IUS ROMANUM
Per Diritto romano s'intende l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico romano per circa 13 sec., dal 753 a.c., data della Fondazione di Roma, alla fine dell'Impero di Giustiniano, nel 565 d.c..
Tre anni dopo la morte di Giustiniano l’Italia fu invasa dai Longobardi: l’impero d’Occidente crollò e Bisanzio, anche se imperiale e romana, si allontanò sempre più dall’eredità dell’antica Roma e dalla sua civiltà, di costumi, di religione e giuridica.
Il diritto si sviluppò attraverso l'arco di 4 periodi principali:
- Periodo arcaico: dalla fondazione di Roma (753 a.c.) all'emanazione delle leges Liciniae-Sextiae (367 a.c.); corrisponde al periodo monarchico;
- Periodo preclassico: dall'emanazione delle leges Liciniae-Sextiae fino al principato (27 a.c.); corrisponde al periodo Repubblicano;
- Periodo classico: da Augusto (27 a.c.) fino all'avvento dell'imperatore Diocleziano (284 d.c);
- Periodo postclassico: da Diocleziano a Giustiniano (568 d.c.); corrisponde al periodo dell'Impero Romano d'Occidente.
- IUS QUIRITUM - da "Quirites", cioè "Romani". Il più arcaico, costituito da un insieme di consuetudini ancestrali, non scritte ma tramandate "bocca a bocca". Riguardava il diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non esistevano.
- IUS CIVILE - le norme che regolavano i rapporti tra i cives romani, prerogativa dei cittadini di Roma. Lo ius civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei giurisperiti.
NEMESIS DEA DELLA GIUSTIZIA
- IUS HONORARIUM - (o ius praetorium), sulle situazioni di diritto o di fatto che, non trovando tutela nelle norme dello ius civile, venivano regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di iurisdictio. Lo ius pretorium è il diritto introdotto dai praetores per aiutare, aggiungere, emendare lo ius civile per la pubblica utilità, chiamato anche honorarium dall'onore dei pretori.
- IUS LEGITIMUM - derivante da lex, era lo Ius prodotto dalle assemblee (soprattutto i comitia centuriata e i concilia plebis) con la votazione e approvazione di una legge comiziale; si stabilì in età repubblicana e fiorì sotto Augusto per scomparire dopo la sua morte e la trasformazione dello stato in impero, in cui vennero meno le assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio imperiale del potere. Così la lex perse il carattere di comizialità, sostituita dalle norme dell'imperatore, come "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius legitimum si estinsee, confluendo nello ius civile.
- IUS GENTIUM - cioè tutti gli istituti che trovavano tutela, oltre che nell'ordinamento romano, anche presso altri popoli.
DIRITTO DI FAMIGLIA
Il giurista severiano Ulpiano:
"La famiglia romana si basa sulla soggezione al pater familias, che esercitava la sua potestas sui sottoposti, fossero essi o no parenti di sangue."
La famiglia era insieme un complesso di persone e di beni che facevano capo al pater, «signore assoluto» nella domus.
ADGNATIO
La parentela civile, l’adgnatio, era in linea maschile, ed aveva effetti giuridici ai fini della successione, della tutela, della curatela e della vendetta.
L’insieme degli agnati dopo la morte del comune pater familias costituiva la familia communi iure.
Succedeva però che i coeredi, dopo la morte del pater, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditario, pur risultandone ognuno titolare in solidum, ponendo in essere il consortium ercto non cito.
Questa forma di comunione, sorta per motivi di ordine economico e politico, in quanto dava la possibilità agli eredi di rimanere nella classe censitaria del defunto, si estinse sul finire della repubblica.
COGNATIO
La parentela naturale era invece rappresentata dalla cognatio, vincolo di sangue che nel diritto arcaico significava solo come impedimento matrimoniale, e per scopi di culto. Gli effetti giuridici crebbero nel corso del tempo fino ad arrivare a Giustiniano, che nel 543, con la Nov. 118, parificò la cognatio all’adgnatio.
PATRIA POTESTAS
La patria potestas, era il potere riconosciuto ed esclusivo del popolo romano. In realtà tutto il mondo barbaro esercitava una patria potestà con diritto di vita e di morte su mogli e figli, ma per usi e non per leggi, per cui non riconosciute dai romani.
TAVOLA DELLA LEGGE DI VESPASIANO |
- ius exponendi, per cui egli poteva esporre o allevare la prole, cioè allevarli o farli morire;
- oppure poteva venderli in base allo ius vendendi;
- poteva consegnare i figli alla persona che questi avevano offesa per togliersi ogni responsabilità in base al ius noxae dandi,
- poteva anche uccidere le persone a lui soggette in virtù del ius vitae ac necis.
La patria potestas venne limitata indirettamente al finire dell’età repubblicana con il riconoscimento ai figli di una certa capacità di agire. Augusto creò il peculium castrense, per cui i figli potevano disporre dei beni che acquistavano durante il servizio militare, e in età postclassica, del peculium quasi castrense, per gli acquisti ottenuti dall’esercizio di attività burocratiche ed ecclesiastiche, incrinando l’unità del patrimonio familiare.
Diverse costituzioni imperiali limitarono l’estensione della patria potestas, e lo stesso ius vitae ac necis scomparve sul finire del periodo classico, poiché l’autorità pubblica si andò sostituendo a quella privata, con un senso più elevato della socialità che non tollerava più l’esercizio del pater di un potere assolutista così terribile.
I FRATELLI
Ma la patria potestas riguardava, almeno nelle consutudini, anche al potere del fratello sulla sorella, e al potere del fratello maggiore sul fratello minore.
Orazia che venne uccisa dal fratello in quanto piangeva la morte del fidanzato albano, il che lo portò in giudizio, da cui lo discolpò il padre. Uccidere una sorella non era dunque di per sè condannabile.
Quinto Cicerone, fratello dell'oratore e validissimo legato di Cesare in Gallia, non partecipò alle guerre civili perché suo fratello Pompeiano gli aveva vietato di combattere per Cesare.
ADOZIONE
Il terzo capitolo ha come oggetto l’adozione, il titolo giuridico con il quale un estraneo entrava a far parte della familia. Secondo la giurisprudenza del II e del III sec. d.c. l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.
L’adrogatio, che si compiva solo fra persone sui iuris di fronte ai comitia curiata presieduti dal pontifex maximus, faceva sorgere un rapporto di filiazione legittima ed estingueva il gruppo familiare dell’arrogato. Con Diocleziano all’adoptio per populum si venne sostituendo, inizialmente in territorio provinciale, l’adrogatio per rescriptum principis, che richiedeva un rescritto imperiale: questa nuova forma dell’istituto ne accrebbe le applicazioni, come ad esempio l’arrogazione delle donne.
L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, era legata all’istituto dell’emancipazione in quanto si doveva estinguere la patria potestas del pater che voleva far adottare il figlio. La communis opinio ne colloca l’origine dopo il decemvirato legislativo. L’adottato perdeva ogni rapporto di agnazione e di gentilità con la famiglia di origine per entrare a pieno titolo a far parte della familia dell’adottante.
L’adoptio creava un vincolo di discendenza fittizia fra adottato e adottante, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati ai discendenti naturali dell’adottante, dal che si deduce come questo istituto servisse, sin dalle origini, a procurare dei discendenti ad un pater familias, per garantire la continuità del nome, dei sacra familiaria e del patrimonio. Ma l’istituto poteva essere usato per scopi differenti, ed anche fraudis causa. L’adozione infatti, poteva essere utilizzata a scopi politici fra le famiglie appartenenti alla nobilitas per perpetuare il loro monopolio politico. Attraverso l’adoptio, durante i primi secoli del principato, il princeps designava il proprio successore.
Giustiniano modificò l’adozione trasformandolo in atto privato, stabilendo che non si estinguessero i legami con la famiglia d’origine per evitare all’adottato il rischio che egli potesse essere respinto dalla successione nell’una e nell’altra famiglia qualora fosse emancipato dal padre adottivo.
La tutela in diritto romano esisteva per gli impuberi sui iuris una tutela impuberum, mentre la tutela mulierum vigeva per le donne puberi sui iuris.
La tutela legitima adgnatorum o gentilium, predisposta in origine nell’interesse del tutore o del gruppo gentilizio, riguardava soprattutto il patrimonio: ad esercitare la tutela legittima erano infatti chiamati i diretti eredi dell’impubere o della donna, gli adgnati proximi o, in loro assenza, i gentiles, i quali esercitavano la tutela per conservare l’integrità del patrimonio del tutelato, patrimonio che essi stessi avrebbero ereditato alla morte della donna o del pupillo, se costui fosse morto ancora impubere.
TUTORE DATIVO
Quando si creò la figura del tutore dativo, sul finire del III secolo a.c., mutò la concezione della tutela impuberum, non più come potere spettante al tutore, che l’esercitava nel suo interesse o in quello della famiglia agnatizia, ma soprattutto, come funzione protettiva nei confronti dell’impubere. Ma l’antico carattere potestativo non scomparve, neanche quando la tutela divenne sempre più un ufficio.
Con il termine cura, curatio, rimediava ad incapacità accidentali e che potevano variare all’infinito, oppure l’assenza della curatela testamentaria.
Un elemento che accomunava le diverse curationes, o meglio i diversi curatores, era precisamente quello di salvaguardare, da un punto di vista patrimoniale, gli interessi di particolari categorie di persone, ritenute incapaci o limitatamente capaci di agire, con poteri di una vera e propria gestione patrimoniale o limitati ad una funzione di sorveglianza più o meno intensa.
Il termine familia, dalle accezioni patrimoniali, solo più tardi indicherà un organismo familiare, poichè in origine esistevano diversi gruppi familiari, qui distinti secondo l’elenco di Ulpiano:
- la familia proprio iure,
- la familia communi iure, la gens,
- il consortium ercto non cito.
Differenze tra la familia e la gens:
- la famiglia ha un capostipite reale, mentre quello dei gentiles è mitico;
- la parentela familiare è, a differenza di quella gentilizia, per gradi;
- il carattere della famiglia è potestativo, mentre quello della gens è comunitario e solidaristico;
- il culto familiare riguarda gli antenati, mentre quello gentilizio celebra divinità dell’Olimpo;
- nel sistema onomastico romano il nomem gentilicium che si affianca al prenomen caratterizza la gens, mentre la familia viene identificata con il cognomen che è ereditario e rappresenta l’elemento più tardo del nome.
La gens si basa su un matrimonio collettivo tra serie di fratelli e serie di sorelle. Il matrimonio rimase esogamico fin quando esistette una economia di raccolta, in tale periodo la donna non era subordinata all’uomo.
Quando si passa ad un sistema produttivo che si basa sulla proprietà privata maschile cambiano anche i rapporti tra i sessi, viene istituzionalizzato il matrimonio monogamico, che obbligherà le donne libere a sposarsi e con un solo maschio, e che andrà a privatizzare la prole.
Dunque: «La famiglia monogamica a base patriarcale si afferma all’interno e contro l’ordinamento comunitario della gens». Soprattutto pone fine alla libertà femminile sottoponendola al maschio.
FAMILIA ROMANA
La famiglia romana è un gruppo patriarcale, potestativo, agnatizio e patrilocale. Si fonda sul matrimonio monogamico per avere la certezza sulla prole a scopi ereditari, e per questo motivo l’obbligo di fedeltà della donna viene istituzionalizzato e sanzionato.
La patria potestas tiene coesa la famiglia romana per vari secoli, vista soprattutto la subordinazione delle donne agli uomini.
La patria potestas, che si acquista attraverso la nascita da iustae nuptiae, l’adrogatio e l’adoptio, e che si perde tramite l’emancipazione del filius e la morte o la capitis deminutio del pater, ha diversi poteri e facoltà quali:
- ius vendendi, sistema di scambio tra i gruppi, dove il figlio rappresenta la forza-lavoro in una società preschiavistica.
- ius noxae dandi, legato non solo al risarcimento ma anche alla vendetta, una specie di legge del taglione.
- ius vitae ac necis, legato ad una antica società che non si poteva espandere in quanto basata su sistema di produzione primitivo ristretto.
- ius tollendi.
- ius exponendi.
LA GENS
La gens era l’insieme di più famiglie i cui appartenenti si distinguevano per il comune nomen gentilicium. Tale parentela risultava senza gradi per il fatto che il comune capostipite era piuttosto remoto, e proprio per l’assenza di grado i gentili in base a una norma delle XII Tavole venivano chiamati insieme in caso di successio ab intestato.
Nella gens il nome è indicatore esterno di appartenenza al gruppo clanico di base comunitaria, dove vige l’uguaglianza dei membri e un profondo spirito di solidarietà.
Oltre ai gentiles appartenevano alla gens anche i clientes, ma subordinatamente. I clientes portano il nomen gentilicium e hanno con la gens comunanza di sacra e di sepolcri.
Esisteva lo sfruttamento comune delle terre, avevano norme consuetudinarie, i mores, ed emanavano dei decreta autoritativi; rappresentava l’unità del clan la sepoltura comune.
L’unità dei gruppi gentilizi inizia ad incrinarsi quando, intorno al V sec. a.c., le famiglie egemoni la trasformano dall’interno attraverso l’usurpazione e la concentrazione della ricchezza, e mediante le stesse istituzioni gentilizie, a difesa di un’egemonia di classe attaccata dalla lotta degli strati emergenti della plebe.
Tra il IV ed il III sec. a.c. inizia il declino delle gentes, che si scindono in familiae.
IL MATRIMONIO
Il fidanzamento
Chi desiderava prendere moglie chiedeva a chi aveva la tutela della donna una formale promessa ed a sua volta prometteva. Questa contrattazione si chiamava "sponsalia" (fidanzamento). Se le promesse venivano rotte senza giusta causa un giudice condannava la parte inadempiente ad una pena pecuniaria. Questi ordinamenti rimasero in vigore fino alla legge Giulia del 90 a.c.
Le nuptiae
Nel Lazio antico invece tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». L’antica esogamia gentilizia persistette a lungo, e ad essa andrà poi ad affiancarsi anche una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado: «I due divieti si riferiscono a due diversi gruppi (gens, grande famiglia) che non rappresentano due cerchi concentrici».
Nel regime patrimoniale della famiglia c'è una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.
Matrimonium iustum, secondo i requisiti dell’istituto, elencati nei Tituli ex corpore Ulpiani:
Anticamente con il conubium si accede allo scambio matrimoniale con riti di fertilità in un periodo precivico. La letteratura del primo principato circa il Lazio antico mostra «la consapevolezza che il fondamento arcaico del conubium risiedeva su una convenzione espressa o tacita della comunità - passibile di rottura violenta e di pacifico rinnovo - la cui attuazione nel caso concreto non subiva mediazioni mercantili ma era garantita da cerimonie religiose».
La funzionalità del conubium per la riproduzione umana fa dipendere l’interesse dal ruolo dei gruppi di parentela. Se prima il conubium era lasciato ai rapporti tra gruppi precivici, in seguito viene regolamentato dello stato per allargare, restringere o rimuovere l’area di scambio matrimoniale.
La famiglia in età arcaica gestisce le strategie riproduttive, per cui la prole rappresenta il patrimonio della famiglia e non del singolo. In tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni.
L'integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, sono stati elaborati su base consuetudinaria e per offrire modelli alle famiglie con ampio margine di scelta per controllare i conflitti di potere.
Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Anche gli aspetti patrimoniali erano in partecipazione con la moglie, tanto è vero che esisteva fin da allora il divieto di donazione tra i coniugi.
Lo ius civile, partendo dal conubium, perviene al matrimonium iustum. Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres.
Ma quando con l’andare del tempo le nuptiae religiose non rappresentano più una garanzia della stabilità e continuità della famiglia, intervengono le leggi.
LA SCHIAVITU'
La servitù è il tipico sistema produttivo del mondo antico: tuttavia, finché il ciclo di produzione rimase basso, non si crearono le condizioni per la schiavitù. Questa nasce quando si stabilisce il patriarcato, cioè la proprietà maschile legata all’allevamento, per l'accudimento del bestiame e per l’innescato meccanismo dell’accumulazione, dove l’individuo contende al gruppo la terra che prima era in comunità.
Così si dissolvono gli ordinamenti comunitari (tribù, clan) e nasce lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la guerra e la schiavitù. Gli schiavi nascono soprattutto come prede di guerra, e sono sottoposti al Pater Familias, che su di loro lo stesso diritto che aveva su moglie e figli. Sarà Augusto a mitigare in parte questo potere.
LA CITTADINANZA
La cittadinanza è espressa dai romani con la parola civitas, termine che indica anche il complesso dei cittadini e l’urbs. Nella Roma dei Tarquini si supera la costituzione gentilizia, sostituita dall’appartenenza allo Stato, come formazione politico-territoriale. La gens resta egualmente forte e determina la storia antica di Roma, ma i membri dello Stato (cives) non sono solo gentiles. La Plebe avanza.
LA CONDIZIONE DELLA DONNA
Per i romani infatti, come per i greci, non spettava alle donne di parlare, perchè non sapevano fare buon uso. Le donne dovevano tacere e tale dovere, quando i tempi si erano evoluti e la donna emancipata.
La contraddizione tra l’immagine offerta dalle leggende di figure femminili eroiche e il quadro di sottomissione che emerge dalla severità dei precetti giuridici, dimostra il passaggio tra matriarcato e patriarcato, dove il matriarcato è indice di libertà femminile ma non di dominio sul maschile, al contrariodel patriarcato
Le figure femminili dell’Etruria come Tanaquil, la sposa etrusca di Tarquino Prisco, la quale diede per la civitas importanti interpretazioni di prodigi; del Lazio come Lavinia, figlia del re Latino, e moglie di Enea, e la vergine di Ardea, la cui storia è raccontata da Livio; della Sabina come Ersilia, rapita per errore nel famoso ratto, sono le prove di antichi poteri femminili. Inoltre, nei culti e nelle leggende italiche, di tradizione preromana, vi sono figure di donne forti e coraggiose dalle virtù maschili quali Camilla, figlia del re di Priverno, e Clelia che, caduta in ostaggio di Porsenna scappò assieme ad altre fanciulle riportandole a Roma, e alla quale venne dedicata a spese pubbliche una statua equestre.
A Roma l’educazione femminile prevedeva il lanificium, l'accudimento dei figli, l'accudimento e l'amministrazione della casa. Le sue virtù erano le stesse che poi adottò la Chiesa cattolica: la castità, la riservatezza, la modestia, la pietà. S. Paolo vieta alle donne di prendre la parola nelle assemblee religiose, che domandino ai mariti, ma a casa. Accanto alle virtù vi erano dei doveri, tra i quali il silenzio, ricordati da altre divinità oltre a Tacita Muta, come Angerona, Dea bendata ed imbavagliata, che tutelava Roma.
Pertanto le donne non possono essere le interlocutrici degli uomini, non possono studiare nè confrontare la loro cultura o intelligenza con quelle maschili. La superiorità del maschio deve essere difesa impedendo alle donne di sviluppare o manifestare le loro qualità.
La propaganda nazionale prospettava casi esemplari di donne virtuose e integerrime come Lucrezia, che si suicidò perché violentata da Tarquinio il Superbo: ma un’offesa che fece insorgere il popolo a rovesciare il regime monarchico. Oppure Orazia che fu uccisa dal fratello in quanto piangeva la morte del fidanzato albano: «Orazia avrebbe dovuto dimenticare un amore divenuto d’un tratto disdicevole. Così come disdicevole era stato manifestare pubblicamente il suo dolore, pur senza proferire parola, solo piangendo. Le donne romane dovevano saperlo, e trarne le dovute conseguenze».
D'altronde Virginia fu uccisa dal padre per sottrarla dal disonore di cadere sotto il potere di Appio Claudio, ma anche in questo caso «la sua morte cambiò la storia di Roma. I decemviri furono cacciati a furor di popolo». Il padre poteva uccidere la figlia che perdeva la verginità anche se questa non era stata consenziente, ma le fonti ne ricordano solo pochi casi in quanto "l’esercizio di questa giustizia era così scontato che i soli episodi degni di menzione erano quelli eccezionali".
Lo stesso sposo veniva scelto dal padre. Le mogli erano sottoposte alla manus del marito, se sui iuris, o del pater di questi. L’unica differenza rispetto alla potestà paterna era che: "il padre poteva uccidere la figlia se e quando decideva di farlo; il marito, o il paterfamilias di questi, potevano farlo solo nei casi in cui la legge lo consentiva."
Nonostante tutto questo però all’interno della familia le donne partecipavano alla successione del patrimonio familiare, anche se non potevano disporre dei beni ereditati, né accedere alle antiche forme testamentarie. Inoltre i romani crearono l’istituto potestativo della tutela muliebre per impedire che il patrimonio familiare fosse intaccato: «La levitas animi delle donne, la “leggerezza dell’animo femminile”, invocata per giustificare la tutela a vita era solo un un pretesto. La gestione non solo della vita collettiva ma anche del patrimonio familiare rimaneva compito esclusivamente maschile.
Tuttavia «nonostante il ferreo controllo cui le avevano sottoposte, i romani temevano le donne». A tal proposito furono celebrati esemplari processi a carico di donne che avevano trasgredito alle regole, quali i procedimenti di gruppo contro matrone accusate di stuprum nel 295 e nel 231 a.c., quelli contro le avvelenatrici nel 331, nel 180, e nel 153 a.c., e quelli contro i culti bacchici nel 186 a.c.
Nuovi diritti per le donne
Intorno al II sec. a.c. si diffuse però il matrimonio consensuale, che prese ben presto il posto di quello cum manu, in cui la convivenza presupponeva l'intenzione degli sposi di contrarre matrimonio; qualora fossero alieni iuris era indispensabile anche il consenso dei padri: "Il consenso filiale considerato necessario, era un “consenso passivo”, che non necessariamente comportava il desiderio di sposarsi, o di sposare quella determinata persona."
Le donne potevano chiedere il divorzio e nel nuovo regime matrimoniale, la moglie, rimanendo nella famiglia di origine, diventava indipendente assai prima di quanto accadesse nel vecchio regime, in cui lo diventava solo alla morte del marito: in linea di massima si rimane prima orfani che vedovi. Se appartenevano a una famiglia agiata, dunque, le donne entravano in possesso di un loro patrimonio personale in età relativamente giovane.
Esse godevano sia di nuovi diritti successori, in quanto ammesse alla bonorum possessio dalle regole pretorie, sia di una maggiore libertà nella disposizione dei propri beni, poiché la tutela si trasformò in un istituto protettivo. La libertà delle donne crebbe al punto che arrivarono a scendere in piazza, ad esempio per sostenere nel 195 a.c. la proposta di abrogare la lex Oppia contro il lusso femminile: in questa e in altre occasioni «le donne si erano comportate come vere e proprie attiviste politiche», per cui fu creato il termine axitiosae.
Tuttavia, per i romani la ricchezza "le corrompeva, le rendeva disobbedienti e arroganti." Fu per cercare di porre rimedio a questa situazione, forse, che nel 169 a.c. venne proposta e approvata la lex Voconia, che proibiva che le donne fossero istituite eredi testamentarie dagli appartenenti alla prima classe di censo, e ciò prova che la lex fu emanata per limitare la diffusione della ricchezza femminile che preoccupava e infastidiva gli uomini.
Nessuna legge romana aveva mai vietato alle donne l’esercizio dell’avvocatura, poichè sin dall’antichità le donne erano “rinchiuse” nelle mura domestiche; chi poteva ensare che una di loro potesse aspirare ad una carica tanto lontana dalla loro condizione sociale?
Ma i tempi cambiano e così accadde che, nel I sec. a.c., alcune donne avvocato si presentassero in tribunale a perorare delle cause. Una di loro fu Afrania, che sostenne varie cause pubbliche e visse fino all’epoca del II consolato di Cesare (48 a.c.). La cosa fece scandalo presso i benpensanti, tanto che la donna fu ricordata con particolare astio dagli scrittori di epoca successiva. comparvero infatti le donne avvocato, che sostenevano da sole le proprie ragioni sia nel campo civile, sia in quello penale, come Mesia Sentinate e Afrania.
Valerio Massimo dice di lei che “un tale mostro deve essere tramandato alla memoria più per l’istante in cui morì che per l’istante in cui nacque”.
Un altro caso celebre fu quello di Ortensia, figlia del famoso oratore Ortensio e dunque figlia d’arte. Di lei si racconta che nel 42 a.c., quando i triumviri imposero alle matrone romane più ricche una pesante tassa per far fronte alle spese militari, le donne la incaricarono di perorare la loro causa davanti ai triumviri ed essa riuscì a cancellare la tassa. Col tempo, non solo i letterati, ma anche i semplici cittadini romani finirono per allarmarsi; fu così promulgato un editto pretorio che vietava alle donne di postulare pro aliis (“rappresentare altri in giudizio”), per evitare che, occupandosi di affari pubblici, "venissero meno alla pudicizia propria del loro sesso." Fare l'avvocato era impudico? Ma così il fenomeno delle donne avvocato non ebbe seguito nella storia del diritto romano.
Le donne asservite
Le donne, ormai svilite da secoli, accettarono e rispettarono le regole del modello canonico della matrona romana. È il caso di Marzia, moglie di Catone Uticense, la quale, pur incinta, fu ceduta sposa all’amico del marito Q. Ortensio Ortalo, e appena il secondo marito morì si risposò con il primo. Tale pratica non era eccezionale per i romani: non solo si cedevano le mogli, ma vi poteva essere anche la cessione del ventre. Questa prassi «legata al desiderio di stringere rapporti di alleanza sociale e politica» riguardava maggiormente le classi elevate.
Un’altra figura di donna virtuosa e devota fu Turia, la cui storia si conosce per la laudatio dedicatale dal marito incisa nella sua tomba. Turia poiché non aveva avuto figli propose al marito di divorziare per farlo risposare con una donna, magari già incinta, che esaurito il suo compito discretamente si allontanasse, per soddisfare il suo desiderio di paternità.
Una ribelle delle regole fu invece Clodia, amata da Catullo che la chiamò nelle sue opere Lesbia. Clodia quando viene descritta da Catullo rappresenta "lo stereotipo, ben radicato nella mente maschile, della donna che nella realtà di un rapporto respinge o delude ogni pretesa di esclusività", e la figura che ne emerge è "ai limiti della depravazione" , ma solo perchè è donna, perchè Catullo, che scorazzava per postriboli ed aveva efebi adolescenti per amanti, era di sani costumi.
Ma dietro questo "sembra di scorgere una figura reale di donna forte, autonoma, in amore certamente volubile." Lo stesso Cicerone nella sua arringa del 56 a.c. in difesa di Celio Rufo accusato di vis publica, ex amante di Clodia chiamata a testimoniare dall’accusa, fece un ritratto molto negativo della donna. Clodia era "una donna che non si conformava ai modelli, autonoma e indipendente. Una donna inaccettabile, alla quale venne fatto pagare il conto di tutte le sue scelte di vita."
Sulpicia, poetessa all’epoca di Augusto, le cui poesie d’amore dedicate a Cerinto sono le uniche «scritte da una donna romana di età classica e giunte sino a noi», inserite nel Corpus Tibullianum. Sulpicia rappresenta una figura femminile «emancipata. Una di quelle donne, che, all’epoca, avevano preso a vivere secondo un nuovo modello, rifiutando le regole».
Nonostante la libertà che raggiunse la loro condizione le donne romane non misero in discussione il loro ruolo. Esse "si sentivano parte della città, sentivano di svolgere nell’interesse di questa un compito fondamentale. E sapevano che se lo avessero svolto sarebbero state ricompensate: sapevano che si fossero adeguate al modello sarebbero state premiate dal rispetto, dall’ammirazione privata e pubblica, da onori che non vennero tributati ad altre donne dell’antichità."
Per cui non c'era femminismo a Roma, le donne accettavano la loro esclusione dalla vita politica in cambio di privilegi, "ma questo non toglie che il loro rapporto con gli uomini, forse per la prima volta nella storia occidentale, non fosse un rapporto basato sull’oppressione. Il rapporto delle donne romane con i loro uomini era basato sullo scambio."
BIBLIO
- Giovanni Rotondi - Leges publicae populi Romani: elenco cronologico con una introduzione sull'attività legislativa dei comizi romani - Hildesheim - Olms, 1962 -
- Sesto Pomponio - De origine iuris -
- Mario Pani - Elisabetta Todisco - Società e istituzioni di Roma antica - Roma - 2005 -
- Claude Nicolet - Strutture dell'Italia romana, (sec. 3.-1. a.c.) - Roma - Jouvence - 1984 -
Le nuptiae
Nel Lazio antico invece tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». L’antica esogamia gentilizia persistette a lungo, e ad essa andrà poi ad affiancarsi anche una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado: «I due divieti si riferiscono a due diversi gruppi (gens, grande famiglia) che non rappresentano due cerchi concentrici».
Nel regime patrimoniale della famiglia c'è una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.
Matrimonium iustum, secondo i requisiti dell’istituto, elencati nei Tituli ex corpore Ulpiani:
- la capacità a sposarsi (conubium),
- l’età pubere,
- il consenso dei nubendi se sui iuris, o degli ascendenti qualora fossero alieni iuris.
TAVOLA DELLE LEGGI DI CESARE |
La funzionalità del conubium per la riproduzione umana fa dipendere l’interesse dal ruolo dei gruppi di parentela. Se prima il conubium era lasciato ai rapporti tra gruppi precivici, in seguito viene regolamentato dello stato per allargare, restringere o rimuovere l’area di scambio matrimoniale.
La famiglia in età arcaica gestisce le strategie riproduttive, per cui la prole rappresenta il patrimonio della famiglia e non del singolo. In tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni.
L'integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, sono stati elaborati su base consuetudinaria e per offrire modelli alle famiglie con ampio margine di scelta per controllare i conflitti di potere.
Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Anche gli aspetti patrimoniali erano in partecipazione con la moglie, tanto è vero che esisteva fin da allora il divieto di donazione tra i coniugi.
Lo ius civile, partendo dal conubium, perviene al matrimonium iustum. Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres.
Ma quando con l’andare del tempo le nuptiae religiose non rappresentano più una garanzia della stabilità e continuità della famiglia, intervengono le leggi.
LA SCHIAVITU'
La servitù è il tipico sistema produttivo del mondo antico: tuttavia, finché il ciclo di produzione rimase basso, non si crearono le condizioni per la schiavitù. Questa nasce quando si stabilisce il patriarcato, cioè la proprietà maschile legata all’allevamento, per l'accudimento del bestiame e per l’innescato meccanismo dell’accumulazione, dove l’individuo contende al gruppo la terra che prima era in comunità.
Così si dissolvono gli ordinamenti comunitari (tribù, clan) e nasce lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la guerra e la schiavitù. Gli schiavi nascono soprattutto come prede di guerra, e sono sottoposti al Pater Familias, che su di loro lo stesso diritto che aveva su moglie e figli. Sarà Augusto a mitigare in parte questo potere.
LA CITTADINANZA
La cittadinanza è espressa dai romani con la parola civitas, termine che indica anche il complesso dei cittadini e l’urbs. Nella Roma dei Tarquini si supera la costituzione gentilizia, sostituita dall’appartenenza allo Stato, come formazione politico-territoriale. La gens resta egualmente forte e determina la storia antica di Roma, ma i membri dello Stato (cives) non sono solo gentiles. La Plebe avanza.
LA CONDIZIONE DELLA DONNA
Per i romani infatti, come per i greci, non spettava alle donne di parlare, perchè non sapevano fare buon uso. Le donne dovevano tacere e tale dovere, quando i tempi si erano evoluti e la donna emancipata.
La contraddizione tra l’immagine offerta dalle leggende di figure femminili eroiche e il quadro di sottomissione che emerge dalla severità dei precetti giuridici, dimostra il passaggio tra matriarcato e patriarcato, dove il matriarcato è indice di libertà femminile ma non di dominio sul maschile, al contrariodel patriarcato
Le figure femminili dell’Etruria come Tanaquil, la sposa etrusca di Tarquino Prisco, la quale diede per la civitas importanti interpretazioni di prodigi; del Lazio come Lavinia, figlia del re Latino, e moglie di Enea, e la vergine di Ardea, la cui storia è raccontata da Livio; della Sabina come Ersilia, rapita per errore nel famoso ratto, sono le prove di antichi poteri femminili. Inoltre, nei culti e nelle leggende italiche, di tradizione preromana, vi sono figure di donne forti e coraggiose dalle virtù maschili quali Camilla, figlia del re di Priverno, e Clelia che, caduta in ostaggio di Porsenna scappò assieme ad altre fanciulle riportandole a Roma, e alla quale venne dedicata a spese pubbliche una statua equestre.
A Roma l’educazione femminile prevedeva il lanificium, l'accudimento dei figli, l'accudimento e l'amministrazione della casa. Le sue virtù erano le stesse che poi adottò la Chiesa cattolica: la castità, la riservatezza, la modestia, la pietà. S. Paolo vieta alle donne di prendre la parola nelle assemblee religiose, che domandino ai mariti, ma a casa. Accanto alle virtù vi erano dei doveri, tra i quali il silenzio, ricordati da altre divinità oltre a Tacita Muta, come Angerona, Dea bendata ed imbavagliata, che tutelava Roma.
Pertanto le donne non possono essere le interlocutrici degli uomini, non possono studiare nè confrontare la loro cultura o intelligenza con quelle maschili. La superiorità del maschio deve essere difesa impedendo alle donne di sviluppare o manifestare le loro qualità.
La propaganda nazionale prospettava casi esemplari di donne virtuose e integerrime come Lucrezia, che si suicidò perché violentata da Tarquinio il Superbo: ma un’offesa che fece insorgere il popolo a rovesciare il regime monarchico. Oppure Orazia che fu uccisa dal fratello in quanto piangeva la morte del fidanzato albano: «Orazia avrebbe dovuto dimenticare un amore divenuto d’un tratto disdicevole. Così come disdicevole era stato manifestare pubblicamente il suo dolore, pur senza proferire parola, solo piangendo. Le donne romane dovevano saperlo, e trarne le dovute conseguenze».
D'altronde Virginia fu uccisa dal padre per sottrarla dal disonore di cadere sotto il potere di Appio Claudio, ma anche in questo caso «la sua morte cambiò la storia di Roma. I decemviri furono cacciati a furor di popolo». Il padre poteva uccidere la figlia che perdeva la verginità anche se questa non era stata consenziente, ma le fonti ne ricordano solo pochi casi in quanto "l’esercizio di questa giustizia era così scontato che i soli episodi degni di menzione erano quelli eccezionali".
Lo stesso sposo veniva scelto dal padre. Le mogli erano sottoposte alla manus del marito, se sui iuris, o del pater di questi. L’unica differenza rispetto alla potestà paterna era che: "il padre poteva uccidere la figlia se e quando decideva di farlo; il marito, o il paterfamilias di questi, potevano farlo solo nei casi in cui la legge lo consentiva."
Nonostante tutto questo però all’interno della familia le donne partecipavano alla successione del patrimonio familiare, anche se non potevano disporre dei beni ereditati, né accedere alle antiche forme testamentarie. Inoltre i romani crearono l’istituto potestativo della tutela muliebre per impedire che il patrimonio familiare fosse intaccato: «La levitas animi delle donne, la “leggerezza dell’animo femminile”, invocata per giustificare la tutela a vita era solo un un pretesto. La gestione non solo della vita collettiva ma anche del patrimonio familiare rimaneva compito esclusivamente maschile.
Tuttavia «nonostante il ferreo controllo cui le avevano sottoposte, i romani temevano le donne». A tal proposito furono celebrati esemplari processi a carico di donne che avevano trasgredito alle regole, quali i procedimenti di gruppo contro matrone accusate di stuprum nel 295 e nel 231 a.c., quelli contro le avvelenatrici nel 331, nel 180, e nel 153 a.c., e quelli contro i culti bacchici nel 186 a.c.
Nuovi diritti per le donne
Intorno al II sec. a.c. si diffuse però il matrimonio consensuale, che prese ben presto il posto di quello cum manu, in cui la convivenza presupponeva l'intenzione degli sposi di contrarre matrimonio; qualora fossero alieni iuris era indispensabile anche il consenso dei padri: "Il consenso filiale considerato necessario, era un “consenso passivo”, che non necessariamente comportava il desiderio di sposarsi, o di sposare quella determinata persona."
CORTE DI GIUSTIZIA ROMANA |
Esse godevano sia di nuovi diritti successori, in quanto ammesse alla bonorum possessio dalle regole pretorie, sia di una maggiore libertà nella disposizione dei propri beni, poiché la tutela si trasformò in un istituto protettivo. La libertà delle donne crebbe al punto che arrivarono a scendere in piazza, ad esempio per sostenere nel 195 a.c. la proposta di abrogare la lex Oppia contro il lusso femminile: in questa e in altre occasioni «le donne si erano comportate come vere e proprie attiviste politiche», per cui fu creato il termine axitiosae.
Tuttavia, per i romani la ricchezza "le corrompeva, le rendeva disobbedienti e arroganti." Fu per cercare di porre rimedio a questa situazione, forse, che nel 169 a.c. venne proposta e approvata la lex Voconia, che proibiva che le donne fossero istituite eredi testamentarie dagli appartenenti alla prima classe di censo, e ciò prova che la lex fu emanata per limitare la diffusione della ricchezza femminile che preoccupava e infastidiva gli uomini.
Nessuna legge romana aveva mai vietato alle donne l’esercizio dell’avvocatura, poichè sin dall’antichità le donne erano “rinchiuse” nelle mura domestiche; chi poteva ensare che una di loro potesse aspirare ad una carica tanto lontana dalla loro condizione sociale?
Ma i tempi cambiano e così accadde che, nel I sec. a.c., alcune donne avvocato si presentassero in tribunale a perorare delle cause. Una di loro fu Afrania, che sostenne varie cause pubbliche e visse fino all’epoca del II consolato di Cesare (48 a.c.). La cosa fece scandalo presso i benpensanti, tanto che la donna fu ricordata con particolare astio dagli scrittori di epoca successiva. comparvero infatti le donne avvocato, che sostenevano da sole le proprie ragioni sia nel campo civile, sia in quello penale, come Mesia Sentinate e Afrania.
Valerio Massimo dice di lei che “un tale mostro deve essere tramandato alla memoria più per l’istante in cui morì che per l’istante in cui nacque”.
Un altro caso celebre fu quello di Ortensia, figlia del famoso oratore Ortensio e dunque figlia d’arte. Di lei si racconta che nel 42 a.c., quando i triumviri imposero alle matrone romane più ricche una pesante tassa per far fronte alle spese militari, le donne la incaricarono di perorare la loro causa davanti ai triumviri ed essa riuscì a cancellare la tassa. Col tempo, non solo i letterati, ma anche i semplici cittadini romani finirono per allarmarsi; fu così promulgato un editto pretorio che vietava alle donne di postulare pro aliis (“rappresentare altri in giudizio”), per evitare che, occupandosi di affari pubblici, "venissero meno alla pudicizia propria del loro sesso." Fare l'avvocato era impudico? Ma così il fenomeno delle donne avvocato non ebbe seguito nella storia del diritto romano.
Le donne asservite
Le donne, ormai svilite da secoli, accettarono e rispettarono le regole del modello canonico della matrona romana. È il caso di Marzia, moglie di Catone Uticense, la quale, pur incinta, fu ceduta sposa all’amico del marito Q. Ortensio Ortalo, e appena il secondo marito morì si risposò con il primo. Tale pratica non era eccezionale per i romani: non solo si cedevano le mogli, ma vi poteva essere anche la cessione del ventre. Questa prassi «legata al desiderio di stringere rapporti di alleanza sociale e politica» riguardava maggiormente le classi elevate.
Un’altra figura di donna virtuosa e devota fu Turia, la cui storia si conosce per la laudatio dedicatale dal marito incisa nella sua tomba. Turia poiché non aveva avuto figli propose al marito di divorziare per farlo risposare con una donna, magari già incinta, che esaurito il suo compito discretamente si allontanasse, per soddisfare il suo desiderio di paternità.
Una ribelle delle regole fu invece Clodia, amata da Catullo che la chiamò nelle sue opere Lesbia. Clodia quando viene descritta da Catullo rappresenta "lo stereotipo, ben radicato nella mente maschile, della donna che nella realtà di un rapporto respinge o delude ogni pretesa di esclusività", e la figura che ne emerge è "ai limiti della depravazione" , ma solo perchè è donna, perchè Catullo, che scorazzava per postriboli ed aveva efebi adolescenti per amanti, era di sani costumi.
Ma dietro questo "sembra di scorgere una figura reale di donna forte, autonoma, in amore certamente volubile." Lo stesso Cicerone nella sua arringa del 56 a.c. in difesa di Celio Rufo accusato di vis publica, ex amante di Clodia chiamata a testimoniare dall’accusa, fece un ritratto molto negativo della donna. Clodia era "una donna che non si conformava ai modelli, autonoma e indipendente. Una donna inaccettabile, alla quale venne fatto pagare il conto di tutte le sue scelte di vita."
Sulpicia, poetessa all’epoca di Augusto, le cui poesie d’amore dedicate a Cerinto sono le uniche «scritte da una donna romana di età classica e giunte sino a noi», inserite nel Corpus Tibullianum. Sulpicia rappresenta una figura femminile «emancipata. Una di quelle donne, che, all’epoca, avevano preso a vivere secondo un nuovo modello, rifiutando le regole».
Nonostante la libertà che raggiunse la loro condizione le donne romane non misero in discussione il loro ruolo. Esse "si sentivano parte della città, sentivano di svolgere nell’interesse di questa un compito fondamentale. E sapevano che se lo avessero svolto sarebbero state ricompensate: sapevano che si fossero adeguate al modello sarebbero state premiate dal rispetto, dall’ammirazione privata e pubblica, da onori che non vennero tributati ad altre donne dell’antichità."
Per cui non c'era femminismo a Roma, le donne accettavano la loro esclusione dalla vita politica in cambio di privilegi, "ma questo non toglie che il loro rapporto con gli uomini, forse per la prima volta nella storia occidentale, non fosse un rapporto basato sull’oppressione. Il rapporto delle donne romane con i loro uomini era basato sullo scambio."
BIBLIO
- Giovanni Rotondi - Leges publicae populi Romani: elenco cronologico con una introduzione sull'attività legislativa dei comizi romani - Hildesheim - Olms, 1962 -
- Sesto Pomponio - De origine iuris -
- Mario Pani - Elisabetta Todisco - Società e istituzioni di Roma antica - Roma - 2005 -
- Claude Nicolet - Strutture dell'Italia romana, (sec. 3.-1. a.c.) - Roma - Jouvence - 1984 -
4 comment:
Gracias por este enorme aporte, Dios te bendiga!
spaccato raga, super utile, 10 su 10
Esseba Carachas
Copia incollato tutto, 10 assicurato
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