L'Arco degli Argentari è una piccola porta che si trova a Roma, accanto al portico della chiesa di San Giorgio al Velabro.
Nonostante il nome è ad architrave e non ha la forma di un arco. Dedicato nel dicembre del 204 d.c., anno della celebrazione dei Ludi saeculares, dal collegio dei cambiavalute e mercanti di buoi del luogo, argentarii et negotiantes boarii huius loci, all'imperatore Settimio Severo e alla sua famiglia: a Caracalla, al cesare Geta, a Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, e a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla.
Fu eretto sull'antica strada urbana del vicus Jugarium, nel punto in cui si immetteva nella piazza del Foro Boario, dove è l'attuale Piazza Bocca della Verità.
Dalle iscrizioni furono poi cancellati i nomi di Plautilla, esiliata nel 205 e uccisa nel 211, e di Geta (ucciso nel 212), tutti uccisi per volere di Caracalla e condannati alla damnatio memoriae.
Si ipotizza che la dedica includesse anche il prefetto del pretorio Gaio Fulvio Plauziano, caduto nel 205.
Situato sul lato sinistro della chiesa di San Giorgio in Velabro, doveva trattarsi di una porta che dava accesso al Foro Boario, al confine fra tre regioni augustee: la VIII, la X e la XI.
Attualmente gli zoccoli di travertino, su cui poggiano i pilastri dell'arco, sono interrati di circa 1 m rispetto al livello stradale. Il marmo usato è il marmo bianco del monte Imetto in Grecia. L'architrave orizzontale, tutta di marmo, si suppone di età domizianea.
IL VELABRO
RICOSTRUZIONE |
La leggenda racconta che proprio in questa palude il Pastore Fausolo rinvenne la cesta con i gemelli Romolo e Remo.
Il Velabro, per la sua vicinanza al Foro Boario, dove si estendeva il mercato del bestiame fino alla Bocca della Verità, era il luogo delle contrattazioni e degli scambi commerciali.
DESCRIZIONE
L'arco misura 6,8 m in altezza e 5,86 m in larghezza, e il passaggio ha una larghezza di 3,30 m. L'architrave è sostenuto da due spessi pilastri in laterizio rivestito in marmo, inquadrati da lesene decorate agli angoli, ornate a rilievo con girali d'acanto e insegne militari.
Sormontano i pilastri capitelli compositi con fregi di aquile e Vittorie sorreggenti ghirlande. Il pilastro ad est è stato per metà inglobato nel 683 d.c. dalla adiacente chiesa di San Giorgio al Velabro.
La struttura è rivestita di lastre di marmo bianco, tranne il basamento in travertino. È probabile che al di sopra di esso fossero collocate le statue in bronzo dorato della famiglia imperiale.
La decorazione è ricchissima e non lascia spazi liberi, tranne la facciata settentrionale, esterna alla piazza del Foro Boario, che è stata lasciata allo stato grezzo.
La sua iscrizione dedicatoria, che si sovrappone al fregio e all'architrave della trabeazione, è inquadrata da due bassorilievi raffiguranti Ercole e un genio. Parte dell'iscrizione è stata sottratta per fare da architrave alla chiesa contigua.
I pannelli all'interno della porta presentano rilievi con scene di sacrificio, sul lato destro Settimio Severo e sua moglie Giulia Domna, mentre una figura cancellata doveva rappresentare Geta, e sul lato opposto Caracalla, che aveva accanto Plautilla e Plauziano, anch'essi cancellati per la damnatio memoriae.
Sul lato esterno del pilastro occidentale, sono raffigurati soldati e prigionieri barbari, mentre sul lato frontale, tra le due lesene angolari del pilone, decorate da stendardi militari, si conserva una figura in tunica corta, piuttosto rovinata.
Nella parte inferiore dei pilastri è raffigurato un sacrificio di tori, sormontato da una fascia con strumenti sacrificali.
Nei pannelli sono rappresentati: all'esterno del pilastro sinistro un personaggio che dovrebbe essere Caracalla, sull'altro lato due soldati con un barbaro prigioniero; all'interno pilastro sinistro Caracalla che liba su un altare portatile; all'interno del pilastro sinistro Settimio Severo e Giulia Domna mentre compiono una libagione.
Ai lati dell'architrave sono raffigurati: a sinistra Ercole con la clava e la pelle del leone nemeo, a destra il Genio del Popolo Romano (o del Foro Boario). Al medioevo risalgono alcuni fori per la ricerca del presunto "tesoro degli Argentari".
Tesoro degli Argentari
Nel febbraio del 1871, liberato il piedritto destro dell'arco degli Argentarii dalle soprastrutture de" tempi bassi, si vide che il bassorilievo tra le due candeliere del piedritto stesso, era stato o distrutto o sottratto in epoca non molto remota. Il fatto deve essere avvenuto sotto il pontificato di Pio IV nel modo descritto dal Vacca, Mem. 103:
« Al tempo di Pio IV capitò in Roma un Goto con un libro antichissimo, nel quale si trattava d'un tesoro, con il segno d'un serpe, ed una figuretta di bassorilievo che da un lato teneva un cornucopia e dall'altro accennava col dito verso terra. Tanto cercò il Goto che trovò li suddetti segni in un fianco di un arco (quello degli Argentarii, ove si vede ancora la « figuretta») e andato dal papa gli domandò licenza di cavare il tesoro, il quale disse che apparteneva ai Romani: ed esso, andato dal Popolo, ottenne grazia di cavarlo, e cominciando nel fianco dell'arco, a forza di scarpello entrò dentro e fece come una porta, e quando si trovava a mezzo del fianco voleva poi calarsi giù a piombo . . . ancora vi sta la buca che vi fece lo scarpellino (detto Lucertola) » .
IL VELLO D'ORO
La chiesa adiacente, su cui si poggia ed è incassato l'arco, è intitolata a S. Giorgio.
Le origini di questa chiesa antichissima non sono note, qualcuno la fa risalire risalire al VI sec., ma per altri la sua costruzione è avvenuta in epoca anteriore.
Basta guardarlo per capire che si poggia su una precedente edificazione civile e romana. Infatti ha una pianta, estremamente irregolare, come avesse dovuto adattarsi ad un precedente edificio.
E' evidente che le colonne, disuguali tra loro sono di riutilizzo, e così vari lastroni di marmo corrosi dal tempo. Anche al suo interno ha alcune colonne romane di riutilizzo.
L'architrave del portico doveva essere l'originale romano del precedente edificio, poi inciso nel XIII sec. da in prelato che l'ha restaurata e ne ha lasciato notizia ai posteri, come da uso romano antico, e sopra c'è scritto:
Stefano della Stella, uomo di rara eloquenza desideroso di conseguire il supremo perdono,
cercò di rinnovare il pronaolo con suo denaro, e a sue spese per te, o San Giorgio, fece questo lavoro.
Egli fu priore di questa chiesa, che dal luogo ove sorge fu detta del vello d'oro.
Viene da chiedersi che luogo fosse "il vello d'oro".
Circolava nel medioevo una leggenda per cui nell'arco ci fosse nascosto un tesoro, oppure la leggenda alludeva al luogo adiacente all'arco. Si sa che anticamente i templi conservavano tutti i tesori devoluti dai fedeli, un po' come in alcune chiese cristiane.
Si pensa che il termine Velabrus fosse forse legato al vello, ma la sua etimologia: è incerta: Varrone la derivava da vehere, trasportare, o a velaturam facere, traghettare, mentre Sesto Pompeo Festo alla ventilazione del grano e Plutarco all'uso di coprire con vele il percorso del corteo trionfale, che comprendeva anche il Velabro.
Per altri ancora deriva dall'etrusco "vel" che significa stagno, ma i Romani parlavano latino, e non amavano gli etruschi nè la loro lingua.
In ogni caso doveva essere connesso con le vele e non con il vello. Per cui viene da pensare che si trattasse di un'allusione a un posto molto ricco di tesori, per esempio un tempio.
È curioso notare il fatto che, mentre gli intagliatori del cinquecento hanno inciso infinite volte il prossimo Giano del foro Boario, questo tanto più elegante degli Argentarii non è stato mai ritratto in rame prima del secolo decimosettimo.
Abbondano per contrario i ricordi autografi inediti degli architetti, fra i quali Sangallo, Cod. Barb. f. 33 e Pugili. Sanesi, 8, IV, 5, ove il fornice è chiamato t larcho di Decio » —
M. Heemskerck, Berlin, I, 45 (veduta presa dall'interno del vicolo oggi chiuso: attraverso il vano si scorge lo spigolo del portico di s. Giorgio in Velabro, abbandonato, cadente e senza tetto) — Cherubino Alberti, I, 42', II, 19' che lo chiama « archo di lana cha e ttoro acato S'° gorgio » (arco della vacca e toro).
A queste vicinanze si riferisce il seguente cenno di antiche cripte, che ho trovato nell'A. S. Cap. prot. 591, e. 423, sotto la data 29 settembre 1510:
" messor Hierouymo de Serlupo canonico de santo Giorgio alloca a lo nobile lohanne Baptista de Delfinis del rione de Sant'Angelo una grotta cum le volte de sopra, cioè la forum parte de supto posta in presso li muri a Sancto Giorgio per anni due per prezo de ducati tre de carlini monete vecchie ".
1 comment:
Penso che la ipotesi che la parola "Velabrum" venisse dall'etrusco è la più convincente per me. Anche la parola "Roma" quasi sicuramente è etrusca. Tanto "Vel" etrusco significa "palude", "luogo d'aqua"...
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