LAPIS NIGER





Il Lapis Niger, la Pietra Nera, è un sito del Foro Romano, un'area quadrata in marmo nero circondato da lastre di marmo che la distingueva dal resto della pavimentazione augustea in travertino, posta sul luogo dei Comizi a poca distanza dalla Curia Iulia.



LA TOMBA

Fu scoperto il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni e il ritrovamento fu riferito a un passo mutilo dello scrittore Sesto Pompeo Festo, che accennava ad una "pietra nera nel Comizio" (lapis niger in Comitio) indicante un luogo funesto, la tomba di Romolo o almeno il luogo dove venne ucciso.

Lo scavo al di sotto del pavimento in marmo nero portò alla luce un complesso monumentale molto arcaico, accessibile aldisotto con una scaletta, costituito da: una piattaforma con un altare a tre ante e a forma di U, con un basamento e un piccolo cippo fra le ante, nonchè due basamenti minori su cui sono sovrapposti un cippo a tronco di cono, forse il basamento per una statua, e un cippo piramidale, quest'ultimo con la famosa iscrizione bustrofedica (scrittura da destra sinistra e viceversa nel rigo successivo).

Tutti i reperti mancano della parte superiore, compreso il cippo iscritto.

L'altare ha la classica forma del basamento a doppio cuscino sovrapposto, della quale si conserva però solo lo scalino inferiore. Il tutto era situato all'aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex-voto ceramici e bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti.

L'ISCRIZIONE

L'ISCRIZIONE

L'iscrizione, di difficile interpretazione, rivela trattarsi di un luogo sacro, con maledizioni per i possibili violatori. "Chi violerà questo luogo sia maledetto [...] al re l'araldo [...] prenda il bestiame [...] giusto"

In definitiva l'iscrizione malediceva, consacrandolo alle divinità infernali, chi violasse il luogo. La dedica al re (RECEI, un dativo) secondo alcuni si riferisce a un vero e proprio monarca, e non al rex sacrorum che dopo il 509 ne prese in consegna le funzioni religiose. Pertanto tutto fa pensare che risalga ai re di Roma.

Secondo alcuni studiosi i caratteri, simili a quelli greci calcidesi dai quali deriva l'alfabeto latino, permettono di datare l'iscrizione al VI secolo a.c., la più antica iscrizione monumentale latina quindi, probabilmente anteriore alla Repubblica.

Si suppone infatti che il latino sia nato dall'etrusco misto a qualche dialetto locale, nato a sua volta dal greco, a sua volta derivato dall’incrocio del fenicio con il miceneo e la lineare b di Creta.

Però non tutti la pensano così. L'iscrizione sembra più vicina al linguaggio italico delle colonie greche, specie della vicina Cuma, che per diverso tempo usarono la "Bustrofedica", cioè scritto alternando destra a sinistra e da sinistra a destra, dal greco bustrophēdón, che significa della maniera di arare dei buoi.


LA SCRITTURA BUSTROFEDICA

La scrittura bustrofedica deriva dalla scrittura da destra a sinistra, considerando che il mancinismo era prevalente in ère molto arcaiche. Ciò deriva dal fatto che essendo i collegamenti nervosi a chiasma, insomma a incrocio, col cervello, essendo in questo prevalente l'uso dell'emisfero cerebrale destro, di conseguenza era più frequente l'uso della mano sinistra e pure della gamba sinistra.

Quando prevalse l'uso del cervello sinistro per la crescita dell'area del linguaggio (che sta nell'emisfero sinistro), l'uomo passò all'uso prevalente della mano destra. Pertanto la scrittura da destra a sinistra (vedi scrittura araba, ebraica, giapponese e cinese antico ecc.) presuppone l'uso della mano sinistra.

L'evoluzione da questo sistema è la scrittura bustrofedica che va da sinistra a destra e da destra a sinistra nella riga successiva con un movimento serpentino continuo. Più tardi si passò alla scrittura da sinistra a destra e l'uso prevalente della mano destra. le modificazioni cerebrali corrisposero dunque a modificazioni sull'uso corporeo.

Scavi archeologici dimostrano che sul sito del Lapis Niger diversi elementi dedicatoria da frammenti di vasi, statue e pezzi di sacrifici animali, si trovano intorno al sito in uno strato di ghiaia deliberatamente posto. Tutti questi reperti risalirebbero a una Roma molto antica, tra il V e il VII secolo a. c.

La seconda versione del sito, edificata quando la prima versione fu demolita nel I sec. a.c., per far posto a un ulteriore sviluppo nel forum, dunque da Cesare, è un santuario molto più semplice.
Una pavimentazione di marmo nero fu posta sul sito originale circondato da un muro bianco.



IL SANTUARIO

Il monumento, praticamente un altare con una statua, più che ad una tomba fa pensare però ad un piccolo santuario, forse dedicato ad un re.

Il santuario è costruito, in parte intorno e sopra, un luogo sacro con un altare più antico, con manufatti ancora più antichi. Dionigi di Alicarnasso, scrittore greco dell'età di Augusto, menzionava la presenza di una statua di Romolo nel Volcanale accanto ad un'iscrizione "in caratteri greci".

Data la vicinanza del Volcanale al Lapis Niger, è probabile che si tratti proprio della stessa iscrizione e della stessa statua. Però oggi la teoria della tomba di Romolo viene esclusa dalla maggior parte degli studiosi e l'attribuzione dell'altare e dei basamenti adiacenti è discussa, ma anche la data, che oscilla tra la fine dell'età regia e l'inizio di quella repubblicana (VIIVI secolo a.c.).

RICOSTRUZIONE DEL VOLCANALE

LA LEGGENDA

Nell'antichità si era formata la leggenda secondo la quale in questo luogo vi era sepolto Romolo, oppure il pastore Faustolo, il padre adottivo di Romolo, o il nonno di Tullo Ostilio, Osto.
L'area era considerata un "luogo funesto", si dice, a causa della profanazione della sepoltura che avevano causato i "Galli Senoni" durante il saccheggio del 390 a.c.



LA PIETRA NERA

Evidentemente ad un certo punto, i Romani dimenticarono il significato originario del santuario. Come mai? Forse perchè era un ricordo negativo, oppure perchè in dissonanza con i nuovi culti.
All'epoca di Varrone esistevano ancora due leoni accovacciati, figure tipiche, si dice, in Italia come in Grecia, di guardiani dei sepolcri.

Quel che risulta invece è che i due leoni accovacciati, e ne restano le basi rettangolari, erano gli accompagnatori della Grande Madre, la Mater Matuta o Cibele che dir si voglia. La Dea veniva spesso rappresentata, nei tempi più arcaici, con un cippo scuro, chiamato La pietra Nera.

Ciò che colpisce è soprattutto il nome, strano che sia legato solo alla copertura, anche perchè non fu mai di pietra ma di marmo. Il nome di Pietra nera era invece dato alla pietra di Cibele, che era appunto nera e conica.

Cibele era un'antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre, il cui culto principale era a Pessinunte, nella Frigia, da cui attraverso la Lidia passò nel VII secolo a.c. nelle colonie greche dell'Asia Minore e poi sul continente.

Cibele veniva raffigurata seduta sul trono tra due leoni, con su il capo una corona turrita. Il culto di Cibele, la Magna Mater dei Romani, fu introdotto a Roma il 4 aprile 204 a.c., quando la pietra nera, di forma conica, simbolo della Dea, a seguito di un oracolo del Libri Sibillini, fu richiesta per salvare Roma dai Cartaginesi.

Essa fu trasferita a Roma da Pessinunte e collocata in un tempio sul Palatino realizzato nel 191 a.c.
Spesso la Grande Madre era rappresentata da un meteorite o una pietra scura, come la Dea Allatu la cui pietra vine adorata alla Mecca, o la Diana Tauride, anch'essa simboleggiata da una pietra nera.




TOMBA ERCOLE SUL PALATINO

GUIDO DI NARDO
MONUMENTI ARCAICI DEL PALATINO


Poiché la tradizione assegna a Romolo la tomba sottostante al Lapis Niger nel Foro Romano, a quale leggendario Eroe dovremmo risalire per risolvere il mistero della salma inumata in luogo tanto augusto e venerato che perfino gli Imperatori rispettarono, non osando avanzarvi con le imponenti fabbriche dei loro palazzi, e proteggendo anzi quei ruderi antichissimi con postiche costruzioni in opera reticolata ed archi, ancora in sito?

Se lì presso sorsero, la Curia dei sacerdoti Salii, addetti alla custodia delle sacre marziali armi, e le case dei Potizi e dei Pinarii, dell’antichissima patrizia gente cioè che da Ercole stesso, fondando l’Ara Massima ebbe le norme e gli ordinamenti del suo culto, come si legge nelle Historie di Livio (Libr. I, c. 7); se tutti gli autori classici riferiscono la leggenda della presenza sul Palatino, oltre ad Evandro ed Enea, di Ercole stesso che, in Saturnia, venuto a morte, con l’appellativo di Santo (confermato dalle più antiche iscrizioni) sarebbe stato assunto nel novero degli Dei e sepolto in Cures (Quirinale) da Tazio (Properzio: Elegia V (IV) 9).

Santo appellato, per avere forse aboliti i sacrifizi umani, sostituendoli con la simbolica ostia del Toro.
Se, come noi pensiamo, l’Ara Massima Preistorica, non poteva essere ubicata nella vallèa circense (Murcia) ai piedi del Palatino, poiché tutti i Classici autorevoli ed unanimemente confermano che ancora all’epoca di Romolo per le bassure del Settimonzio dilagavano navigabili paludi e probabilmente nel tempo in cui il mitico Evandro avrebbe ricevuto Ercole (1300 circa a.c.?) la viva corrente de Rumon (Tevere) avrebbe addirittura circuite le alture capitoline e palatine.

Avendo l’arcaica città del Cermalus il suo porto o Navalia nella località oggi interrata del “Segno di Vertunna” (ansa del Tevere) attualmente denominata dei Cerchi (Sacriportum, da Plutarco e da Solino ricordata, nei gradini della bella ripa ai piedi della porta fluviale palatina) è logica la nostra identificazione dell’Ara Massima nello stesso Auguratorium sull’oppido del Cermalus, in elevata ubicazione sull’Ostium del Tevere piuttosto che più a valle, presso la chiesetta di Santa Anastasia ove vuolsi che nel 1592 Aldo Manunzio ne avesse rinvenute le fondamenta; nel qual caso Ercole avrebbe elevata la sua Ara Massima, cioè altissima… nel letto del fiume! 

PIANTA SOTTERRANEA

Verrebbe così chiarito il motivo per cui di lassù, Romolo, avuto l’auspicio delle dodici aquile avrebbe sancito, come religione ufficiale dello Stato, il culto di Ercole e come, di poi, l’Ara Massima fosse considerato il monumento più insigne della romanità! (Livio-Virgilio).

La Tomba, a questa sottoposta, della quale nessun accenno si fa dai Classici non potrebbe quindi che riferirsi ad Ercole! 

Almeno così mostrarono di pensare gli artefici edili dell’etrusco Ipogeo, giacché presso il tumulo a peduncolo lobato (lingam) che sormonta la fossa, nella parete della cella, ebbero cura d’incidere sulle bugne di peperino cinereo tre "E" bene in vista, che tutt’ora si osservano in sito, e potrebbero ricordare un preistorico monogramma dell’Eroe, (o di Evandro?) più tardi sostituito con l’H per l’interpolazione di questa lettera nell'arcaico alfabeto latino.

Lettera che appare siglata sul fondo di sacrali ciotole esistenti nel Museo di Lanuvio, ove pure si conserva un frammento d’iscrizione su peperino ove appare l’arcaica dizione di Hercole invece di Hercules, proveniente dall’antichissimo tempio che, su alto podio bugnato del V secolo a.c., meravigliosamente conservato, si elevava presso uno degli accessi dell’arceciclopica lanuvina. 



DISTRUZIONE E COPERTURA

Si sa che il santuario iniziale fu distrutto dal fuoco, probabilmente per il saccheggio della città, e venne ricoperto da lastre di marmo nero. Forse venne ricoperto da Silla, ma qualcuno sostiene che fu Giulio Cesare fece coprire il sito il sito durante il suo riallineamento del Comizio.

Alcuni ritengono che l'altare, di cui solo la base sopravvive ancora, sia stato aggiunto qualche tempo dopo. Di fronte all'altare sono due basi, che possono anche essere state aggiunte separatamente all'altare maggiore.

Lo storico Verrius Flaccus, di cui si conserva l'epitome di "Pompeo Festo", contemporaneo di Augusto, riporta di una coppia di statue di leoni accovacciati collocati su ciascun base, come all'epoca usava porli a guardia delle tombe. L'usanza citata da Flacco, non è romana ma orientale, però si sa che l'antica Dea Cibele era sempre accompagnata da due leoni. Solo che per quel che se ne sa, il suo culto giunse a Roma più tardi.



GIACOMO BONI 1899

"Il niger lapis, che è una platea lastricata di marmo nero antico, di circa dodici piedi romani di lato, grossa circa un piede, recintata, che fu cominciato a scoprire il 10 gennaio u. s. nel centro del Comizio.

Esso riposa su terreni di riporto, che a m. 1,40 di profondità coprono una spianata di tufo giallo (delle cave palatine o dello strato superiore capitolino, sottostante alle argille), reggente due basamenti a
quadrilateri bislunghi, decorati con grandiosa gola etrusca, colla fronte rivolta a settentrione, cioè alla Curia Ostilia. 

I basamenti sono lunghi m. 2,662, larghi m. 1,313 e m. 1,328, e distanti uno dall'altro m. 1,003; di guisa che la fronte del monumento cui appartengono misura m. 3,644. Le testate meridionali dei loro plinti, alti m. 0,290, sono congiunte da una striscia di tufo formante gradone, larga m. 0,435; e nello spazio compreso tra i basamenti posa un parallelepipedo di tufo, alto m. 0,290, largo in fronte m. 0,520 e lungo m. 0,725; ambedue i basamenti si trovarono manomessi, non rimanendo della gola etrusca su quello orientale che i pezzi di fronte, uno dei quali spostato, mentre la stessa sagoma è conservatissima sulla fronte e lungo tutto un fianco dell'altro basamento.

I passi d' antichi autori, riferentisi al luogo esplorato, comprendono quello notissimo di Festo che ricorda il niger lapis quasi come contrassegno di luogo funesto nel Comizio (cfr. la designazione congenere data alla rupe Tarpea: "noluerunt funestum locum Capitoli coniungi"); quello di Varrone che colloca i Rostri di fronte alla Curia: "ante hanc vostra"; v'è un altro passo varroniano che mette il sepolcro di Romolo dietro i Rostri: "ubi etiam in huius rei memoriam duos leones erectos fuisse constat". La tradizione del sepolcro e d' un leone (lapideo) era pure stata raccolta da Dionigi d'Alicarnasso.


Oltrepassato il basamento occidentale la spianata di tufo si trasforma, piega a sinistra e regge un plinto leggermente curvilineo che porta un tronco di cono monolitico, di tufo giallo, alto m. 0,480, del diametro di m. 0,773 alla base e di m. 0,695 alla sommità. 

Dietro il tronco di cono, alla distanza di m. 1,710 dalla fronte e di m. 0,420, e 0,530 dal fianco del basamento occidentale, sorge un cippo di tufo, in forma di tronco di piramide quadrangolare, a spigoli sfaccettati, largo alla base da m. 0,470 a 0,518 e rotto fra i m. 0,455 e 0,610 di altezza, non compresa la parte liscia incassata nella platea, dove è largo da m. 0,450 a 0,488. 

La sfaccettatura all' angolo sud-ovest del cippo è larga m. 0,053, sta incisa l'iscrizione.

La rottura del cippo e la manomissione dei basamenti, sono dovute ad una violenta e deliberata opera di distruzione, espiata con un sacrificio, del quale si ha testimonianza nello strato inviluppante i basamenti non solo, ma il tronco di cono ed il cippo stesso.

Questo strato, dello spessore medio di m. 0,400, è costituito da ceneri, carboni ed humus, riposanti sopra breccia sabbiosa dei sedimenti di Ponte Molle, ricca di cristallini di augite. Essa è disposta orizzontalmente sopra un piccolo strato di carbone e cenere, ricoprente la spianata di tufo e scevra d'impurità, in guisa da escludere che possa essere stata fluitata da una violenta inondazione del Tevere, o da acque torrenziali; si estende in direzione della Curia, mentre è arrestata ad oriente da un muro di sostegno, a piccoli massi squadrati di tufo e a mezzodì da una platea di tufo, che può essere quella dei Rostri repubblicani.

Il medesimo strato attesta come l'espiazione venisse condotta scrupolosamente, raschiando e pulendo ogni parte dell'edificio, immolando parecchie decine di giovani tori, di pecore, di cinghiali e di capre, e buttando sul fuoco purificatore centinaia di vasetti funebri ed altri oggetti, che noi abbiamo raccolti e che qui citiamo sommariamente.

Abbiamo vasetti di bucchero nero; altri dell'impasto più leggero e perlucido; altri grossolani ed opachi; simpuli, infundibuli, prefericoli, olle, kantharoi, oinochoai; un frammento modellato a testa di leone; uno skyphos ovoidale con due anse a nastro e con una rozza testa umana in rilievo su ciascun lato. Seguono alcuni frammenti di vasi con iscrizioni graffite, di ciotoline e anforette e leggiadrissime kelebi con anse a colonnette di terracotta gialla e rossa.

Vengono poi offerte a disco schiacciato con tre o più fossette, e quindi dodici figurine di bronzo del tipo fenicio derivato dall'egizio, la maggiore delle quali rappresenta un uomo nudo che sembra guardare in alto, mentre regge nelle mani supine un bastone ricurvo. Le altre figurine maschili s'accostano al primitivo tipo apollineo. Una di esse è assai finemente modellata, con lunghi capelli, cinti da benda, che le scendono ondulati sulle spalle. Tre figurine sono muliebri e vestite; tre altre sono di osso e del medesimo stile egittizzante.

Si ebbero inoltre frammenti di statuine votive di terracotta, arcaiche, talune della più squisita fattura greco- etrusca, altre mostruosamente idiote; quattro fusaruole di terracotta; 164 astragali ovini, per lo più lusorii, spianati intenzionalmente o dall'uso; due dadi di osso, uno dei quali, avente il lato di mm. 10 a 1 conserva traccia di doratura; l'altro misura mm. 17 a 20 nei lati e fu ottenuto da un osso di tibia segato trasversalmente e colla cavità midollare riempita da un altro osso, e coi punti segnati a trapano.

Seguono alcune perle di pasta vitrea, una delle quali color verde mare con rigonfiatura celeste listata di bianco e palline di giallo cromo; 81 pesi di calcare marmoide o di concrezione tornita di sabbia gialla, aventi varie forme e traversati da un foro presso il vertice, ovvero solcati in giro per l'allacciatura delle corde; due pesi di piombo, attraversati da perno di ferro; un peso di terracotta a tronco di piramide. 

Abbondantissimi furono i resti degli ornamenti personali di bronzo, fra i quali meritano speciale ricordo i pezzi di alcune fibule ad arco semplice; quelli di fibule a navicella con protuberanze laterali; quelli di fibule a bastoncelli, o del tipo così detto "prenestino". 

Vanno pure ricordati alcuni anelli, e frammenti di braccialetti e di borchie a disco concoidale forato e inoltre alcuni serpentelli di bronzo. 

Non mancarono avanzi di armi, cioè pezzi di cuspidi di lancia o di pilum in ferro, sommamente consumati dall' ossido. Facevano pure parte della stipe circa venti pezzi di aes rude del peso variante dai 7 ai 38 grammi ciascuno. Si raccolsero schegge spianate di marmo pentelico; la parte superiore di una antefìssa arcaica a testa di Gorgone; una tavoletta fìttile, in frammenti, col bassorilievo rappresentante un guerriero a cavallo, armato di lancia, nello stile delle famose terracotte veliterne borgiane. 

È del medesimo impasto di quelle un po' meno arcaiche rinvenute sul Palatino. Si ebbero altresì pezzi di un vaso greco a figure nere con Bacco vestito di chitone bianco e mantello purpureo, a cavallo ad un asino, in atto di reggere con la destra il kantharos e con la sinistra le redini.

La distribuzione della stipe votiva farebbe credere, per ora, che il punto più importante dell' edificio fosse considerato quello sul quale sorgono il tronco di cono ed il cippo, perchè ivi furono trovate le figurine di bronzo e di osso, i rottami del vaso greco, dell' antefissa e della tavoletta arcaica. 

Quest' ultima stava al basso dello strato del sacrificio, i frammenti invece del vaso greco e dell' antefissa arcaica nella parte superiore dello stesso strato, il quale appartiene d'altronde ad un sacrificio unico, compiuto poco dopo avvenuta la manomissione e susseguito immediatamente dalla costruzione della massicciata di tufo che lo ricopre.

Mescolati alle ceneri del sacrificio furono trovati vari rottami di tufo, i quali presentano traccia di lavorazione congenere a quella dei basamenti. Furono pure trovati frammenti di marmo nero identico a quello del niger lapis. Molte schegge dello stesso marmo nero si trovano nella massicciata di tufo, grossa m. 0,35, che ricopre lo strato del sacrifìcio e arriva all' altezza della troncatura del cippo. 

Questa massicciata segna probabilmente il piano di posa del niger lapis, prima che venisse rialzato nuovamente il Comizio con uno strato di scaglie di travertino e di marmo bianco, dello spessore di m, 0,44 compreso il letto di posa del marmo nero, orientato, secondo la nuova Curia, 35° a destra dei basamenti di tufo.
RICOSTRUZIONE DELL'ALTARE DEL LAPIS NIGER 

Paleografia del monumento. 

La stele di forma piramidale troncata, di cui non resta che la parte inferiore, e trovata al posto fra il Foro e il Comizio presso all' arco di Settimio Severo ( ! ), porta in tutte le quattro facce e in un angolo una iscrizione incisa in grandi lettere di forma arcaico-greca, assai somigliante a quella delle più antiche iscrizioni etrusche dell' Etruria marittima. 

Il plinto, in cui fu collocata, sta nel piano più basso o primitivo del Foro,ed è circondato da altri edifizì di età vetustissima. Intorno ad esso si è ritrovata una grande quantità di oggetti di stipe votiva, commisti ad avanzi di sacrifizi, la quale stipe risale sicuramente alla prima metà del secolo sesto a.c. Da che si rileva che la stele fu il precipuo monumento del culto, il quale a mio credere ebbe certissimo principio dal suo innalzamento.

Comprovano il tempo del VI sec. a.c. il modo e la forma della scrittura. Prima d'innalzare la stele il quadratarìo incise le lettere, cominciando da destra a sinistra e ripiegando poi nella seconda linea con diversa direzione, cioè da sinistra a destra, e così nelle altre, seguendo il modo bustrofedico, così detto per la somiglianza coll'andamento del solco bovino. Il qual modo ci richiama ai tempi più antichi delle iscrizioni greche, mentre non avevamo esempio alcuno nell'etrusco, nell'umbro, nel tosco e nel latino; solo in qualche epigrafe del Piceno e dei Marsi, dove la cultura fu assai scarsa, e pare che abbia avuto maggior durata il sistema che prima vi fu introdotto.

Ma dacché si vede che il ......... compare in Grecia fra il settimo e il sesto, e nei primi di questo vi furono in Atene scritte le leggi di Solone, ma che poi durante quel secolo cessò del tutto, abbiamo ragione per ritenere, che la stele del Foro specialmente vi spetti, e non possa essere posteriore. 

Scritta che fu nelle quattro facce e in uno spigolo appositamente smussato, venne innal- zata e fissata sopra una base. 

Risultarono allora le righe non più in linea orizzontale, ma verticale; così che la scrittura cominciava dal basso in alto per ripiegare al modo bustrofedico, come si è detto. Troncata che fu oltre la sua metà, non rimasero che le linee spezzate, e nel principio e nella fine alternativamente, onde di continuo ne è il senso interrotto.  

Disgraziatamente del guerriero non rimane che l'alta cresta dell'elmo, sufficiente però a confrontarsi con gli elmi dipinti nei vasi sincroni all'anfora calcidiese. Di questa abbiamo il bel frammento di Dioniso sull'asino, onde vi si doveva rappresentare la sua entrata all'Olimpo fra gli Dei: il disegno e i colori ne determinano l'età non inferiore ai primi del secolo VI, se pure non comincia prima; onde apparisce pur questo non lieve argomento par determinare l'età antichissima della stela. Si vede pure, che si incominciò allora a fare uso dei due punti, il quale uso dappoi divenne generale e stabile specialmente nelle epigrafi etrusche.

RICOSTRUZIONE ESTERNA
Quando ne esaminiamo la forma delle lettere, emerge chiaro il fatto che quelle si confrontano con gli alfabeti greci, che primamente si accolsero e si usarono nella contrada etrusca prossima a Roma. Da che si viene a dedurre che Roma ricevette la scrittura dagli Etruschi, e precisamente da Cere, come si vedrà, non già dai Calcidiesi e da Clima, opinione da alcun tempo accettata dai dotti. 

Fortunatamente, sono circa 17 anni, che da un luogo della campagna romana detto Formello, venne alla luce un grande vaso, che la tecnica riporta almeno al principio del secolo VI, e dove sono incisi a punta due alfabeti vetustissimi con delle etrusche parole. Or bene, tali alfabeti mostrano di essere il preciso tipo di quello rivelato dalle lettere della stela, e in cui sicuramente, secondo la tradizione, furono scolpiti i "monumenta regum" (tombe dei re).

E perchè più di ogni argomento in tali ricerche vale il raffronto, pongo l'alfabeto di Formello in rispondenza delle lettere date dalla stela del Foro: l'alfabeto è lo stesso: si noterà solo la lievissima differenza che la & di Formello apparisce anteriore alla romana: la quale, perchè si usò poi generalmente in Etruria, dimostra che la stele venne scolpita, quando quel cambiamento era già avvenuto. Talune lettere fino da principio non furono applicate nell'uso della scrittura né dagli Etruschi, né dai Romani; ed altre si modificarono nella forma e nel suono sia per l'indole del dialetto, sia per influenze esterne. "  



LE NOVITA'

Nel novembre del 2008 forti piogge danneggiarono la copertura di cemento che ha protetto il Volcanale e i suoi monumenti dal 1950, incluso il Lapis Niger.
Il rivestimento in marmo e cemento è infatti un mix di marmo nero originale e cemento moderno utilizzato per creare e mantenere il rivestimento di marmo.
Una tenda in plexiglas ora protegge le reliquie antiche riparandole dalle intemperie permettendo al pubblico di vedere il sito originale per la prima volta in 50 anni.


BIBLIO

- Gaetano De Sanctis - Il lapis niger e la iscrizione arcaica del foro romano - Rivista di filologia e di istruzione classica - 28 - 1900 -
Claude Moatti - Roma antica - ed. Electa/Gallimard, - 1992 -
- Giacomo Boni - Scavi al Foro Romano: esplorazione del comizio. - Roma - Accademia dei lincei - 1900 -
- Guido Di Nardo - Monumenti arcaici del Palatino - Ed. Ruiz - Roma - 1954 -
- Guido Di Nardo - La Roma preistorica sul Palatino, il primato italico sulla civiltà mediterranea - Albano Laziale - Tip. Sannibale - XIII -1935 -
- Verrio Flacco - Fasti Praenestini o Kalendarium - Roma - 1997 -
- Verrio Flacco - Epitome di "Pompeo Festo" - Roma - 1995 -


 



8 comment:

Anonimo ha detto...

se lo dici tu...

Anonimo ha detto...

Testo molto ben fatto, utile per una ricerca a scuola, ma anche per conoscenza personale :)

Chiara Zarbo on 21 febbraio 2020 alle ore 13:34 ha detto...

Interessante♥

Unknown on 30 dicembre 2021 alle ore 11:17 ha detto...

Ma.che commento è?

Anonimo ha detto...

Grazie: finalmente riesco a farmi un’idea precisa dello stupefacente monumento. Scheda molto ben fatta e godibile.

Anonimo ha detto...

veramente veramente molto interessante, l'ho letto mentre mangiavo, devo dire ottime lasagne

Anonimo ha detto...

Posso chiedere se si conosce l'intera traduzione dell'iscrizione sul Lapis Niger?

Anonimo ha detto...

Scusate, ma quando affermate "Si suppone infatti che il latino sia nato dall'etrusco misto a qualche dialetto locale, nato a sua volta dal greco, a sua volta derivato dall’incrocio del fenicio con il miceneo e la lineare b di Creta" su che basi fondate questo convincimento?
Il latino è una lingua indoeuropea (come il greco), peraltro nemmeno l'unica fra le lingue italiche. La filiazione dell'Etrusco è ancora discussa ma di sicuro non ha "partorito" il latino. Quel che è certo, vista la convinvenza a lungo nello stesso territorio, è che termini della lingua etrusca sono entrati nella lingua latina, esattamente come accade oggi fra l'italiano e l'inglese, ad esempio.

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