per avere un riscatto? -
Li combattè, li vinse e li uccise facendoli crocifiggere ai pennoni dopo averli strangolati.
- Chi furono gli uomini del Triunvirato di Cesare?
Oltre a Cesare, il grande generale Gneo Pompeo Magno e il ricchissimo Marco Licinio Crasso.
- Quante battaglie vinse Cesare contro i suoi nemici?
- Vinse gli Elvezi a Bribacte, poi i Belgi, poi più volte i Britanni, poi gli Elvezii e i Germani, poi i Treviri, i Menapi e gli Eburoni: poi fallì l'assedio di Gergovia ma vinse quello di Alesia con 81000 Romani contro 550000 Galli, infine traversò il Rubicone dando luogo alla Guerra Civile. Perse a Durazzo ma vinse a Farsalo. per ultimo vinse a Munda contro i due figli di Pompeo e Tito Labieno.
- Come morì Cesare?
Morì in una congiura, ucciso da 23 pugnalate. con lui morì il più celebrato capo della storia, tanto che il titolo di Cesare venne adottato da diversi imperatori e re come titolo onorifico.



IL PRAENOMEN

CESARE BAMBINO
Spesso si scrive Caio Giulio Cesare, ma il nome corretto è Gaio Giulio Cesare. La corruzione di Gaio in Caio deriva dalla tradizione latina che abbreviava con C. il praenomen Gaius (Gaio) e con Cn. il praenomen Gnaeus (Gneo).

Tali tradizionali abbreviazioni derivano a loro volta dal fatto che gli Etruschi, che esercitarono una forte influenza sulla prima fase storica di Roma, non distinguevano fra la "G" e la "C". Pertanto il suo vero nome era Gaio Giulio Cesare.

« E' opera di Cesare se, dalla passata grandezza dell'Ellade e dell'Italia un ponte conduce all'edificio più magnifico della moderna storia del mondo, se l'Europa occidentale è romanza, se l'Europa germanica è classica... l'edificio di Cesare è durato oltre le migliaia d'anni che hanno cambiato religione e Stato al genere umano e che hanno mutato perfino il centro di gravità della Civiltà e continua ad esistere per quella che noi chiamiamo eternità. »

(Theodor Mommsen, La storia di Roma, V, 7.)



L'ASPETTO E IL CARATTERE

« Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l'unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l'opinione dei più dotti ed informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri; altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, ad un'operazione di parto cesareo. Si crede anche che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi. Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno. »
(Elio Sparziano - Historia Augusta, II,3)

Gaio Giulio Cesare, considerato il primo Imperatore dell’Urbe, non lo fu mai in realtà. In un suo epigramma a Terenzio, Cesare scrisse infatti di sè: "Non sovrano ma Cesare." Sappiamo però che aveva molta considerazione di sè, e poca dei senatori e dei potenti, per cui quel Cesare contava per lui più di qualsiasi titolo onorifico. Spregiava inoltre la superstizione e gli indovini, come chiunque sia abituato a contare solo sulle sue forze, come accadrà nelle famose Idi di Marzo.

Svetonio lo descrive di alta statura e proporzionato, carnagione chiara, viso pieno, occhi neri e molto vivaci. Curatissimo nel corpo per cui non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma si depilava. Punto debole si dice fosse la calvizie, perchè tirava giù dalla cima del capo i pochi capelli. Ma era anche la moda di portare i capelli all'epoca.

Cicerone ne parla come di un uomo di grande ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza, e pure grande ambizione.
Sallustio lo descrive generoso, mite, clemente, soccorrevole, condiscendente, leale con gli amici, ambizioso nella gloria.

I ritratti ne mostrano un bell'aspetto, con lineamenti fini e regolari, naso leggermente aquilino, zigomi alti, fronte spaziosa, occhi penetranti. Plutarco e Svetonio raccontano che Cesare soffrì di mal di testa e di epilessia. Poco credibile che abbia compiuto le sue imprese in un cattivo stato di salute. Tanto più che era lui stesso a marciare davanti ai soldati nell'addestramento e molti faticavano a stargli dietro.

Antonio nell'orazione funebre di Cesare dichiara che egli godesse di ottima salute, difficile da dire in caso fosse stato epilettico. Chi conosce l'epilessia sa che essa spesso si manifesta in momenti critici, per esempio da ragazzo quando dovette fuggire da Silla spostandosi ogni notte in un posto diverso per tema dei suoi sicari, o quando fu fatto prigioniero dai pirati, o quando dovette fuggire dalla reggia egiziana tuffandosi in mare e nuotando con un solo braccio, per non parlare di tutte le guerre, in genere vinte ma talvolta perdute: avrebbe avuto crisi continue con grave detrimento della sua salute.

CESARE RAGAZZO

Nemmeno i suoi detrattori parlarono di salute debole, cosa che non gli avrebbero risparmiato. I sintomi descritti dai due autori, in pratica due svenimenti, possono ricondursi a più cause, come un trauma cranico, un tumore, ma pure una semplice ipoglicemia, per la fatica o l'emozione. Ebbe al contrario una fibra fortissima che gli permise di stare in guerra per nove anni consecutivi senza mai ammalarsi, sotto una tenda, sottoposto al freddo e alle intemperie. In tutto questo fu anche uomo sagace e di spirito.

Non era invece particolarmente infervorato per gli spettacoli teatrali, che pure sovvenzionava per accattivarsi le simpatie del pubblico. Capiva inoltre l'importanza di far vedere la sua immagine, per cui assistette spesso alle corse dei cavalli, ma non era affatto interessato ad esse, tanto che abitualmente si portava qualcosa da leggere. Si dice che agisse nello stesso modo anche quando si recava a teatro, anche se questo ad alcuni infastidiva.

Plutarco:
"Una sera Cesare andò assieme ai più stretti collaboratori ospite nella domus milanese del ricco ed influente Valerio Leone. Tra le portate venne servita una magnifica preparazione di asparagi conditi con il burro. Ai generali la pietanza non piacque affatto (abituati all’olio d’oliva e non al burro, usato a Roma come unguento), così la indicarono come cibo “barbaro”. Di fronte all’imbarazzante situazione Cesare, da uomo intelligente ed avveduto, placò gli animi con la frase:
de gustibus non disputandum est” (non si può discutere sui gusti personali)" facendo capire ai suoi ufficiali, che non si obietta quando si viene ospitati da qualcuno.

Di certo fu uomo di intelligenza e coraggio straordinari, dotato di un carisma che affascinava, oltre le folle, anche i rudi soldati. Cesare fu un condottiero abile e amato come pochi, e come nessuno poté chiedere alle truppe di combattere con lui quando la vittoria era improbabile per la differenza di forze militari, sempre di molto inferiori rispetto al nemico. Proprio perchè tanto amato poté inoltre esigere un allenamento e una disciplina uniche, senza quasi mai dover ricorrere alla violenza.

Cesare nei suoi libri non citò mai atti di valore individuali. Un esercito in guerra non aveva bisogno di eroi, se tutti facevano il loro dovere si vinceva e basta, però a un certo punto Cesare citò un soldato (DbC: III°, 91,1):
"V'era nell'esercito di Cesare un richiamato di nome Crastino, che l'anno precedente era stato sotto di lui primipilo della X legione, uomo di straordinario valore. Egli, quando il segnale fu dato, gridò rivolgendosi a Cesare: 'Oggi farò in modo, o generale, d'avere morto o vivo [ut aut vivo mihi aut mortuo], la tua riconoscenza "

Questa era la capacità di Cesare di coinvolgere emotivamente i suoi soldati, e questo fece di lui un capo. Era onesto nelle richieste per l'esempio che per primo dava ai sottoposti, magnanimo nei bottini, geniale e creativo nella strategia, maestro nell'eloquenza persuasiva, e leggero nel potere gerarchico che esercitò solo per l'obbedienza ai comandi, tanto che i suoi uomini potevano dileggiarlo pubblicamente mentre lo osannavano durante i trionfi, come si fa con un amico. Il che lo mostra anche uomo di spirito, che non temeva le critiche, per nulla esaltato ma molto sicuro di sè.

Ma era pure un'anima inquieta, sempre tesa ad ottenere il massimo in tutto, e quindi pretendere il massimo da tutti. Il proconsole delle Gallie disse, “Cesare doveva fare tutto nello stesso tempo: innalzare il vessillo, dispiegare le insegne, chiamare alle armi, richiamare dai lavori i legionari, schierare le truppe, arringare i combattenti, dare il segnale di battaglia.

Cesare aveva un'intelligenza molto viva e mal sopportava chi gli faceva perdere tempo con troppa verbosità. Infatti, durante il suo consolato del 59 a.c, Catone, nonostante l'invito di Cesare alla brevità, stava proseguendo un discorso troppo lungo. Cesare allora chiamò le guardie e lo fece arrestare. Il gesto provocò l'indignazione dei senatori tanto che Cesare dovette subito far rilasciare Catone, ma il futuro dittatore palesò apertamente non poco sollievo per l'interruzione del fiume di parole.

Ma aveva anche molto spirito, su invito dello stesso Cesare il mimo Laberio mise in scena una satira sull'imperatore, forse nel corso dei giochi per le vittorie di Cesare nel 46 a.c., come racconta Macrobio, a cui Cesare assistè e rispose con mordaci e spiritose battute.

Sembra però che fosse a volte superstizioso: ci dice Plinio il Vecchio che dopo che il suo carro si era rotto durante la celebrazione del Trionfo, recitava sempre uno scongiuro che ripeteva tre volte per garantirsi la sicurezza del viaggio (Caesarem dictatorem, post unum ancipitem vehiculi casum, ferunt semper, ut primum consedisset, id quod plerosque nunc facere scimus, carmine ter repetito securitatem itinerum aucupari solitum, «Riportano che il dittatore Cesare, dopo una pericolosa caduta da un carro, non appena vi fosse montato sopra, usava sempre ripetere per tre volte un certo scongiuro, per allontanare da sè tale pericolo; cosa che vediamo ancora oggi fare da molti», (Naturalis Historia, XXVIII 16).

CESARE INCONTRA DIVICO CAPO DEGLI ELVEZI

SVETONIO - Ritratto di Cesare

"Nell'eloquenza e nell'arte militare o raggiunse o superò la gloria dei personaggi più illustri. Dopo la sua requisitoria contro Dolabella fu senza dubbio annoverato tra i primi avvocati. Ad ogni modo Cicerone elencando nel suo "Bruto" gli oratori dice di non "vedere proprio a chi Cesare debba essere inferiore" e aggiunge che "egli è elegante e che ha anche un modo di parlare splendido magnifico e in un certo senso nobile"; inoltre a Cornelio Nepote scrisse così nei riguardi del medesimo: "Cosa? Quale oratore gli preferisci tra quelli che si sono dedicati a nient’altro che all'eloquenza? Chi è più acuto o ricco nelle battute? Chi più elegante e raffinato nella scelta delle parole?"

Sembra che solamente fino alla sua giovinezza abbia seguito il genere di eloquenza di Cesare, Strabone dal cui discorso che si intitola "A favore dei Sardi" riportò parola per parola alcuni passi nella sua "Divinazione". Parlava, almeno così si dice, con voce penetrante, con movimenti e gesti veementi e non senza eleganza. Lasciò qualche orazione e tra queste alcune gli sono attribuite sconsideratamente.

A buon diritto Augusto ritenne che il testo dell'orazione "In favore di Quinto Metello" fosse stato scritto da stenografi che seguivano male le parole di Cesare mentre parlava e non pubblicato da lui stesso. Infatti in alcuni esemplari era scritto non "Discorso in favore di Metello" ma "Discorso che ha scritto per Metello" poiché Cesare in persona parla per difendere sia se stesso sia Metello dalle accuse dei loro comuni denigratori. Anche i "Discorsi davanti ai soldati in Spagna" Augusto a mala pena li considera di Cesare e tuttavia due gli vengono attribuiti: uno avrebbe avuto luogo una volta concluso il primo combattimento l'altro dopo il secondo; ma Asinio Pollione afferma che in questo combattimento non ebbe nemmeno il tempo di pronunciare un discorso a causa di un’ improvvisa irruzione dei nemici."

Una curiosità: sembra che Cesare portasse il piercing sul capezzolo, come del resto era in uso presso molti centurioni, per simboleggiare forza, virilità e fedeltà all’Impero romano. Era anche emblema di unione e solidarietà fra gli uomini dell’esercito, a cui Cesare teneva molto.
CESARE ADULTO

LA RITRATTISTICA DI CESARE 

L’aspetto fisico di Cesare è ben noto da numerose testimonianze letterarie, un passo di Svetonio (Divus Iulius, 4, 17) ci da l’immagine più fedele che possediamo del dittatore:
Dicono fosse di alta statura, di colorito chiaro, di forte membratura; il volto pieno, gli occhi neri e vivaci; di buona salute, solo in età avanzata ebbe qualche svenimento ed incubi nel sonno. Due volte fu colto da epilessia nel disbrigo degli affari. Meticolosissimo nella cura del corpo, non solo si faceva radere e tagliare i capelli con grande accuratezza, ma anche depilare, per questo era biasimato da alcuni. 
Sopportava di mal voglia le calvizie, perciò cercava di riportare dal vertice del cranio i pochi capelli sulla fronte, e tra tutti gli onori tributatigli dal Senato e dal popolo più volentieri accettò e ritenne quello di portare sempre una corona di alloro”.

L’immagine ci è tramandata con precisione da alcune emissioni monetarie comprese fra il 46 ed il 44 a.c., mentre quelle successive presentano un rapido deterioramento della veridicità dei tratti.
I ritratti a tutto tondo sono abbastanza numerosi, ma si tratta in gran parte di produzioni di età imperiale, raffigurante un’immagine molto idealizzata di Cesare, lontanissima dal vero, in cui ciò che conta è il simbolo più che l’immagine, mentre lo stile, richiamandosi a modelli classici del V a.c. è ormai lontanissimo dal patetismo tardo ellenistico dell’età cesariana.

Il ritratto più fedele va riconosciuto in un esemplare da Tuscolo, oggi a Torino (Museo di Antichità) confrontabile con le emissioni monetaria del 44 a.c. e da mettere in relazione con il decreto, emesso quell’anno dal Senato, di erigere statue in onore del dittatore. Purtroppo il pezzo, già di qualità non elevatissima, presenta uno stato di conservazione alquanto precario, che non permette una precisa caratterizzazione fisionomica.

Alla stessa tradizione si collega un esemplare dei Musei Vaticani (braccio nuovo), databile alla prima età augustea, dove nonostante un maggior pulizia formale si riconosce un forte elemento realistico. Le produzioni successive (Musei Vaticani-Museo Chiaramonti e Camposanto di Pisa) sono prodotti tipici del pieno classicismo augusteo.

Totalmente spersonalizzata l’immagine di Cesare divinizzato che compare su un rilievo da Ravenna, riproducente le statue di culto del tempio romano di Marte Ultore, nonché i ritratti del Museo Capitolino e del Museo Nazionale di Napoli, datati all’inizio del II d.c. Un secondo filone, risalente alla permanenza di Cesare presso la corte tolemaica presenta il ritratto reinterpretato secondo moduli stilistici greco-egizi, che si manifestano nell’espressione ieratica del volto ottenuta attraverso una ripartizione simmetrica del volumi del viso e nella levigatezza delle superfici.

Questa iconografia formatasi ad Alessandria, dove sappiamo era una cappella di asilo in onore di Cesare, ornata da un suo ritratto e fatta costruire da Cleopatra (Cassio Dione, LI, 15), trova la migliore attestazione in un busto in basalto nero, di provenienza egiziana, oggi conservato a Berlino. Giuba I L’immagine del re di Numidia, alleato dei repubblicani, ci è nota con sicurezza da una serie di monete d’argento emesse durante tutto il corso del suo regno.

Presenta una folta capigliatura costituita da riccioli elicoidali molto fitti (cosiddetta “parrucca libica”), cinta dalla fascia reale, barba appuntita, naso dritto e regolare, zigomi alti. Il confronto con le emissioni monetarie ha permesso di identificare Giuba I in un ritratto in marmo da Jol-Cesarea (Cherchel), oggi al Louvre. Si tratta di un ritratto idealizzato, eseguito alla fine del I a.c. è probabilmente parte di una galleria di ritratti dinastici fatta eseguire da Giuba II, il figlio di Giuba I rimesso sul trono di Numidia da Augusto nel 19 a.c..

I tratti del sovrano sono riconoscibili ma lo schema generale delle testa richiama un tipo di divinità barbuta elaborato in Grecia nel corso del IV a.c., un modello di derivazione classica che ben si inserisce nella raffinata cultura ellenizzante di Giuba II. 



LA NASCITA E LA CARRIERA (100 – 58 a. c.)

"Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: il dado è tratto" (Cesare)

LUCANO

"Te, allorquando completato il periodo del tuo soggiorno terreno, salirai, il più tardi possibile, verso gli astri, accoglierà la reggia del cielo, che avrai scelto, tra il tripudio dell'universo: sia che ti piaccia impugnare lo scettro, sia che tu voglia montare sul carro fiammeggiante di Febo e percorrere con il fuoco errante la terra, che non avrà timore del nuovo sole, ogni nume si ritirerà dinanzi a te e la natura ti lascerà il diritto di decidere qual dio vorrai essere e dove collocare il tuo regno sull'universo."

Cesare nacque il 12 o 13 luglio del 100 a.c. a Roma da un'antica e gloriosa ma non ricca famiglia patrizia, la gens Iulia, che faceva risalire le sue origini a Iulo, figlio di Enea, che aveva come madre la stessa Dea Venere. Come dire che era una stirpe divina, il che deve aver influenzato non poco le ambizioni di Cesare, unitamente ad un'intelligenza e una mobilità mentale non comune.
Il suo praenomen era "Gaio" e non "Caio", derivato da errata interpretazione dell'abbreviazione epigrafica "C."

Fin da giovanissimo Cesare coltivò grandi ambizioni, voleva essere sempre il primo, come confessò più tardi ai suoi amici riferendosi ad una povera tribù barbara della propretura in Spagna:
- Vorrei essere il primo tra costoro piuttosto che il secondo a Roma. -

Il ramo della Gens Iulia a cui apparteneva portava il cognome Caesar, da cui il nome Giulio Cesare. La famiglia però non era ricca né influente, ostacolo insormontabile per chiunque volesse accedere a una carriera politica o militare, per cui Cesare dovette contrarre sempre ingenti debiti rischiando il tutto per tutto, ma Cesare affrontò grandi rischi di ogni genere nella sua vita.

ALBERO GENEALOGICO (INGRANDIBILE)
Oltre alla sua capacità a rischiare c'era pure la sua capacità di raccogliere fiducia. Cesare trovò sempre persone disposte a fargli ingenti crediti, anche quando non era famoso, per la sua particolare abilità persuasiva e per la fiducia che ispirava negli altri.

Suo grande maestro fu lo zio Gaio Mario, Generale e Console per sei volte, un eroe dei populares, che lo addestrò nel fisico e nelle armi, e gli inculcò la difesa del popolo e dei deboli contro il potere dei nobili. Però proprio per questo lo zio si era attirato l'ostilità degli Optimates, i senatori nobili, che di riflesso odiarono anche Cesare.

Non era una buona premessa, ma Cesare non era uomo da scoraggiarsi. Ed era pure uomo di ideali, perchè in qualità di patrizio avrebbe avuto il plauso del senato, se non avesse parteggiato per i Populares. Comunque Mario era un eroe cui era stato tributato il trionfo, e la pietra su cui venne scolpito il trionfo ai posteri è giunta a noi, perchè a Roma fa bella mostra di sè a piazza Vittorio.

Giulio era uomo colto, parlava correntemente il greco, era interessato alla poesia, all'astronomia, alla matematica, e alle scienze naturali ma soprattutto era eloquente e sapeva accendere gli animi, ma pure brigare e corrompere.

Ebbe due sorelle, una delle quali, Giulia minore, fu la madre di Ottaviano, il successore di Cesare. Viveva in una casa della Suburra, quartiere povero e malfamato, il che indica le condizioni economiche della sua famiglia, dove era pericoloso girare di sera, ma dove ebbe come insegnante Antonio Gnifone, illustre grammatico della Gallia.

Roma era allora divisa in due fazioni: gli Optimates, del potere aristocratico, sostenitori di Lucio Cornelio Silla insieme al Senato, e i Populares o democratici, che stavano per il popolo, l'elettorato. Cesare era tra questi.



LA MORTE DI MARIO

Nell'86 perse lo zio Gaio Mario, una perdita immensa perchè da lui, fin da bambino, aveva preso il coraggio, l'insegnamento militare, l'allenamento fisico e le idee politiche, quando Cesare aveva solo 14 anni. Due anni dopo gli morì anche il padre, quando Cesare aveva 16 anni. Più tardi lasciò la promessa sposa Cossuzia per sposare Cornelia Cinna Minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato di Gaio Mario.

Fu una nuova presa di posizione in favore dei populares, alienandogli ancor più gli optimates, che poi gli bloccarono la nomina a Flamen Dialis, cioè il sacerdozio. I Flamen erano preposti a una precisa divinità di cui curavano il culto e le feste, con cui non solo si rendevano visibili al popolo, ma acquisivano una certa sacralità che gli proteggeva la vita, assicurandogli anche un vitalizio.
Cesare ne aveva un gran bisogno, di incolumità, visti i tempi di persecuzioni dove l'assassinio era di casa, e di vitalizio, visto le precarie condizioni economiche.
SILLA

LE PERSECUZIONI SILLANE

La situazione peggiorò quando Silla nell'82 a.c. si proclamò dittatore e iniziò la persecuzione degli avversari politici; ordinò a Cesare di divorziare da Cornelia che non era patrizia, ma Cesare, faccia a faccia con Silla, rifiutò, e aveva solo 18 anni.

Silla voleva farlo uccidere, ma dovette desistere alle suppliche delle Vestali, evidentemente amiche di Cesare che già doveva averle contattate e conosciute durante la sua aspirazione a flamen. Sembra che anche la figlia di Silla e suo marito premessero per la sua salvezza, ma forse fu decisiva la richiesta delle Vestali che a Roma erano sacre e avevano grande ascendente, con diritto di palchi fissi ai giochi del circo e in ogni manifestazione pubblica.

I magistrati erano tenuti a cedere loro il passo e i littori dovevano abbassare i fasci in segno di deferenza.
Svetonio racconta che Silla consentisse a malincuore:
- Abbiatela pure vinta, e tenetevelo pure! Un giorno vi accorgerete che colui che volete salvo a tutti i costi sarà fatale alla fazione degli Ottimati, che pure tutti insieme abbiamo difeso. In Cesare ci sono, infatti, molti Gaio Mario! -
Il che dimostra che, seppur giovanissimo, Cesare si era fatto notare per il carattere volitivo, l'intelligenza e la piacevolezza dei modi. Era un incantatore di folle e pertanto temuto.

Ma Cesare giustamente non si fidò della grazia di Silla e scappò in Sabina, dove cambiò sede ogni giorno, spostandosi di notte, ed evitando chiunque, finché non andò in Asia per il servizio militare, lì era finalmente al sicuro da Silla.



LA REGINA DI BITINIA

Come legato del pretore gli fu ordinato di recarsi da Nicomede re di Bitinia a chiedere l'aiuto della flotta. Si disse che Cesare ne fosse diventato l'amante, e poichè l'omosessualità era malvista a Roma, questa chiacchiera, sicuramente vera, durerà una vita.

Infatti nei suoi trionfi i soldati cantavano, lo riferisce Svetonio:
- Cesare sottomise le Gallie, Nicomede sottomise Cesare:
ecco ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie,
e non trionfa Nicomede, che sottomise Cesare! -


Spesso venne soprannominato "La Regina di Bitinia".

Cesare non smentì mai la cosa, ma neppure se ne imbarazzò. Quando il poeta Catullo si scusò con Cesare per aver insinuato una relazione tra lui e il suo ufficiale Mamurra, dando ad ambedue il termine di "invertiti" questi non gli serbò rancore, concedendo al poeta non solo il perdono ma ammettendolo fra gli ospiti della sua reggia.

Anche Marco Antonio, durante la guerra civile, cercò di diffamare Ottaviano, e quindi Cesare, sostenendo che la sua adozione fosse derivata da una loro relazione amorosa. Ma Ottaviano, di severi costumi, ebbe rapporti solo con donne e Cesare, si dice, ebbe rapporti solo con adulti.

Licinio Calvo scrisse versi sull'omosessualità di Cesare, anch'essi famosi in tutta Roma: - Tutto quel che Bitinia e lo stuprator di Cesare mai ebbe -
Cicerone lo definì "Il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti". Il che suggerisce che Giulio non si era limitato solo al re di Bitinia.
E quando in senato Cesare, nel perorare la causa della figlia di Nicomede, accennò ai benefici ricevuti dal padre, Cicerone disse: "Passiamoci sopra, in quanto è ben noto cosa tu abbia dato a lui e lui a te".

Dolabella lo definì rivale della regina, mentre un certo Ottavio, che aveva salutato Pompeo Magno come re, salutò Cesare come regina.
Ma questo non offuscò l'immagine di Cesare, nè gli impedì di essere il beniamino delle donne. Cesare era in realtà bisessuale e grande amatore, ebbe molte amanti, alcune anche amate teneramente, e fu anche molto generoso con le donne, colmandole di doni costosi.

Plutarco narra su Cesare una piccante storiella:

Nel 62 a.c., mentre si discuteva in senato la questione di Catilina, Catone e Cesare molto animati come avversari, si alzarono contemporaneamente per prendere la parola, ma furono interrotti da un messo che consegnò a Cesare un messaggio su tavolette cerate. Cesare sedette e cominciò a leggerle.

Catone allora gridò che si trattasse di messaggi dai congiurati contro la repubblica. Molti Senatori fecero coro a Catone e Cesare con molta calma porse le tavolette a Catone. Si trattava di una lettera d’amore scritta a Cesare dalla sorellastra di Catone che infuriato gli gettò contro le tavolette urlando “Tieni ubriacone!” un insulto oltretutto privo di senso perchè Cesare beveva raramente e sempre con moderazione. Il fatto che Cesare non andasse con i ragazzini ma con gli adulti maschi era vista come un'aberrazione, che poi andasse con le donne e ne fosse molto riamato scatenava ancor più rabbia.

Quando più tardi Cesare prometterà al senato di trionfare in Gallia se gli venisse concesso l'esercito, uno dei senatori avversari gli griderà che non sarebbe stato facile per una donna. Ma Cesare rise e rispose che l'essere donna non aveva impedito a Semiramide di regnare sulla Siria e alle Amazzoni di dominare l'Asia. Il che dimostra quanto poco temesse certe critiche e quanta sicurezza avesse, in un mondo che era più ostile di oggi alla omosessualità, ma per contro trovava dignitoso abusare di adolescenti, cosa che non risulta a suo carico.

Il poeta Catullo, che pure non disdegnava gli efebi, non gli perdonò i rapporti con donne ed uomini adulti bollandolo così:
Se la intendono a pennello, quella coppia
di invertiti, Mamurra che-lo-prende e Cesare.
Non v'è niente da stupirsi, stesso marcio
entrambi, l'uno a Roma, l'altro a Formia,
impresso come un marchio incancellabile,
depravati in pari grado questi gemelli,
compari e saccenti di libidini, in pariglia,
l'uno più famelico dell'altro ad adescare,
rivali e soci di donnine. Per davvero
ammodo, gli invertiti se la intendono!

Eppure Cesare lo perdonò e gli aprì le porte della sua reggia come gradito ospite.

Durante l'assedio di Mitilene Cesare partecipò per la prima volta ad uno scontro armato, procurandosi la prima gloria. Si distinse talmente per il coraggio, che gli fu conferita la corona civica, che, secondo le leggi di Silla, gli avrebbe garantito l'accesso al Senato. Era il primo passo per le sue ambizioni.
La corona civile, o corona di quercia, spettava a coloro che salvassero un cittadino romano durante una battaglia.



IL RITORNO A ROMA (78-69 a.c.)

Cesare rientrò a Roma alla morte di Silla durante una rivolta capeggiata da Marco Emilio Lepido contro il sillano Gneo Pompeo. Ma non fidandosi delle capacità di Lepido, non partecipò alla rivolta, dandosi alla carriera forense come pubblico accusatore contro gli ottimati.

Sostenne l'accusa di concussione contro gli optimates Gneo Cornelio Dolabella e contro Gaio Antonio Ibrida. Pur distinguendosi nell'oratoria perse ambedue le cause. I due nobili erano troppo potenti per essere condannati, Cesare l'aveva messo in conto, però aveva così ottenuto la rappresentanza dei Populares. Tuttavia dovette fuggire una seconda volta per evitare la rappresaglia dei sillani che ancora erano numerosi e potenti.

CESARE PROMETTE VENDETTA CONTRO I PIRATI

I PIRATI

Così nel 74 a.c. partì per Rodi, ma durante il viaggio fu rapito dai pirati, che lo portarono su un'isola a sud di Mileto. Quando gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose arrogantemente che ne avrebbe consegnati cinquanta ma che poi glieli avrebbe tolti e li avrebbe crocefissi ai pennoni della nave. Così mandò i compagni di viaggio a Mileto per il denaro del riscatto, denaro che lui non possedeva e che doveva ancora una volta essere prestato, mentre lui rimase in ostaggio, componendo poesie e leggendole ai pirati, come fosse ospite anziché prigioniero.

Attese il loro ritorno per trentotto giorni, comportandosi coi pirati con altezzosità e sicurezza. Quando i compagni tornarono col denaro avuto a credito, Cesare andò in Asia dal governatore Iunco, e nonostante non avesse mai guidato una nave, si improvvisò ammiraglio e tornò a Farmacussa con alcune navi sconfiggendo e catturando i pirati. Poi si recò con i prigionieri in Bitinia, chiedendo a Iunco di punirli. Iunco rifiutò tentando d'impadronirsi del denaro sottratto ai pirati, e di rivendere i prigionieri come schiavi.

Cesare allora si rimise frettolosamente in mare lasciando la Bitinia e uccise i prigionieri facendoli crocifiggere ai pennoni dopo averli strangolati, per evitargli l'agonia. Una caratteristica di Cesare, rara a quell'epoca, era l'assenza di crudeltà. Aveva mantenuto la parola data, e coi soldi sottratti restituì quelli del riscatto.

Cesare prese poi parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia d'Asia ed arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.c. in Asia, fu eletto nel collegio dei pontefici, cioè dei sacerdoti.



LE PRIME CARICHE

Tornato a Roma, fu eletto tribuno militare alle elezioni del 72 a.c. per l'anno seguente, risultando il primo degli eletti. Ma una parte dei voti era stato pagato, si dice che lo stesso Cesare stupì del numero dei voti, rammaricandosi di aver pagato inutilmente quei voti. L'elezione sarebbe arrivata comunque. Si impegnò nelle battaglie dei populares, per l'approvazione della Lex Plotia che garantiva il rimpatrio agli esiliati dell'insurrezione di Lepido e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe.

La ottenne solo nel 70 a.c., l'anno del consolato di Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, entrambi uomini illustri. Crasso aveva spesso finanziato le campagne elettorali di Cesare ma, per quanto ricco, dovette affidarsi nella campagna elettorale alla capacità oratoria e persuasiva di Cesare.

Queste gesta, soprattutto quelle con i pirati, fecero il giro di Roma e a 31 anni fu finalmente eletto Questore e destinato alla Spagna Ulteriore. Qui visitò la statua d’Alessandro il Grande a Cadice. Pianse perchè alla sua stessa età Alessandro aveva dominato tutto l'Oriente, mentre lui non aveva conquistato nulla.

Sempre nel 69 a.c. Cesare si recò nella Spagna Ulteriore, dove si dedicò all'attività giudiziaria riscuotendo le simpatie della popolazione per la sua equità, onestà e clemenza. Per giunta diminuì le tasse alla popolazione di cui conquistò definitivamente la simpatia.

Tornò a Roma, come lui stesso dichiarò, a seguito del sogno di avere un rapporto incestuoso con la madre, dove la madre, a sua interpretazione, era la patria che avrebbe dominato. Del resto lui stesso dirà durante la campagna contro i Veneti la celebre frase:
- Gli uomini credono in ciò che desiderano. -



DALLA QUESTURA AL PONTIFICATO (69-63 a.c.)

Cesare, insieme a Cicerone. ottenne l'approvazione della Lex Gabinia che autorizzava Pompeo a liberare il Mediterraneo dai pirati con 500 navi al seguito.
Fece poi approvare la Lex Manilia, con cui Pompeo fu autorizzato alla guerra contro Mitridate re del Ponto inferendo due colpi feroci al partito degli optimates.

Cesare fu eletto edile curile nel 65, una carica di magistrato, conquistandosi sempre più il favore del popolo. Fece esporre le sue collezioni d'arte nel Foro e sul Campidoglio, e organizzò i giochi di gladiatori in memoria di suo padre. Furono così munifici che gli optimates promulgarono una legge che limitava per ogni spettacolo il numero dei gladiatori.

Inoltre fece rimettere in piedi i trofei di Mario, quelli che ancora svettano a Roma a piazza Vittorio, e decise, quando fu a capo del tribunale, di considerare come omicidi le uccisioni dei proscritti sotto Silla, salvando così molti ex compagni populares.

CATILINA

LA CONGIURA DI CATILINA (63-61 a.c.)

Lucio Sergio Catilina, nobile decaduto, organizzò una prima congiura nel 66 a cui Cesare prese forse parte. La congiura, che avrebbe portato alla dittatura di Crasso e Cesare a magister equitum, fallì per abbandono di Cesare che si rifiutò di dare il segnale di inizio all'assalto al senato. Non aveva molta fiducia nelle capacità di Crasso.

Quando nel 63 a.c. la seconda congiura di Catilina fu scoperta da Marco Tullio Cicerone, Lucio Vezio, amico di Catilina, fece i nomi di alcuni congiurati, includendo Cesare. Questi fu scagionato dalle accuse da Cicerone, accusatore di Catilina. Discutendo sulla pena di Lentulo e Cetego, molti senatori avevano proposto la condanna a morte; Cesare, propose invece di confinare i congiurati e di confiscare loro i beni, ma Marco Porcio Catone Uticense insistè perchè il senato li condannasse a morte, e così fu.

Dopo la morte della moglie Cornelia nel 68, Cesare sposò Pompea, nipote di Silla. Ma nel 62 Publio Clodio Pulcro, amante di Pompea, si introdusse in casa di Cesare, dove Pompea stava preparando le celebrazioni misteriche per la Bona Dea. Poichè i misteri erano proibiti ai maschi, Clodio per curiosità di osservatore si travestì da ancella, ma fu scoperto e processato. Cesare non permise che la moglie fosse giudicata da un tribunale, con la celebre frase: "La moglie di Cesare è aldisopra di ogni sospetto." però ripudiò Pompea, pur non testimoniando contro Clodio al processo.

Nel 63 a.c. ottenne l'incarico prestigioso di Pontefice Massimo, suprema carica vitalizia religiosa. Infatti era il capo di tutti i sacerdoti, nominava le Vestali e i Flamen, presiedeva alle feste, stabiliva i costumi morali dell'epoca e contribuiva alle leggi. La sua persona era sacra e inviolabile, il che dava a Cesare maggiori probabilità di sopravvivenza. Ancor oggi il Papa di Roma usa il titolo di Sommo Pontefice, cioè Pontefice Massimo.

Prima di ottenere la carica si era battuto perché il pontificato tornasse ad essere elettivo, e, con l'aiuto di Crasso, si era indebitato paurosamente per corrompere l'elettorato, si che il giorno del voto, uscendo di casa, disse alla madre che lo avrebbe rivisto Pontefice oppure esule. Come sempre Cesare rischiava il tutto per tutto.

La netta vittoria di Cesare, anche qui al disopra di ogni previsione, preoccupò gli Optimates, anche perchè poteva assicurargli la nomina a pretore per l'anno successivo. Visto l'importanza della sua carica, lasciò la casa natale della Suburra per trasferirsi sulla via Sacra. Apparteneva ora a un nuovo ceto sociale.

Eletto Pretore, nel 61 fu governatore della Spagna ulteriore, dove, per le vittorie contro i Lusitani, fu acclamato imperator, e gli promisero il trionfo una volta a Roma. Ma per legge nessuno poteva entrare in armi a Roma, per cui Cesare avrebbe celebrato il trionfo fuori dei confini. Chiese al senato di candidarsi al consolato, anche se assente, attraverso i legati, ma Catone l'Uticense ottenne il diniego. Cesare si candidò allora nell'anno successivo e fu eletto Console per l'anno 59 a.c.

Dato che gli anni a quell'epoca prendevano il nome dei consoli, il 59 a.c. doveva essere quello del "consolato di Cesare e Bibulo", poiché i due consoli erano Gaio Giulio Cesare e Marco Calpurnio Bibulo. ma poichè il partito di Cesare dominò la vita pubblica impedendo a Bibulo di esercitare il proprio mandato, l'anno fu ironicamente chiamato "Il consolato di Giulio e Cesare".

Ormai le cariche si susseguivano. Nel 61 tornò in Spagna da Propretore, cioè Governatore e Comandante militare insieme. Combatté e sconfisse i popoli della Lusitania e della Galizia, che infierivano sulla vicina provincia romana. Combattè anche per mare, cosa insolita per i soldati romani, dimostrando anche qui le sue particolari capacità di stratega e comandante. Le sue gesta infiammarono Roma, con grande livore degli avversari.

Nel 60 a.c. Cesare stipulò il Primo Triunvirato, contratto privato che gli assicurava le truppe e soprattutto gli equites (i cavalieri) del generale Pompeo, vincitore di Mitridate, e le pingui finanze di Crasso, anche lui esponente di prestigio degli equites. Il rapporto tra Crasso e Pompeo era pessimo ma Cesare con la sua persuasione e dialettica seppe infine metterli d'accordo.

In cambio Cesare promise le terre ai veterani di Pompeo e la ratificazione dei provvedimenti presi da Pompeo in Oriente; a Crasso e ai suoi cavalieri la riduzione di un terzo delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente il triumvirato, Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare.



IL TRIUNVIRATO E IL CONSOLATO (60-59 a.c.)

Durante il consolato Cesare portò avanti le riforme concordate con i triumviri. Nonostante le opposizioni ottenne la ridistribuzione degli appezzamenti di terra per i veterani di Pompeo, ma anche per i cittadini meno abbienti, il che gli aumentò la popolarità. Programmò la fondazione di nuove colonie in Italia, come Capua, e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis), facendo approvare leggi che favorissero l'Ordo Equestris, i cavalieri, e riducendo di un terzo le loro tasse.

A Roma si aboliva intanto la costituzione sillana e Cesare pronunciò dai Rostri del Foro gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Cornelio Cinna. Fu un'occasione per celebrare la sua gens, esaltando la discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, dimostrando così che nel suo sangue scorreva sangue regale oltrechè divino. Il popolo affascinato applaudì lungamente.

Fece pubblicare con resoconti giornalistici tutte le discussioni e le decisioni in Senato per tutto il dominio romano, attraverso gli "Acta diurna" e "Acta senatus". Praticamente inventò il primo quotidiano giornalistico, perchè il resoconto era giornaliero, e vi fece inserire notizie di morti, nascite, matrimoni e divorzi, la popolazione apprezzò e si divertì. Ciò che si discuteva in Senato era ora sotto gli occhi di tutti.

Presentò poi una legge di riforma agraria che prevedeva la distribuzione di terra ai più poveri proletari urbani che avessero almeno tre figli. Il Senato si oppose, ma fu approvata dai populares.

Dopo l'anno da console, il Senato doveva consegnargli di regola una Propretura, ma il Senato voleva dargli quella per demanio, parchi e foreste. Cesare tanto brigò che ottenne invece l'importante governatorato della Gallia Cisalpina e dell'Illiria con tre Legioni, e con un mandato di cinque anni anziché di uno. Successivamente ottenne anche la Gallia Narbonese.

ILLUSTRAZIONE DI MARIUSZ KOZIK

IL CONDOTTIERO MILITARE (58-45 a.c.)

La regione che Cesare governava controllava i confini settentrionali di Roma, accanto a Galli, Germani e Belgi. Le battaglie in queste provincie misero in luce le sue straordinarie qualità di condottiero e stratega, con otto campagne durate per ben nove anni. Nei successivi quattro anni sarà impegnato nella guerra civile contro Pompeo.
Plutarco (Vita di Cesare):
"Pur non avendo combattuto in Gallia nemmeno dieci anni, Cesare conquistò a forza più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò in tempi diversi contro tre milioni di uomini, ne uccise un milione e altrettanti ne fece prigionieri"

Cesare era uomo dalla grande inventiva e prontezza di riflessi. Le sue strategie non si somigliavano mai, rendendo al nemico imprevedibili i suoi movimenti. Riusciva a prendere iniziative in tempi velocissimi e a fare cose mai fatte prima, come combattere per nave, o muovere guerra in inverno mentre l'esercito romano si muoveva nella stagione calda. Si mosse più volte in pieno inverno per traversare il Mediterraneo, le Alpi innevate, il Canale della Manica, e, contrariamente all'uso, fece marciare i soldati anche di notte a lume di fiaccole.

Inventò sempre nuovi metodi per sorprendere il nemico, come quello usato contro i Veneti in Bretagna. Non riuscendo a bloccare le loro navi più snelle e veloci di quelle romane, fece costruire ai suoi uomini enormi falci con cui tagliarono le vele dei Veneti, in modo che non potessero prendere vento e le assalì.

I soldati avevano grande fiducia in lui, sia nelle sue capacità, sia nella cura che aveva di risparmiare la loro vita, sia nella generosità ed equità nella spartizione dei bottini. Per mantenere la disciplina gli imperatori donavano premi e denaro ai valorosi, Giulio Cesare, come egli stesso narra, si faceva prestare denaro dagli ufficiali per compensare i soldati meritevoli. In tal modo legava a sè i soldati per la gratitudine e gli ufficiali per riscuotere il credito.

Prima di ogni battaglia parlava ai soldati in modo trascinante e nello stesso tempo molto razionale, infatti spiegava loro lo svolgimento della battaglia affinchè fossero preparati alle modifiche. Era così persuasivo da chiedere il loro consenso alle battaglie, anche le più pericolose, per esempio nella guerra civile contro Pompeo, e l'adesione arrivò sempre.

Disse che: “E’ dovere di un Capo vincere non meno col senno che con la spada”. In effetti le vittorie furono in larga parte frutto delle sue strategie oltre che del valore di combattenti. Infatti limitò come pochi le perdite dei soldati in battaglia, tanto più che i suoi uomini erano sempre di molto inferiori di numero a quello avversario. Di qui la voce che un soldato romano ne valesse dieci avversari.

A Farsalo ebbe 200 morti rispetto ai 15.000 avversari e 24.000 prigionieri delle truppe pompeane. A Munda, in Spagna, la sua ultima vittoria, ebbe 1000 morti a fronte dei 30.000 caduti avversari.

Tentò sempre di trascinare l’avversario in luogo a lui propizio. Così fece per Vercingetorige, dopo la ritirata di Gergovia, quando si arroccò in Alesia. E così dopo aver abbandonato l’assedio di Durazzo, facendosi inseguire da Pompeo fino alla piana di Farsalo ove lo annientò.

Cesare chiamava i suoi soldati commilitoni, cioè cum-militantes, cioè quelli che combattevano insieme a lui; un titolo di parità e non di gerarchia. Li riforniva di ottimi equipaggiamenti, dando loro delle armi decorate con oro e argento per aumentare il loro prestigio, in parte perchè così erano rinforzate, ma soprattutto perchè facessero l'impossibile per non perdere in combattimento armi tanto preziose.

Era molto affezionato ai suoi soldati, tanto che, come racconta Svetonio, saputo della disfatta di Titurio, si lasciò crescere la barba e i capelli senza tagliarli se non dopo aver compiuto la sua vendetta. Si disse pure che non amasse farsi mettere i calzari, cui provvedeva personalmente, per rispetto del sottoposto.

Anche l'addestramento sui soldati fu eccezionale. Spingeva gli uomini a correre, spesso con lui in testa, con tutto il peso che si trascinavano irrobustendone straordinariamente i muscoli, si che andavano a velocità doppia rispetto agli avversari. Inoltre gli faceva zappare la terra, fortificando straordinariamente i muscoli delle braccia e delle spalle, in modo da avere più forza ed agilità nell'uso delle armi, ma pure per riuscire a montare un campo fortificato a tempo record.

Quando Cesare doveva traversare zone prive di alberi, faceva trasportare i pali da accampamento ai soldati, uno a testa legato sulla schiena, per limitare al massimo l'uso dei carri che rallentavano l'andatura e che potevano rappresentare una tentazione di bottino per i nemici. Anche il cibo per lo stesso motivo era ridotto al minimo, procurandoselo via via con le razzie e la caccia. Si spostava grazie a questi accorgimenti così rapidamente che i suoi nemici faticavano ad individuare le sue posizioni.

ILLUSTRAZIONE DI MARIUSZ KOZIK

I suoi accampamenti furono un capolavoro di ingegneria, con palizzate e torri di legno montate in tempo rapidissimo, al punto che in una stessa giornata potevano smontare e rimontare un accampamento molti km più avanti. I soldati non si accampavano mai all'aperto, dopo una giornata di cammino costruivano l'accampamento con le palizzate in legno, le tende, i ripostigli per il cibo e le armi, e se c'era pericolo i soldati dormivano con l'armatura accanto o addirittura addosso. Anche nel vestirsi i soldati erano addestrati ad allacciarsi vicendevolmente fibie ed altro in modo da poterlo fare in velocità.

I suoi uomini erano in grado di costruire tutto, dalle catapulte, ai fossati protetti, alle balestre, alle torri, alle trappole, ai ponti. Costruì per primo nella storia un ponte fisso sul Reno, in soli 10 giorni, lungo oltre mezzo Km, cosa che spaventò i Germani perchè Cesare non poteva essere fermato nemmeno da un fiume enorme come il Reno.

Ma all'occorrenza fece anche deviare il corso di fiumi o scavare canali per ridurre il livello delle acque e passare a guado. Con tutto questo veloce a affannoso incedere nei territori nemici, Cesare trovò il tempo di stilare il resoconto delle sue battaglie, il che lo rese il primo inviato di guerra, pubblicizzando elegantemente le sue gesta e lasciandoci preziosi documenti dell'epoca.

Scrisse i commentari sulla guerra in Gallia (De bello Gallico), resoconto delle campagne vittoriose in Gallia, e sulla guerra civile del 49 a.c. contro Pompeo e il senato (De bello civili), che spiegavano il suo rifiuto di obbedire al Senato, il tutto scritto in modo semplice e diretto, mai enfatico o celebrativo. Cesare è riconosciuto come uno tra i più grandi maestri di stile della prosa latina.

Egli parlò di sè in terza persona per creare uno stile più obiettivo e meno enfatico, eppure molti l'hanno criticato per questo, non sapendo che è molto più difficile dire "Tizio fece" che non "Io feci". Naturalmente volle che tutti sapessero dei suoi combattimenti e delle sue vittorie, ben sapendo che il senato difficilmente gliele avrebbe riconosciute.

Sapeva infatti che i buon optimates, cioè gli aristocrstici, erano dalla parte di Pompeo e non dalla sua che era un semplice populares, ma ricordava pure la fine ignominiosa dei Gracchi, e per non fare la stessa fine informò il popolo che infatti si pose dalla sua parte.

« Gli restava, come "estrema ratio" di combattimento, di occupare quante più colline e presidiare quanto più spazio potesse, allo scopo di dividere le truppe di Cesare; e così avvenne. »
(Giulio Cesare - De Bello Gallico)

TRIONFO DI CESARE
Cesare allenò i soldati non solo alla velocità, la forza e l'abilità nelle costruzioni, ma pure alla sorpresa. Li svegliava improvvisamente di notte costringendoli armati a correre fuori dell'accampamento con lui in testa. Oppure li faceva correre nei giorni di riposo, per controllare quanto rapidamente sapessero armarsi e correre in territori sconosciuti e imprevedibili.

Li abituò così agli ordini improvvisi e alle sorprese. In queste azioni la sua disciplina era ferrea, per contro era molto indulgente dopo le vittorie e nei periodi di riposo, lasciandoli liberi di esprimersi come volevano. Soleva dire infatti: - I miei soldati sanno combattere bene anche se si profumano. -

I soldati lo amavano ma non lo temevano se non per ciò che concerneva gli ordini in battaglia. Non a caso nei suoi trionfi gli dedicavano canzoni e strofe che lo prendevano in giro, sull'omosessualità e sulla calvizie. Era infatti denominato dai soldati Il calvo. Una delle canzoncine in voga avvertiva:
- Chiudete dentro casa le vostre mogli, mariti di Roma, che arriva il calvo. -

Infatti Cesare, nonostante l'episodio con Nicomede, era molto amante delle donne, per cui spesso spese in regalie costose. Lo stesso Svetonio racconta che l'amore più grande di Cesare fu Servilia Cepione, madre di Bruto, che fu sua amante per moltissimi anni ed alla quale fece favolosi doni.

Svetonio racconta che Cesare non giudicava i soldati dai costumi o dall'aspetto, ma dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza, indipendentemente dal grado. Non li costringeva all'ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti.

Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all'improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
Nei momenti di rischio maggiore si recava in prima linea a spada sguainata per spronare i soldati, urlando dei motti che li esaltassero, o afferrando a volte lui stesso le insegne del vessillifero quando questi cadeva.

Quando i suoi erano atterriti dalle voci sulle forze dei nemici, non li incoraggiava negandole o sminuendole, ma anzi le esagerava e raccontava anche frottole. Così, quando tutti erano terrorizzati nell'attesa dell'esercito di Giuba, riuniti i soldati in assemblea disse:
- Sappiate che tra pochissimi giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila armati alla leggera e trecento elefanti. Quindi, la smettano certuni di chiedere e fare congetture, e diano retta a me, che sono ben informato. Altrimenti li farò imbarcare sulla più vecchia delle navi e li farò abbandonare senza meta in balìa dei venti. -

Cesare era anche un ottimo estimatore di uomini, ne individuava i potenziali e li incoraggiava e premiava, indipendentemente dalla classe sociale a cui appartenessero. Ad esempio Ventidio Basso, generale di Marco Antonio, era di origini umilissime. Nato in un oscuro villaggio del Piceno venne fatto prigioniero insieme a sua madre quando era ancora bambino da Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno.

Da adolescente fu addetto alla cura dei muli in dotazione ai magistrati finché non venne notato da Giulio Cesare che apprezzandone la forza e l'intelligenza lo arruolò nel suo esercito in partenza per la Gallia. Durante quella guerra e la successiva guerra civile ottenne il crescente favore di Cesare che lo portò ad un'insperata carriera, finchè lo pose a capo delle Province Orientali sotto Marco Antonio e quando i Parti invasero la Siria li sconfisse in tre battaglie ottenendo il trionfo. Molti si arruolavano da Cesare perchè sapevano che sarebbero stati valutati secondo il merito e non secondo il censo, per cui chi aveva capacità poteva sperare al massimo.

LE CAMPAGNE MILITARI DI CESARE TRA IL 58 ED IL 45

L'ARMAMENTO DELL'ESERCITO DI CESARE

L’armamento dell’esercito romano di Cesare derivava dalle riforme di Mario, zio di Giulio Cesare, che trasformarono il cittadino-soldato repubblicano in soldato di professione, pagato e tenuto ad un rapporto di fedeltà personale al proprio comandante, che sostituisce il vincolo con lo stato e che ha volte ha portato addirittura alle guerre civili. L’armamento utilizzato è una via di mezzo tra quello usato nelle guerre puniche e quello di età imperiale

L’esercito romano. è costituito fondamentalmente da legionari, fanti pesanti ottimamente addestrati e organizzati su formazioni medio-piccole, centurie e manipoli, capaci di combattere autonomamente dando all'esercito romano una mobilità sconosciuta alle poderose ma lente e macchinose falangi ellenistiche. Questa impostazione attinge al modello africano dell’esercito cartaginese riformato da Annibale, la cui mobilità era stata devastate per l’esercito romano, ancora organizzato alla greca, durante la II guerra punica (219-202 a.c.).

L’invincibilità delle legioni romane della tarda repubblica e del primo impero derivano dalla fine strategia di Alessandro di Macedonia, dalle geniali intuizioni di Annibale, dalla brillante strategia di Scipione l'Africano, dalle lucide riforme di Mario e da quelle successive del geniale Giulio Cesare, tutte migliorate per la capacità innata alla imitazione e al cambiamento ma soprattutto come conseguenza delle esperienze sul campo.

- Il legionario presentava una corazza di anelli di maglia (lorica hamata) derivata da quelle in uso presso i celti della Provenza, lunga circa a metà coscia e priva di maniche.

- L’elmo più usato è il  “tipo montefortino” anch’esso di derivazione celtica ed adottato ai tempi delle guerre puniche, la maggior modifica riguarda la decorazione, il cimiero a tre piume descritto da Polibio è ormai completamente sostituito da uno in crine di cavallo rosso.
- In età cesariana cominciano ad essere utilizzati elmi più protettivi, anch’essi derivati da prototipi celtici (elmo tipo “Coolus E” e “Gallico G”) che diventeranno di uso corrente in età imperiale.

- Lo scudo (scutum) alto circa 1,20 m è pesante circa 10 kg, formato da due strati di legno incollati fra loro e dotato di un umbone di ferro per proteggere la mano; la superficie esterna era dipinta con l’insegna della legione, pratica diffusa durante le guerre civili. Si tratta di uno scudo di origine celtica che dal II d.c. sostituisce lo scudo rotondo di tradizione greco-etrusca.

L’armamento offensivo si basa sull’associazione pilum – gladium, il pilum è un giavellotto pesante con impugnatura in legno e punta in ferro dolce, in modo da piegarsi quando tocca terra e non poter essere riutilizzata dal nemico, e serviva per decimare le linee nemiche in avvicinamento.

Nello scontro frontale si usava il gladium, una spada a lama corta e larga (70 cm x 10-15) derivata dai celti di Spagna ma entrata in dotazione all’esercito romano a partire dal II d.c., veniva usata principalmente come arma da stocco, i legionari erano addestrati a pugnalare il nemico piuttosto che a sciabolarlo, sapendo che una ferita di punta profonda 4 o 5 cm era quasi sicuramente mortale e poteva essere inflitta con poche energie.

Le legioni erano affiancate da piccoli squadroni di cavalleria (turmae), che non essendo dotata di staffe non poteva caricare la fanteria, ma aveva funzioni di ricognizione, di inseguimento delle forze nemiche in rotta o di contrapposizione a cavalieri nemici. L’armamento difensivo è simile a quello della fanteria legionaria, cambia solamente la forma dello scudo, ovale anziché rettangolare.

Molto diverse invece la armi che constano di una lancia con manico ligneo e punta metallica a foglia e di una lunga spada (spatha); prima si usavano spade più leggere, di tipo macedone, utili di stocco, mentre a partire dall’età cesariana entrano in dotazione tipi più pesanti, derivati da modelli celtici o germanici.

Le macchine da guerra erano utilizzate soprattutto negli assedi, ma cominciavano a trovare applicazione anche sui campi di battaglia, in età cesariana il modello più utilizzata è la cosiddetta “catapulta greca”, una sorta di grossa balestra lanciadardi funzionante con un sistema di corde in tensione.

Usata fin dai tempi delle guerre puniche è l’antenata degli “scorpioni” e delle cheiroballista di età imperiale, dalle quali si differenzia perché caratterizzata da un’armatura portante ancora lignea e non metallica. Andavano dai tipi leggeri, da campo, manovrate da due uomini, ai tipi molto pesanti, capaci di scagliare massi pesanti oltre 30 kg. Durante gli assedi, per aumentare la potenza di fuoco, si ricorreva agli “onagri”, macchine per il lancio di sassi, facili da costruire e da maneggiare.

La guerra africana di Cesare, come tutte le guerre provinciali, vede la massiccia partecipazione di elementi indigeni, in Africa l’unità più caratteristica è data dalla cavalleria leggera, numida o maura, particolarmente temuta nell’antichità. Erano cavalieri privi di armatura, con una corta tunica senza maniche, si muovevano velocissime intorno alle truppe nemiche, bersagliandole di giavellotti, e sottraendosi alle reazioni nemiche grazie alla grande velocità. Ampiamente usati dai cartaginesi questi cavalieri furono integrati nell’esercito romano, compaiono con posizioni di rilievo nella colonna traiana, e non scomparvero mai.



LE BATTAGLIE:

"Alla testa di cinquemila uomini e trecento cavalli Cesare mosse contro l'universo". (Tito Livio)

Guerra in Gallia (58-50 a.c.)

Grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottenne con la Lex Vatinia il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito di tre legioni. Poco dopo un senato gli affidò anche la vicina provincia della Narbonense e la X legione.

Burebista, re della Dacia, aveva spinto il suo popolo sui territori oltre il Danubio, sottomettendo l'attuale pianura ungherese, avvicinandosi al territorio romano. Poichè però si era fermato in Transilvania, Cesare, che giocava sempre sui tempi stretti, dirottò in Gallia.

Prima di lasciare Roma, nel 58, Cesare incaricò Publio Clodio Pulcro, tribuno della plebe, di esiliare Cicerone da Roma. Clodio fece approvare una legge retroattiva che puniva chi avesse condannato a morte cittadini romani senza concedere loro la provocatio ad populum, cioè l'appello al giudizio del popolo. Cicerone fu esiliato per le condanne nella congiura di Catilina e dovette lasciare Roma e la politica.

Per non essere accusato o condannato in sua assenza, Cesare fece inoltre appello alla lex Memmia, secondo cui nessun romano che si trovasse fuori Roma per servizio dello stato poteva essere processato.
Poi lasciò i suoi affari a Lucio Cornelio Balbo, un cavaliere di origine spagnola. Affinchè i messaggi che gli spediva non cadessero in mani nemiche Cesare adoperò un codice cifrato, detto poi "Il codice di Cesare". Insomma inventò il primo codice di criptologia nella storia.


Gli Elvezi e i Germani (58 a.c.)

Ancora a Roma, Cesare seppe che gli Elvezi volevano invadere la Gallia Narbonense, la sua provincia, col pericolo che incitassero alla rivolta gli Allobrogi. Cesare partì, ma gli Elvezi, bruciate le città, erano giunti sulle rive del Rodano.

Disponendo solo della decima legione, insufficiente per 368000 individui, tra cui 92000 in armi, fece distruggere il ponte sul Rodano per impedire che gli Elvezi lo attraversassero, e reclutò in tutta la provincia forze ausiliarie, creando due nuove legioni nella Gallia Cisalpina e ordinando a quelle di Aquileia di raggiungerlo velocemente.

Gli Elvezi inviarono allora a Cesare la richiesta di traversare la Gallia Narbonense; Cesare rifiutò, e fortificò le rive del Rodano. Gli Elvezi allora decisero di traversare il territorio dei Sequani. A questo punto Cesare li affontò, e li sconfisse a Bibracte. Li lasciò poi liberi di tornare alle loro terre, per timore che venissero invase dai Germani, ben più temibili degli Elvezi.
I Galli intanto chiesero a Cesare di aiutarli a ricacciare oltre il Reno i Germani guidati da Ariovisto. Questi aveva invaso la Gallia ma era stato convinto dal Senato a rientrare, col titolo di rex atque amicus populi Romani (re e amico del popolo romano).

Cesare propose ad Ariovisto di stipulare un accordo ma l'altro rifiutò.
Occorreva combattere ma le legioni, intimorite dalla fama feroce e guerriera dei Germani stavano per ammutinarsi. Cesare annunciò allora che avrebbe sfidato Ariovisto portando con sé solo la fedelissima decima legione. Per l'amore che i soldati portavano a Cesare, e per non apparire codardi, le altre legioni lo seguirono. Ancora una volta Cesare aveva avuto ragione con un colpo di genio, ma rischiando tutto.
Cesare sconfisse Ariovisto oltre il Reno, ai piedi dei Vosgi. Così il Reno divenne il confine dai Germani, salvando da possibili invasioni Gallia e dominio romano.


I Belgi (57-56 a.c.)

Era ora tempo di portare la guerra nel nord della Gallia. Cesare marciò a nord, dove i Belgi si erano radunati in un esercito di 300.000 uomini. Li sconfisse una prima volta vicino a Bibrax presso il fiume Axona, provocando loro molte perdite.

Si narra che durante la battaglia i soldati si lamentassero perchè gli equites, grazie alla loro posizione a cavallo, potevano al contrario di loro salvarsi più facilmente la vita. Cesare scese allora da cavallo obbligando i suoi cavalieri a fare altrettanto. A questa vista i soldati entusiasti si gettarono nella battaglia.

I Belgi però si riunirono ancora attaccando a sorpresa l'esercito romano, ma Cesare riuscì a respingerli e a contrattaccare, li vinse e li massacrò. La Gallia Belgica era sottomessa, e all'arrivo dell'inverno tornò di nuovo in Gallia Cisalpina.

Nel 56 a.c. insorsero i popoli della costa atlantica. Cesare fece allestire una flotta di navi da guerra sulla Loira e si diresse verso la Bretagna, per combattere i Veneti. Dopo aver espugnato alcune città nemiche, decise di attendere la nuova flotta con cui ebbe la meglio sui Veneti, facendoli uccidere o ridurre in schiavitù, per punire l'uccisione degli ambasciatori romani.


Le spedizioni in Germania e Britannia (55-53 a.c.)

Nel 55 i popoli germanici Usipeti e Tencteri, con 430000 uomini, si spinsero fino al Reno e occuparono le terre dei Menapi. Cesare, temendo un'invasione in Gallia, si affrettò a raggiungere la Belgica, imponendo loro di tornare oltre il Reno.
Quando questi si ribellarono, Cesare ne fece imprigionare gli ambasciatori e ne assaltò a sorpresa gli accampamenti, uccidendo quasi 200000 tra uomini, donne e bambini.

LA CONQUISTA DELLE GALLIE
(INGRANDIBILE)
L'eccidio suscitò lo sdegno di Catone, che propose al senato di consegnare Cesare ai Galli, colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori, ma il senato si limitò a una "supplicatio", una supplica.

Cesare allora costruì velocemente un ponte di legno sul Reno, e fece una spedizione in Germania per scoraggiare l'invasione.

Sempre nel 55 Cesare decise di invadere la Britannia. Salpò con ottanta navi e due legioni nei pressi di Dover, poco lontano l'esercito nemico.

I Britanni furono sconfitti e decisero di sottomettersi a Cesare, ma quando appresero che parte della flotta romana era stata danneggiata dalle tempeste che impedivano l'arrivo di rinforzi, si ribellarono nuovamente.

I Britanni, nemmeno a dirlo, furono nuovamente sconfitti, costretti alla pace e a consegnare molti ostaggi. Cesare tornò in Gallia e stanziò le legioni negli accampamenti invernali. Molti Britanni si rifiutarono di inviare gli ostaggi promessi, e Cesare studiò una nuova campagna.

Infatti nel 54 a.c. Cesare salpò nuovamente verso la Britannia con ottocento navi e cinque legioni. Sbarcò indenne, ma appena accampato, venne attaccato dai Britanni guidati da Cassivellauno.
Cesare li sconfisse in due battaglie, poi andò nelle terre di Cassivellauno, oltre il Tamigi, e attaccò i Britanni. Vinse facilmente, molte tribù gli si sottomisero e Cassivellauno ottenne la pace, in cambio di un tributo annuo e degli ostaggi a Roma.

Il proconsole dislocò le sue legioni negli hiberna (quartieri militari d'inverno), quando già c'era aria di rivolta. Il capo degli Eburoni Ambiorige, decise di prendere d'assedio un accampamento e, convinti con l'inganno i soldati ad uscire allo scoperto, li aggredì, massacrando quindici coorti.

Spinto dal successo, attaccò un altro accampamento, retto da Quinto Cicerone; questi si comportò in modo prudente, e attese l'arrivo di Cesare, che infatti mise in fuga l'esercito nemico di 60 000 uomini. Contemporaneamente, anche il luogotenente di Cesare, Tito Labieno, fu attaccato dai Treviri, ma, sebbene in svantaggio numerico, li sconfisse, uccidendone il capo.

Nel 53 a.c., Cesare portò il numero delle sue legioni a dieci. Fermata una rivolta nella Belgica, marciò contro Treviri, Menapi ed Eburoni, affidando parte delle truppe al luogotenente Tito Labieno. La ritorsione di Cesare fu terribile, razziando e uccidendo nelle terre dei Menapi, che furono costretti a sottomettersi, mentre Labieno vinse su Treviri ed Eburoni.

Conosciuta questa vittoria, Cesare passò di nuovo il Reno con un nuovo ponte, per punire i Germani che avevano appoggiato la rivolta gallica. Dato l'alto rischio tornò indietro lasciando in piedi il ponte tranne una parte terminale che abbattè, come esempio della potenza romana.

Mosse allora contro gli Eburoni e il loro capo Ambiorige; i popoli limitrofi accettarono di sottomettersi a Cesare, e Ambiorige si ritrovò isolato. Molti Galli si unirono ai Romani e gli Eburoni furono sconfitti e massacrati. Le quindici coorti di Cesare erano state vendicate.


Memorabile fu la battaglia di Alesia del 52 a.c. durante le campagne di Gallia.

Cesare aveva fallito l'assedio di Gergovia, per l’errore, da lui stesso riconosciuto, di dividere l’esercito in due parti. I Galli, guidati da Vercingetorige, re degli Averni, disponevano di un esercito di 300000 uomini, contro Cesare che ne aveva 81000.
Il loro re, rassicurato dal successo di Gergovia, abbandonò la guerriglia e cercò uno scontro campale. Era quello Cesare sperava, scappando e facendosi inseguire in luogo aperto, infatti li sconfisse e li mise in fuga.

Una delle straordinarie capacità di Cesare era di prevedere le mosse dell'avversario, e spesso ne avvertiva i soldati, che stupivano di come le previsioni si avverassero, aumentando la stima per il loro comandante.

Infatti Vercingetorige si rifugiò nella città fortificata di Alesia, certo di ripetere il successo di Gergovia. La situazione era insostenibile, presto sarebbero giunte tribù alleate di Vercingetorige in suo soccorso, in più la città ben fortificata non poteva essere attaccata, pena la perdita di moltissimi uomini e magari la sconfitta, ma solo assediata e presa per fame.

Cesare ebbe l'ennesimo colpo di genio. Costruì attorno alla città due enormi anelli di fortificazione, con torri ogni 30 metri e 23 ridotte fortificate, lunghi circa 20 Km. ognuno, a 200 metri dalla città e tra la città e le fortificazioni dislocò numerose trappole. Basta immaginare il taglio degli alberi e poi quello del legno in pali e tavole, e poi il montaggio coi cunei e i giunchi, il tutto per quasi 40 km. di palizzata, oltre le torri e le ridotte.

LA RESA DI VERCINGETORIGE

Fece pure deviare il corso di un fiume per farlo passare in una trincea che passava nel suo accampamento assicurando l'acqua al suo esercito.

La prima fortificazione non consentiva agli assediati di scappare, costringendoli alle sortite, mentre la seconda riparava dagli attacchi contro gli aiuti nemici ai Galli. Ma neppure i Romani potevano scappare, del resto non era preso in considerazione da Cesare.

Tra i due anelli si dislocarono i 75.000 legionari e i 6.000 equites di Cesare. Tra gli accampamenti dislocati tra i due anelli Cesare creò vie libere per il rapido spostamento delle truppe verso i due fronti.

Vercingetorige tentò varie sortite, ma tutte ebbero insuccesso. Dall'esterno giunsero in soccorso vari eserciti per circa 250000 uomini, provocando attacchi congiunti sui due fronti.
Si trattava di 81000 Romani contro 550000 Galli.
Ma Cesare spostava continuamente i suoi uomini parando gli attacchi più pericolosi con tempismo e misura, cambiando gli uomini e le armi, senza mai sbagliare una mossa.

I Galli erano allo stremo, mancava loro il cibo e l'acqua, allora Vercingetorige, per evitare la resa, ebbe un'idea molto crudele: fece uscire dalle mura tutte le donne e i bambini della città, per risparmiare cibo ed acqua, ma pure sperando nella proverbiale clemenza di Cesare: se li avesse sfamati avrebbe ridotto le sue risorse.

Ma anche i Romani avevano scarsi vettovagliamenti, perchè, come i Galli, non potevano ricevere provviste. Per cui assisterono come loro alla morte orribile delle donne e dei bambini per sete prima che per fame. A questo punto Vercingetorige si arrese, dopo l'inutile  e crudele strage delle famiglie.
Finita la ribellione gallica, Cesare poté riconciliarsi con le tribù che aveva combattuto: nel 50 dichiarò la Gallia provincia romana, e nel 49 le sue legioni poterono finalmente tornare in Italia.

LA COSTRUZIONE DEL PONTE SUL RENO

LA GUERRA CIVILE (49-45 a.c.)

Intanto Il senato, timoroso per l'enorme successo di Cesare, aveva deciso di contrapporgli Pompeo, nominandolo consul sine collega nel 52. Fino ad allora i consoli erano stati due, ma Pompeo fu console unico, il senato voleva frenare il potere di Cesare, e negli anni seguenti il senato nominò solo consoli della fazione pompeiana.

Cesare peraltro le sue mire le aveva. Voleva il consolato per il 49 in modo da tornare a Roma senza processi, senza rischiare la vita e prendere il potere che gli spettava dopo tante battaglie. Per questo, già nel 50 a.c., aveva richiesto al senato di candidarsi al consolato in absentia, ma se lo vide nuovamente negare, come nel 61 a.c..

Comprese le intenzioni del senato, Cesare non riconobbe la carica del console pompeiano Lucio Emilio Paolo, e fece avanzare ai tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione che aveva passato dalla sua parte saldandone i debiti, una proposta per cui sia lui che Pompeo avrebbero sciolto le loro legioni entro la fine dell'anno.

Il senato invece ingiunse a entrambi di inviare una legione per la spedizione contro i Parti, mentre elesse consoli per il 49 a.c. Lucio Cornelio e Claudio Marcello, avversari di Cesare.
Questi dovette spedire una delle sue legioni, che si radunò con quella di Pompeo nel sud dell'Italia; gli uomini di Cesare, tuttavia, per suo suggerimento, fecero credere a Pompeo che il loro generale fosse odiato dai soldati per il comportamento dispotico e pertanto pronti a passare dalla sua parte.
Cesare non trascurava nulla e voleva che Pompeo sottovalutasse il suo potere, pensando che le truppe avrebbero tradito Cesare, cosa che non avvenne mai in tante guerre. Cesare ebbe dalla sua come pochi i soldati e il popolo.




IL RUBICONE

Cesare chiese intanto di restare proconsole delle Gallie conservando solo due legioni e candidandosi in absentia al consolato, ma il senato, spinto da Catone, rifiutò la proposta, ordinando che sciogliesse le legioni entro il 50 a.c. e tornasse a Roma da comune cittadino o sarebbe stato dichiarato Nemico Pubblico.

Cesare fece un ultimo passo, ordinando ai tribuni della plebe di osteggiare il senato col veto, ma i tribuni furono costretti a scappare da Roma.

Si narra che prima che il proconsole Caio Giulio Cesare attraversasse il fiume Rubicone nel 12 gennaio del 49 a.c., il Senato della Repubblica romana si era riunito ben sei volte nei giorni 1, 2, 5, 7, 8 e 9 gennaio per discutere le proposte di Cesare ed avanzare contropoposte.

Le riunioni senatorie dell’8 e 9 gennaio vennero tenute fuori le mura della città, nel tempio di Bellona, per permettere al proconsole Gneo Pompeo Magno di intervenire. La lex romana infatti impediva ai magistrati investiti di comando militare di entrare entro il pomerium cittadino.

In queste ultime riunioni vennero prese le disposizioni per la guerra a Cesare e non parteciparono i tribuni della plebe filocesariani per paura della loro incolumità. Naturalmente i circa 600 senatori delle liste censorie non erano tutti presenti, o perchè incaricati del governo delle provincie, o per comandi militari nelle legioni delle provincie; o per incarichi civili o militari in Italia; o in esilio o malati.
Non c'erano altre possibilità, Cesare ci pensò per una notte, poi decise di varcare con le legioni il confine politico di Roma: il fiume Rubicone.

Svetonio racconta che Cesare vagò per una notte intera prima di recarsi sulle rive del Rubicone, dove era accampata la XIIIª legione.
Arrivato sulle rive di quel fiumiciattolo, all'alba del 12 gennaio del 49 a.c., rivolgendosi agli uomini più vicini a lui sentenziò:
"Siamo ancora in tempo a tornarcene indietro, ma quando avremo superato quel ponticello tutto dovrà essere regolato con la spada".

CESARE ATTRAVERSA IL RUBICONE
Appiano riferisce un'altra frase di Cesare prima di varcare il fatidico fiume:
"E' venuto il momento di rimanere per mia disgrazia al di qua del Rubicone, o di passarlo per la disgrazia del mondo."

Ordinò a cinque coorti di marciare fino alla riva del fiume, ed il giorno successivo lo traversò, pronunciando la storica frase:
 "Alea iacta est", il dado è stato lanciato.

Come dire che non si poteva più tornare indietro. Secondo quanto narra un testimone oculare, Asinio Pollione, e riportato anche da Svetonio, sappiamo che Cesare non la pronunciò in latino («Alea iacta est») come dicono numerose fonti posteriori, ma in greco, che parlava correntemente, ma che sicuramente pochi soldati capivano.
Anzi sembra che la frase intera fu:
"Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: il dado è tratto".

Tito Livio commenta il gran passo con le seguenti parole rimaste famose:
"Alla testa di cinquemila uomini e trecento cavalli Cesare mosse contro l'universo".

E così, per seguire il suo destino, Cesare attraversò il Rubicone insieme ai suoi legionari e occupò la città di Rimini (Ariminum) dove si ricongiunse con i tribuni che avevano abbandonato Roma. La loro presenza fu usata da Cesare, per legittimare la sua scelta nei confronti dei suoi soldati, rimuovendo gli ultimi dubbi: il diritto di veto dei tribuni era considerato da sempre un diritto sacro ed inviolabile che proteggeva il popolo dall'arroganza dell'aristocrazia. La presenza dei tribuni nella città di Rimini era la testimonianza concreta che questo diritto era stato violato.

Il triunvirato che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era finito: Crasso era morto e Cesare e Pompeo erano nemici. Era la guerra civile.



CESARE E POMPEO

Così Cesare dichiarò guerra al senato, diventando nemico di quello stato romano che tanto aveva servito, e che così poco gli aveva mostrato gratitudine. Si diresse a sud lungo la costa adriatica, sperando di fermare Pompeo e riconciliarsi.
Era costume di Cesare cercare accordi anzichè spargere sangue, soprattutto perchè amava i suoi soldati, ma pochi usufruirono di questa possibiltà, sottovalutando le sue capacità di condottiero, che gli permettevano di vincere dove altri avrebbero perduto la battaglia.

Pompeo allarmato dalla caduta delle città che si erano opposte a Cesare, si rifugiò in Puglia, per raggiungere con la flotta la penisola balcanica. Pompeo riuscì a scappare assieme ai consoli in carica e a gran parte dei senatori a lui fedeli, e a mettersi in salvo a Durazzo.
Cesare allora, rientrato a Roma, si impossessò senza complimenti delle ricchezze dell'erario e marciò contro la Spagna, provincia di Pompeo. Secondo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia), le riserve ammontavano a 15 000 libbre d'oro in lingotti, 35 000 d'argento, anch'esse in lingotti, e 40 milioni di sesterzi.
Marciò senza sosta e a tappe forzate, giunto in Provenza, lasciò tre legioni ad assediare Marsiglia, che cadde dopo mesi di assedio.

Partendo per la Spagna pronunciò le parole: "Andiamo a combattere un esercito senza generale; poi torneremo per combattere un generale senza esercito". Nella penisola iberica, combatté contro i tre legati di Pompeo: vinse e tornò a Roma.
Ormai a Roma Cesare dettava legge e nessuno osava più opporsi. Assunse per pochi giorni la dittatura e ottenuta l'elezione al consolato nel 48 a.c. Cesare salpò da Brindisi col suo luogotenente Marco Antonio per la Spagna. Cesare subì una sconfitta a Durazzo, ma si scontrò di nuovo a Farsalo, e fu una battaglia epica.



LA BATTAGLIA DI FARSALO

Cesare aveva assediato le truppe di Pompeo a Durazzo, ma queste erano riuscite a rompere l’assedio e ad uscire in combattimento. Ma Cesare, con un altro colpo di genio, non dette battaglia, facendosi inseguire fino al campo aperto da lui prescelto.

Disponeva di 22.000 fanti e 1000 cavalieri, Pompeo di 45.000 fanti e 7000 cavalieri, oltre il doppio di lui. Soprattutto Pompeo era forte nella temibile cavalleria, e aveva per giunta sette volte i suoi cavalieri, per cui Cesare si dovette inventare un nuovo schieramento.
Contro gli equites schierò non solo i suoi mille equites, ma mescolati inserì centinaia di fanti, modalità inedita, schierando poi sei coorti scelte di 3000 uomini per impedire che lo avvolgessero a tenaglia.
La battaglia andò al solito secondo le previsioni di Cesare. Dopo lo scontro centrale, retto per miracolo, gli equites di Pompeo tentarono di aggirarlo, ma qui trovarono, insieme all'esigua cavalleria, lo schieramento delle coorti. Queste resistettero all'urto mentre gli equites romani passarono all'attacco.
La Cavalleria pompeiana fu messa in fuga e le sei coorti aggirarono alle spalle la fanteria di Pompeo facendone strage. Pompeo riuscì a fuggire, ma sul suolo rimasero solo 200 soldati romani, contro 15.000 morti e 24.000 prigionieri nemici.

Pompeo cercò rifugio in Egitto, ma lì fu ucciso per ordine del faraone. Anche Cesare si recò in Egitto, nell'intento di punire il faraone per l'uccisione di Pompeo, ma rimase coinvolto nella contesa dinastica tra Cleopatra VII e suo fratello e marito Tolomeo XIII.
Decise di riconoscere come sovrana Cleopatra, con la quale intrattenne una relazione amorosa e generò un figlio, Tolomeo XV, ovvero Cesarione. La popolazione di Alessandria d'Egitto però non gradì la scelta, e lo attaccò costringendolo ad asserragliarsi con Cleopatra nella cinta del palazzo reale. Cesare aveva con sè pochissimi soldati, per cui fece costruire rapidamente opere di fortificazione, e rimase nel palazzo fino all'arrivo dei rinforzi.

Tentò di rompere l'assedio usando le poche navi che aveva a disposizione, ma fu sempre respinto e dovette perfino saltare dalla sua nave distrutta salvandosi a nuoto.
Svetonio, Cesare, 64 « Si gettò in mare, e nuotando per duecento passi si salvò a bordo della nave più vicina, tenendo la mano sinistra alzata per non bagnare alcune carte, e trascinandosi dietro il mantello stretto tra i denti, per non lasciarlo come un trofeo in mano ai nemici. »

Plutarco, Cesare, 49,8
« Fu costretto a buttarsi in acqua e a stento si poté salvare a nuoto. Si dice che in quell'occasione egli avesse in mano molte carte, e per quanto venisse preso di mira e dovesse immergersi, non le lasciò, ma con una mano teneva quei fogli fuor d'acqua, e con l'altra nuotava. »

Dopo mesi di assedio, Cesare fu liberato e poté riprendere la guerra contro i Pompeiani, più forti di prima.
Infatti il re del Ponto Farnace II, alleato di Pompeo, aveva attaccato i possedimenti romani, mentre molti nobili senatori si erano rifugiati in Africa, sotto il comando e la protezione di Catone l'Uticense.
Rimessa dunque Cleopatra sul trono, Cesare tentò come al solito di trattare col nemico, ma fu guerra, e naturalmente fu sconfitta per Farnace, che si ritirò a nord. Qui Farnace si riorganizzò con nuove truppe, e di nuovo mosse guerra, ma di nuovo fu sconfitto e stavolta ucciso.

Nel 46 a.c. Cesare tornò a Roma, dove alcune legioni al comando di Marco Antonio si ribellavano per il mancato pagamento promesso da Cesare prima della battaglia di Farsalo. Ma Cesare che di soldi non ne aveva, gli fece un bel discorso, facendo leva sull'orgoglio dei legionari e sull'attaccamento per lui. I soldati restarono al suo fianco e partirono per l'Africa.
Qui i pompeiani si erano riorganizzati sotto il comando di Catone, e avevano radunato un grande esercito e stretto alleanza col re di Numidia. Per quanto in numero molto superiore, Cesare li sconfisse.
Catone, venuto a sapere della sconfitta, si suicidò a Utica.
I superstiti trovarono rifugio in Spagna, dove Cesare li raggiunse e li sconfisse di nuovo. I pompeiani scampati dovettero consegnarsi a Cesare, sperando nella sua clemenza, o fuggire. E Cesare fu clemente.



LA PACE

Pacificata l'Africa, Cesare poté tornare a Roma nel 46 gioiosamente accolto dalla popolazione: erano finite le guerre civili. Di Cesare si lodava la clemenza, che lo aveva spinto a risparmiare ed accogliere i pompeiani che gli si erano presentati dopo Farsalo, e ad evitare nuovi eccidi come le proscrizioni sillane.

Proclamò al popolo l'annessione delle Gallie e della Numidia e la conferma del protettorato sull'Egitto, assicurando all'Urbe ricchezza e un migliore rifornimento di generi alimentari, tra cui grano e l'olio, che scongiurava le carestie.

Celebrò quattro volte il trionfo, per la vittoria di Gallia, Egitto, Siria e Africa. In ogni occasione Cesare, vestito di porpora, percorse sul carro trionfale la via Sacra, mentre dietro di lui scorrevano i legionari, il bottino e i prigionieri.

I soldati, durante la processione, declamavano versi di lode o scherno nei confronti del generale, prendendone in giro l'omosessualità e celebrandone le vittorie.

Sul carro trionfale c'era il motto di Cesare: - Veni, vidi, vici - Venni, vidi, vinsi, che descriveva la fulminea vittoria in Siria. Nella celebrazione del trionfo sulle Gallie, Cesare salì sul Campidoglio sfilando tra quaranta elefanti che reggevano candelabri, e Vercingetorige seguiva il vincitore, per essere strangolato al termine della cerimonia. Per i suoi trionfi, Cesare offrì grandiosi spettacoli e banchetti ai romani, degni di un imperatore.



LE EPIGRAFI

Dedica del municipio di Bovianum a Giulio Cesare
(CIL I² 787 = ILS 70):
[C. Iul]IO CAESARI IM[p.], DICTAT(ori) ITERU[m]
[pont]EFIX MAX[imo], [AUG(uri), c]OS., 
PATRONO MU[nicipi], D(ecurionum) C(onsulto)

La dedica fu posta per decreto del senato municipale ('decurionum consulto' è formula equivalente all’altra 'decurionum decreto' che più tardi ricorre usualmente indicata con le sigle d.d.): si trattava infatti di un atto di omaggio che la città sannitica (divenuta municipio romano dopo la guerra sociale) faceva a Giulio Cesare suo patronus.

Il cursus honorum di Cesare è riportato soltanto in quella parte e, si potrebbe aggiungere, in quell’ordine d’importanza che gli autori della dedica sembrava più opportuno. Si comincia col titolo di imperator, allusivo alle vittorie militari (nel 46 a.c., dopo aver disfatti i pompeiani a Tapso, Cesare celebrò quattro trionfi: sulla Gallia, sull’Egitto, sul ponto, sull’Africa; l’anno appresso, dopo la vittoria di Munda, celebrò un quinto trionfo sulla Spagna).

Segue poi la menzione della seconda dittatura (dictator iterum), l’unico elemento che ci consente di datare la dedica con una certa approssimazione. Rivestita la dittatura per la prima volta nel 49, Cesare l’assunse per la seconda volta circa l’ottobre del 48 a.c. dopo la vittoria su Pompeo a Farsàlo, e la terza volta nell’aprile del 46 dopo Tarso, sicché la dedica di Bovianum gli fu posta fra la fine del 48 e i primi mesi del 46. Si ricordano poi le cariche sacerdotali: il pontificato massimo, cui Cesare fu eletto nel 63 (era già entrato nel collegio nel 73) e l’augurato; infine si menziona la carica di console, che Cesare rivestì 5 volte: nel 59 a.c., nel 48 a.c., nel 46 a.c., nel 45 a.c. (sine collega) e nel 44.

 [C(ives) R(omani) qui C]OI NEGOTIANTUR 
[civitatem] COAM PIETATIS IN [C. Iulium Cae]SAREM PONT-
[ficem maxim]UM, P[a]TREM [pa]-
[triae deum]QUE ET BENEVOL- [entiae erga] SE CAUSSA.

L’iscrizione si legge su due frammenti di base di marmo trovata qualche decennio fa a Cos a ivi conservata nel museo (cfr. “Ann. Epigr.” 1947 nr. 55).
La dedica è posta in onore della civitas Coa (indicata, secondo l’uso greco, in caso accusativo anziché in dativo) dai cittadini romani residenti in Cos, ove hanno sede le loro prosperose agenzie d’affari, dedite soprattutto al commercio e ai traffici marittimi.
(cfr. J. HATZFELD, Les trafiquants italiens dans l’Orient hellénique, Paris 1919. T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Roma, I, Baltimore 1933, p. 275 sgg.).

Le buone relazioni fra la popolazione locale e i gruppi di negotiatores provenienti dall’Italia poggiavano sulla base del mutuo interesse economico, su cui poi s’innestavano i motivi di carattere politico, come in questo caso. Cos, che era incorporata nelle provincia d’Asia con lo status di civitas libera, aveva manifestato, non sappiamo in concreto con quali atti, la sua pietas verso Giulio Cesare, e in relazione a ciò la colonia dei cittadini romani impiantati nella città esprime pubblicamente la sua riconoscenza, non mancado di confermare, nell’occasione, la sua gratitudine per la benevolentia dei Coi nei suoi riguardi.

Quanto a Cesare, notiamo che – in relazione con la pietas dimostratagli dalla civitas Coa – il suo nome nella dedica è accompagnato dai titoli che sottolineano l’aspetto religioso, più che quello politico, dei suoi poteri. Infatti egli è detto soltanto pontefice massimo (carica cui era stato eletto fin dal 63 a.c.), padre della patria (che come pater, o parens, ha titolo alla pietas dei cittadini), e, infine, puramente e semplicemente, deus. Questi due ultimi portano a collocare la dedica poco tempo prima della Idi di marzo, quando la “divinizzazione” di Cesare era ormai un fatto compiuto.

ILLUSTRAZIONE DI PAWEL KUROWSKI)


LO SCRITTORE

Su Cesare  scrittore, scrive Svetonio:

« Eguagliò o superò la gloria dei migliori, tanto nell'eloquenza quanto nell'arte militare. Dopo la sua accusa contro Dolabella, fu, senza ombra di dubbio, annoverato tra gli avvocati principi.
Sta di fatto che Cicerone, nel Bruto, elencando gli oratori, dice: 
"Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo: ha un'esposizione elegante, chiara e, in un certo senso, anche magnifica e generosa".
In una lettera a Cornelio Nepote ne parla così: 
"Chi, dimmi, gli vorresti anteporre, anche cercando tra quegli oratori che non si siano mai dedicati ad altro? Chi più di lui è arguto o ricco nei concetti? Chi è più ornato o più elegante nelle espressioni?"
Da giovane aveva preso a modello, a quanto pare, Strabone Cesare, e nella sua "Divinazione" ne riportò letteralmente alcuni brani, tolti dall'orazione "Per i Sardi". Pronunciava i discorsi, dicono, con voce alta e acuta, e il suo gestire era concitato e ardente, ma non privo di eleganza.

Ci rimangono alcune sue orazioni, ma in alcuni casi l'attribuzione non è sicura. Augusto stima con ragione che quelle intitolata "Per Quinto Metello" non sia stata pubblicata da lui ma raccolta da qualche stenografo che non riusciva perfettamente a tenergli dietro mentre parlava; e infatti su alcune copie trovò l'indicazione scritta per Metello invece del titolo "Per Quinto Metello", benché il discorso sia in persona di Cesare e in difesa propria e di Metello contro gli accusatori di entrambi.
Lo stesso Augusto reputa molto azzardato attribuirgli anche le orazioni "Ai soldati in Ispagna", tramandate in numero di due: una sarebbe stata pronunciata in occasione del primo combattimento, e l'altra per il successivo, nel quale però Asinio Pollione sostiene che non ebbe neppure il tempo di arringare le truppe per l'improvviso attacco del nemico.

Lasciò anche dei Commentari sulle sue gesta nella guerra gallica e in quella civile contro Pompeo. È però incerto che sia l'autore anche di quelli sulla guerra alessandrina, su quella africana e su quella spagnola. Alcuni li attribuiscono a Oppio e altri a Irzio, che terminò anche l'ultimo libro del "De bello Gallico", altrimenti rimasto incompiuto.
Parlando dei Commentaridi Cesare, Cicerone così si esprime nello stesso Bruto: 
"Scrisse anche dei Commentari che si devono assolutamente ammirare: sono nudi, scarni e belli, spogliati di qualsiasi ornamento oratorio come un corpo della sua veste. Ma, mentre volle offrire agli altri il materiale per scrivere la storia, forse fece opera grata agli inetti che vorranno agghindarlo con riccioli artificiosi, ma distolse i sani di mente dallo scriverne"
Così scrive Irzio, riferendosi agli stessi Commentari: 
"Sono tanto universalmente lodati che sembrano voler togliere e non offrire ad altri l'occasione di scrivere sullo stesso argomento. Per quanto mi riguarda, la mia ammirazione è ancora maggiore; tutti infatti ne conoscono la purezza e l'eleganza dello stile, ma io so anche con quanta facilità e rapidità furono scritti".

Asinio Pollione, invece, li reputa scritti con scarsa cura e con poco rispetto della verità. 
"Infatti in molti casi Cesare prestò fede con leggerezza alle imprese riferite da altri, e in quanto alle proprie le riportò in modo inesatto, sia per deliberato proposito sia per errore di memoria, e credo li avrebbe voluti riscrivere e correggere". 
Cesare lasciò anche due libri Sull'analogia e altrettanti di un Anticatone, e inoltre un poemetto Il viaggio. Scrisse la prima di queste due opere durante il passaggio delle Alpi, mentre dalla Gallia Citeriore tornava al comando dell'esercito, dopo aver tenuto le assise come pubblico magistrato. La seconda fu scritta su per giù all'epoca della battaglia di Munda; l'ultima quando da Roma raggiunse la Spagna Ulteriore in ventitré giorni.

Ci rimangono anche le lettere da lui indirizzate al senato, lettere che egli per primo piegò in pagine, come fossero libretti di annotazioni, mentre fino ad allora i consoli e i magistrati mandavano i fogli scritti per intero, su tutta la loro larghezza.
Ci resta anche qualche lettera a Cicerone, e ai familiari su questioni domestiche. In queste ultime, quando voleva scrivere qualcosa di segreto o di riservato, lo metteva in cifra, mutando cioè l'ordine delle lettere, in modo da togliere ogni significato alle parole. Chi vuole esaminarle e decifrarle non ha che da cambiare la quarta lettera dell'alfabeto, la d, in a, e seguitare così con le altre. 
Si ricorda che da giovane scrisse alcune operette, quali un poemetto "In lode di Ercole", una tragedia, "Edipo", e anche una "Raccolta di sentenze". Augusto vietò la pubblicazione di queste operette con una brevissima e semplice lettera a Pompeus Macrus, che aveva l'incarico di riordinare le biblioteche.


LE RIFORME
  • Cesare estese la cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina. Per la prima volta, tutti gli abitanti della Penisola avevano una legge comune e pari diritti. Il che dimostra quanto grande fosse la sua lungimiranza.
  • Aumentò il numero dei Senatori inserendovi anche uomini provenienti dalla Gallia e dalla Spagna. Oltre a porre uomini di sua fiducia incoraggiò così la romanizzazione delle due province.
  • Assegnò ai poveri dell'Urbe lotti di terreno nelle provincie conquistate.
  • Frenò la cupidigia dei governatori delle provincie limitando l'incarico a due anni.
  • Promosse l'incremento delle nascite dando premi alle famiglie numerose.
  • Autorizzò la confisca totale dei beni di chiunque attentasse alla sicurezza dello Stato e l'abolizione delle associazioni a sfondo politico.
  • Varò anche una riforma del calendario che durerà fino al 1582 col calendario gregoriano. Il precedente calendario risaliva a Numa Pompilio e prevedeva 355 giorni con un mese intercalare. Cesare introdusse l'attuale anno di 365 giorni e lo impose a tutti i possedimenti romani, unificandone il metodo e l'inizio della datazione alla nascita di Roma.
  • Istituì il conio della moneta d'oro, prima solo occasionale, fissando la parità fissa fra la moneta d'oro (aureo) e quella d'argento (denaro). La loro circolazione sostituì le altre monete. La coniazione di pezzi d'argento era tollerata negli Stati alleati; quella dell'oro era riservata a Roma. Insomma inventò la moneta unica: l'Aureo.
  • Sempre per l'ingombro sui carri da guerra che dovevano essere ridotti al minimo, ordinò che i papiri arrotolati ai bastoncini, fino ad allora di varia lunghezza, avessero uguali dimensioni, in modo che potessero essere sovrapposti e rilegati all'occorrenza. Insomma Cesare inventò il primo libro.
  • Versò tutto il denaro promesso al popolo e ai legionari: ogni abitante dell'Urbe beneficiò di 100 denari e ogni legionario 24000 sesterzi e un lotto di terra.
  • Annullò le pigioni di Roma inferiori a 1000 sesterzi, e quelle inferiori, in tutto il resto dell'Italia, a 500, facendole pagare allo stato.
  • Ordinò un censimento degli abitanti di Roma in modo da poter migliorare la gestione cittadina.
  • Fondò nuove colonie nelle province dove fece insediare oltre 80000 tra sottoproletariato urbano di Roma e soldati in congedo: in questo modo poté rifondare città come Cartagine e Corinto, distrutte in guerra quasi centocinquant'anni prima.
  • Emanò la Lex Iulia per il matrimonio e l'adulterio femminile ma era una faccenda privata troppo forte perché i Romani accettassero un'intrusione dello Stato nelle questioni familiari. Quando il Senato, preoccupato per il malcostume, gli chiese di intervenire con maggior decisione, egli rispose: “Date voi stessi alle vostre mogli i consigli che ritenete necessari: così io faccio con la mia”.

L'ULTIMA BATTAGLIA

Nel 46 a.c. Cesare dovette nuovamente recarsi in Spagna, dove i pompeiani si erano ancora una volta riorganizzati sotto il comando dei due figli di Pompeo e Tito Labieno. Si trattò della più sanguinosa campagna della guerra civile, con efferate crudeltà da ambo le parti. La guerra si concluse con la battaglia di Munda, nell'aprile del 45 a.c., dove Cesare affrontò finalmente i suoi avversari sul campo, e li sconfisse per sempre.
Fu la più pericolosa delle battaglie combattute da Cesare, che arrivò persino a disperare della vittoria e a pensare per la prima volta nella sua vita di darsi la morte per non cadere in mano nemiche.
Alla battaglia partecipò il pronipote diciottenne di Cesare, Ottaviano, che, giunto in Spagna dopo un lungo periodo di malattia, diede prova del suo valore, si che lo zio giunse infine ad adottarlo nel testamento, facendone l'erede di Cesare.



LA DITTATURA

Nel 49 a.c. Cesare, già dictator per un decennio dal 47 a.c., ottenne il consolato per l'anno successivo e il titolo di imperator, fu ripetutamente eletto console nel 46 a.c., nel 45 a.c. e nel 44 a.c., quando, il 14 febbraio, ottenne anche la carica di dittatore a vita.

Gli furono dedicate statue a fianco degli antichi re ed ebbe un trono d'oro in senato ed in Tribunato. E qui subentrano storie discordi:

1) Una mattina su di una sua statua d'oro collocata presso i rostri venne posto un diadema, ritenuto simbolo di regalità e schiavitù. Due tribuni della plebe, Lucio e Gaio, fecero togliere il diadema e accusarono Cesare di volersi proclamare re di Roma, ma questi convocò il senato e accusò i tribuni di aver posto il diadema per screditarlo e renderlo odioso al popolo. I due tribuni vennero destituiti.

"Cesare accusò i tribuni essere stati essi stessi a mettere il diadema alla statua per deriderlo e farsi belli del suo disonore, aggiungendo che essi volevano calunniarlo di fronte al popolo e poi nell'incidente dei Lupercali, che fu un'altra sceneggiata organizzata dai congiurati, mostra, con una misura gravissima e impopolare come l'azione di due tribuni della plebe, la gravità che egli attribuiva alla loro azione, rivela di non volere in nessun modo il titolo di rex né il diadema della monarchia ellenistica che ne era il simbolo".

2) Plutarco narra che il 15 Febbraio del 44 a.c., durante la festa dei Lupercali, Cesare sedeva su un trono d' oro. Qualcuno pose un diadema regale ai suoi piedi, poi Cassio Longino, uno dei futuri congiurati, glielo pose sulle ginocchia, mentre il popolo applaudiva. Fu allora che comparve Antonio, nudo e unto, come la festa richiedeva. Si fermò di fronte a Cesare e gli posò sul capo il diadema. Cesare rifiutò, sdegnato, ma Antonio glielo pose sul capo una seconda volta. Intanto il popolo, impazzito, continuava a gridare che lo voleva re. Cesare allora si alzò in piedi, e, scoprendosi il collo, gridò "che lo offriva a chi voleva sgozzarlo", come sapesse che questo poteva costargli la vita.

(INGRANDIBILE)
3) Mentre Antonio guidava la processione per il Foro, Cesare vi assisteva dai rostri. Gli si avvicinò Licinio, che depose ai suoi piedi un diadema d'oro; il popolo allora esortò Lepido a incoronare Cesare, ma questi esitava.

Allora Cassio Longino, che era a capo della congiura che si andava tessendo contro Cesare, fingendosi benevolo, glielo pose sulle ginocchia. Cesare rifiutò, ma accorse Antonio, che gli pose il diadema sul capo e lo salutò re.

Cesare rifiutò e lo gettò via, dicendo di chiamarsi Cesare e non re, ricevendo così gli applausi del popolo, ma Antonio lo ripose per una seconda volta. Visto il turbamento del popolo, Cesare ordinò di mettere il diadema sul capo della statua di Giove Ottimo Massimo.

Abbiamo ragione di pensare che Cesare, che pure desiderava il potere, non avrebbe mai fatto un passo così pacchiano e compromettente, per cui è da ritenere effettivamente un tentativo di discredito.

Assunta la dittatura, Cesare portò a novecento il numero dei senatori, inserendo uomini a lui fedeli, ammettendo anche cittadini della Gallia e della Spagna. Rafforzò le assemblee popolari a discapito del senato. Aumentò il numero dei magistrati e si fece dare il diritto di nominare metà dei magistrati.

Realizzò poi il foro Giulio, il primo foro romano, simile a quello della città di Pompei, una lunga area rettangolare chiusa ai lati da una serie di portici, alla cui fine si ergeva il tempio di Venere Genitrice. Davanti al tempio, fece porre la sua statua equestre.
La nuova architettura era un misto tra romano greco ed ellenico e ispirò tutti i successivi fori imperiali.
Fece ingrandire il circo costruendovi nuovi settori di scalinate; ordinò la realizzazione di uno stadio per i lottatori nel Campo Marzio e fece scavare sulla riva del Tevere un bacino che ospitasse le naumachie, le battaglie tra navi.
Fece costruire la Curia Iulia e l'immenso tempio di Marte, ricostruì una basilica sopra quella Sempronia già distrutta, e un nuovo immenso teatro stabile in pietra, ai piedi del monte Tarpeo.
Cesare non poté vedere realizzati i suoi progetti ma furono portati a termine da Augusto, che costruì, infatti, il tempio di Marte Ultore, la basilica Giulia e il teatro di Marcello. Non fu invece mai realizzata la biblioteca che Cesare intendeva costruire per raccogliervi le opere in lingua latina e greca.

Allargò poi il perimetro del pomerium ad un miglio romano (1480 metri) dalle antiche mura.
Per censire la popolazione dispose che fossero i proprietari degli stabili a farlo, portando da 320000 a 150000 il numero dei poveri che beneficiavano del grano dallo stato.
Vietò di giorno la circolazione ai veicoli a ruote, ad eccezione dei carri per processioni e per il trasporto di materiali nei cantieri.

Cesare si dotò inoltre di una zecca personale, che coniava monete ovunque si trovasse, e con la coniazione di monete in oro vi fece imprimere la sua immagine.



LA RIORGANIZZAZIONE DELL'ESERCITO

Giulio Cesare è universalmente considerato il più grande genio militare della storia romana, e probabilmente di tutto il mondo. Seppe stabilire con i suoi soldati un rapporto tale di stima e devozione, da mantenere la disciplina senza violenza. Conoscendo i disagi dei soldati, compensati al congedo con una concessione di terreno, ma che fino a quel momento vivevano con poco, ne raddoppiò la paga, da 5 a 10 assi al giorno, 225 denarii annui.

Stanziò per primo forze militari lungo tutti i confini, in particolare nelle zone più bollenti. Creò le carriere sul merito personale, rafforzando la collaborazione e la professionalità. Istituì un premio per il congedo, di diritto e non più a discrezione dei generali e del senato.

Monte Mario
non è un rilievo isolato ma fa parte di quel rilievo collinoso che in antico, partendo da Ponte Sublicio, arrivava a Ponte Milvio ed era indicato con il nome di Montes Vaticani. Questo rilievo comprendeva il Gianicolo, il Vaticano e Monte Mario. Lo attesta anche Cicerone in una lettera ad Attico, da cui apprendiamo che Cesare aveva intenzione di deviare il corso del Tevere fino alle pendici del rilievo per “abbracciare in un sol tratto continuo tutto il piano del Campidoglio e del Quirinale fino ai Monti Vaticani”. Cesare morì e il progetto non fu realizzato.



LA CONGIURA

Cesare nominò consoli per il 44 a.c. se stesso e Marco Antonio, dando la pretura a Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino. Cassio, deluso perchè voleva il consolato, sobillò i senatori organizzando una congiura contro Cesare. L'appoggiarono molti pompeiani graziati da Cesare e passati dalla sua parte, e anche fidati di Cesare che avevano combattuto con lui.
I congiurati cercarono l'appoggio di Marco Bruto, nipote e devoto di Catone, pur essendo figlio adottivo di Cesare. Per quel principio per cui i grandi si amano e si ammirano o si invidiano e si odiano, Bruto accettò.



LE IDI DI MARZO - LA MORTE

Il giorno delle Idi di marzo, il 15, Calpurnia pregò il marito di restare in casa, ma Cesare, che la sera prima aveva detto, a casa di Lepido, che avrebbe preferito una morte improvvisa alla lenta vecchiaia, sebbene stesse poco bene, fu convinto da Bruto a recarsi in senato, riferendo che tutti i senatori si erano riuniti per nominarlo re.

Cesare uscendo incontrò un indovino, Artemidoro di Cnido, che gli consegnò un libello in cui lo ammoniva del pericolo, ma Cesare non riuscì a leggerlo per la folla che lo attorniava.
Forse l'indovino aveva captato voci sulla congiura, dato che spesso i Romani si rivolgevano agli indovini per affrontare un'impresa. Spesso fattucchiere e indovini e maghetti sanno delle persone più di tanti altri.

Lungo la strada verso il Senato, rac­conta Plutarco, un insegnante di greco di nome Artemidoro, amico di amici di Marco Giunio Bru­to, gli mise tra mano un libello in cui gli denunciava la congiu­ra, di cui qualcosa era trapelato.

Ma Cesare non potè leggerlo. Intanto i congiurati erano già in Senato. Un tale si avvicinò a Casca e gli sibi­lò: "Tu ci nascondi il segreto, Casca, ma Bruto mi ha rivelato tutto", lasciandolo di sasso.

Giunto alla Curia di Pompeo, fu avvicinato dall'aruspice Spurinna, che lo aveva avvisato di guardarsi dalle Idi di marzo. Cesare disse che le Idi erano arrivate e nulla era successo ma Spurinna rispose che non erano ancora finite. E torna in mente lo scetticismo di Cesare di fronte agli indovini, che stavolta però non lo aiutò.

Popilio Lenate si avvicinò a Bruto e a Cassio e disse a brucia­pelo: "Prego perché possiate compiere l'impresa che avete in mente. Vi esorto a far presto. La cosa ormai è risaputa".
In senato prese posto sullo scranno, attorniato dai congiurati che finsero di chiedere favori.
Mentre Bruto intratteneva Antonio fuori dalla Curia, al segnale Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale.
Allora entrambi, narra Plutarco, cominciarono a urlare, Cesare in latino: "Scelle­rato Casca, che fai?". E lui, in greco, volgendosi al fratello: "Fratello, aiutami!".

Cesare si difese co­me una belva ferita, finché Bruto, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amante, lo colpì all'in­guine. e qui Cesare pronunciò le sue ultime parole: - Anche tu Bruto, figlio mio! -
Allora si coprì per morire composto, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrate morente, che la morte è brutta da vedersi. Sembra ricevette 23 pugnalate.

Era il 15 marzo del 44 a.c. Quasi nessuno degli assassini, nota Svetonio, gli sopravvisse più di tre anni e nessu­no morì nel suo letto. La Curia in cui Cesare era stato ucciso venne murata e le idi di marzo proclamate «giorno del parricidio». Né fu più lecito convocare il Senato in quel gior­no.

Cesare cadde, per ironia della sorte, sotto la statua di Pompeo, l'uomo che più di ogni altro gli era stato nemico, ma anche uno degli uomini che aveva stimato di più.



Una curiosità:

Nella chiesa cattolica esiste un San Cesare, e fin qui nulla di strano, ma in alcuni antichi calendari, il nome di San Cesare si leggeva, e si festeggiava, alla data del 15 marzo, data dell'uccisione di Giulio Cesare. Poichè le ceneri di Cesare venivano adorate dai pellegrini con grande scorno del papa, nel 1586, da Sisto V risentito del culto, venne fatto rimuovere l'antico globo dorato e, dichiarato vuoto, venne sostituito con una croce bronzea contenente una reliquia della “Vera Croce”.

Non fa meraviglia che abbiano dovuto anche sostituirlo con un santo cattolico di pura invenzione, anche perchè di questo santo, San Cesare, non c'è alcuna testimonianza, si sa solo che come emblema avesse il bastone pastorale, quindi il bastone del comando, ma magari poteva sostituire il culto di Giulio Cesare.



DISCORSO FUNEBRE DI ANTONIO
DI CASSIO DIONE - STORIA ROMANA

«Se quest’uomo fosse morto da privato cittadino, e anch’io mi trovassi a essere un privato, non avrei bisogno, o Quiriti, di fare un lungo discorso e di enumerare tutte le imprese da lui compiute, ma dopo aver speso poche parole sulla sua ascendenza, sulla sua educazione, sulle sue abitudini e – se fosse stato il caso – anche su ciò che egli avrebbe fatto nell’interesse della Res Publica, avrei potuto terminare il mio discorso, per non annoiare coloro che non avessero avuto familiarità con lui.

Ma siccome egli è morto mentre deteneva il summum imperium su di voi, e siccome io ho ricevuto e detengo il secondo posto di comando, sono costretto a fare un duplice discorso, uno come erede designato, l’altro come console, e a non tralasciar nulla di ciò che è mio dovere di dire, ma a esporre ciò che tutto il popolo ad un’unica voce celebrerebbe – se potesse avere un’unica voce. 

So bene che è difficile esprimere in modo adeguato ciò che voi provate, difficile essere all’altezza di tale compito. Quale discorso potrebbe eguagliare le sue grandi imprese? E voi che siete avidi di ascoltare appunto perché le conoscete, non sarete benevoli giudici del mio discorso. 
Se io mi trovassi a parlare davanti a gente che non l’avesse conosciuto, mi sarebbe molto facile convincerla, sbalordendola con la grandezza delle imprese; ma siccome voi le avete conosciute, è inevitabile che il mio discorso risulti inferiore alla loro grandezza. 

Persone straniere, anche se fossero diffidenti per invidia, accetterebbero, malgrado questa loro diffidenza, tutto ciò che direi; ma voi siete necessariamente insaziabili di ascoltare, appunto perché lo amavate! Voi avete ricavato il maggior vantaggio dalle virtù di Cesare e perciò esigete un elogio di tali virtù non con indifferenza, come cosa a voi estranea, ma con affetto, come cosa che vi appartiene. 

Mi sforzerò dunque di soddisfare i vostri desideri il più a lungo possibile, convinto che voi non giudicherete la mia condotta sulla base della debolezza del mio discorso, ma compenserete con il mio zelo ciò che manca alle mie parole. 

Parlerò innanzitutto della sua stirpe: non voglio dirvi che essa è nobilissima – quantunque il fatto che essere virtuoso non per sol merito personale, ma anche per disposizione ereditaria, influisca non poco sulla natura della virtù. 

Infatti, coloro che non discendono da nobile stirpe possono apparire virtuosi, ma i bassi natali possono talvolta mettere a nudo la loro cattiva natura; quanti invece possiedono un germe di virtù derivante da lontani antenati hanno necessariamente una virtù spontanea e duratura. 

Tuttavia ciò che massimamente io esalto in Cesare non è il fatto che la sua più recente famiglia derivi da molti nobili antenati, e la più antica derivi da re e da dèi; esalto in primo luogo la sua stretta parentale con la nostra città (Cesare, infatti, discende da coloro che hanno fondato Roma!), e poi il fatto che egli non solo ha confermato pienamente la fama che presenta i suoi antenati come uomini accolti tra gli Dei per la propria virtù, ma l’ha anche accresciuta. Perciò, se nel passato qualcuno poteva dubitare che Enea fosse figlio di Venere, adesso ci può credere! 

In passato ci sono stati uomini ritenuti a torto figli di divinità; ma nessuno potrebbe negare che gli antenati di quest’uomo furono dèi! Lo stesso Enea e alcuni suoi discendenti furono re; ma Cesare fu di tanto superiore a loro, in quanto, mentre quelli regnavano su Lavinium e Alba Longa, egli non volle regnare su Roma, e mentre quelli posero le fondamenta alla nostra città, egli l’ha innalzata tanto che è riuscito, tra l’altro, a fondare colonie più grandi delle città sulle quali quelli regnarono. Così dunque stanno le cose riguardo alla sua stirpe....

È mai possibile che un uomo straordinariamente dotato da un fisico eccellente e di uno spirito adatto in massimo grado e allo stesso modo alle operazioni di pace e di guerra e non sia stato allevato nella maniera migliore? Eppure è raro che un uomo bellissimo sia anche particolarmente resistente alle fatiche, è raro che un uomo robustissimo di corpo sia anche particolarmente assennato, ed è molto raro che la stessa persona sia eccellente tanto nel parlare quanto nell’agire. 

E costui lo fu davvero! Parlo davanti a persone che l’hanno conosciuto, così che io non potrei affatto mentire, perché verrei ad essere scoperto come bugiardo, né ingrandire i suoi meriti, perché otterrei proprio il contrario di ciò che mi prefiggo.  

Se io facessi una cosa simile, sarei sospettato, e non a torto, di essere un millantatore, e tutti penserebbero che io avrei fatto apparire il suo valore inferiore al concetto che di esso voi avete. Qualunque discorso fatto su questo argomento, se contenesse anche solo una minima parte di menzogna, non sarebbe per Cesare un elogio, ma piuttosto un rimprovero! 

Gli ascoltatori, avendolo conosciuto, non accetterebbero le menzogne e si rifugerebbero nella verità; così, trovando subito soddisfazione in essa, saprebbero nello stesso tempo quale tipo di uomo egli dovette essere e, confrontando tra loro le due immagini, noterebbero le mancanze. 

Basandomi dunque sulla verità, affermo che Cesare ebbe un corpo adatto a ogni fatica e uno spirito straordinariamente versatile, che poté disporre di incredibili doti innate e che ricevette un’educazione completa e accurata. Per questo è del tutto naturale che comprendesse con il massimo acume ogni necessità e sapesse spiegarla nel modo più convincente; che potesse disporre e regolare le cose nella maniera più saggia; che non si facesse sorprendere da alcuna casualità piombatagli addosso tra capo e collo; che non ignorasse nessun piano segreto riguardante il futuro. 

Egli conosceva ogni cosa prima che venisse compiuta ed era preparato ad ogni imprevisto che potesse capitare; sapeva perfettamente trovar ciò che veniva accuratamente nascosto e nascondere abilmente ciò che era manifesto, fingere di sapere ciò che non sapeva e nascondere ciò che non conosceva, far accordare tra di loro gli avvenimenti e trarre da essi le necessarie conclusioni, e infine portare a compimento ogni cosa, una per una. 

La prova sta nel fatto che nell'impiego del suo patrimonio è stato nello stesso tempo molto economo e generoso, attento nel conservare con cura i propri beni, prodigo nello spendere con larghezza il denaro acquistato, molto affezionato ai parenti, eccettuati quelli del tutto indegni. Non ha trascurato chi si trovava in difficoltà, né ha invidiato l’uomo fortunato, ma ha aiutato questo ad accrescere la sua fortuna e ha fornito a quello ciò che gli mancava, dando a chi denaro, a chi terre, a chi magistrature, a chi cariche sacerdotali. 

Con gli amici e con i consociati si è comportato in modo ammirevole: non ha disprezzato e non ha offeso nessuno; egualmente cordiale con tutti, ha ricambiato i favori ricevuti con doni molte volte maggiori. Si è guadagnato la simpatia degli altri con benefici; non ha umiliato il potente e non ha abbattuto chi s’innalzava, ma era lieto che molti lo eguagliassero, come se attraverso tutti costoro egli stesso acquistasse splendore, potenza e onore. 

In tal modo dunque egli si è comportato con gli amici e i conoscenti. Con i nemici non è stato né spietato né implacabile: ha lasciato impuniti molti di coloro che lo avevano combattuto in guerra, e ad alcuni di essi ha offerto anche cariche e magistrature. Aveva un’innata e profonda tendenza alla virtù; non solo non aveva cattiveria, ma credeva che neppure gli altri potessero averne.

IL DISCORSO DI MARCO ANTONIO

Giunto ormai a questo punto del mio discorso, comincerò a parlare degli uffici pubblici da lui ricoperti. Se egli fosse vissuto appartato, forse non avrebbe potuto rivelare le sue alte qualità; ma essendosi sollevato a grandissima altezza ed essendo divenuto il più potente non solo tra i suoi contemporanei, ma anche tra tutti gli uomini che abbiano mai esercitato il potere pubblico, ha potuto rivelarle nel modo più chiaro.

Quasi tutti gli uomini hanno mostrato, nella potenza, la loro debolezza; Cesare invece si è rivelato ancor più forte. Infatti, intraprendendo imprese corrispondenti alle sue capacità, si è mostrato degno di esse, ed è stato il solo uomo che, avendo ottenuto con il suo valore un così grande successo, non l’ha né screditato né sciupato capricciosamente.

Tralascio le sue splendide vittorie militari e i magnifici spettacoli da lui offerti dei Ludi che gli spettavano di volta in volta, quantunque siano stati tali che basterebbero a dare grande lustro a qualsiasi cittadino. Però, in confronto alle eccezionali imprese da lui compiute in seguito, mi sembrerebbe di occuparmi di inezie se m’intrattenessi su di esse.

Dirò soltanto ciò che ha fatto come magistrato. E neppure in quest’ambito riferirò tutte le cose da lui compiute, perché la mia esposizione non potrebbe essere completa e perché riuscirei molto noioso a voi che le conoscete. Quest’uomo, innanzi tutto, quando fu pretore in Hispania, non permise che quel popolo sedizioso, sotto l’apparenza della pace, si comportasse da nemico. Anziché passare nell’ozio tutto il tempo del suo mandato, ha voluto compiere imprese utili alla nostra patria, e poiché non volevano di propria volontà cambiare condotta di vita, li fece rinsavire loro malgrado.

Egli ha tanto superato tutti i condottieri che nel passato si sono coperti di gloria nelle guerre contro gli Ispanici, quanto il mantenere una posizione è più difficile che il conquistarla, e il far in modo che il nemico non insorga di nuovo, quando le sue forze sono ancora intatte, è più utile che il sottometterlo la prima volta.

Per questo voi gli decretaste il trionfo e lo eleggeste subito console. E apparve in modo assai chiaro che egli non avesse intrapreso la guerra per puro desiderio di combattere, né per gloria personale, ma in considerazione degli eventi futuri. Sarebbe troppo lungo elencare tutto ciò che egli ha fatto in città durante il consolato; guardate poi quante e quali cose ha compiuto da quando lasciò Roma e intraprese la guerra gallica!

Non solo non è stato di peso agli alleati, ma li ha anche aiutati, poiché non nutriva sospetti su di loro, e inoltre vedeva che avevano subito dei danni. Sottomise i nemici, non solo quelli che confinavano con gli alleati, ma tutte le popolazioni che abitano la Gallia, conquistando molti territori e innumerevoli città, delle quali noi in passato non conoscevamo neppure i nomi.

Portò a termine l’impresa così rapidamente, che voi foste informati della sua vittoria prima ancora di sapere che aveva iniziato la guerra: una vittoria così completa da rendere la Gallia un’ottima base di partenza per la conquista della Celtica e della Britannia. E ora la Gallia è sottomessa, quella Gallia che mandò contro di noi gli Ambroni e i Cimbri.

Con la sua intraprendenza e il suo ardire ha conquistato per noi luoghi che non sapevamo che esistessero e di cui non conoscevamo neppure i nomi; ha reso accessibili località prima sconosciute, e navigabili regioni prima inesplorate. Se alcuni uomini, invidiosi della sua fortuna, anzi della vostra, non avessero provocato disordini e non lo avessero costretto a tornare a Roma prima del termine stabilito, egli avrebbe certamente soggiogato tutta la Britannia insieme alle isole che la circondano e tutta la Celtica fino al mare settentrionale, cosicché noi avremmo avuto in avvenire come frontiera non più terre e popoli, ma il cielo e il mare lontano.

Per questo voi, vedendo la grandezza dei suoi piani, le sue imprese e la sua fortuna, gli assegnaste un "imperium perpetuum", voglio dire un imperium di otto anni consecutivi: cosa che non aveva mai ottenuto nessuno, da quando esiste la Res Publica. Tanto eravate convinti che egli aveva realmente conquistato tutte quelle terre per voi, e non sospettavate minimamente che egli potesse usare la sua potenza contro di voi.

Voi volevate che egli si fermasse ancora a lungo in quei luoghi; ma quelli che consideravano la Res Publica come loro proprietà privata e non come cosa di tutti, non gli permisero di conquistare le restanti regioni e vi impedirono di diventarne padroni, ma sfruttando il fatto che Cesare fosse troppo occupato, osarono ordire molte ed empie trame, in modo da costringervi a invocare il suo aiuto.

Per questo motivo, rinunciando ai suoi piani, egli corse subito in vostra difesa e liberò tutta l’Italia dai pericoli che la minacciavano: […] allora fu costretto a intraprendere la guerra civile. E che bisogno ho di dire con quanto coraggio salpò contro Pompeo, benché fosse inverno, con quale ardire lo attaccò, benché fosse padrone di tutti quei luoghi, e con quale valore lo vinse, benché quello avesse un esercito molto più numeroso?

Se uno volesse enumerare uno per uno tutti i suoi atti, dimostrerebbe che quel famoso Pompeo si comportò come un bambino: tanto inferiore si rivelò nell’arte della guerra in tutta quella campagna! Ma non voglio tralasciare quest’argomento: infatti neppure Cesare menò vanto della sua vittoria, maledicendo la dura necessità! Ma dopo che il destino ebbe deciso nel modo più giusto le sorti della battaglia, chi tra i nemici catturati per la prima volta uccise, chi non onorò?

E non solo dei senatori e dei cavalieri e in generale dei cittadini romani, ma anche degli alleati e dei popoli sottomessi. Di costoro nessuno fu ucciso, nessuno fu punito, fosse un privato o un principe; non fu punito nessun popolo, nessuna città. Alcuni si schierarono dalla sua parte, altri ottennero perdono e onori, tanto che allora tutti compiansero i morti.

Ebbe tale eccesso di umanità, che lodò coloro che aveva collaborato con Pompeo, ai quali mantenne tutti i privilegi che avevano ricevuto da lui, e condannò invece il comportamento di Farnace e di Orode perché, pur dichiarandosi amici, non l’avevano aiutato. Proprio per questo fece subito una guerra contro l’uno e si accingeva a farla contro l’altro.

E avrebbe certamente risparmiato anche Pompeo, se l’avesse preso vivo. La prova l’abbiamo nel fatto che non lo inseguì subito, ma permise che fuggisse con suo comodo, e apprese con dolore la sua morte, e poco dopo uccise gli autori della strage, anziché elogiarli, e detronizzò Tolemeo perché, sebbene fosse ancora un ragazzo, aveva permesso che Pompeo venisse ucciso.

Non c’è bisogno che io dica come, dopo quei fatti, egli sistemò gli affari d’Egitto e quante ricchezze portò da lì a Roma. Avendo fatto una spedizione contro Farnace, signore di gran parte del Ponto e dell’Armenia, arrivò contemporaneamente nello stesso giorno la notizia che aveva marciato contro di lui, che era giunto presso di lui, che lo aveva attaccato e che lo aveva vinto.

Come avrebbe infatti potuto vincere così facilmente quella guerra, se non avesse avuto un intelletto sano e un fisico vigoroso? [E dopo che anche Farnace si era dato alla fuga, egli si apprestava a marciare subito contro i Parti; ma, avendo alcuni facinorosi provocato a Roma dei disordini, fu costretto a tornare in mezzo a noi. Qui sistemò le cose in modo tale da togliere ogni timore che vi sarebbero stati altri tumulti.

Però nessuno fu ucciso, nessuno fu esiliato, nessuno fu oltraggiato per ciò che era successo, non perché ci fossero giusti motivi per punire molti cittadini, ma perché Cesare pensava che i nemici vanno uccisi senza pietà, mentre i propri concittadini vanno perdonati, anche se alcuni di essi non lo meritano.

Per questo egli si batté valorosamente contro gli eserciti stranieri, ma fu generoso verso i cittadini turbolenti, anche se fossero indegni della sua generosità per quello che avevano fatto. Si comportò poi allo stesso modo anche in Africa e in Hispania, rimandando liberi tutti quegli avversari sconfitti che non erano già stati da lui una prima volta catturati e perdonati.

Considerava infatti non generosità ma pazzia perdonare uomini che lo avevano varie volte insidiato: era convinto che è dovere di un uomo degno di questo nome perdonare chi ha commesso un primo errore, senza serbare un rancore inconciliabile e concedendo anche onori, e sbarazzarsi di color che permangono ostinati negli stessi errori.

Ma perché sto parlando di queste cose? Egli salvò perfino molti di costoro, dando a ciascuno dei suoi sostenitori e a coloro che lo avevano aiutato per vincere la battaglia la facoltà di salvare uno degli uomini catturati. La prova più convincente che egli ha compiuto tutte queste cose per un’innata bontà e non per ostentazione o in vista di un qualche tornaconto – com’è il caso di molti che fanno il bene proprio per questo – si ha nel fatto che dovunque e in tutte le circostanze si è dimostrato sempre lo stesso: né l’ira l’ha inasprito, né il successo guastato, né la vittoria cambiato, né la potenza modificato.

Eppure è assai raro che un uomo messo alla prova in così numerose e importanti imprese, che si sono susseguite una dopo l’altra – imprese che egli ha già felicemente condotto a termine, o che non ha ancora condotto a termine, o che sa che dovrà affrontare –, si comporti sempre bene e allo stesso modo, senza commettere un’azione violenta o dannosa, se non per vendicarsi di passati torti, allo scopo di premunirsi contro torti futuri. Anche questo è sufficiente per dimostrare la sua bontà.

E che Cesare fosse un discendente di Dei lo mostra il fatto che egli salvava coloro che meritavano di essere salvati, non cercava di far punire da altri quelli che lo avevano combattuto, e sapeva guadagnarsi il favore di chi in passato aveva sbagliato. Fu per questi motivi e per tutta la sua opera legislativa e di ricostruzione, importante per se stessa, ma di scarsa rilevanza rispetto a tutte le altre cose che fece in seguito (che io non ho bisogno di esporre dettagliatamente), che voi lo amaste come un padre, lo aveste caro come un benefattore, lo colmaste di onori mai concessi a nessun altro, e voleste averlo dictator perpetuus della vostra città e di tutto l’Impero.

Foste pienamente d’accordo sui numerosi titoli onorifici da conferirgli, che giudicavate inferiori ai suoi meriti, affinché, se ciascuno di essi, considerato singolarmente e alla luce delle usanze, non fosse sufficiente ai fini della completezza dell’onore e della potenza, potesse essere completato dagli altri. Così lo eleggeste pontifex maximus per gli Dei, console per voi, summus imperator per i soldati, dictator per i nemici. E perché enumerare tutti questi titoli, quando voi, per tralasciare tutti gli altri, lo chiamaste con un solo nome pater patriae?

Ma questo padre, questo sommo pontefice, l’inviolabile, l’eroe, il Dio… ahimè, è morto! È morto non vinto dalla malattia, né disfatto dalla vecchiaia, né ferito lontano dalla sua città in qualche guerra, né rapito all’improvviso da qualche sciagura! Qui, dentro le mura, è stato insidiato l’uomo che aveva felicemente condotto una spedizione in Britannia ed è stato tratto in agguato l’uomo che aveva ampliato il pomerium della città; nella sede del Senato è stato sgozzato l’uomo che aveva costruito a sue spese un’altra sede.

È morto inerme il valoroso guerriero, nudo l’autore della pace, nel tribunale il giudice, nella sede del comando il magistrato; è stato ucciso dai cittadini l’uomo che nessun nemico aveva potuto uccidere, neppure quando cadde nel mare; è stato ucciso dai suoi compagni l’uomo che tante volte aveva loro perdonato. Dove sono finite, o Cesare, la tua bontà e la tua inviolabilità, e le leggi?

Sei stato assassinato spietatamente dagli amici, tu, che facesti tante leggi perché nessuno fosse ucciso dai tuoi avversari! Giaci scannato in quel Foro per il quale tante volte passasti incoronato; sei caduto trafitto dalle ferite su quella tribuna dalla quale tante volte parlasti al popolo! Ahimè, canizie insanguinata, toga lacerata, che tu – a quanto sembra – solo per questo indossasti, perché fossi in essa ucciso!»


LA REAZIONE

Per questo discorso di Antonio il popolo dapprima si commosse, poi si adirò, e infine s’infiammò talmente che corse a cercare gli uccisori di Cesare e condannò i senatori, perché avevano permesso che fosse ucciso l’uomo per cui avevano decretato che s’innalzassero ogni anno preghiere agli Dei e sulla salute e fortuna del quale avevano giurato, e che avevano dichiarato inviolabile come i tribuni.

Dopo di ciò afferrarono la salma di Cesare: gli uni volevano portarla nella Curia dov'era stato ucciso, gli altri in Campidoglio per essere lì cremato. Ma i soldati si opposero per il timore che prendessero fuoco anche il teatro e i templi; allora lo collocarono sulla pira lì nel Foro, dove si trovavano.

(Cassio Dione, Storia romana, XLIV 36-50, 2 (cit. passim), in Cassio Dione, Storia romana (libri XLIV-XLVII), volume terzo (trad. e note di G. Norcio), Milano 2000, pp. 56-81)



IL COGNOMEN CAESAR - ETTORE DI RUGGIERO

Il cognomen Caesar apparteneva a una delle famiglie patrizie della gente lulia, propriamente a quella da cui discendeva il dittatore, e di cui è ricordo sin nel tempo così detto di Romolo (Liv. 1, 16), secondo la tradizione proveniente essa stessa da Enea e trasportata da Lavinium a Roma dal re Tulio Ostilio (Dionys. 3, 29. Tac. ann. 11, 24 cf. Dnunann. Gesch. Roms 8 p. 114 segg.). 

S'ignora quale degli antenati del dittatore sia stato il primo a prendere questo cognome. Sparziano nella vita di Aelius Verus riferisce le varie opinioni che correvano nella stessa antichità, fra cui la più verisimile è, che Caesar siasi chiamato l'avo del dittatore per avere nell'Africa ucciso un elefante, che in lingua punica aveva appunto questo nome; benché storicamente sia dimostrato che non fu l'avo il primo dei suoi antenati a prendere questo cognome (cf. Drumann 1. e). 

Notevole è che nelle monete del dittatore ricorre spesso l'immagine dell'elefante e che sovente egli soleva far mostra di questo animale nelle pubbliche pompe (Cass. 43, 22. Suet Caes. 37). Come parte però della nomenclatura dell'imperatore e della sua famiglia, la parola ebbe una sorte diversa secondo i tempi.

1) Dinastia dei Giulii 

Finché occuparono il trono imperatori della gente patrizia dei lulii, Caesar continuò ad essere il cognome di famiglia, ereditario di quella (Dio Cass. 58, 18), tanto in persona loro, quanto in quella dei loro discendenti agnatizii. v. Angiistiis - Tiberina - Caligola. 

2) Da Claudio a Traiano

Tutti gli imperatori da Claudio a Traiano e i loro discendenti agnatizii assumono la parola Caesar come cognome distintivo della casa regnante, e pei discendenti esso è così proprio, che, se pure manca talvolta nei titoli abbreviati degli imperatori, in quelli non manca mai, come nella lapide (0. 2008): Hercules Saxano et imperatori Vespasiano Augusto et Tito imperatori et Domitiano Caesari M, Vibius Martialis. 

Cosi Caesar ricorre anche in Britannicus, in Calpumius Piflo adottato da Galba (Tac. hist. 8, 86. Dio Cass. 66, 1) etc. V. Clandins - Nero - Galba - Otho - Vespasianns ~ Titns - Domitìanus - Nerya - lYaianns - Hadrianns. L'imperatore Vitellius è Tunico di questi imperatori, che non porta tale cognome (Tac. hist. 1, 62; 2, 62; 8, 58. Suet Vitell.). 

3) Dopo Adriano 

Dopo Adriano d'ordinario Caesar continua a far parte della nomenclatura dell'imperatore, benché talvolta per brevità sia ommesso. Se non che, in persona non dell'imperatore, questo cognome non è più proprio di tutti i discendenti agnatizi di lui, bensì diviene una specie di titolo di colui, che è designato come successore al trono, qualunque sia il rapporto di parentela che lo leghi all'imperatore regnante. 

Adriano, infatti, conferì a tale scopo questo titolo a L. Aelius prima, e, morto costui, poscia ad Antonino; laddove i nipoti L. Verus e M. Anrelins non l'ebbero. Così dopo di lui si vede Antoninus Pius conferirlo a M. Aurelius, M. Aurelius a Commodus e ad Annius Verus (vita Marci 12 cf. vita Commodi 21) e così di seguito, v. Hadrìanus - Antonina Pina - M. Anrelius - L. Vems - Commodns. 

Questo titolo però non conferiva un vero diritto alla successione, ma era una semplice designazione e poteva esser dato anche a minorenni. Esso era dato dall'imperatore, benché il senato avesse potuto impetrarlo, come fu nel caso del figlio di Pertinace (vita Pertin. 6. Dio Cass. 73, 7). Né per conseguenza ad esso era congiunto alcun potere politico. 

Egli è un caso eccezionale che nel secolo HI dei Caesares sieno stati dei conreggenti, senza essere a un tempo Augusti; la loro conreggenza dell'Impero era notata colla tribunicia potestà. Nondimeno congiunto alla qualità di Caesar era il diritto ad alcuni onori, come quello di essere preceduti sulle vie dalle fiaccole e forse anche l'altro di portare la porpora, però diversa da quella dell'imperatore. Inoltre, egli soleva assumere il consolato ordinario al V del Gennaio seguente alla sua nomina a Caesar, quando però avesse avuta l'età necessaria per questa magistratura. 

Così pure non solamente veniva contattato nei collegi sacerdotali maggiori, ma poteva porre la propria immagine sulle monete. Quanto al luogo che occupa la parola Caesar nella nomenclatura imperiale, d'ordinario essa appare nel secolo I dopo il prenome, perchè gli imperatori da Augusto ad Adriano in generale non usano il gentilizio, e prima del cognome o dei cognomi, ove questi sono più. 

I Claudii, invece, che usano il gentilizio, pongono Caesar dopo questo. Galba, Ottone e Nerva non l'usano come primo cognome; così pure non mancano casi, in cui nella persona dello stesso imperatore la regola non è rigorosamente osservata. Cosi a mo' d'esempio Vespasiano nel diploma militare VI (C. Ili 849) si chiama imperator Vespasianus Caesar, laddove negli altri diplomi VII IX e X e quasi sempre si dice imperator Caesar Vespasianus. 

Nel secolo II, specialmente dopo che tornò in nso il gentilizio, Caesar suole stare tra imperator e il gentilizio. Qnando però Caesar indica il designate alla successione al trono, allora sta sempre dopo l'intero nome proprio, per esempio L. Septimius Gela Caesar. 


BIBLIO

- Plutarco - Vite parallele - Vita di Cesare -
- Svetonio - Vite dei Cesari - Vita di Cesare -
- Gaio Giulio Cesare - Le guerre in Gallia - Milano - Mondadori - 1987 -
- Cesare - Commentarii de bello Gallico - libri VII-VIII -
- Cesare - Commentarii de bello civili - libri I-III -
- Renato Agazzi - Giulio Cesare stratega in Gallia - Pavia - Iuculano - 2006 -
- Luciano Canfora - Giulio Cesare - Il dittatore democratico - Laterza - 1999 -
- Antonio La Penna - Gaio Giulio Cesare, La guerra civile - Einaudi - Torino - 1954 - Marsilio - Venezia - 1999 -
- Luciano Canfora - Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Roma, Salerno, 2015 (Collana: «Astrolabio», 12) -
- Edward Gibbon - Remarques Critiques sur les Dignités Sacerdotales de Jules César (1757) -
- Edward Gibbon - Remarques sur les Ouvrages et sur le Caractère de Jules César -
- Andrea Frediani - Le grandi battaglie di Giulio Cesare - Roma - 2003 -
- Thomas Rice Holmes - Ancient Britain and the Invasions of Julius Caesar - Oxford - 1907 -
- Mario Attilio Levi - La Affectatio Regni di Cesare - Torino - L'Erma - 1934 -

20 commenti:

  1. Un grande condottiero, forse il più grande in assoluto, e una mente geniale come poche e come al solito i grandi fanno invidia.

    Fabio

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  2. soprattutto un grande stratega tutti hanno imparato da lui la strategia militare.

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  3. Il più intelligente soprattutto, chissà che avrebbe fatto se l'avessero lasciato campare. Bel blog, bravi

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  4. l'invidia è una brutta bestia che azzanna sempre i migliori.

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  5. il più grande in assoluto, prima e dopo di lui, un ingegno senza uguali. Complimenti per il blog spero prosegua a lungo.

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  6. Pugnalato dalle 22 lettere della stampa di Gutenberg, ... + una del figlio di Roma.
    GRANDE PROFETA, IL DIVINO CESARE!

    Della Grande Storia di Roma, solo frammenti di libri. Tutto è stato sistematicamente fatto sparire, ed anche noi, "figli di Roma", ci uniamo al nemico straniero nel chiamare "paese" la nostra PATRIA (terra dei Padri).

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  7. il piu' grande in assoluto sono d'accordo con gli altri commenti.... un grande fascino che si avverte anche dopo 2000 anni!!! grandissimo Giulio Cesare!! :)

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  8. Il piú grande stratega di tutti i tempi. La battaglia di Alesia é un capolavoro della strategia militare.

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  9. secondo quanto conosco della profezia apocalittica, Giulio Cesare fu la prima testa della bestia, vista in visione dall'apostolo Giovanni. (Apocalisse cap. 13°). E Vespasiano ne fu l'ottava testa. Durante il suo impero il RITORNO DEL CRISTO s'Avverò, e la Nuova Gerusalemme Celeste diventò realtà, per tutti i Credenti. e nulla più.

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  10. W Giulio Cesare, della dinastica giulia claudia, adorato nei secoli dei secoli amen

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  11. allora non vorrei fare gossip però io aspetto un figlio e il padre è giulio.......

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  12. 55 aC. Lo sdegno di Catone NON è per l'eccidio, come scrivete. Lo possiamo leggere in Plutarco. Troviamo detto in modo molto chiaro che a Roma, la vittoria sui Germani viene vista come una buona novella. Non viene percepita come un crimine. L'unica persona che si agita per la notizia, ma soprattutto dalla richiesta della supplicatio, ossia di una serie di grandi celebrazioni in onore della vittoria, è Catone, acerrimo nemico di Cesare. In Senato, che doveva deliberare la supplicatio, Catone si alza in piedi e comincia il suo discorso retorico. Cesare ha violato la tregua! Anche se i Germani hanno violato prima la tregua lui doveva rispettarla. Ha vinto solo perché, violando la tregua, era diventato superiore ai nemici. Consegniamolo ai nemici, per aver violato la parola data! Il Senato chiede chiarimenti a Cesare che risponde con una missiva piena di insulti, dice Plutarco. Dopo che il Senato ha respinto la mozione di Catone, egli, molto pacatamente, dice quello che effettivamente ha in testa. Ovvero che il Senato non deve aver paura dei barbari, ma di Cesare che vuol prendere il potere.

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  13. Non riesco proprio a capire, come, e su quali basi, il ritratto di Tuscolo, possa essere considerato il più fedele ritratto di Cesare. Secondo me non ha alcuna, dico alcuna, somiglianza con la monetazione coeva sicuramente molto più attendibile. Qualcuno può rispondermi? Grazie :)

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  14. Sapere che quest'uomo si annovera tra i miei antenati costituisce per me un grande onore.

    Giulia
    della stirpe dei Cesari
    discendenti di Venere.

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  15. Grazie per l'articolo interessante, una domanda, chissà se qualcuno mi può aiutare: la scultura di Cesare ragazzo, qualcuno sa dov'è collocata? Grazie

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  16. Si trova al British Museum di Londra, saluti.

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  17. Sito magnifico e bellissimo articolo ma vorrei puntualizzare che Ventidio Basso non era nato in uno sperduto villaggio piceno ma era figlio di Publio Ventidio, uno dei migliori condottieri di Caio Vidacilio propretore di Asculum. Ventidio Basso nacque in Asculum, di nobili origini e fu tenuto in casa di Pompeo Strabone con sua madre proprio perché nobile e mostrato in trionfo dal papà di Pompeo Magno dopo la sua vittoria su Asculum. Basso si riscattò facendo il mulattiere e attraverso questo esercizio pote’ avviare il suo «  cursus Honorum ». Si narra che Cesare, dovendo cambiare domus, avesse parcheggiato in casa di Ventidio alcune sue opere artistiche e che questi non volle mai dargliele indietro.

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  18. "Giulio Cesare non fu mai eletto imperatore". Invece, a quanto pare lo fu, almeno secondo Treccani, la quale recita cita alla sua voce "che dopo la vittoria di Munda ricevé dal Senato il titolo di imperator". Per inciso, Cesare rese permanente ed ereditario il titolo di "imperator" che, dic onseguenza, passò poi ad Ottaviano, il quale se lo fece comunque riconfermare dal Senato.

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  19. Grande Giulio ti seguo dai tempi in cui non eri un dittatore

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