LE INSEGNE ROMANE
L'insegna romana, ripresa dalla tradizione etrusca, era composta da un'asta di legno o di metallo, e all'estremità più alta era presente un drappo, solitamente purpureo, e, più in alto, una piccola statua di un animale, in genere di metallo, che raffigurava l'emblema della compagnia. In essa erano di solito raffigurati animali predatori come aquile, leoni, pantere.
L'insegna era l'emblema della legione romana e veniva protetto perché non cadesse in mani nemiche: la sua perdita o distruzione simboleggiava infatti la disfatta della legione.
I Signa più importanti furono: l'aquila, la lupa, il manipolo, il leone, il cinghiale e la pantera.
L' AQUILA IMPERIALE
L'Aquila imperiale ad ali spiegate, con il capo volto a destra era l'emblema dell'Impero Romano.
L'aquila bicefala, anch'essa romana, esprimeva la riunione dei due imperi romani d'occidente e d'oriente.
“le insegne della supremazia, con le quali essi adornano i propri re: una corona d'oro, un trono d'avorio, uno scettro con l'aquila alla sommità, una tunica di porpora con fregi in oro, e un mantello di porpora ricamato....
Gli recarono anche dodici scuri, portandone una da ogni città. Era, infatti, usanza degli Etruschi che il re d’ogni città camminasse preceduto da un littore recante un fascio di verghe e una scure....
Per tutto il tempo della sua esistenza, Tarquinio portò dunque una corona d'oro, indossò una veste di porpora ricamata, tenne uno scettro d’avorio, sedé su un trono eburneo; e dodici littori, recanti le scuri con le verghe, gli stavano intorno se amministrava la giustizia.”
I Romani dunque già conoscevano l'aquila etrusca, nonchè i fasci littori, il mantello di porpora e la scure.
Sallustio narra che Caio Mario, lo zio di Cesare, usò per la prima volta l'aquila come insegna nella guerra contro i Cimbri, confermato da Plinio, per cui Mario, al tempo del suo secondo consolato nel 103 a.c., adottò l'aquila come insegna delle legioni, assegnandone una a ciascuna legione.
Da allora l'uso rimase, e l'aquila fu in argento in età repubblicana (con le saette in oro tra gli artigli), e in oro o placcata oro durante l'impero, ma si sa che c'erano anche aquile di bronzo.
La perdita dell'aquila (il cui portatore era detto aquilifer), oggetto di vera e propria venerazione da parte dei soldati, poteva causare lo scioglimento dell'unità, come fosse la perdita dell'intero reparto, in quanto anima della legione.
Mario la favorì rispetto agli quattro animali fino ad allora, e con essa, utilizzati come insegne:
- il lupo,
- il minotauro,
- il cavallo,
- il cinghiale.
- L'Aquila fu sempre considerata, anche nel medioevo, come simbolo dell'impero, e alla sua fedeltà per esso.
L’aquila imperiale, scelta da Carlo Magno per il Sacro Romano Impero, ad imitazione dell’aquila romana, fu ripresa nel sec. XI dagli imperatori tedeschi che, ritenendosi eredi di Roma, la riprodussero sulle loro armi.
Divenne quindi simbolo di concessione imperiale e indicò il partito antipapale nella lotta delle investiture.
La troviamo negli stemmi dei Savoia fin verso la metà del sec. XIII, poi anche come Aquila Bicipite, a due teste, allusione al duplice impero d'Occidente e d'Oriente, usata, fino ai nostri giorni, delle case imperiali d'Austria e di Russia, pretendenti appunto l'una all'eredità del Sacro Romano Impero e l'altra a quella dell'impero bizantino.
Alla fine del sec. XIII l'Aquila sveva fu l'emblema nazionale italiano in opposizione ai gigli di Carlo d'Angiò.
Enrico VI aveva uno scudo d'oro con l'aquila nera.
Nel 1402 l’imperatore Sigismondo stabilì che l’aquila fosse bicipite per rappresentare il duplice potere dell’imperatore e del pontefice.
Dal 1433 il drappo giallo-oro con l'aquila fu il vessillo imperiale e dal 1438 per tre secoli si identificò con quella degli Asburgo e dell’Austria.
Dopo il 1740 la casata si trasformò in Asburgo-Lorena, la bandiera fu mantenuta, ma quando nel 1786 l’Austria ne ebbe una sua, sopravvisse come emblema di secondaria importanza fino al 1806.
Fu adottata sullo stendardo del Regno Italico nel periodo 1805-1814, un'aquila imperiale a volo spiegato col capo rivolto a sinistra.
L’aquila, rielaborata, continuò a figurare sullo stendardo dell’imperatore d’Austria e su bandiere militari, con unica testa volta a sinistra.
Venne adottata come insegna anche in Prussia, Poloniae Russia.
L'Aquila imperiale francese, fu l'Aquila romana adottata da Napoleone Bonaparte e pure dal secondo impero francese, con il capo volto a sinistra.
La Spagna ha la stessa Aquila imperiale ma con la testa rivolta a destra.
Oggi l'aquila di mare con la testa bianca è l'emblema degli U.S.A. (Stati Uniti d'America).
Viene quasi sempre rappresentata di faccia, con le ali spiegate o talora abbassate, con la testa voltata generalmente a destra.
La più antica era di colore naturale; in seguito fu anche rossa, azzurra, argento, oro.
Diversa è l'Aquila bicipite, a due teste uscenti da un corpo solo, l'una a destra e l'altra a sinistra. Derivata dall'Aquila romana, se ne attribuisce la creazione a Costantino.
In origine rappresentava gli imperi d'Oriente (Aquila oro su campo rosso) e d'Occidente (Aquila nera su campo oro); e passò la prima alla casa imperiale di Russia, pretendente all'eredità dell'impero bizantino, e la seconda agli Asburgo, come eredi del Sacro Romano Impero.
Costituisce ancor oggi lo stemma nazionale dell'Austria e della Polonia (bianco in campo rosso).
Molti ordini cavallereschi trassero il nome e le insegne dall'Aquila, come l'ordine polacco dell'Aquila Bianca, creato nel 1325 dal re Ladislao IV, scomparso e ristabilito dal 1921 al 1939 come primo ordine nazionale polacco; quello dell'Aquila Nera, primo ordine reale prussiano, fondato da Federico I nel 1701, divenuto poi ordine supremo dell'Impero Tedesco, l'ordine prussiano dell'Aquila Rossa, istituito nel 1705 dal principe ereditario Giorgio Guglielmo di Bayreuth come ordine della Sincerità e divenuto nel 1790 col nuovo nome secondo ordine reale prussiano.
L'Ordine dell'Aquila romana fu un ordine cavalleresco sia del Regno d'Italia che della Repubblica sociale Italiana. L'Aquila è anche un importante simbolo religioso: in Grecia era l'uccello di Zeus e suo messaggero. Nelle pitture cristiane ricorre come simbolo dell'evangelista Giovanni. Per la Chiesa, in tutto il Medioevo, simboleggiò la resurrezione e specialmente l'ascensione spirituale a Dio.
LA LUPA
Le fonti antiche parlano di due statue bronzee della Lupa, una nel Lupercale, citata nel 295 a.n., quando i due edili Olgunii le aggiunsero una coppia di gemelli, l'altra nel Campidoglio dove Cicerone riporta che la lupa venne colpita da un fulmine nel 65 a.c. e da allora non venne riparato. La lupa in bronzo ospitata oggi nei Musei capitolini sembra sia stata realizzata tra il X e il XIV secolo, non etrusca del V sec. o III secolo a.c., come si pensava.
Ma per altri la lupa è del IV sec. e i gemelli del XIV sec. Avendola noi osservata da vicino, dalla posa, la tensione muscolare accentuata e i particolari del pelo che sembrano ricamati, diciamo che fa pensare fortemente alle magnifiche maestranze etrusche, che abbondavano a Roma.
La statua passò nel 1471 nella chiesa di San Teodoro, donata poi da Sisto IV della Rovere al "popolo romano" e da allora si trova nei Musei Capitolini, nella Sala della Lupa.
La scultura rappresenta una lupa che allatta una coppia di piccoli gemelli, Romolo e Remo, aggiunti però nel XV sec., forse da Antonio del Pollaiolo. In un'incisione su legno delle Mirabilia Urbis Romae (Roma, 1499), appare già con i due gemelli.
Sul colle del Palatino, durante scavi archeologici, sarebbe stato ritrovato il lupercale, locale sotterraneo a cupola di epoca romana, a circa 15 metri dalle fondamenta della villa di Augusto.
Tale struttura sarebbe identificabile con la grotta-santuario dove i due leggendari figli di Marte e Rea Silvia, sarebbero stati allattati dalla leggendaria lupa.
"La lupa, presso gli Etruschi, raffigurava il Dio degli Inferi, Aita, mentre il lupo era anche il simbolo di un dio purificatore, e fecondatore, Soranus, venerato sul monte Soratte dai Sabini. Ma tra i Sabini la lupa era animale sacro a Mamers, analogo al dio Marte dei Romani che, secondo la tradizione, era padre dei gemelli, e per questo la lupa aveva l'attributo di Marzia. Inoltre l'animale tutelare dei Latini era Luperco, dal termine sabino hirpus per "lupo", quindi pur apparendo come lupa, l'animale poteva essere Luperco, dio dei pastori e protettore delle greggi dai lupi, in nome del quale erano celebrate le feste dei Lupercalia, il 15 febbraio."
Questo si racconta ma in realtà la lupa che allattava era una Dea, difficile pensare a un Dio che allatta. La Dea lupa era l'antica divinità della natura, la Grande Madre, le cui sacerdotesse, in nome della fecondità della Dea, professavano la ierodulia, o prostituzione sacra, intorno ai laghi vulcanici dei Castelli Romani.
Infatti a Nemi si bagnavano ogni anno con un rituale sacro che le faceva tornare vergini. Del resto presso gli antichi il termine virgo non indicava la donna illibata, ma colei che è forte e non si fa sottomettere, infatti per l'illibata usavano il termine virgo intacta.
Dalla Dea Lupa deriva inoltre la parola Lupanare, ossia postribolo, per il verso della lupa delle meretrici per attirare i passanti, retaggio della ierodulia abrogata che si trasformò in laica prostituzione.
Anticamente le sacerdotesse ululavano alla luna in nome della Dea. I Lupercali erano antecedentemente dedicati alla Dea Lupa, poi con l'avvento del patriarcato la Lupa divenne Luperco.
L'episodio dell'allattamento della lupa, narrato per la prima volta nel III secolo a.c. dallo storico greco Diocle di Pepareto e, sulla sua scia, dall'annalista romano Quinto Fabio Pittore, dimostra che aldilà dell'epoca della lupa di bronzo, la sacra Lupa esisteva come divinità.
La lupa comunque è giunta fino a noi, superando invasioni barbariche e incuria medievale, anche se un fulmine la colpì nel 65 a.c. sbriciolando i due gemelli.
Nel Medioevo fu collocata al Laterano, all'esterno della Torre degli Annibaldi, su una base di pietra sostenuta da grappe infisse nel muro, finchè Sisto IV, ritenendola piuttosto pagana, la donò ai Conservatori, con 10 fiorini d'oro per il rifacimento dei due gemelli.
Questi vennero infatti fusi da Antonio Pollaiolo nel 1473 e la Lupa fu collocata sotto il portico del Palazzo dei Conservatori fino al 1538, quando venne spostata sopra il colonnato che decora il pianterreno, a metà della facciata.
Infine, nel 1586, fu installata su un piedistallo al centro della stanza detta "della Lupa", dove è ancora oggi. Una copia è in una sala del Palazzo di Montecitorio e un'altra, all'aperto, su una colonna lungo il fianco sinistro del Palazzo Senatorio sul Campidoglio.
In base alla tecnica fusoria si dice che la lupa sia medievale, è fusa infatti in un unico pezzo mentre nell'antichità si fondevano le statue in vari pezzi e poi si assemblavano, ma esistono pure grandi fusioni a pezzo unico, come i bronzi di Riace. Si opta per la data più recente soprattutto perchè non è precisa e ritoccata come le statue più antiche, ma è tutto da vedere, perchè eminenti archeologi come il Calandrini, sostengono che somigli molto alle fusioni etrusche, anche per la componente in lega.
In Etruria il racconto dell’allattamento di un fanciullo da parte di una lupa o di una leonessa è documentato almeno dalla fine del V secolo a.c. attraverso il noto cippo funerario di Bologna.
Il bronzo antico, con i gemelli aggiunti in secondo tempo, si è rivelata un'opera di grandissimo impegno artistico, il cui significato civico e sacrale non può che essere ricondotto alla leggenda della fondazione.
L’immagine conservata nella grotta del Lupercale, che Dionigi di Alicarnasso nel I sec. d.c. ricorda di carattere molto arcaico, sopravvisse dopo i lavori compiuti in età augustea almeno fino al V secolo d.c., allorché in seguito alle proteste di papa Gelasio I (492-496 d.c.) la festa dei Lupercalia fu abolita e sostituita con la festività della Purificazione della Vergine.
Eliano - De natura animalium:
" Raccontano dunque che Latona, dopo aver partorito questo Dio, si sia trasformata in una lupa; ed è per questo che Omero, a proposito di Apollo, usa l'espressione “il famoso arciere nato da una lupa”. E ciò spiega anche perché, a quanto mi risulta, c'è a Delfi una statua di bronzo che rappresenta un lupo, in riferimento al parto di Latona. "
Il che fa pensare a un'antica Dea Lupa.
Da non dimenticare, come racconta Polibio, che ii velites, fanteria leggera romana, indossavano sopra l'elmo una pelle di lupo, il che rimanda molto a una veste di battaglia tribale, in cui lo spirito del lupo animava il combattente.
I sacerdoti Sallii, alle idi di marzo, solevano portare in processione gli scudi della Ninfa Egeria, poi diventati scudi di Marte, per le vie di Roma vestiti con pelli di lupo. Una caratteristica del patriarcato fu quella di togliere, ma non del tutto, la veste "aggressiva" delle divinità femminili dandola ai soli Dei maschi, mentre i popoli più antichi vedevano la natura e le conseguenti divinità, distruttive oltre che creative non per malvagità ma per loro natura, come appunto la natura stessa. Per questo gli scudi passarono da Egeria a Marte, e per questo Marte già Dio dei giardini e pure guerriero divenne guerriero irruento e basta.
Nel IV secolo a.c. vi erano nelle legioni romane degli araldi portatori di totem. Se da Cesare in poi si usò spesso nella legione l'immagine dell'animale che rappresentava il segno zodiacale del dux o dell'imperatore (segno zodiacale che veniva calcolato sulla luna e non sul sole), è da considerare che in realtà tali animali rientravano nel culto dei totem che tutte le società primitive hanno avuto.
L'animale totemico per un popolo guerriero doveva avere qualità piuttosto aggressive, come il lupo, che ha la qualità di aggredire in branco, come appunto la legione romana. Oppure come l'aquila che regnava alta nei cieli fino a sfiorare gli Dei, ma che sapeva calare velocissima sulla preda e farla sua. Oppure come il cinghiale, aggressivo e possente, pronto a colpire e azzannare chiunque gli ostacolasse la strada, o il cavallo dall'aspetto nobile e fiero, capace di grande slancio e velocità.
IL MANIPOLO
L'importanza e la diffusione maggiore delle insegne si ebbe con i Romani, popolo guerriero e conquistatore, che nel signum vedeva il simbolo della milizia, della sovranità e della patria.
Un manipolo sulla punta di una lunga pertica era l'insegna dei primi romani nei leggendari tempi di Romolo.
Il manipolo, o mannello era un fascio di spighe, o di erba, issata su una pertica. Da questa insegna derivò il manipolo come unità tattica della legione romana, che si sviluppò dal IV secolo a.c. e durò per tutta la repubblica. Secondo la tradizione, la tattica manipolare fu introdotta nell'esercito romano da Marco Furio Camillo.
Eutropio - Breviarium ab Urbe condita:
"Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, col pretesto di ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero.
Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria."
Più tardi il manipolo fu sostituito dalla "Lupa" e a volte da un cavallo o da un cinghiale. Poi fu la volta della mano aperta di bronzo sulla punta di un'asta e sotto vi erano dei piccoli tondi che ospitavano i nomi del corpo e dei capitani o le immagini degli dei tutelari.
Quando l'esercito romano crebbe di numero e potenza, ogni legione e centuria ebbe come insegna l'aquila con le ali aperte con un fascio di fulmini d'oro, d'argento, bronzo o ferro. Un distintivo speciale lo ebbe la cavalleria romana, il vexillum, un drappo in cima ad una picca che ritroviamo negli stendardi dei futuri reggimenti di cavalleria.
I Romani avevano la massima venerazione e rispetto per le insegne che in tempo di pace custodivano con grande cura. Gli imperatori, nei combattimenti, secondo un uso iniziato da Tiberio, facevano portare davanti a loro il labaro, un'insegna di porpora quadrata appena a una lancia. Costantino, dopo la famosa visione che gli predisse la vittoria su Massenzio, fece apporre sul suo labaro la croce con le lettere greche incrociate "XP" con le parole "In hoc signo vinces", labaro che divenne poi insegna cristiana.
Il gonfaloniere di epoca medievale seguitò a lungo a portare, sia in pace che in guerra, lo stendardo della libertà romana sul quale erano impresse le lettere S.P.Q.R. (Senatus Populusque Romanus).
IL VESSILLO
Il vexillum aveva come portatore un soldato con carica prestigiosa di vexillifer, ed era era un altro simbolo della legione, ma anche un'antica insegna delle ali di cavalleria, e pure dei distaccamenti talvolta eterogenei detti vexillationes. Era una sorta di labaro di colore rosso e di forma quadrata e aveva ricamato con il colore oro il nome o il numero del reparto o un simbolo zoomorfo o altre figure. Con questo nome era anche indicato il drappo rosso che veniva alzato sul padiglione di comando nell'imminenza di un combattimento.
Ampie testimonianze dai reperti ritrovati in terre soprattutto straniere:
- Vessillo di lino, alto cm 47 e largo cm 50, ritrovato in Egitto, con traccia della frangia all’estremità inferiore, al bordo superiore è orlato e contiene al suo interno una canna di palude. Lo sfondo rosso riporta al centro, dipinta, la Vittoria sopra un globo, che tiene nella mano destra una corona d’alloro e nella sinistra un ramo di palma; ai quattro angoli presenta dei disegni a “L”, tipiche decorazioni dette gammadia dalla forma della lettera gamma. Fine II inizio III sec. d.c.
- Punta di bronzo dal campo della Cohors XXIIII Volontariorum Civium Romanorum, di stanza in Germania; nel foro centrale veniva infilato un legno trasversale alle cui estremità era fissato il vessillo del reparto; altezza del reperto cm 25,4, larghezza cm 11,7.
- Supporto di bronzo, con ai lati le raffigurazioni di Marte e Minerva, proveniente dal campo della Cohors XXIIII Volontariorum Civium Romanorum, di stanza in Germania, nel foro centrale tracce di un legno trasversale alle cui estremità era fissato il vessillo del reparto; altezza del reperto cm 13,6, larghezza cm 7,6.
- Parte dell’insegna in argento e bronzo della Cohors VII Raetorum di stanza in Germania, dove il reperto è stato rinvenuto, probabilmente perso durante gli scontri sul Reno del 259-260 d.c.
- Parte di un’insegna a medaglione in argento dorato (diametro cm 19) rinvenuta in Germania, Raffigurante Tiberio armato di lancia, che sovrasta i barbari vinti. Probabilmente perso anch'esso sul Reno.
IL SIGNUM
Anche coorti, manipoli e centurie avevano un numero e un nome. Ogni coorte era numerata da I a X e talvolta aveva anche un nome; i manipoli erano numerati da I a III per ogni coorte, mentre le centurie erano distinte dal numero I o II a seconda se fosse la prima o la seconda centuria del manipolo e dal nome del suo centurione. Un soldato che combatteva nella legione apparteneva per esempio alla: Legio I Italica, III cohort, I Manipolus, Caenturia secunda.
Sotto l'emblema, sull'asta di ogni reparto, figuravano: le decorazioni al valore, segni connotativi o sull'origine dei militari, o altro. Ogni manipolo aveva due portainsegna, uno per centuria, e le coorti legionarie erano rappresentate da una delle tre insegne manipolari.
Altri tipi di signum delle Cohortes e delle Alae di ausiliari erano simboli di animali in cima all'asta. Le insegne di un reparto comunicavano ai soldati in battaglia le posizioni da tenere e le manovre; per cui avevano anche un compito pratico in battaglia.
Reperti:
- Esemplare di signum in bronzo, della Cohors I Tungrorum, rinvenuto in Inghilterra presso il forte di Vindolanda; una base tronco conica alla cui sommità è rappresentato un cavallo, è alto cm 15, compreso il piedistallo. Nonostante il suo simbolo fosse un cavallo, la Cohors I Tungrorum era una coorte a piedi.
- Reperto simile al precedente, raffigurante un leone. La base è esagonale.
SIGNA SUPRA STELAS - (segni sopra alle stele)
Sono i Segni di stele funebri o commemorativi, il che dimostra quanto i soldati tenevano ai signa si da inciderli sulle lapidi mortuarie. Alcuni esempi:
- Tre vessilli affiancati; quello centrale sormontato da un’aquila ad ali chiuse, gli altri due sormontati da una mano sopra una sfera. Tutte e tre le insegne presentano la corona dall’alloro sotto il vessillo e la maniglia per sorreggere l’asta. Compare nel “sarcofago di p.za Matteotti”, custodito presso il Museo Lapidario Estense di Modena. Dalla parte opposta del sarcofago, un’aquila che stringe le saette tra gli artigli.
- Rilievo lapideo raffigurante tre stendardi con aquila e mani, pluridecorati con coronae, phalerae, lune crescenti, rostro di nave e frange.
- Epigrafe dedicata a M.Pompeio Aspro, pluridecorato centurione della Legio XV Apollinares e già centurione della Cohors III Praetoria, della Legio III Cyrenaica e praefecto castrorum della Legio XX Valeria Victrix. Al centro un’aquila, ai lati stendardi decorati con aquile, falere, corone e lo scorpione, simbolo delle coorti pretoriane.
- Stele di età augustea di Quintus Sulpicius Celsus, prefetto della Cohors VII Lusitanorum: l’aquila sopra una corona turrita, una phalera, le frange e a lato un vessillo.
Anche lo status di aquilifero e vessillifero inorgogliva il romano si da riportarlo sulle stele:
- Stele funebre di Lucius Sertorius Firmus di Verona, aquilifero della Legio XI Claudia Pia Fidelis; l’aquila ha le ali alzate e i fulmini tra gli artigli.
- Stele funebre di Gnaeus Musius di Veleia, aquilifero della Legio XIV Gemina; aquila con ali alzate e corona, e fulmini tra gli artigli.
- Stele funebre di Quintus Carminius Ingenuus signifero dell’Ala I Hispanorum, I sec. d.c. ; lancia decorata con pendagli.
- Stele funebre di Genialis, imaginifero della Cohors VII Raetorum. Nella mano del soldato l’imago dell’imperatore; sulla spalla la pelle ferina.
SIGNA IMPERATORIA
Rinvenute a Roma sulle pendici del Palatino nel 2005 e attribuite all’imperatore Massenzio, probabilmente occultate nella battaglia di Ponte Milvio del 312 d.c., con la sconfitta e la morte di Massenzio ad opera di Costantino.
Sono costituite da tre scettri, tre punte di lancia da parata e quattro punte di lancia portastendardo, tutto avvolto negli stendardi di lino e seta. Le punte in ferro erano inoltre custodite in astucci di pioppo e prive delle aste che venivano montate all’occorrenza.
Uno degli scettri era fornito di due globi in vetro giallo-verde, mentre un’altra sfera di vetro verde sostenuta da una corona di petali, appartiene allo scettro piccolo, che presenta nel manico tracce di oro in foglia.
Una quarta sfera forata, in calcedonio azzurro, andava fissata su un’asta di legno conica.
Le due punte di lancia da parata a sei lame, contornate da corona di petali, sono in ferro e oricalco. La base esagonale è quella delle aste portasignum militari.
Nel 2005 la scoperta più sorprendente degli scavi iniziati nel 2001.
PUNTO DEL RITROVAMENTO |
Questi furono identificati come i resti delle insegne di un imperatore: le parti di tre scettri (sceptra), le punte di quattro lance da parata (hastae), le punte di tre lance portastendardo (vexilla).
Questi oggetti erano originariamente avvolti nelle stoffe di seta e lino degli stendardi e protetti da astucci in legno di pioppo, ma di tutto questo restano solo frammenti.
Lo Scettro di Massenzio
Lo scettro di Massenzio ed altri reperti venuti alla luce di recente a Roma ha già ricevuto una degna sistemazione nel museo nazionale.
Sormontato da un globo blu che rappresenta la terra, lo scettro si ritiene appartenesse all’imperatore Massenzio, che regnò solo sei anni sino al 312 dc.
"Massenzio" riporto direttamente dal testo originale "che era noto per i suoi vizi e per la sua incapacità, affogò nel Tevere combattendo le forze leali a suo cognato Costantino, nella battaglia presso il ponte Milvio."
Gli scettri, spesso lunghi 70 o 110 cm, erano bastoni di avorio sormontati da un globo o un’aquila e furono introdotti da Augusto come simbolo della potenza di Roma. Essi erano impugnati dagli imperatori durante le sfilate nelle carrozze per celebrare le vittorie militari.
Lo Scettro di Massenzio
Lo scettro di Massenzio ed altri reperti venuti alla luce di recente a Roma ha già ricevuto una degna sistemazione nel museo nazionale.
"Massenzio" riporto direttamente dal testo originale "che era noto per i suoi vizi e per la sua incapacità, affogò nel Tevere combattendo le forze leali a suo cognato Costantino, nella battaglia presso il ponte Milvio."
Gli scettri, spesso lunghi 70 o 110 cm, erano bastoni di avorio sormontati da un globo o un’aquila e furono introdotti da Augusto come simbolo della potenza di Roma. Essi erano impugnati dagli imperatori durante le sfilate nelle carrozze per celebrare le vittorie militari.
E’ da sottolineare che, mentre gli imperatori spesso venivano rappresentati sulle monete o nei dipinti in atto di impugnare lo scettro, nessun esemplare originale era mai stato scoperto sino allo scorso anno, come ha dichiarato Angelo Bottini, il sovrintendente al dipartimento di archeologia di Roma.
IL PASSO ROMANO
Chiamato dai Romani "Militaris gradus", era un passo militare romano da parata doppio del passo di marcia normale, con cadenza di 120 passi al minuto a suon di tamburo. C'era poi il "Plenus gradus", cioè l'andatura più fiera delle legioni quando sfilavano davanti all'Imperatore, tendendo le gambe rigide e facendo battere poderosamente sul terreno i talloni dei calzari.
Il famoso passo militare fu descritto nel IV secolo da Publio Flavio Vegezio, nell'Epitoma rei militaris, in cui raccolse le opere precedenti di Catone il Censore, Varrone, Aulo Cornelio Celso, Paterno, Frontino, nonchè leggi e regolamenti emanati da Augusto, Traiano e Adriano.
Nel tomo veniva descritto sia il Militaris gradus che il Plenus gradus, e da questo "passo romano" fu preso il passo dell'oca, meno faticoso ma anche meno sonoro di quello romano perchè di 100 passi al minuto, scanditi anch'essi dai tamburi.
Una pratica difficile da eseguire, che richiede un addestramento speciale, spesso eseguito in piccoli gruppi affinché i soldati non si feriscano.
Difficile, anzi impossibile, eguagliare la disciplina e la forza dei soldati romani del primo impero, che basavano la vittoria in guerra su disciplina, allenamento e obbedienza ai superiori.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il passo romano, ribattezzato Passo dell'oca venne conservato in forma ridotta nella Repubblica Democratica Tedesca: infatti, la punta del piede arrivava soltanto fino all'altezza del ginocchio e per questo tipo di esecuzione fu trovato il nome di Exerzierschritt.
Lo scopo di questo passo è quello di ostentare forza e disciplina, tanto che viene usato di solito dai regimi totalitari. Fu adottato dall'esercito tedesco e pure da quello italiano fascista del 1938 nel corso di una parata militare tenuta davanti al Colosseo.
Ma è stato adottato, sempre in versione ridotta, pure dalla Federazione Russa e dalla Russia Bianca, dal Vietnam, da Cuba, dalla Cina, dalla Corea del Nord e dal Cile.
I FASCI LITTORI
Strabone scrisse:
"Si dice pure che da Tarquinia furono trasportati a Roma gli ornamenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani.”
A Tarquinia, littori con fasci si vedono su fregi di sarcofagi e di pitture parietali di tombe. A Vetulonia nel 1898 si rinviene, nella Tomba del Littore del 600 a.c., un fascio di ferro ossidato composto da un gruppo di verghe unite insieme con in mezzo un’ascia a doppio taglio.
Il che fa capire che l'ascia originaria è la bipenne, non ascia da battaglia nè da falegname, ma il simbolo cretese ed etrusco della luna calante e crescente, il simbolo della Grande Madre, la natura che si alterna nelle sue fasi di crescenza e decrescenza, con morte e rinascita della vegetazione. Colei che dà la vita, la taglia e la fa risorgere.
Il fascio littorio era un fascio cilindrico di verghe di betulla bianca, oppure di olmo, a simboleggiare l'unione, con infissa un'ascia di bronzo, strumento di azione, per tagliare le verghe per unirle coi fasci (fasces), nastri rossi che legavano le verghe. Ad esclusione del dictator, tutti gli altri magistrati potevano portare le asce infisse nei fasci solo al difuori del pomerium, il posto sacro dove governavano solo gli Dei.
Siccome il pomerio in età imperiale era Roma tutta, cioè dentro le mura, ne conseguiva che tranne il dictator nessuno poteva colpire all'interno della città. Le asce infatti divennero simbolo di difesa contro gli attacchi nemici e non contro i cittadini.
Il fatto che il dictator potesse portare l'ascia deriva dal fatto che il dictator veniva proclamato solo in caso di guerra o pericolo grave, e in questa fase il dictator diventava il capo dell'esercito, che poteva ordinare di riunirlo in qualsiasi momento, anche dentro l'urbe, per questo aveva il simbolo dell'ascia.
Altra leggenda da sfatare: che il fascio servisse come frusta, la realtà era che in caso di fustigazione dei soldati per comportamento scorretto o oltraggioso, la fustigazione si faceva con un ramo pieghevole come la betulla, e non c'è ramo più pieghevole della betulla a parte il giunco, proprio per non arrecare un danno grave al fustigato. Se poi fu usato con riferimento al fascio è possibile, ma il fascio non esprimeva questo. Purtroppo spesso un simbolo viene demonizzato per l'uso ingiusto che altri successivamente ne hanno fatto.
I fasci venivano inoltre portati da soldati eroici feriti in battaglia durante le cerimonie dei trionfi. Ma in occasione di riunioni politiche o funerali i fasci potevano essere dati anche a cittadini particolarmente meritevoli.
La nascita fascio littorio, secondo la narrazione, risale alla fondazione di Roma, al tempo di Romolo. Si racconta che in una gola del Colle Capitolino sorgeva il tempio di Vejovis, una divinità ctonia raffigurata con un fascio di frecce nella mano destra.
In effetti nel 1939, durante gli scavi sotto Piazza del Campidoglio, si scoprì un antico tempio con statua del giovane Dio degli inferi Veiovis, versione antica e italica di Giove, si disse, ma che aveva che fare un Dio degli inferi, accompagnato da una capra, con il Dio degli Dei e dei fulmini? Forse, come detto da alcuni, era un Marte Ultore, oppure un Apollo scagliatore delle frecce della pestilenza come il Febo omerico.
Il fascio littorio fu istituito da Romolo, il quale a sua volta lo prese dagli Etruschi. Romolo, per ricordare i dodici uccelli augurali che profetizzarono il suo regno o i dodici popoli che lo formarono, durante le cerimonie si faceva precedere da dodici littori armati di fascio, i quali erano gli esecutori della giustizia.
Il fascio, contrariamente a chi lo vede come simbolo punitivo, è simbolo di concordia e fraternità ed ha un'altra leggenda: un padre, sul punto di morire, chiamò i suoi numerosi figli e ordinò che ciascuno prendesse una verga e la spezzasse in sua presenza.
I figli obbedirono e le verghe furono spezzate. Il padre ordinò di prendere ancora una verga per ognuno di loro e di legarle tutte in un solo fascio, invitando i figli a spezzarle nuovamente, ma nessuno vi riuscì. Il padre a questo punto disse loro: "Siate voi come questo fascio di verghe, sempre uniti e concordi e trionferete in ogni disavventura".
Il numero dei littori era così ripartito per le varie cariche:
Il simbolo del fascio negli USA si trova nel simbolo del Senato federale o inciso sopra la porta dello studio Ovale del Presidente. Compare anche nello stemma dell'Ecuador, della Francia, del Camerun, quello del cantone svizzero di San Gallo, del comune francese di Villejuif, del comune tedesco di Legau e quello della Polizia norvegese.
In Italia compare verso la fine del XIX sec. con i "Fasci siciliani", un movimento di lavoratori della terra che si batteva per i loro diritti. Poco prima della I guerra mondiale, sorse nel 1914 i "Fasci d'azione rivoluzionaria", dal precedente "Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista".
Nel 1917 nasce il "Fascio parlamentare per la difesa nazionale". Nel 1918 il fascio di difesa nazionale ottiene consensi di destra e di sinistra. Segue il "Fascio nazionale italiano", il "Fascio romano per la difesa nazionale", la "Federazione dei Fasci di resistenza". Il Fascismo prese nome appunto dai fasci.
VESTE BIANCA E MANTELLO ROSSO
Dionigi di Alicarnasso racconta che uno dei segni regali dei lucumoni etruschi era il mantello di porpora. Il sagus rosso, la divisa del soldato romano, era un mantello rettangolare, legato da una fibbia e indossato sopra l'armatura.
Nella simbologia romana i colori rosso (o porpora) e bianco (candidus), rappresentano Marte e Giove. Il rosso indica l'ardore e il sacrificio, l’offerta volontaria della propria vita per la Patria Romana. Il bianco indica lo ‘IVS’, il giudizio, la giustizia, il giuramento. Infatti i magistrati e i membri di Senato ed Ordine Equestre indossavano la toga candida.
Il mantello purpureo era dei trionfatori, Tacito scrive come in occasione del trionfo di Vitellio gli fu negato di indossare il mantello purpureo poiché non aveva ottenuto personalmente la vittoria contro Otone.
Caio Giulio Cesare, utilizza il termine vessillo con riferimento al drappo o bandiera rossa che si innalzava sulla tenda quale segnale della battaglia.
Successivamente pare che gli imperatori e i generali, un uso iniziato nel I sec. d.c., facessero portare in guerra davanti a loro il labaro, un'insegna di porpora quadrata posta su di una lancia, mentre si faceva dono di bandiere di porpora, fregiate in oro, agli ufficiali superiori, ai tribuni ed ai prefetti quale alta ricompensa per l'alto valore militare dimostrato in battaglia.
L’uso di indossare un mantello rosso o porpora nella Devotio, nella quale il comandante o altri ufficiali militari sacrificano la loro vita per la vittoria finale, indica Marte, l’annullamento dell'individualità a beneficio dell’esercito, dunque dello Stato: questo colore rappresenta una ‘promessa’ di morte che doveva terrorizzare l’avversario e chiamare in causa il Dio delle battaglie, che non poteva tirarsi indietro con un così alto sacrificio.
Ma anche Napoleone adottava il mantello rosso e il lauro sulla fronte come Cesare. Durante la sua incoronazione indossava un mantello rosso dal lungo strascico, come si può vedere nel celebre quadro del suo pittore ufficiale, Jacques-Louis David.
Quel mantello, però, non si trova più e nessuno sa dove sia finito. Per questo i francesi, quando devono organizzare una mostra sul Bonaparte, bussano alla porta di un museo milanese dove è conservato l' unico altro mantello di Napoleone usato per cerimonie di Stato. Si fece ritrarre così, e lasciò scritto nei memoriali di Sant'Elena che lui di identificava in Giulio Cesare, ma anche in Tiberio e Domiziano.
In araldica il mantello purpureo è simbolo di potestà sovrana ed è quindi riservato ai membri delle famiglie reali. In casi particolari il suo uso è stato concesso anche ad altri nobili, in riconoscimento di particolari meriti.
Il bianco è il colore del Pontefix Maximus, e del Papa cattolico oggi, che indossa una tonaca, variante della tunica, simbolo di purezza e potere di giustizia. La porpora è dei cardinali, simbolo di sacrificio. Ma anche la toga dei senatori era bianca, anzi immacolata, come simbolo di incorruttibilità, tanto che gli aspiranti alle cariche pubbliche sbiancavano nella calce le tuniche al punto di rovinarle in poco tempo. Il termine candidato, candidatus , viene da questa usanza.
CADUCEO
Il caduceo era un simbolo romano di derivazione greca. Un ramo d’ulivo identificava gli araldi nell'esercizio della loro funzione parlamentare, passato poi a simbolo del Dio Mercurio araldo degli Dei. Era una verga costituita dall'intreccio di rami d'ulivo e d’alloro con due serpenti avviticchiati. Al caduceo, in una simbologia magico-medica, si attribuivano valenze apotropaiche, di scacciare i mali di qualsiasi genere e proteggere chi lo portava, così come venivano protetti gli araldi che si recavano in terra ostile.
MEDUSA
Molto usata nell'iconologia romana, sia pubblica che privata. Di derivazione greca, decapitata da Perseo aiutato da Athena, che alla fine dell'impresa pone la testa sull'egida, o sul pregevole seno, a seconda delle immagini.
Quando Atena scuoteva lo scudo con la terribile testa di Medusa dai capelli di serpi, i nemici fuggivano terrorizzati. Questo spiega il simbolo apotropaico di Medusa che tiene lontano le persone ostili anche dalle proprietà, o i profanatori dai luoghi sacri.
Il GRIFO
Animale leggendario, un'aquila con orecchie equine e coda di serpente, altre volte aquila con corpo di leone. Anch'esso aveva il compito apotropaico contro i nemici salvaguardando il luogo o la casa. Si narra che custodisse l'oro, come i draghi medievali custodivano tesori. Nel medioevo assunse il nome di Grifone.
IL SALUTO ROMANO
Ha incontrato molte ostilità, come del resto un po' tutta la romanità, perchè molti suoi simboli sono stati usati durante le dittature del fascismo e del nazismo, ma è importante riuscire a distinguere culture ed epoche.
Occorre tener presente che in tutta la cultura antica mediterranea il saluto non prevedeva un contatto corporeo.
Nel saluto egizio ad esempio, come racconta Erodoto, ci si inchinava portando la mano fino al ginocchio, e Greci, Etruschi e Romani non si toccavano.
Anche il saluto etrusco, come si può leggere nelle tombe di Tarquinia, era a braccio alzato.
I Romani salutavano a braccio teso nelle cerimonie ma il gesto era appena accennato nella vita quotidiana, cioè un braccio alzato con la palma in avanti e il braccio un po' piegato, se non altro per non intruppare gli altri.
Per capire il saluto romano basta guardare le statue di alcuni imperatori come Cesare o Augusto, o la statua equestre di Marco Aurelio per capire che il gesto è a braccio non disteso nè troppo piegato, sempre però con la palma in avanti. Gesti simili si trovano raffigurati sulla Colonna Traiana da parte dei legionari all'imperatore.
Non bisogna confondere il saluto civile con quello militare o da parata che è in ogni tempo e luogo più scenico e rigido. Nel rilievo del II sec., rinvenuto vicino ad Efeso, il defunto greco saluta il proprio superiore tendendo il braccio destro a 45 gradi in avanti, con il palmo aperto, quattro dita unite e il pollice staccato.
Il saluto del legionario romano consisteva nel battere con forza il pugno o la mano destra tesa sul petto, ma solo col superiore, perchè il saluto tra militari di pari grado e il saluto gladiatorio, affiancavano l'avambraccio destro a quello della persona da salutare scambiandosi una reciproca stretta al di sopra del polso.
Ma il saluto gladiatorio verso l'imperatore era a braccio teso verso l'alto perchè era un gesto di scena, così come lo era nelle parate dove sicuramente il braccio era a 45°.
Ben diverso invece il saluto tra i seguaci di Mitra, divinità molto seguita dai militari romani. La stretta di mano, giudicata durante il fascismo un gesto borghese, fu tutt'altro perchè nacque proprio nei templi di Mitra, e poi si estese alla massa fino ad oggi.
Poiché il culto di Mitra aveva molto seguito, si pensi che ad Ostia antica ci sono ben 17 mitrei, e a Roma ne sono stati rinvenuti almeno un centinaio, ma per lo più mitrei privati. Ce n'erano nei castrum ma soprattutto tempietti nelle case dei soldati graduati.
Insomma la stretta di mano moderna non solo è romana ma è il saluto dei militari seguaci di un culto misterico.
Da notare che l’impugnatura dello scettro è di Orichalcum, una leggendaria lega di ottone dorato che veniva forgiata nella antica città sommersa di Atlantide. Questi dettagli denotano chiaramente l’appartenenza dello scettro a Massenzio.
La cosa più sorprendente - secondo il parere di Darius Arya, professore presso l’American Institute for Roman Culture - è che difficilmente si sono trovati in Roma oggetti del genere, simbolo di ricchezza, del tutto integri; di solito vengono ritrovati solo frammenti o pezzi.
N.B. Qualcuno ha fatto notare che il globo terrestre in cima allo scettro mal si concilia con le conoscenze geografiche dell’epoca, secondo le quali la terra era concepita come un disco piatto.
N.B. Qualcuno ha fatto notare che il globo terrestre in cima allo scettro mal si concilia con le conoscenze geografiche dell’epoca, secondo le quali la terra era concepita come un disco piatto.
Opinione clamorosamente contraddetta dalle numerose affermazioni di vari autori latini fra cui Plinio il Vecchio, Cicerone, Macrobio ed altri. Cicerone, ad es., definisce la terra “globosa atque solida”, cioè un pianeta rotondo costituito da materiale solido. La concezione della terra come una estensione piatta, per la precisione risale invece ai greci.
(Fonte)
DRACO
Insegna adottata dalle coorti e dalle ali di cavalleria durante il basso impero e portato dal draconianus: una testa di drago a cui veniva applicata una "manica a vento" che produceva un sibilo al suo sventolio.
Reperto:
Testa di draco, perfettamente conservato, rinvenuto vicino al confine sud-occidentale del vicus poco fuori dal castrum di Niederbieber (Germania), III sec. d.c. Presenta squame, cresta e bocca aperta con lunga dentatura, misura cm 30x12, in lega di rame formato da due lastre in rilievo.
Nella parte posteriore le due parti formano un bordo circolare dove era attaccato il manicotto di stoffa che produceva il sibilo causato dall’ingresso dell’aria dalla bocca.
IMAGO
Erano immagini o medaglioni dell'imperatore e della famiglia imperiale, portate dall'imaginifero su asta, per ricordare alle truppe il legame con l'imperatore.
reperti:
- Busto in oro dell’imperatore Marco Aurelio come imago; altezza cm 33,5, peso g. 1590.
- Stele funebre di Genialis, imaginifero della Cohors VII Raetorum. Nella mano del soldato l’imago dell’imperatore.
Ogni legione aveva un proprio simbolo o segno zodiacale, che compariva sulle monete, su alcune steli funebri, su mattonelle o altri oggetti, e che distingueva ulteriormente una legione dall'altra; questi simboli, portati anche in in battaglia, avevano una derivazione precisa, associata al compleanno dell'unità o del suo fondatore, e prendeva la forma di un segno zodiacale.
Voci correlate: GRADI DELLA LEGIONE
(Fonte)
LEGIONARIO ROMANO CON DRACO |
Insegna adottata dalle coorti e dalle ali di cavalleria durante il basso impero e portato dal draconianus: una testa di drago a cui veniva applicata una "manica a vento" che produceva un sibilo al suo sventolio.
Reperto:
Testa di draco, perfettamente conservato, rinvenuto vicino al confine sud-occidentale del vicus poco fuori dal castrum di Niederbieber (Germania), III sec. d.c. Presenta squame, cresta e bocca aperta con lunga dentatura, misura cm 30x12, in lega di rame formato da due lastre in rilievo.
Nella parte posteriore le due parti formano un bordo circolare dove era attaccato il manicotto di stoffa che produceva il sibilo causato dall’ingresso dell’aria dalla bocca.
IMAGO
Erano immagini o medaglioni dell'imperatore e della famiglia imperiale, portate dall'imaginifero su asta, per ricordare alle truppe il legame con l'imperatore.
reperti:
- Busto in oro dell’imperatore Marco Aurelio come imago; altezza cm 33,5, peso g. 1590.
- Stele funebre di Genialis, imaginifero della Cohors VII Raetorum. Nella mano del soldato l’imago dell’imperatore.
SIMBOLI
Ogni legione aveva un proprio simbolo o segno zodiacale, che compariva sulle monete, su alcune steli funebri, su mattonelle o altri oggetti, e che distingueva ulteriormente una legione dall'altra; questi simboli, portati anche in in battaglia, avevano una derivazione precisa, associata al compleanno dell'unità o del suo fondatore, e prendeva la forma di un segno zodiacale.
- Scorpio: Emblema della Guardia Pretoriana, usato per onorare l'Imperatore Tiberio per aver costruito il Campo Pretoriano a Roma: il suo segno zodiacale era Scorpione.
- Toro: Leg. III Gallica, IV Macedonica, VII, VIII Augusta, X Gemina, VI Victrix e forse VI Ferrata
- Capricorno: Leg. II Augusta, IV Macedonica, IV Scythica, XIV Gemina, XXI Rapax.
- Leone: Leg. XIII e forse XVI
- Cinghiale: Leg. I Italica, II Adiutrix, X Fretensis e XX Valeria Victrix.
- Elefante: Leg V Alaudae
- Pegaso: Leg. II Augusta e III Augusta
- Fulmine: Leg. XII Fulminata
- Lupa: Leg. VI Ferrata
Voci correlate: GRADI DELLA LEGIONE
IL PASSO ROMANO
Chiamato dai Romani "Militaris gradus", era un passo militare romano da parata doppio del passo di marcia normale, con cadenza di 120 passi al minuto a suon di tamburo. C'era poi il "Plenus gradus", cioè l'andatura più fiera delle legioni quando sfilavano davanti all'Imperatore, tendendo le gambe rigide e facendo battere poderosamente sul terreno i talloni dei calzari.
Nel tomo veniva descritto sia il Militaris gradus che il Plenus gradus, e da questo "passo romano" fu preso il passo dell'oca, meno faticoso ma anche meno sonoro di quello romano perchè di 100 passi al minuto, scanditi anch'essi dai tamburi.
Una pratica difficile da eseguire, che richiede un addestramento speciale, spesso eseguito in piccoli gruppi affinché i soldati non si feriscano.
Difficile, anzi impossibile, eguagliare la disciplina e la forza dei soldati romani del primo impero, che basavano la vittoria in guerra su disciplina, allenamento e obbedienza ai superiori.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il passo romano, ribattezzato Passo dell'oca venne conservato in forma ridotta nella Repubblica Democratica Tedesca: infatti, la punta del piede arrivava soltanto fino all'altezza del ginocchio e per questo tipo di esecuzione fu trovato il nome di Exerzierschritt.
Lo scopo di questo passo è quello di ostentare forza e disciplina, tanto che viene usato di solito dai regimi totalitari. Fu adottato dall'esercito tedesco e pure da quello italiano fascista del 1938 nel corso di una parata militare tenuta davanti al Colosseo.
Ma è stato adottato, sempre in versione ridotta, pure dalla Federazione Russa e dalla Russia Bianca, dal Vietnam, da Cuba, dalla Cina, dalla Corea del Nord e dal Cile.
Strabone scrisse:
"Si dice pure che da Tarquinia furono trasportati a Roma gli ornamenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani.”
A Tarquinia, littori con fasci si vedono su fregi di sarcofagi e di pitture parietali di tombe. A Vetulonia nel 1898 si rinviene, nella Tomba del Littore del 600 a.c., un fascio di ferro ossidato composto da un gruppo di verghe unite insieme con in mezzo un’ascia a doppio taglio.
Il che fa capire che l'ascia originaria è la bipenne, non ascia da battaglia nè da falegname, ma il simbolo cretese ed etrusco della luna calante e crescente, il simbolo della Grande Madre, la natura che si alterna nelle sue fasi di crescenza e decrescenza, con morte e rinascita della vegetazione. Colei che dà la vita, la taglia e la fa risorgere.
Il fascio littorio era un fascio cilindrico di verghe di betulla bianca, oppure di olmo, a simboleggiare l'unione, con infissa un'ascia di bronzo, strumento di azione, per tagliare le verghe per unirle coi fasci (fasces), nastri rossi che legavano le verghe. Ad esclusione del dictator, tutti gli altri magistrati potevano portare le asce infisse nei fasci solo al difuori del pomerium, il posto sacro dove governavano solo gli Dei.
Siccome il pomerio in età imperiale era Roma tutta, cioè dentro le mura, ne conseguiva che tranne il dictator nessuno poteva colpire all'interno della città. Le asce infatti divennero simbolo di difesa contro gli attacchi nemici e non contro i cittadini.
Il fatto che il dictator potesse portare l'ascia deriva dal fatto che il dictator veniva proclamato solo in caso di guerra o pericolo grave, e in questa fase il dictator diventava il capo dell'esercito, che poteva ordinare di riunirlo in qualsiasi momento, anche dentro l'urbe, per questo aveva il simbolo dell'ascia.
Altra leggenda da sfatare: che il fascio servisse come frusta, la realtà era che in caso di fustigazione dei soldati per comportamento scorretto o oltraggioso, la fustigazione si faceva con un ramo pieghevole come la betulla, e non c'è ramo più pieghevole della betulla a parte il giunco, proprio per non arrecare un danno grave al fustigato. Se poi fu usato con riferimento al fascio è possibile, ma il fascio non esprimeva questo. Purtroppo spesso un simbolo viene demonizzato per l'uso ingiusto che altri successivamente ne hanno fatto.
I fasci venivano inoltre portati da soldati eroici feriti in battaglia durante le cerimonie dei trionfi. Ma in occasione di riunioni politiche o funerali i fasci potevano essere dati anche a cittadini particolarmente meritevoli.
La nascita fascio littorio, secondo la narrazione, risale alla fondazione di Roma, al tempo di Romolo. Si racconta che in una gola del Colle Capitolino sorgeva il tempio di Vejovis, una divinità ctonia raffigurata con un fascio di frecce nella mano destra.
In effetti nel 1939, durante gli scavi sotto Piazza del Campidoglio, si scoprì un antico tempio con statua del giovane Dio degli inferi Veiovis, versione antica e italica di Giove, si disse, ma che aveva che fare un Dio degli inferi, accompagnato da una capra, con il Dio degli Dei e dei fulmini? Forse, come detto da alcuni, era un Marte Ultore, oppure un Apollo scagliatore delle frecce della pestilenza come il Febo omerico.
Il fascio littorio fu istituito da Romolo, il quale a sua volta lo prese dagli Etruschi. Romolo, per ricordare i dodici uccelli augurali che profetizzarono il suo regno o i dodici popoli che lo formarono, durante le cerimonie si faceva precedere da dodici littori armati di fascio, i quali erano gli esecutori della giustizia.
Il fascio, contrariamente a chi lo vede come simbolo punitivo, è simbolo di concordia e fraternità ed ha un'altra leggenda: un padre, sul punto di morire, chiamò i suoi numerosi figli e ordinò che ciascuno prendesse una verga e la spezzasse in sua presenza.
I figli obbedirono e le verghe furono spezzate. Il padre ordinò di prendere ancora una verga per ognuno di loro e di legarle tutte in un solo fascio, invitando i figli a spezzarle nuovamente, ma nessuno vi riuscì. Il padre a questo punto disse loro: "Siate voi come questo fascio di verghe, sempre uniti e concordi e trionferete in ogni disavventura".
Il numero dei littori era così ripartito per le varie cariche:
- Dittatore: 24 littori con scuri
- Console: 12 littori
- Proconsole: 11 littori solo fuori dal pomerio
- Pretore: 2 littori in città e 6 littori in provincia
- Propretore: 5 littori
- Edile curule: 2 littori
I FASCI SUCCESSIVI
Il simbolo del fascio negli USA si trova nel simbolo del Senato federale o inciso sopra la porta dello studio Ovale del Presidente. Compare anche nello stemma dell'Ecuador, della Francia, del Camerun, quello del cantone svizzero di San Gallo, del comune francese di Villejuif, del comune tedesco di Legau e quello della Polizia norvegese.
In Italia compare verso la fine del XIX sec. con i "Fasci siciliani", un movimento di lavoratori della terra che si batteva per i loro diritti. Poco prima della I guerra mondiale, sorse nel 1914 i "Fasci d'azione rivoluzionaria", dal precedente "Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista".
Nel 1917 nasce il "Fascio parlamentare per la difesa nazionale". Nel 1918 il fascio di difesa nazionale ottiene consensi di destra e di sinistra. Segue il "Fascio nazionale italiano", il "Fascio romano per la difesa nazionale", la "Federazione dei Fasci di resistenza". Il Fascismo prese nome appunto dai fasci.
VESTE BIANCA E MANTELLO ROSSO
Dionigi di Alicarnasso racconta che uno dei segni regali dei lucumoni etruschi era il mantello di porpora. Il sagus rosso, la divisa del soldato romano, era un mantello rettangolare, legato da una fibbia e indossato sopra l'armatura.
Nella simbologia romana i colori rosso (o porpora) e bianco (candidus), rappresentano Marte e Giove. Il rosso indica l'ardore e il sacrificio, l’offerta volontaria della propria vita per la Patria Romana. Il bianco indica lo ‘IVS’, il giudizio, la giustizia, il giuramento. Infatti i magistrati e i membri di Senato ed Ordine Equestre indossavano la toga candida.
ETA' IMPERIALE |
Caio Giulio Cesare, utilizza il termine vessillo con riferimento al drappo o bandiera rossa che si innalzava sulla tenda quale segnale della battaglia.
Successivamente pare che gli imperatori e i generali, un uso iniziato nel I sec. d.c., facessero portare in guerra davanti a loro il labaro, un'insegna di porpora quadrata posta su di una lancia, mentre si faceva dono di bandiere di porpora, fregiate in oro, agli ufficiali superiori, ai tribuni ed ai prefetti quale alta ricompensa per l'alto valore militare dimostrato in battaglia.
L’uso di indossare un mantello rosso o porpora nella Devotio, nella quale il comandante o altri ufficiali militari sacrificano la loro vita per la vittoria finale, indica Marte, l’annullamento dell'individualità a beneficio dell’esercito, dunque dello Stato: questo colore rappresenta una ‘promessa’ di morte che doveva terrorizzare l’avversario e chiamare in causa il Dio delle battaglie, che non poteva tirarsi indietro con un così alto sacrificio.
Ma anche Napoleone adottava il mantello rosso e il lauro sulla fronte come Cesare. Durante la sua incoronazione indossava un mantello rosso dal lungo strascico, come si può vedere nel celebre quadro del suo pittore ufficiale, Jacques-Louis David.
Quel mantello, però, non si trova più e nessuno sa dove sia finito. Per questo i francesi, quando devono organizzare una mostra sul Bonaparte, bussano alla porta di un museo milanese dove è conservato l' unico altro mantello di Napoleone usato per cerimonie di Stato. Si fece ritrarre così, e lasciò scritto nei memoriali di Sant'Elena che lui di identificava in Giulio Cesare, ma anche in Tiberio e Domiziano.
In araldica il mantello purpureo è simbolo di potestà sovrana ed è quindi riservato ai membri delle famiglie reali. In casi particolari il suo uso è stato concesso anche ad altri nobili, in riconoscimento di particolari meriti.
Il bianco è il colore del Pontefix Maximus, e del Papa cattolico oggi, che indossa una tonaca, variante della tunica, simbolo di purezza e potere di giustizia. La porpora è dei cardinali, simbolo di sacrificio. Ma anche la toga dei senatori era bianca, anzi immacolata, come simbolo di incorruttibilità, tanto che gli aspiranti alle cariche pubbliche sbiancavano nella calce le tuniche al punto di rovinarle in poco tempo. Il termine candidato, candidatus , viene da questa usanza.
CADUCEO
Il caduceo era un simbolo romano di derivazione greca. Un ramo d’ulivo identificava gli araldi nell'esercizio della loro funzione parlamentare, passato poi a simbolo del Dio Mercurio araldo degli Dei. Era una verga costituita dall'intreccio di rami d'ulivo e d’alloro con due serpenti avviticchiati. Al caduceo, in una simbologia magico-medica, si attribuivano valenze apotropaiche, di scacciare i mali di qualsiasi genere e proteggere chi lo portava, così come venivano protetti gli araldi che si recavano in terra ostile.
Molto usata nell'iconologia romana, sia pubblica che privata. Di derivazione greca, decapitata da Perseo aiutato da Athena, che alla fine dell'impresa pone la testa sull'egida, o sul pregevole seno, a seconda delle immagini.
Quando Atena scuoteva lo scudo con la terribile testa di Medusa dai capelli di serpi, i nemici fuggivano terrorizzati. Questo spiega il simbolo apotropaico di Medusa che tiene lontano le persone ostili anche dalle proprietà, o i profanatori dai luoghi sacri.
Il GRIFO
Animale leggendario, un'aquila con orecchie equine e coda di serpente, altre volte aquila con corpo di leone. Anch'esso aveva il compito apotropaico contro i nemici salvaguardando il luogo o la casa. Si narra che custodisse l'oro, come i draghi medievali custodivano tesori. Nel medioevo assunse il nome di Grifone.
IL SALUTO ROMANO
Ha incontrato molte ostilità, come del resto un po' tutta la romanità, perchè molti suoi simboli sono stati usati durante le dittature del fascismo e del nazismo, ma è importante riuscire a distinguere culture ed epoche.
Occorre tener presente che in tutta la cultura antica mediterranea il saluto non prevedeva un contatto corporeo.
Nel saluto egizio ad esempio, come racconta Erodoto, ci si inchinava portando la mano fino al ginocchio, e Greci, Etruschi e Romani non si toccavano.
Anche il saluto etrusco, come si può leggere nelle tombe di Tarquinia, era a braccio alzato.
I Romani salutavano a braccio teso nelle cerimonie ma il gesto era appena accennato nella vita quotidiana, cioè un braccio alzato con la palma in avanti e il braccio un po' piegato, se non altro per non intruppare gli altri.
Per capire il saluto romano basta guardare le statue di alcuni imperatori come Cesare o Augusto, o la statua equestre di Marco Aurelio per capire che il gesto è a braccio non disteso nè troppo piegato, sempre però con la palma in avanti. Gesti simili si trovano raffigurati sulla Colonna Traiana da parte dei legionari all'imperatore.
Non bisogna confondere il saluto civile con quello militare o da parata che è in ogni tempo e luogo più scenico e rigido. Nel rilievo del II sec., rinvenuto vicino ad Efeso, il defunto greco saluta il proprio superiore tendendo il braccio destro a 45 gradi in avanti, con il palmo aperto, quattro dita unite e il pollice staccato.
Il saluto del legionario romano consisteva nel battere con forza il pugno o la mano destra tesa sul petto, ma solo col superiore, perchè il saluto tra militari di pari grado e il saluto gladiatorio, affiancavano l'avambraccio destro a quello della persona da salutare scambiandosi una reciproca stretta al di sopra del polso.
Ma il saluto gladiatorio verso l'imperatore era a braccio teso verso l'alto perchè era un gesto di scena, così come lo era nelle parate dove sicuramente il braccio era a 45°.
LA STRETTA DI MANO
Ben diverso invece il saluto tra i seguaci di Mitra, divinità molto seguita dai militari romani. La stretta di mano, giudicata durante il fascismo un gesto borghese, fu tutt'altro perchè nacque proprio nei templi di Mitra, e poi si estese alla massa fino ad oggi.
Poiché il culto di Mitra aveva molto seguito, si pensi che ad Ostia antica ci sono ben 17 mitrei, e a Roma ne sono stati rinvenuti almeno un centinaio, ma per lo più mitrei privati. Ce n'erano nei castrum ma soprattutto tempietti nelle case dei soldati graduati.
Insomma la stretta di mano moderna non solo è romana ma è il saluto dei militari seguaci di un culto misterico.
Voci correlate: GESTUALITA' DEI ROMANI
BIBLIO
- Colin Wells - L'impero romano - Bologna - Il mulino - 1995 -
- Fabrizio Conca, Isabella Gualandri, Giuseppe Lozza - Politica, Cultura e religione nell'impero romano (secoli 4.-6.) tra oriente e occidente - atti del II Convegno dell'Associazione di Studi Tardoantichi - Napoli - M. D'Auria - 1993 -
- Cassiodoro - Cronaca -
- Agostino d'Ippona - De Civitate Dei -
- Ammiano Marcellino - Res gestae - libri XXXI -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita -
BIBLIO
- Colin Wells - L'impero romano - Bologna - Il mulino - 1995 -
- Fabrizio Conca, Isabella Gualandri, Giuseppe Lozza - Politica, Cultura e religione nell'impero romano (secoli 4.-6.) tra oriente e occidente - atti del II Convegno dell'Associazione di Studi Tardoantichi - Napoli - M. D'Auria - 1993 -
- Cassiodoro - Cronaca -
- Agostino d'Ippona - De Civitate Dei -
- Ammiano Marcellino - Res gestae - libri XXXI -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita -
12 comment:
Exelente gracias
SEMPER FIDELIS !
molto bello come sito
Ma, la lupa raffigurata è il simbolo dei Daci,una volta persa la battaglia, Traiano, come strategia, prese il simbolo per eccellenza dei Daci (e di tutti i popoli imparentati) e lo rese romano; lo stesso dicassi per il Draco, il cui viene citato anche la A.Marcellino e spiegato anche, più tardi, da Olaus Magnus.
Ana-maria, Il primo regno Dacico si attesta al I secolo a.C., i primi gruppi sparsi, ancora prima che sorgesse il regno dacico si attestano al IV secolo a.C. Roma è sorta nel 753 a.C. e vede come basi una lupa che allatta Romolo e Remo.. e mi vieni a raccontare che la lupa l'hanno copiata dai Daci? Ma mi faccia il piacere.
nn ho trovato quello che stavo cercando(spero che questo commento lo leggano molte persone).
SPQR 1870 A ll
33A28-02 3N2-23oro240 19.09.1999
Ma per cortesia
Bello mi serviva
Mancano il leone il cinghiale e la pantera servizio scadente per un xito pieno di informazioni
Veramente ci sono, sei te che sei scadente nella lettura dato che sono sotto la voce Araldi totemici.
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