FABIO MASSIMO |
Nome Originale: Quintus Fabius Maximus "Cunctator"
Nascita: Roma 275 a.c.
Morte: Roma 203 a.c.
Cariche consolari: 223 - 228 - 215 - 214 - 209 a.c.
"Annibale il Cartaginese, avendo superato i Pirenei e dopo le Alpi, era giunto con ventimila fanti e seimila cavalieri in italia. Il console Scipione, mandato contro i cartaginesi, fu sconfitto presso il fiume Ticino, poco dopo il console Tiberio Sempronio fu sconfitto presso il fiume Trebbia, alla fine fino al lago Trasimeno Flaminio fu sconfitto e vennero uccisi ventimila romani. Per le tali e tante battaglie vinte, i romani nominarono dittatore Quinto Fabio Massimo, che, represse l'impeto di Annibale. Infatti, da Fabio i soldati romani vennero condotti attraverso alti luoghi, vennero tenuti nell'accampamento, mai vennero richiamati al combattimento. In tal modo Fabio, che venne nominato "Cunctatore", sconfisse Annibale. "
Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore, ovvero Fabius Maximus Cunctator ( Roma 275 a.c. – Roma 203 a.c.) è stato un politico e generale romano. Ricoprì per cinque volte la carica di console (233 a.c., 228 a.c., 215 a.c., 214 a.c. e 209 a.c.), divenendo anche dittatore. Discendente dalla antica Gens Fabia, era nipote di Quinto Fabio Massimo Gurgite e bis-nipote di Quinto Fabio Massimo Rulliano. Dato i suoi nobili natali ebbe una rapida carriera politica.
- 233 a.c. - Nel 233 a.c. trionfò sui Liguri, vittoria che gli permise di celebrare un trionfo e di dedicare un tempio ad Onore e Virtù.
- 232 a.c. - nel 232 a.c. si oppose alle leggi agrarie del tribuno della plebe Gaio Flaminio.
- 230 a.c. - venne letto censore.
- 228 a.c. - Venne eletto console una seconda volta nel 228 a.c.,
- 227 a.c. - si oppose alla legge agraria di Gaio Flaminio.
- 221 a.c. - Durante i comizi del 221 a.c.. venne eletto dittatore.
- 219 a.c. - Verso la fine del 219 a.c., fu inviato come ambasciatore dal Senato romano a Cartagine, dopo la resa di Sagunto, per capire se fosse stato Annibale ad aggredire Sagunto oppure se avesse ricevuto l'ordine dal senato cartaginese. La delegazione era composta da Quinto Fabio, Marco Livio Salinatore, Lucio Emilio Paolo, Gaio Licinio Varo e Quinto Bebio Tamfilo.
Nel corso dell'udienza davanti al senato cartaginese Fabio disse:
« Qui noi portiamo guerra e pace, scegliete voi quale delle due volete. » (Livio, XXI, 18.13.)
La risposta dei senatori cartaginesi fu quella di gridargli che fosse lui a scegliere ciò che preferiva. Allora Fabio, disfatta la toga all'altezza del petto, dichiarò di offrire la guerra, al ché tutti i sentaori cartaginesi risposero di accettarla e di essere pronti a combatterla. Di ritorno da Cartagine, insieme agli altri ambasciatori romani, passò in Spagna, come a Roma era stato loro comandato, in modo da cercare l'alleanza di nuove popolazioni contro i Cartaginesi.
RICERCA DI ALLEANZE
I primi ad essere contattati furono i Bargusi, dai quali furono benevolmente accolti, in quanto mal sopportavano la dominazione punica, sentimento che trovarono anche in tante altre popolazioni a nord del fiume Ebro. Giunsero quindi presso la popolazione dei Volciani, la cui risposta, divenuta famosa in tutta la Spagna, sottrasse ogni speranza a Roma di poter raccogliere altre popolazioni dall'alleanza romana.
Tito Livio racconta che il cittadino più anziano rispose nell'assemblea:
« Che sfacciataggine è la vostra, o Romani, chiedere di anteporre la vostra amicizia a quella dei Cartaginesi, quando i Saguntini, a voi alleati, li avete abbandonato in modo tanto più crudele di quanto siano stati portati alla rovina dai Cartaginesi come nemici? Vi consiglio di andare a cercare alleati dove nessuno conosce la strage di Sagunto. Qui in Spagna la distruzione di Sagunto rimmarrà ad ammonimento doloroso e solenne affinché nessuno si fidi più della lealtà e dell'alleanza romana. » (Livio, XXI, 19.9-10.)
Quando gli fu ordinato di andarsene dalle terre dei Volciani, Fabio e gli altri ambasciatori non ricevettero più alcuna dichiarazione benevola dagli altri popoli della Spagna. Furono così costretti a recarsi in Gallia. Anche qui non trovarono popoli disposti ad interporti tra Romani e Cartaginesi, esponendosi alla guerra contro quest'ultimi.
Livio ricorda infatti che: « .. gli ambasciatori chiesero ai Galli di non far passare attraverso le città ed i campi Annibale, che voleva portare la guerra in Italia. Si dice che tra i mormorii si fosse levata una risata generale. Così stolta e sfacciata apparve la pretesa dei Romani che i Galli assumessero su di loro il peso della guerra, esponendosi al saccheggio dei propri campi al posto di quelli altrui [romani], affinché fosse impedito il passaggio della guerra in Italia. » (Livio, XXI, 20.2-4.)
LE VITTORIE DI ANNIBALE
- 217 a.c. - Nel 217 a.c. a Tuoro sul Trasimeno l'esercito di Annibale massacrò l'esercito romano del console Caio Flaminio. Solo poche migliaia di soldati scamparono al massacro e tornarono a Roma. La situazione era gravissima, Servilio assunse il comando delle forze navali, Marco Atilio Regolo sostituì Flaminio al consolato ma, come sempre nelle più dure avversità, Roma nominò un dittatore: Quinto Fabio Massimo.
IL DICTATOR
- 217 a.c. - Nel 217 a.c., subito dopo la sconfitta del lago Trasimeno, Fabio venne nominato dittatore, o meglio prodittatore, dato che non era stato nominato materialmente da alcun console. Da allora, poiché la guerra con Annibale era solamente difensiva, Fabio divenne la personalità più importante a Roma. Le sue doti militari non erano le più acute, ma capì prima di tutti i suoi contemporanei la natura della tattica e del genio di Annibale e la situazione dei suoi connazionali.
Cicerone dice di Fabio che "snervò la II guerra punica", un elogio più veritiero di quello di Ennio, che dice "che temporeggiando ripristinò lo Stato", dal momento che Marcello e Scipione riportarono la repubblica alla sua grandezza militare, mentre Fabio la rese capace di un ritorno alle origini. Quali origini? Forse i periodi antichi in cui Roma, letteralmente assediata dai molti popoli vicini, giocava un po' d'astuzia, firmando trattati e alleanze che le davano tregua mentre entrava in guerra con le altre tribù
Il suo primo atto come dittatore fu di assicurare ai romani la benevolenza degli Dei, facendo sacrifici solenni riti e preghiere, di modo che i cittadini sentissero gli Dei dalla loro parte.; quindi rese il Lazio e le zone adiacenti inespugnabili per il nemico, creando fortini, fossati e posti di guardia. Entrato in guerra evitò ogni contatto diretto con il nemico; spostò l'accampamento da un altopiano ad un altro, dove la cavalleria della Numidia e i fanti iberici non sarebbero riusciti a salire.
Ci si chiede perchè i fanti non potessero salire e la risposta può essere che fossero legati alla difesa dei cavalli o per lo scudo troppo pesante, perchè per il resto non indossavano armatura.
Fabio seguiva accuratamente i movimenti di Annibale conscio della sua grande arte di stratega che l'avrebbe sicuramente distrutto in campo aperto. Gli fece peraltro una guerriglia, catturando i nemici che si allontanavano dal campo in cerca di cibo o per scoprire il terreno, o per fare legna, minacciando ogni tanto falsi attacchi che stressavano le truppe di Annibale.
« Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia. Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica. »
(Polibio, III, 89, 3-4.)
Riuscì ad intrappolare Annibale in una delle valli tra Cales e il Volturno ma il generale cartaginese, uomo assai astuto e capace, fece legare sulle corna di alcuni buoi delle fascine ardenti facendoli salire sul crinale della collina. Cosa che fece sembrare nella notte un attacco nemico mentre i cartaginesi fuggivano in silenzio.
Ma a Roma e tra le file dell'esercito la prudenza di Fabio venne interpretata come codardia. Da alcuni venne sospettato di voler prolungare la guerra per mantenere il suo comando, accusandolo in senato di incapacità e pure di tradimento, soprattutto quando l'astuto Annibale incendiò i terreni circostanti, risparmiando i poderi di Fabio, per far cadere su di lui il sospetto, nonostante il dittatore romano avesse donato i prodotti dei suoi possedimenti per riscattare alcuni prigionieri romani. Annibale era il solo che aveva compreso l'astuzia del generale romano.
MARCO MINUCIO RUFO IL DICTATOR
Ma a Roma il magister equitum Marco Minucio Rufo, a capo dei suoi oppositori, e il Senato, irritato per la devastazione della Campania, si unirono alla plebe stanca delle sue infinite manovre. Minucio, ottenuta una piccola vittoria su Annibale in assenza di Fabio, venne invocato da Marco Metilio, un tribuno della plebe, affinchè si dividesse il comando tra questi e il dittatore. Il Senato e i comizi tributi accettarono i due contemporanei dittatori e Fabio non si scompose, però anziché comandare l'esercito a giorni alterni, com'era d'uso con i consoli, divise tra loro le armate.
Annibale grande conoscitore di uomini, capì di poter giocare la sua carta col giovane dittatore e lo attirò in una trappola. Le armate di Rufo stavano per essere distrutte, quando il Temporeggiatore, lanciò la sua metà dell'esercito, sbaragliò i cartaginesi e salvò Rufo che, pentito e grato, rinunciò alla carica di dittatore.
Si dice che Annibale, ritirandosi, affermò:
" Ho pensato che una nube lontana sarebbe un giorno piombata dalle colline in un temporale scrosciante ". Alludendo all'esercito di Fabio che era sempre rintanato sugli altopiani.
Minucio pentito e mortificato si dimise dal comando, ma Fabio, con la sua solita lealtà, lo riconfermò per i sei mesi di comando insieme a lui.
Emilio lo imitò, quando Varrone aveva ignorato i suoi ordini, ma ciò provocò la disfatta di Canne, nonostante fosse stato avvertito da Fabio:
"Ricorda, devi temere non solo Annibale ma anche Varrone".
Però Fabio ringraziò Varrone, di ritorno da Canne, per non aver disperato della repubblica, e le misure difensive che il Senato adottò in quell'epoca confusa furono dettate da lui.
GLI OZI DI CAPUA
- 216 a.c. - Nell'inverno 216-215 a.c. Annibale si insediò a Capua. Fabio venne eletto pontefice nel 216 (era già membro del collegio augurale, carica che ricoprì per 62 anni). Venne nominato duunviro e come tale si occupò del mantenimento del tempio di Venere Ericina, peraltro rimpiazzò i posti vacanti in Senato a causa delle morti in guerra con i Latini.
- 215 a.c. - Venne eletto console suffetto per la III volta, nel 215 a.c., in seguito alla rinuncia da parte di Marco Claudio Marcello. A Fabio venne affidato l'esercito accampato presso Teanum Sidicinum, che in precedenza era stato posto sotto il comando di Marco Giunio Pera; al collega Tiberio Sempronio Gracco vennero affidati gli schiavi arruolatisi volontariamente e più di 25.000 alleati. Fabio iniziò subito a devastare la Campania e assediò Capua.
- 214 a.c. - Fabio riuscì a conquistare Casilinum facendo un'incursione nel Sannio, e venne rieletto console nel 214 a.c..
- 213 a.c. - Nel 213 a.c. Fabio divenne legatus di suo figlio, Quinto Fabio Massimo, console in quell'anno. Di lui si racconta, come esempio della disciplina romana, che, a Fabio, entrato nel campo di Suessula a cavallo per andare a salutare suo figlio, venne ordinato di scendere dall'animale, dopo che aveva oltrepassato undici dei dodici littori di cui disponeva il console, in segno di rispetto nei confronti della carica del figlio. Fabio esclamò: « Oh figlio, ho voluto vedere se tu avevi piena coscienza di essere console ». Forse il padre c'era rimasto male ma la faccenda la ricucì in tal modo.
ANNIBALE MINACCIA ROMA
- 211 a.c. - In quest'anno Annibale decise di dirigersi contro Roma, abbandonando Capua. Fulvio Flacco scrisse al Senato romano per informarlo delle intenzioni belliche del condottiero. Roma era in pericolo, i senatori convocarono l'assemblea generale.
Publio Cornelio Scipione Asina, propose di richiamare dall'Italia tutti i comandanti e gli eserciti per difendere Roma, abbandonando l'assedio di Capua. Fabio Massimo invece non si spaventò:
« Come poteva sperare [Annibale] di impadronirsi di Roma, ora che era stato respinto da Capua, e che non aveva osato dirigersi contro Roma dopo la vittoria di Canne!? » (Livio, XXVI, 8.4.)
Fu così deciso che il loro potere fosse diviso per regioni: Fabio avrebbe condotto la guerra contro Taranto, mentre Fulvio in Lucania e nel Bruzzio. Il Senato dispose, inoltre, che venissero inviate a Fabio trenta quinquererni a Taranto dalla Sicilia. Fabio, infatti, ordinò al proprio figlio di recuperare i resti dell'esercito di Fulvio Centumalo, circa 4.334 soldati, e di condurli al proconsole Marco Valerio, ricevendo in cambio da questi due legioni e trenta quiqueremi.
FABIO RICONQUISTA TARANTO
- 209 a.c. - Fabio divenne inoltre Princeps senatus, e durante il consolato inflisse un duro colpo ad Annibale riconquistando Taranto. La cittadella di Taranto, roccaforte di Annibale, non era mai caduta nelle mani dei Cartaginesi, e Marco Livio Macato, il suo governatore, alcuni anni dopo rivendicò il merito della ripresa della città.
"Certamente" rispose ironicamente Fabio "non l'hai mai persa, non l'ho mai riconquistata."
I soldati si diedero al saccheggio della città, ma venne sollevata una questione riguardo al fatto che certe statue colossali ed immagini delle divinità di Taranto dovessero essere mandate a Roma o no.
Fabio rispose negativamente, affermando di voler lasciare ai Tarantini i loro Dei avversi. Venne portata via, comunque, una statua di Ercole, l'antenato mitico della gens Fabia, e venne posto in Campidoglio. Comunque Fabio si dimostrò sempre contrario al trasferimento della guerra in terra d'Africa.
ALL'ORIZZONTE SORGE SCIPIONE
"Certamente" rispose ironicamente Fabio "non l'hai mai persa, non l'ho mai riconquistata."
I soldati si diedero al saccheggio della città, ma venne sollevata una questione riguardo al fatto che certe statue colossali ed immagini delle divinità di Taranto dovessero essere mandate a Roma o no.
Fabio rispose negativamente, affermando di voler lasciare ai Tarantini i loro Dei avversi. Venne portata via, comunque, una statua di Ercole, l'antenato mitico della gens Fabia, e venne posto in Campidoglio. Comunque Fabio si dimostrò sempre contrario al trasferimento della guerra in terra d'Africa.
ALL'ORIZZONTE SORGE SCIPIONE
- 208 a.c. - Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone, consoli nel 208 a.c., erano acerrimi nemici e la loro riconciliazione fu principalmente lavoro di Fabio. Negli ultimi anni della II guerra punica Fabio perse importanza a Roma. La guerra era diventata aggressiva grazie ad una nuova generazione di comandanti. Fabio, già adulto durante la prima parte della guerra, era ora anziano e stanco. Egli disapprovava la nuova tattica: temeva, o forse invidiava, la supremazia politica di Scipione, e fu sempre contrario al suo piano di invadere l'Africa.
LA MORTE
Fabio non visse abbastanza per assistere alla fine della guerra e al trionfo del suo rivale, infatti morì nel 203 a.c., nel periodo della partenza di Annibale dall'Italia.
Era molto ricco, ma il popolo si assunse le spese funebri del loro "padre", il "grande dittatore", "colui che, da solo, con la sua prudenza salvò lo Stato".
Fabio ebbe due figli, il più giovane dei quali pronunciò l'orazione funebre del padre e anche se, pur non eloquente, non fu né impreparato, né cattivo oratore.
Adottò, probabilmente a causa della morte del suo figlio maggiore, il figlio di Lucio Emilio Paolo, colui che sconfisse Perseo.
« ...In seguito contro Annibale fu mandato dai Romani Quinto Fabio Massimo. Egli, rinviando la battaglia, spezzò il suo impeto, poi, trovata l'occasione [lo] vinse. » (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita lib. III,9)
« Quinto Fabio Massimo, figlio di Quinto, due volte dittatore, cinque volte console, censore, due volte interrè, edile curule, due volte questore, due volte tribunus militum, pontefice, augure; durante il primo consolato sottomise i Liguri per i quali ottenne il trionfo; durante il terzo e quarto (consolato) mise un freno al bellicoso Annibale (che aveva ottenuto) tante vittorie; (fu eletto) dittatore con magister equitum Minucio, che il popolo aveva posto allo stesso livello del comando del dittatore; egli era venuto in aiuto all'esercito sconfitto e fu chiamato per nome dall'esercito di Minucio come un padre; console per la quinta volta occupò Taranto; trionfò come comandante prudentissimo della sua epoca ed espertissimo nelle questioni militari; fu eletto abitualmente princeps senatus per due lustri »
AURELIO VITTORE
De viris illustribus Urbis Romae
« Missus adversus Hannibalem postea a Romanis Q. Fabius Maximus. Is eum differendo pugnam ab impetu fregit, mox inventa occasione vicit. »
« …Quinto Fabio Massimo, in seguito, fu inviato dai Romani ad opporsi ad Annibale. Evitando la Battaglia, controllava il suo impeto, per poi trovare un'occasione favorevole alla vittoria. »
TITO LIVIO (AB URBE CONDITA)
Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano già stati colleghi in tre consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti più ancora che per la gloria militare, per altro ragguardevole.
Ma a impedire che il clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta, a mio parere, più che a loro stessi alle rispettive classi sociali di provenienza: mentre i patrizi premevano perché a Fabio venisse assegnato il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei spingevano Decio a esigere il sorteggio.
Se ne discusse in senato e, quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si finì col ricorrere al giudizio del popolo. Di fronte all'assemblea, così come si addiceva a uomini d'armi abituati più ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi.
Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli scoscesi dirupi." Perché andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano gestire la guerra con un altro comandante? "
Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo ritenessero degno del comando; quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato.
Publio Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature più importanti; ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di pochi individui.
Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio; se ciò era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore.
Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilità di gloriarsene; e forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio.
Per concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in seguito. E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi.
Pregava Giove Ottimo Massimo e gli Dei immortali di concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero chiamate al voto, e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio, lasciò l'assemblea.
Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato. Tutti i giovani si presentarono di corsa al console, arruolandosi ciascuno di sua spontanea volontà, tanto grande era il desiderio di prestare servizio militare agli ordini di quel generale. Circondato da questa massa di giovani, Fabio disse:
" Ho intenzione di arruolare soltanto 4000 fanti e 600 cavalieri; porterò con me quanti daranno i loro nomi tra oggi e domani. A me preme più riportarvi in patria ricchi dal primo all'ultimo, piuttosto che fare la guerra con molti soldati. "
Partito con un esercito adatto alle esigenze del momento e formato da uomini che erano tanto più fiduciosi e sicuri per il fatto che non era stata richiesta una grande quantità di uomini, si diresse in fretta al campo del pretore Appio, nei pressi della città di Aarna, che non distava molto dalle posizioni nemiche.
Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo ritenessero degno del comando; quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato.
Publio Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature più importanti; ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di pochi individui.
Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio; se ciò era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore.
Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilità di gloriarsene; e forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio.
Per concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in seguito. E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi.
Pregava Giove Ottimo Massimo e gli Dei immortali di concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero chiamate al voto, e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio, lasciò l'assemblea.
Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato. Tutti i giovani si presentarono di corsa al console, arruolandosi ciascuno di sua spontanea volontà, tanto grande era il desiderio di prestare servizio militare agli ordini di quel generale. Circondato da questa massa di giovani, Fabio disse:
" Ho intenzione di arruolare soltanto 4000 fanti e 600 cavalieri; porterò con me quanti daranno i loro nomi tra oggi e domani. A me preme più riportarvi in patria ricchi dal primo all'ultimo, piuttosto che fare la guerra con molti soldati. "
Partito con un esercito adatto alle esigenze del momento e formato da uomini che erano tanto più fiduciosi e sicuri per il fatto che non era stata richiesta una grande quantità di uomini, si diresse in fretta al campo del pretore Appio, nei pressi della città di Aarna, che non distava molto dalle posizioni nemiche.
A poche miglia da quel punto si imbatté in alcuni soldati usciti per far legna con una scorta armata; quando questi si videro venire incontro i littori e vennero a sapere che il console era Fabio, ne furono felicissimi e ringraziarono gli Dei e il popolo romano per aver mandato loro quel comandante. Mentre poi si accalcavano intorno al console per salutarlo, Fabio chiese loro dove fossero diretti e, sentendo che andavano a raccogliere legna, disse loro:
" E allora? Il vostro campo non è forse circondato da una palizzata? "
Quelli risposero all'unisono che il campo era sì circondato da una doppia palizzata e da una doppia trincea, ma che ciò non ostante vivevano nel terrore; Fabio disse:
" Dunque legna ne avete a iosa: tornatevene indietro e abbattete la palizzata."
Quelli rientrarono all'accampamento e si misero ad abbattere la palizzata, suscitando sgomento tra gli uomini rimasti nel campo e Appio stesso, fino a quando, passandosi parola l'uno con l'altro, fecero sapere di agire su ordine del console Quinto Fabio. Il giorno dopo il campo venne spostato e il pretore Appio fu rispedito a Roma. Da quel momento i Romani non posero un campo stabile da nessuna parte. L'idea di Fabio era che a nessun esercito giovasse lo star fermo, e che anzi le marce e i cambiamenti di zona facessero acquistare in mobilità e in salute; le marce, tuttavia, duravano quanto lo permetteva l'inverno non ancora concluso.
All'inizio della primavera Fabio lasciò la seconda legione a Chiusi. un tempo chiamata Camars, e, affidato l'accampamento a Lucio Scipione coi gradi di propretore, rientrò a Roma per tenervi un consiglio di guerra; questo sia che vi si fosse recato di sua spontanea volontà dopo aver constatato di persona che la guerra era più delicata di quanto non lasciassero intuire le notizie arrivate dal fronte, sia che fosse stato convocato da un decreto del senato: le fonti riferiscono entrambe le versioni dei fatti.
Secondo alcune a farlo convocare sarebbe stato il pretore Appio Claudio, che di fronte al senato e al popolo esagerò la gravità del conflitto in Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle sue relazioni dal fronte: sosteneva che per tener testa a quattro popoli non sarebbero bastati un unico generale e un unico esercito; sia che essi avessero fatto pressione con le forze congiunte, sia che avessero gestito la guerra separatamente, c'era il rischio che un unico comandante non riuscisse a far fronte contemporaneamente a tutti.
Egli aveva lasciato laggiù due legioni romane, e agli ordini di Fabio erano arrivati meno di 5000 tra fanti e cavalieri. La sua idea era che il console Publio Decio raggiungesse quanto prima il collega in Etruria, e che le operazioni nel Sannio venissero affidate a Lucio Volumnio; se il console preferiva recarsi sul fronte assegnatogli, allora era meglio che Volumnio partisse per l'Etruria e raggiungesse il console con una regolare formazione consolare.
A quanto pare, mentre il discorso del pretore aveva convinto la maggior parte degli uomini, Publio Decio propose invece di lasciare piena libertà operativa e strategica a Fabio, fino al giorno in cui si fosse presentato di persona a Roma (qualora fosse stato in grado di farlo senza danneggiare il paese), oppure avesse inviato uno dei suoi luogotenenti, tramite il quale il senato avrebbe potuto rendersi conto dell'effettiva gravità della guerra in Etruria e di quanti uomini e quanti comandanti fossero necessari per condurla.
Non appena Fabio arrivò a Roma, tanto in senato quanto di fronte al popolo in assemblea non si sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera da dare l'impressione di non ingrandire né diminuire le proporzioni del conflitto e, nel caso in cui avesse associato al comando un altro generale, di farlo più per assecondare le paure altrui che evitare a se stesso e al paese una situazione di pericolo; e poi, se davvero volevano assegnargli un aiuto per la guerra e un compagno da associare al comando, come avrebbe potuto dimenticare il console Publio Decio, che aveva sperimentato come collega in tante magistrature condotte insieme?
Di tutti non c'era nessuno che preferisse avere a fianco: con Decio le truppe sarebbero state sufficienti e i nemici non sarebbero mai stati troppi. Se però il collega aveva altre preferenze, gli assegnassero allora come collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il popolo quanto il senato e lo stesso collega lasciarono ogni decisione finale a Fabio: e poiché Decio si era detto pronto a partire sia per il Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il compiacimento generale furono tali, che già la gente pregustava la gioia della vittoria, e si aveva l'impressione che ai consoli non fosse stata affidata la guerra ma decretato il trionfo.
In alcuni autori ho trovato che Fabio e Decio partirono alla volta dell'Etruria subito dopo essere entrati in carica, senza però alcun accenno al sorteggio delle zone di operazione e ai dissapori tra i colleghi di cui ho già parlato.
Altri invece non soltanto riferiscono di questi scontri verbali, ma parlano anche di accuse mosse da Appio di fronte al popolo contro la persona di Fabio (che al momento era assente), e di una tenace ostilità da parte del pretore verso il console quando questi rientrò a Roma, e di altri contrasti tra i colleghi, dovuti al fatto che Decio pretendeva che ciascuno rispettasse gli esiti del sorteggio nell'assegnazione delle campagne.
Le versioni cominciano a coincidere dal momento in cui entrambi i consoli si trovano al fronte. Ma prima che i consoli arrivassero in Etruria, nei pressi di Chiusi comparve una massa di Galli Senoni, le cui intenzioni erano di attaccare l'esercito e l'accampamento romani.
Scipione, che aveva il comando del campo, volendo sopperire all'inferiorità numerica con il favore della posizione, fece salire l'esercito su un'altura che si trovava tra la città e l'accampamento; ma dato che nella fretta non aveva potuto fare controllare il percorso, raggiunse una cima che era già stata occupata dal nemico, salito dalla parte opposta.
Così la legione, schiacciata da ogni parte dai nemici, fu presa alle spalle e sopraffatta. Alcuni autori sostengono che quel contingente fu completamente annientato, al punto che non rimase in vita un solo soldato in grado di riferire la notizia della disfatta, e che i consoli, essendo ormai nei pressi di Chiusi, non ricevettero alcuna informazione su quel disastro fino al momento in cui non videro coi propri occhi i cavalieri dei Galli che portavano le teste dei romani uccisi appese al petto dei cavalli e conficcate sulle lance, e si esibivano nei loro caratteristici canti di trionfo.
Stando ad altri autori, i nemici sarebbero stati Umbri e non Galli, e la sconfitta avrebbe avuto altre proporzioni: a rimanere circondato sarebbe stato un reparto di soldati addetti al foraggiamento agli ordini del luogotenente Lucio Manlio Torquato, e il propretore Scipione sarebbe intervenuto con rinforzi dall'accampamento, e dopo aver riequilibrato le sorti della battaglia avrebbe piegato gli Umbri già vincitori, togliendo di nuovo dalle loro mani i prigionieri e il bottino.
Tuttavia è più aderente alla verità dei fatti che a infliggere questa disfatta ai Romani siano stati i Galli e non gli Umbri, perché, come già successo molte altre volte in passato, anche quell'anno Roma venne invasa da un'ondata di panico dovuto alla minaccia gallica.
Così, mentre entrambi i consoli erano già partiti alla volta del fronte con quattro legioni, un massiccio contingente di cavalleria romana, 1000 cavalieri campani forniti per quel conflitto, e un esercito di alleati e di Latini numericamente superiore a quello romano, non lontano da Roma altri due eserciti vennero collocati di fronte all'Etruria, uno nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano.
I propretori Gneo Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la disposizione di accamparsi stabilmente in quelle zone. Valicato l'Appennino, i consoli raggiunsero i nemici nel territorio di Sentino, e si accamparono a circa quattro miglia da loro. Tra i nemici ci furono quindi riunioni, nelle quali venne deciso di non mescolarsi in un unico accampamento e di non dare battaglia tutti insieme; i Galli vennero aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli Etruschi.
Fu stabilita la data della battaglia, e lo scontro fu affidato ai Sanniti e ai Galli; gli Etruschi e gli Umbri ebbero invece l'ordine di attaccare l'accampamento romano nel corso della battaglia. Questi piani li mandarono a monte tre disertori di Chiusi, i quali di notte si presentarono in segreto al cospetto del console Fabio e lo informarono dei progetti messi a punto dal nemico; dopo averli ricompensati, Fabio li congedò, rimanendo d'accordo con loro che si sarebbero informati accuratamente su ogni nuova iniziativa e sarebbero poi venuti a riferirgli.
I consoli inviarono una lettera rispettivamente a Fulvio e a Postumio: le disposizioni erano di abbandonare la zona di Faleri e l'agro Vaticano, e di portare i loro eserciti a Chiusi, mettendo a ferro e fuoco con la massima violenza il territorio nemico.
La notizia di queste incursioni costrinse gli Etruschi a lasciare la zona di Sentino per andare a proteggere il proprio paese. Fu allora che i consoli cercarono in ogni modo di arrivare allo scontro, sfruttando la loro assenza. Per due giorni istigarono i nemici a venire alle armi, ma in quell'arco di tempo non si registrarono operazioni degne di nota; da entrambe le parti ci furono poche perdite, e gli animi dei combattenti furono spinti ad affrontare una battaglia campale, senza però che si arrivasse mai allo scontro decisivo.
Il terzo giorno i due eserciti scesero in campo dispiegando tutte le forze in loro possesso. Mentre erano schierati in ordine di battaglia, dalle alture scese di corsa una cerva inseguita da un lupo, andando ad attraversare nella sua fuga il pianoro che si apriva tra i due opposti schieramenti; di lì i due animali rivolsero la loro corsa in direzioni opposte, la cerva verso i Galli, il lupo verso i Romani.
Il lupo ebbe via libera tra le file, mentre la cerva venne trafitta dai Galli. Allora un soldato romano dell'avanguardia disse:
" La fuga e il massacro sono avvenuti là dove ora vedete a terra l'animale sacro a Diana; da questa parte il lupo vincitore caro a Marte, sano e salvo, ci ha richiamato alla memoria la nostra discendenza da Marte e il nostro fondatore."
I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la I e la III legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la V e la VI; la II e la IV, agli ordini del proconsole Lucio Volumnio, erano utilizzate nella spedizione contro il Sannio. Al primo scontro l'equilibrio tra le forse opposte fu tale, che se solo fossero intervenuti gli Etruschi e gli Umbri rivolgendo le proprie truppe in una qualunque delle direzioni, o verso l'accampamento o sul campo di battaglia, per i Romani la disfatta sarebbe stata inevitabile.
D'altra parte, pur essendo incerto l'esito dello scontro, e non ostante la fortuna non avesse ancora fatto capire verso quale delle due parti avrebbe inclinato la sua bilancia, tuttavia all'ala destra e all'ala sinistra il combattimento non aveva affatto la stessa intensità.
Dalla parte di Fabio i Romani difendevano più che attaccare, e lo scontro si stava trascinando fino alle ultime luci del giorno, perché il console era fermamente convinto che i Sanniti e i Galli erano irruenti al primo urto, ma che poi era sufficiente resistervi: se la battaglia si protraeva, a poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva meno, e il fisico dei Galli, incapaci più di ogni altro popolo di sopportare fatica e calura, perdeva vigore col passare delle ore, e mentre all'inizio dello scontro erano qualcosa più che degli uomini, alla fine risultavano essere meno che donne.
Per questo egli cercava di conservare intatte quanto più a lungo possibile le energie dei suoi, fino a quando il nemico cominciava a dare segni di cedimento. Decio, più irruente per l'età che per temperamento, impiegò subito nel primo scontro tutte le forze che aveva. E poiché l'azione della fanteria gli sembrava eccessivamente statica, buttò nella mischia la cavalleria, e mescolatosi lui stesso a quella schiera di giovani valorosi incitò il fiore della gioventù a lanciarsi con lui all'assalto del nemico: la loro gloria sarebbe stata doppia, se i primi segni della vittoria fossero arrivati dall'ala sinistra e dalla cavalleria.
Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore.
Così la cavalleria romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa. Pertanto anche le linee della fanteria risentirono dello sbandamento, e molti uomini delle prime linee vennero travolti dall'impeto dei cavalli e dei carri lanciati in mezzo alle file; non appena la fanteria dei Galli comprese che i nemici erano in preda al panico, si fece sotto senza lasciar loro il tempo di riprendere fiato e di rimettersi in sesto.
Decio chiedeva urlando dove stessero fuggendo e che cosa sperassero nella fuga: si parava di fronte ai fuggitivi e richiamava quelli già dispersi; poi, rendendosi conto di non essere in grado di mantenere uniti i suoi uomini ormai allo sbando, invocando per nome il padre Publio Decio, disse:
" Perché ritardo il destino della mia famiglia? Questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli Dei Mani! "
Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontanarsi da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui offrire in sacrificio se stesso e le legioni nemiche per l'esercito del popolo romano dei Qviriti.
Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti, lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.
Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio comandante, ciò che di solito in altri casi crea scompiglio, riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia; i Galli, in particolar modo quella parte di essi che stava intorno al cadavere del console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero perso l'uso della ragione; alcuni erano come paralizzati e non riuscivano a concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga.
Dalla parte opposta il pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con la morte del console si erano liberati del debito nei confronti degli Dei: i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli Dei Mani, Decio trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in sacrificio con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e alle furie.
Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia, dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi appresero la fine di Publio Decio, che era un grande incitamento a osare qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai due schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei nemici; la maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio, stramazzarono a terra storditi.
All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si verificarono. Alla destra Fabio, come già detto in precedenza, temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro; quando ebbe l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il maggior impeto possibile al segnale convenuto; ai fanti ordinò invece di avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era attestato.
Quando si rese conto che gli avversari non opponevano resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico.I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata. lo schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo a perdifiato verso l'accampamento; i Galli, da parte loro, riformarono la testuggine, e non si disunirono.
Fu allora che Fabio, saputo della morte del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei Galli per prenderli alle spalle; ai principes della terza legione ordinò di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata.
" E allora? Il vostro campo non è forse circondato da una palizzata? "
Quelli risposero all'unisono che il campo era sì circondato da una doppia palizzata e da una doppia trincea, ma che ciò non ostante vivevano nel terrore; Fabio disse:
" Dunque legna ne avete a iosa: tornatevene indietro e abbattete la palizzata."
Quelli rientrarono all'accampamento e si misero ad abbattere la palizzata, suscitando sgomento tra gli uomini rimasti nel campo e Appio stesso, fino a quando, passandosi parola l'uno con l'altro, fecero sapere di agire su ordine del console Quinto Fabio. Il giorno dopo il campo venne spostato e il pretore Appio fu rispedito a Roma. Da quel momento i Romani non posero un campo stabile da nessuna parte. L'idea di Fabio era che a nessun esercito giovasse lo star fermo, e che anzi le marce e i cambiamenti di zona facessero acquistare in mobilità e in salute; le marce, tuttavia, duravano quanto lo permetteva l'inverno non ancora concluso.
All'inizio della primavera Fabio lasciò la seconda legione a Chiusi. un tempo chiamata Camars, e, affidato l'accampamento a Lucio Scipione coi gradi di propretore, rientrò a Roma per tenervi un consiglio di guerra; questo sia che vi si fosse recato di sua spontanea volontà dopo aver constatato di persona che la guerra era più delicata di quanto non lasciassero intuire le notizie arrivate dal fronte, sia che fosse stato convocato da un decreto del senato: le fonti riferiscono entrambe le versioni dei fatti.
Secondo alcune a farlo convocare sarebbe stato il pretore Appio Claudio, che di fronte al senato e al popolo esagerò la gravità del conflitto in Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle sue relazioni dal fronte: sosteneva che per tener testa a quattro popoli non sarebbero bastati un unico generale e un unico esercito; sia che essi avessero fatto pressione con le forze congiunte, sia che avessero gestito la guerra separatamente, c'era il rischio che un unico comandante non riuscisse a far fronte contemporaneamente a tutti.
Egli aveva lasciato laggiù due legioni romane, e agli ordini di Fabio erano arrivati meno di 5000 tra fanti e cavalieri. La sua idea era che il console Publio Decio raggiungesse quanto prima il collega in Etruria, e che le operazioni nel Sannio venissero affidate a Lucio Volumnio; se il console preferiva recarsi sul fronte assegnatogli, allora era meglio che Volumnio partisse per l'Etruria e raggiungesse il console con una regolare formazione consolare.
A quanto pare, mentre il discorso del pretore aveva convinto la maggior parte degli uomini, Publio Decio propose invece di lasciare piena libertà operativa e strategica a Fabio, fino al giorno in cui si fosse presentato di persona a Roma (qualora fosse stato in grado di farlo senza danneggiare il paese), oppure avesse inviato uno dei suoi luogotenenti, tramite il quale il senato avrebbe potuto rendersi conto dell'effettiva gravità della guerra in Etruria e di quanti uomini e quanti comandanti fossero necessari per condurla.
Non appena Fabio arrivò a Roma, tanto in senato quanto di fronte al popolo in assemblea non si sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera da dare l'impressione di non ingrandire né diminuire le proporzioni del conflitto e, nel caso in cui avesse associato al comando un altro generale, di farlo più per assecondare le paure altrui che evitare a se stesso e al paese una situazione di pericolo; e poi, se davvero volevano assegnargli un aiuto per la guerra e un compagno da associare al comando, come avrebbe potuto dimenticare il console Publio Decio, che aveva sperimentato come collega in tante magistrature condotte insieme?
Di tutti non c'era nessuno che preferisse avere a fianco: con Decio le truppe sarebbero state sufficienti e i nemici non sarebbero mai stati troppi. Se però il collega aveva altre preferenze, gli assegnassero allora come collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il popolo quanto il senato e lo stesso collega lasciarono ogni decisione finale a Fabio: e poiché Decio si era detto pronto a partire sia per il Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il compiacimento generale furono tali, che già la gente pregustava la gioia della vittoria, e si aveva l'impressione che ai consoli non fosse stata affidata la guerra ma decretato il trionfo.
In alcuni autori ho trovato che Fabio e Decio partirono alla volta dell'Etruria subito dopo essere entrati in carica, senza però alcun accenno al sorteggio delle zone di operazione e ai dissapori tra i colleghi di cui ho già parlato.
Altri invece non soltanto riferiscono di questi scontri verbali, ma parlano anche di accuse mosse da Appio di fronte al popolo contro la persona di Fabio (che al momento era assente), e di una tenace ostilità da parte del pretore verso il console quando questi rientrò a Roma, e di altri contrasti tra i colleghi, dovuti al fatto che Decio pretendeva che ciascuno rispettasse gli esiti del sorteggio nell'assegnazione delle campagne.
Le versioni cominciano a coincidere dal momento in cui entrambi i consoli si trovano al fronte. Ma prima che i consoli arrivassero in Etruria, nei pressi di Chiusi comparve una massa di Galli Senoni, le cui intenzioni erano di attaccare l'esercito e l'accampamento romani.
Scipione, che aveva il comando del campo, volendo sopperire all'inferiorità numerica con il favore della posizione, fece salire l'esercito su un'altura che si trovava tra la città e l'accampamento; ma dato che nella fretta non aveva potuto fare controllare il percorso, raggiunse una cima che era già stata occupata dal nemico, salito dalla parte opposta.
Così la legione, schiacciata da ogni parte dai nemici, fu presa alle spalle e sopraffatta. Alcuni autori sostengono che quel contingente fu completamente annientato, al punto che non rimase in vita un solo soldato in grado di riferire la notizia della disfatta, e che i consoli, essendo ormai nei pressi di Chiusi, non ricevettero alcuna informazione su quel disastro fino al momento in cui non videro coi propri occhi i cavalieri dei Galli che portavano le teste dei romani uccisi appese al petto dei cavalli e conficcate sulle lance, e si esibivano nei loro caratteristici canti di trionfo.
Stando ad altri autori, i nemici sarebbero stati Umbri e non Galli, e la sconfitta avrebbe avuto altre proporzioni: a rimanere circondato sarebbe stato un reparto di soldati addetti al foraggiamento agli ordini del luogotenente Lucio Manlio Torquato, e il propretore Scipione sarebbe intervenuto con rinforzi dall'accampamento, e dopo aver riequilibrato le sorti della battaglia avrebbe piegato gli Umbri già vincitori, togliendo di nuovo dalle loro mani i prigionieri e il bottino.
Tuttavia è più aderente alla verità dei fatti che a infliggere questa disfatta ai Romani siano stati i Galli e non gli Umbri, perché, come già successo molte altre volte in passato, anche quell'anno Roma venne invasa da un'ondata di panico dovuto alla minaccia gallica.
Così, mentre entrambi i consoli erano già partiti alla volta del fronte con quattro legioni, un massiccio contingente di cavalleria romana, 1000 cavalieri campani forniti per quel conflitto, e un esercito di alleati e di Latini numericamente superiore a quello romano, non lontano da Roma altri due eserciti vennero collocati di fronte all'Etruria, uno nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano.
I propretori Gneo Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la disposizione di accamparsi stabilmente in quelle zone. Valicato l'Appennino, i consoli raggiunsero i nemici nel territorio di Sentino, e si accamparono a circa quattro miglia da loro. Tra i nemici ci furono quindi riunioni, nelle quali venne deciso di non mescolarsi in un unico accampamento e di non dare battaglia tutti insieme; i Galli vennero aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli Etruschi.
Fu stabilita la data della battaglia, e lo scontro fu affidato ai Sanniti e ai Galli; gli Etruschi e gli Umbri ebbero invece l'ordine di attaccare l'accampamento romano nel corso della battaglia. Questi piani li mandarono a monte tre disertori di Chiusi, i quali di notte si presentarono in segreto al cospetto del console Fabio e lo informarono dei progetti messi a punto dal nemico; dopo averli ricompensati, Fabio li congedò, rimanendo d'accordo con loro che si sarebbero informati accuratamente su ogni nuova iniziativa e sarebbero poi venuti a riferirgli.
I consoli inviarono una lettera rispettivamente a Fulvio e a Postumio: le disposizioni erano di abbandonare la zona di Faleri e l'agro Vaticano, e di portare i loro eserciti a Chiusi, mettendo a ferro e fuoco con la massima violenza il territorio nemico.
La notizia di queste incursioni costrinse gli Etruschi a lasciare la zona di Sentino per andare a proteggere il proprio paese. Fu allora che i consoli cercarono in ogni modo di arrivare allo scontro, sfruttando la loro assenza. Per due giorni istigarono i nemici a venire alle armi, ma in quell'arco di tempo non si registrarono operazioni degne di nota; da entrambe le parti ci furono poche perdite, e gli animi dei combattenti furono spinti ad affrontare una battaglia campale, senza però che si arrivasse mai allo scontro decisivo.
Il terzo giorno i due eserciti scesero in campo dispiegando tutte le forze in loro possesso. Mentre erano schierati in ordine di battaglia, dalle alture scese di corsa una cerva inseguita da un lupo, andando ad attraversare nella sua fuga il pianoro che si apriva tra i due opposti schieramenti; di lì i due animali rivolsero la loro corsa in direzioni opposte, la cerva verso i Galli, il lupo verso i Romani.
Il lupo ebbe via libera tra le file, mentre la cerva venne trafitta dai Galli. Allora un soldato romano dell'avanguardia disse:
" La fuga e il massacro sono avvenuti là dove ora vedete a terra l'animale sacro a Diana; da questa parte il lupo vincitore caro a Marte, sano e salvo, ci ha richiamato alla memoria la nostra discendenza da Marte e il nostro fondatore."
I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la I e la III legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la V e la VI; la II e la IV, agli ordini del proconsole Lucio Volumnio, erano utilizzate nella spedizione contro il Sannio. Al primo scontro l'equilibrio tra le forse opposte fu tale, che se solo fossero intervenuti gli Etruschi e gli Umbri rivolgendo le proprie truppe in una qualunque delle direzioni, o verso l'accampamento o sul campo di battaglia, per i Romani la disfatta sarebbe stata inevitabile.
D'altra parte, pur essendo incerto l'esito dello scontro, e non ostante la fortuna non avesse ancora fatto capire verso quale delle due parti avrebbe inclinato la sua bilancia, tuttavia all'ala destra e all'ala sinistra il combattimento non aveva affatto la stessa intensità.
Dalla parte di Fabio i Romani difendevano più che attaccare, e lo scontro si stava trascinando fino alle ultime luci del giorno, perché il console era fermamente convinto che i Sanniti e i Galli erano irruenti al primo urto, ma che poi era sufficiente resistervi: se la battaglia si protraeva, a poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva meno, e il fisico dei Galli, incapaci più di ogni altro popolo di sopportare fatica e calura, perdeva vigore col passare delle ore, e mentre all'inizio dello scontro erano qualcosa più che degli uomini, alla fine risultavano essere meno che donne.
Per questo egli cercava di conservare intatte quanto più a lungo possibile le energie dei suoi, fino a quando il nemico cominciava a dare segni di cedimento. Decio, più irruente per l'età che per temperamento, impiegò subito nel primo scontro tutte le forze che aveva. E poiché l'azione della fanteria gli sembrava eccessivamente statica, buttò nella mischia la cavalleria, e mescolatosi lui stesso a quella schiera di giovani valorosi incitò il fiore della gioventù a lanciarsi con lui all'assalto del nemico: la loro gloria sarebbe stata doppia, se i primi segni della vittoria fossero arrivati dall'ala sinistra e dalla cavalleria.
Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore.
Così la cavalleria romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa. Pertanto anche le linee della fanteria risentirono dello sbandamento, e molti uomini delle prime linee vennero travolti dall'impeto dei cavalli e dei carri lanciati in mezzo alle file; non appena la fanteria dei Galli comprese che i nemici erano in preda al panico, si fece sotto senza lasciar loro il tempo di riprendere fiato e di rimettersi in sesto.
Decio chiedeva urlando dove stessero fuggendo e che cosa sperassero nella fuga: si parava di fronte ai fuggitivi e richiamava quelli già dispersi; poi, rendendosi conto di non essere in grado di mantenere uniti i suoi uomini ormai allo sbando, invocando per nome il padre Publio Decio, disse:
" Perché ritardo il destino della mia famiglia? Questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli Dei Mani! "
Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontanarsi da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui offrire in sacrificio se stesso e le legioni nemiche per l'esercito del popolo romano dei Qviriti.
Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti, lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.
Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio comandante, ciò che di solito in altri casi crea scompiglio, riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia; i Galli, in particolar modo quella parte di essi che stava intorno al cadavere del console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero perso l'uso della ragione; alcuni erano come paralizzati e non riuscivano a concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga.
Dalla parte opposta il pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con la morte del console si erano liberati del debito nei confronti degli Dei: i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli Dei Mani, Decio trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in sacrificio con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e alle furie.
Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia, dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi appresero la fine di Publio Decio, che era un grande incitamento a osare qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai due schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei nemici; la maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio, stramazzarono a terra storditi.
All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si verificarono. Alla destra Fabio, come già detto in precedenza, temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro; quando ebbe l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il maggior impeto possibile al segnale convenuto; ai fanti ordinò invece di avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era attestato.
Quando si rese conto che gli avversari non opponevano resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico.I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata. lo schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo a perdifiato verso l'accampamento; i Galli, da parte loro, riformarono la testuggine, e non si disunirono.
Fu allora che Fabio, saputo della morte del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei Galli per prenderli alle spalle; ai principes della terza legione ordinò di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata.
Proprio sotto la trincea, poiché le porte non erano ampie abbastanza per far passare una tale quantità di armati, gli uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora una volta di ricorrere alla battaglia: lì cadde Gello Egnazio, il comandante in capo delle forze sannite; i Sanniti vennero poi ricacciati al di là della trincea, e dopo un brevissimo scontro l'accampamento venne conquistato e i Galli raggiunti alle spalle.In quella giornata vennero uccisi 25000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8000; ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1700.
Questi fece cercare il corpo del collega, e bruciò in onore di Giove Vincitore una catasta fatta con le spoglie dei nemici. Per quel giorno non si riuscì a trovare il corpo del console, perché giaceva sepolto sotto i cumuli di Galli ammassati l'uno sull'altro; fu rinvenuto il giorno successivo e riportato indietro accompagnato dalle lacrime copiose dei soldati. Fabio, lasciando da parte ogni altra incombenza, rese gli onori funebri al collega, che onorò in ogni modo e cui rivolse un meritato elogio.
In quegli stessi giorni, anche in Etruria il propretore Gneo Fabio condusse la campagna attenendosi ai piani convenuti, e oltre a danneggiare il nemico devastandone le campagne, combatté pure con successo, uccidendo più di 3000 Perugini e abitanti di Chiusi e catturando circa venti insegne militari. Mentre erano in fuga attraverso il territorio dei Peligni, le truppe sannite furono circondate dai Peligni stessi, e dei 5000 originari ne vennero uccisi grosso modo 1000.
PLUTARCO
Così Plutarco descrisse la vita di Fabio Massimo detto Il Temporeggiatore nel 75 d.c.
- Figlio di Ercole e di una ninfa, o di qualche donna del paese che lo abbandonò sulle rive del Tevere, fu il primo Fabio e il fondatore della famosa e numerosa familia di questo nome. Secondo altri si chiamarono prima Fodii, perchè fodere in Latino significava scavare e i primi Fabii scavarono trappole per gli animali selvatici. Vero o falso che fosse questa famiglia generò un gran numero di eminenti personaggi.
Fabio Massimo, che fu il IV discendente di quel Fabius Rullus che per primo portò l'onorevole soprannome di Maximus nella sua famiglia, ebbe anche un soprannome personale, il Verrucoso, da una verruca sul labbro superiore, e nella sua infanzia venne anche detto "Ovicula", o "l'agnello", a causa della estrema mitezza di temperamento.
La sua lentezza nel parlare, le difficoltà nell'apprendimento, la sua facile sottomissione a tutti, come non avesse volontà propria, lo fecero giudicare superficialmente insensibile e stupido, e solo pochi ne compresero la grandezza della mente, e la forza di carattere. Ma appena entrò nei pubblici impieghi, si mostrarono le sue virtù, la libertà dalle passioni, la prudenza, la sua costanza e la sua fermezza.
Vivendo in un grande paese, circondato da molti nemici, vide quanto fosse saggio addestrarsi nel corpo (la sua arma datagli dalla natura) per esercizi di guerra, e la disciplina della lingua per l'orazione pubblica in uno stile conforme alla sua vita e al suo carattere. La sua eloquenza, infatti, non aveva molto di ornamenti popolari, né di vuoto artificio, ma c'era in esso grande significato, era forte e sentenziosa, molto dopo l'insegnamento di Tucidide. Dobbiamo riferirci alla sua orazione funebre alla morte di suo figlio, morto console, che recitò davanti al popolo.
Fabius, dal canto suo, pensava non fosse il momento di impegnarsi con il nemico, non tanto perchè considerasse i prodigi, che pensava troppo strani per essere facilmente compresi, anche se molti erano allarmati da questi, ma per i Cartaginesi che non erano pochi, e in mancanza di denaro e forniture, ritenne meglio non incontrare in campo un generale il cui esercito era stato provato in molti incontri, e il suo obiettivo era la non battaglia, ma inviare aiuti ai loro alleati, controllare i movimenti delle varie città a loro soggette, e lasciare che la forza e il vigore di Annibale deperissero e cadessero, come una fiamma, per mancanza di alimento.
Secondo le sue aspettative, Minucio ingoiò l'esca, e prima inviò le sue truppe leggere, e dopo di loro dei cavalieri, per sloggiare il nemico e, alla fine, quando vide Annibale in persona avanzare per l'assistenza dei suoi uomini, marciò verso il basso con tutto l'esercito. Si impegnò con le truppe sull'altura, sostenendo i loro attacchi, il combattimento per qualche tempo fu pari, ma non appena Annibale ebbe percepito che tutto l'esercito era ormai sufficientemente avanzato all'interno dei lacci che aveva posto per loro, in modo che le sue spalle erano aperte ai suoi uomini che aveva nascosto nelle cavità, dette il segnale, al che si precipitarono fuori da più parti, e con forti grida furiosamente attaccarono Minucio alle spalle.
La sorpresa e la strage fu grande, e portò allarme universale e disordine per l'intero esercito. Minucio perse tutta la sua fiducia, li guardava da ufficiale e ufficiale, trovando tutti ugualmente impreparati ad affrontare il pericolo, e cedere ad una fuga, che però non poteva finire in sicurezza. I cavalieri numidi erano già in piena vittoria a cavallo sulla pianura, abbattendo i fuggitivi.
Fabio non era ignaro di questo pericolo del suo paese, previde ciò che sarebbe accaduto per l'avventatezza di Minucio, e l'astuzia di Annibale, e, quindi, aveva mantenuto i suoi uomini in armi, pronti ad aspettare l'evento, né si sarebbe fidato dei rapporti degli altri, ma egli stesso, davanti al suo campo, vide tutto quello che passava. Quando, dunque, vide l'esercito di Minucio circondato dal nemico, e che per loro contegno e scivolando sul terreno che sembrava più disposto alla fuga che alla resistenza, con un gran sospiro, colpendo la mano sulla sua coscia, disse a quelli su di lui:
"O Ercole! quanto prima di quanto mi aspettassi, anche se poi quello sembrava desiderare, Minucio ha distrutto se stesso!"
Comandò alle insegne di portarsi avanti, e l'esercito al seguito, dicendo loro: "Dobbiamo fare in fretta per salvare Minucio, che è un uomo valoroso, e amante del suo paese, e se si è spinto troppo avanti per attaccare il nemico, in un altro momento gli diremo di esso."
Così, alla testa dei suoi uomini, Fabio marciò fino al nemico, e prima eliminò la pianura dai Numidi, e dopo piombò su quelli che attaccavano i romani nella parte posteriore, tagliando via ogni resistenza, e obbligando gli altri a salvarsi da una frettolosa ritirata, perché non dovessero venire circondati come lo erano stati i Romani.
Annibale vedendo un così improvviso cambiamento delle cose, e Fabio, al di là della forza dei suoi anni, aprendo la sua strada attraverso le fila lungo il pendio, che avrebbe potuto unirsi a Minucio, con circospezione si astenne, suonò la ritirata, e trasse fuori i suoi uomini nella loro campo, mentre i Romani dal canto loro non erano meno contenti di ritirarsi in sicurezza. Si dice che in questa occasione Annibale abbia detto scherzando ai suoi amici:
"Non vi dissi, che questa nuvola che sempre aleggiava sui monti sarebbe, una volta o l'altra, venuta giù con una tempesta su di noi?"
Fabio, dopo che i suoi uomini avevano raccolto le spoglie del campo, si ritirò nel suo campo, senza dire alcuna cosa dura o di rimprovero al suo collega, il quale, dal canto suo, raccogliendo il suo esercito insieme, parlò e disse loro:
"Condurre cose grandi e mai commettere un errore è superiore alla forza della natura umana, ma imparare e migliorare con le colpe abbiamo commesso, è quella che fa diventare un uomo buono e sensibile.
Alcune ragioni che possono avere ad accusare la fortuna, ma ce ne sono molte di più per ringraziarla, perché in poche ore lei ha curato un errore lungo, e mi ha insegnato che non sono l'uomo che dovrebbe svegliare gli altri, ma hanno bisogno di un altro comando per me, e che non siamo a lottare per la vittoria su quelli ai quali è nostro vantaggio cedere. Pertanto in tutto il resto d'ora in poi il dittatore deve essere il vostro comandante.
Soltanto nel mostrare gratitudine verso di lui che sarà ancora il vostro capo, ed essere sempre i primi ad obbedire ai suoi ordini ".
Detto questo, comandò le aquile romane di andare avanti, e tutti i suoi uomini a seguirlo al campo di Fabio.
I soldati, poi, come era entrato, stupirono dalla novità dei segnali, ed erano ansiosi e incerti su quale significato potesse avere. Quando arrivò vicino alla tenda del dittatore, Fabio uscì incontro a lui, che improvvisamente era ai suoi piedi, chiamandolo a gran voce Padre, mentre i suoi soldati salutarono i soldati qui come loro patroni, termine impiegato da liberti a coloro che li hanno dato la loro libertà. Dopo che il silenzio è stato ottenuto, Minucio ha detto:
"Tu hai questo giorno, o dittatore, ottenuto due vittorie, una per il tuo valore e condotta su Annibale, e un altro con la tua sapienza e bontà sul tuo collega: con una vittoria avete preservato, e con l'altra ci avete istruito, e quando noi avevamo già sofferto una sconfitta vergognosa da Annibale, da un altro benvenuto da voi siamo stati restaurati nell'onore e nella sicurezza.
Posso confrontarvi con nessun nome più nobile di quello di un padre gentile, anche se la beneficenza di un padre è poca rispetto a quella ricevuta da voi. Dal padre individualmente riceviamo il dono della vita; a te devo la sua conservazione non solo per me, ma per tutti questi che sono sotto di me "
Dopo di ciò, si gettò nelle braccia del dittatore, e nella stessa maniera i soldati di ogni esercito si abbracciarono con gioia e lacrime di gioia.
Non molto tempo dopo, Fabio lasciò la dittatura, e nuovamente vennero creati i consoli. Coloro che gli succederono osservarono lo stesso metodo nella gestione della guerra, ed evitarono ogni occasione di combattere Annibale in una battaglia campale, ma solo portarono soccorsi ai loro alleati, ed evitarono che le città potessero cadere nelle mani del nemico. Ma dopo, quando Terenzio Varrone, uomo di nascita oscura, ma molto popolare e audace, aveva ottenuto il consolato, ben presto fece sembrare con la sua temerarietà e ignoranza che avrebbe giocato tutto sul pericolo.
Perché era sua abitudine declamare in tutte le assemblee, e, fintanto che Roma impiegava generali come Fabio, non ci sarebbe stata una fine della guerra; vantandosi che quando avesse avuto in vista il nemico, avrebbe lo stesso giorno resa libera l'Italia da estranei. Con queste promesse così prevalse, si che sollevò l'esercito più grande che fosse stato inviato fuori da Roma.
Erano stati arruolati 88 mila combattenti, ma quello che dette fiducia alla popolazione, terrorizzata anche nel più saggio ed esperto, e nessuno più di Fabio, poiché se così grande esercito, e il fiore della gioventù romana, poteva essere tagliato fuori, non vedevano alcuna nuova risorsa per la sicurezza di Roma.
Essi si rivolsero, pertanto, all'altro console, Emilio Paolo, uomo di grande esperienza in guerra, ma impopolare, e timoroso anche della gente, che un tempo su qualche impiccio lo aveva condannato: così che aveva bisogno di incoraggiamento per resistere alle temerarietà del collega. Fabio gli disse, se voleva proficuamente servire il suo paese, doveva opporsi all'entusiasmo ignorante di Varrone non meno che alla preparazione consapevole di Annibale, dal momento che entrambi allo stesso modo cospiravano per decidere il destino di Roma in una battaglia.
"E 'più ragionevole", gli disse, "che tu creda più me che Varrone, in materia di Annibale, quando ti dico che se per quest'anno si astiene dalla lotta con lui, il suo esercito perirà di se stesso, altrimenti sarà felice di allontanarsi di sua spontanea volontà. Ciò appare evidente, in quanto, nonostante le sue vittorie, nessuno dei paesi o delle città d'Italia viene da lui, e il suo esercito non è ora la terza parte di ciò che era in un primo momento. "
Al che Paolo si dice abbia risposto: "Considerando me stesso, dovrei piuttosto scegliere di essere esposto alle armi di Annibale ancora una volta per i suffragi dei miei concittadini, che hanno urgenza di ciò che tu disapprovi, ma poichè è in gioco il destino di Roma, cercherò piuttosto nella mia condotta di compiacere e obbedire a Fabio che a tutto il resto del mondo".
Queste buone misure vennero sconfitte dall'importunità di Varrone, che, quando erano entrambi giunti all'esercito, nulla sarebbe piaciuto più di un comando separato, che ogni console avrebbe avuto il suo giorno, e quando arrivò il suo turno, inviò il suo esercito nei pressi di Annibale, in un villaggio chiamato Canne, presso il fiume Aufidus. Si era appena giorno, ma egli pose il mantello scarlatto a svolazzare sopra la sua tenda, che era il segnale della battaglia.
Questa audacia del console, e la numerosità del suo esercito, il doppio del loro, spaventò i Cartaginesi, ma Annibale li comandò alle armi, e con un piccolo plotone uscì a prendere una prospettiva completa del nemico che stavano ormai formando le fila, da un terreno in salita, non molto distante. Uno dei suoi seguaci, chiamato Gisco, un cartaginese di pari rango al suo, gli disse che il numero dei nemici era sorprendente, a cui Annibale rispose con un volto serio:
"C'è una cosa, Giscone, ancora più sorprendente, che tu non sai.. "
e quando Giscone chiese che cosa, rispose che
"in tutti quei gran numero davanti a noi, non c'è un uomo chiamato Gisco".
Questo scherzo inaspettato del loro generale fece ridere tutta la compagnia, e mentre scendevano dalla collina lo ripetevano a tutti coloro che incontravano, provocando una risata generale fra tutti, da cui facevano fatica a riprendersi. L'esercito, vedendo gli assistenti di Annibale tornare dalla visione del nemico in una tali risate, conclusero che dovesse essere per il profondo disprezzo del nemico, che faceva indulgere il loro generale in tale ilarità.
Secondo il consueto, Annibale impiegò stratagemmi a suo favore. In primo luogo, mosse i suoi uomini in modo che avessero il vento alle spalle, che in quel momento soffiava come una perfetta tempesta di violenza, e, sorvolando la grande pianura di sabbia, portò una nube di polvere sopra esercito cartaginese sui volti dei romani, che tanto li disturbava nella lotta. In secondo luogo, aveva posto tutti i suoi uomini migliori sulle ali, e nel corpo che era un po' più avanzato delle ali, pose la parte peggiore e più debole del suo esercito.
Comandò alle ali, che quando il nemico avesse fatto una carica su quel corpo avanzato al centro, che sapeva avrebbe rinculato, come non essendo in grado di sopportare il colpo, e quando i romani nella loro intento dovevano essere abbastanza impegnati all'interno delle due ali, essi dovrebbero, sia a destra che a sinistra, caricarli sul fianco, cercando di accerchiarli.
Questo sembra essere stata la causa principale della perdita romana. Premendo sul fronte di Annibale, che concedeva terreno, ridusse la forma del suo esercito in una perfetta mezza luna, e dette ampie opportunità ai capitani delle truppe scelto di caricarli a destra e a sinistra sui loro fianchi, e di tagliare e distruggere tutti quelli che non ricadevano prima nelle ali cartaginesi unite nella loro parte posteriore. In questa calamità generale, si dice anche che un errore strano nella cavalleria abbia molto contribuito.
Il cavallo di Emilio ricevendo un colpo e gettando a terra il suo padrone, quelli accanto a lui immediatamente si fermarono per aiutare il console, e le truppe romane, vedendo i loro comandanti smontare dai loro cavalli, lo presero per il segno che tutte dovessero smontare e caricare il nemico a piedi. Alla vista di ciò, Annibale fu sentito dire:
"Questo mi piace più che se fossero stati consegnati a me legati mani e piedi".
Per i particolari di questa battaglia, si fa riferimento il nostro lettore a quegli autori che hanno scritto in generale sull'argomento.
Il console Varrone, con una ridotta compagnia di soldati, fuggì a Venusia: Emilio Paolo, non potendo più opporsi alla fuga dei suoi uomini, nè inseguire il nemico, il suo corpo era tutto coperto di ferite, e l'anima non meno ferita dal dolore, si mise a sedere su una pietra, aspettando la gentilezza di un colpo di grazia.
Il suo volto era così sfigurato, e tutta la sua persona così macchiata di sangue, che i suoi amici e i suoi domestici che passavano non lo riconobbero.
Finalmente Cornelio Lentulo, un giovane patrizio, capì chi fosse, scese da cavallo, e avvicinandosi a lui, lo pregò di alzarsi e salvare una vita così necessaria per la sicurezza dello stato, che, in questi tempi, sarebbe molto caro un così grande capitano.
Ma nulla potè prevalere su di lui per accettare l'offerta, obbligando il giovane Lentulo giovane, con le lacrime agli occhi, a rimontare il suo cavallo, poi in piedi, gli dette la mano, e gli ordinò di dire che Fabio Massimo Emilio Paolo aveva seguito le sue indicazioni fino all'ultimo, e non aveva la minimamente deviato da quelle misure concordate tra loro, ma che era il suo destino essere sopraffatti da Varrone in primo luogo, e in secondo luogo da Annibale.
Avendo Lentulo spedito con questa commissione, individuò dove il massacro era grande, e si gettò sulla spada del nemico. In questa battaglia si segnala che 50.000 romani furono uccisi, 4000 prigionieri nel campo, e di 10.000 nel campo di entrambi i consoli.
Gli amici di Annibale premurosamente lo convinsero a seguire la sua vittoria, e perseguire i Romani fuggitivi fino alle porte di Roma, assicurando "che nel giro di cinque giorni" sarebbe salito in Campidoglio, né è facile immaginare quale considerazione glielo impedì. Sembrerebbe piuttosto che un intervento soprannaturale o divino provocato esitazione e timidezza che non appena visibili, portò Barcas, un cartaginese, a dirgli con indignazione: "Sai, Annibale, come ottenere una vittoria, ma non come utilizzarla."
Eppure produsse una rivoluzione meravigliosa nei suoi affari, lui che fino a quel momento non aveva una città, un mercato, un porto in suo possesso, che non aveva nulla per la sussistenza dei suoi uomini, ma quello che saccheggiava da un giorno all'altro, che non avevano luogo di ritiro o base delle operazioni, ma era itinerante, per così dire, con una schiera enorme di banditi, ora era diventato maestro delle migliori province e comuni d'Italia, e di Capua stessa, vicino a Roma la città più fiorente e opulenta, tutto ciò che si avvicinò a lui, e si sottoponeva alla sua autorità.
E' il detto di Euripide, che "un uomo è malato nel caso in cui si deve cercare un amico", e così nessuno, a quanto pare, è in buono stato, quando ha bisogno di un abile generale. E così è stato con i Romani, i consigli e le azioni di Fabius, che, prima della battaglia, avevano bollato come codardia e paura, ora, all'altro estremo, hanno reputato essere stato aldisopra della sapienza umana, come se niente ma solo una potenza o un intelletto divino avesse potuto vedere così lontano, e in contrasto col giudizio di tutti gli altri, un risultato che, anche ora che era arrivato, era difficile da credere.
In lui, dunque, riposero le loro ultime speranze; la sua saggezza era l'altare e il tempio sacro a cui si rifugiarono, e i suoi consigli, più di ogni altra cosa, li preservò dal disperdersi e desertificare la loro città, come al tempo in cui il Galli presero possesso di Roma.
Lui, che essi stimavano pauroso e pusillanime quando erano, come si pensava, in una condizione prospera, era ormai l'unico uomo, in questo generale sconforto e confusione, che non mostrava alcuna paura, ma camminava per le strade con un volto sicuro e sereno, rivolto ai suoi concittadini, controllando i lamenti delle donne, e le riunioni pubbliche di coloro che volevano in tal modo sfogare i loro dolori. Egli causò l'incontro in Senato, rincuorò la magistratura, e fu lui stesso come l'anima e la vita di ogni ufficio.
Mise guardie alle porte della città per fermare la moltitudine dal fuggire, regolò e limitò i loro lutti per gli amici uccisi, sia in termini di tempo e luogo, ordinando che ogni famiglia debba eseguire tali osservanze all'interno delle mura private, e che dovrebbe durare solo lo spazio di un mese, e poi tutta la città dovrebbe essere purificata.
La festa di Cerere cadendo in quel periodo, fu decretato che la solennità dovrebbe essere interrotta, perché la sobrietà, e il volto triste di chi dovrebbe festeggiare, troppo potrebbe esporre il popolo alla grandezza della loro perdita, oltre che, il culto più accettabile agli Dei è quello che viene dal cuore allegro.
Ma quei riti che dovevano proprio placare la loro collera, e procurare i segni di buon auspicio e di presagi, sarebbero stati sotto la direzione degli àuguri accuratamente eseguiti. Fabio Pittore, un parente vicino a Massimo, fu inviato a consultare l'oracolo di Delfi, e circa nello stesso periodo, due vestali essendo state scoperte di essere state violate, una si uccise, e l'altra, secondo la consuetudine, fu sepolta viva.
Soprattutto, ammiriamo l'alto spirito alto e la serenità di questa repubblica romana, che, quando il console Varrone venne picchiato e fuggì a casa, pieno di vergogna e di umiliazione, dopo aver così vergognosamente e calamitosamente gestito i loro affari, ancora l'intero senato e le persone uscirono ad incontrarlo alle porte della città, e lo accolsero con onore e rispetto.
E, essendo stato ordinato il silenzio, i magistrati e il capo del Senato, tra cui Fabio, lo ha lodato davanti al popolo, perché non disperò della sicurezza della repubblica, dopo una così grande perdita, ma era venuto a prendere il governo nelle sue mani, per eseguire le leggi, ed aiutare i suoi concittadini nella prospettiva di una futura liberazione.
Quando giunse a Roma la notizia che Annibale, dopo la battaglia, aveva marciato con il suo esercito in altre parti d'Italia, i cuori dei romani cominciarono a rivivere, e procedettero a inviare fuori i generali e gli eserciti. I comandanti che si erano più distinti erano Fabio Massimo e Claudio Marcello, entrambi generali di grande fama, anche se di tendenze opposte. Per Marcello, come abbiamo visto nella sua vita, era un uomo di azione e di alto spirito, pronto e audace di mano, e, come Omero descrive i suoi guerrieri, fiero, e deliziato nei combattimenti.
L'audacia e l'intraprendenza, corrispondenti a quelle di Annibale, costruivano la sua tattica, e segnavano le sue battaglie. Ma Fabio aderiva ai suoi principi primi, ancora convinto che, seguendo vicino e non combattendolo, Annibale e il suo esercito avrebbe finalmente provato e consumato, come un lottatore in condizioni troppo alte, il cui grande eccesso di forza lo rende più possibile a cedere improvvisamente e perdere.
Posidonio ci dice che i Romani chiamavano Marcello loro spada e loro scudo Fabio, e che il vigore di uno, unito alla fermezza dell'altro, fecero un felice composto che fecero la salvezza di Roma. Così che Annibale scoprì per esperienza che incontrando l'uno, egli incontrò un rapido, impetuoso fiume, che lo spinse indietro, e ancora fece alcune brecce su di lui; e per l'altro, per quanto silenziosamente e quietamente passò da lui, fu insensibilmente lavato via e consumato, e, infine fu portato a questo, che temeva Marcello quando era in moto, e Fabio quando sedeva.
Durante tutto il corso di questa guerra, egli ebbe ancora a che fare con uno o entrambi questi generali; per ciascuno di essi vi è stato il consolato cinque volte, e, come pretori o proconsoli e consoli, avevano sempre un ruolo nel governo delle forze armate, finché, finalmente, Marcello cadde nella trappola che Annibale aveva posto per lui, e fu ucciso nel suo V consolato.
Ma tutto il suo mestiere e la finezza non ebbero successo su Fabio, che solo una volta fu in pericolo di essere catturato, quando lettere contraffatte vennero a lui da i principali abitanti di Metaponto, con la promessa di consegnare le loro città se fosse venuto col suo esercito, e intimazioni che lo stavano aspettando.
Questo inganno già stava per riuscire, decise di marciare verso di loro con una parte del suo esercito, e fu deviato solo consultando i presagi degli uccelli, che trovò essere infausti, e non molto tempo dopo si scoprì che le lettere erano state inviate da Annibale, il quale, per intercettarlo, aveva teso un'imboscata. Questo, forse, dobbiamo piuttosto attribuire al favore degli Dei che alla prudenza di Fabio.
Nel preservare la città e gli alleati da rivolta attraverso un trattamento equo e gentile, e non con il rigore, o che mostrano un sospetto su ogni suggestione della luce, la sua condotta era notevole.
Si racconta di lui, che essendo informati di un certo Marsiano, eminente per coraggio e buona nascita, che aveva parlato di nascosto con alcuni dei soldati di disertare, Fabio fu così lontano da usare severità contro di lui, che lo mandò a chiamare, e gli disse che era sensibile l'incuria che era stato mostrato al suo merito e un buon servizio, che, disse, era stato un grande errore dei comandanti che ricompensano più dal favore che dal deserto, "ma d'ora in poi, ogni volta che ti riterrai leso, "disse Fabio," Io considero colpa tua, se non lo attribuirai non ad altri ma a me," e quando ebbe così parlato, gli dette un ottimo cavallo, e altri regali e, da quel momento in avanti, non vi fu un uomo più fidato in tutto l'esercito.
Con buona ragione egli giudicò, che, se coloro che hanno il governo dei cavalli e dei cani si sforzano di usare la dolcezza per curare i loro temperamenti arrabbiati e intrattabili, piuttosto che con la crudeltà e percosse, a maggior ragione quelli che siano al comando di uomini cerchino di portare loro ordine e disciplina con il mezzo più mite e più giusto, e non trattarli peggio di come i giardinieri fanno con le piante selvatiche, che, con cura e attenzione, perdono gradualmente la ferocia della loro natura, e danno frutti eccellenti.
In un altro momento, alcuni dei suoi ufficiali lo informarono che uno dei loro uomini era stato molto spesso assente dal suo posto, e fuori di notte, ha chiesto loro che tipo di uomo era, ma tutti risposero che tutto l'esercito non ha avuto un migliore uomo, che era nativo della Lucania, e cominciò a parlare di diverse azioni che avevano visto eseguire. Fabio fece una ricerca rigorosa, e scoprì finalmente che queste frequenti escursioni in cui si avventurò erano per visitare una giovane ragazza, di cui era innamorato.
Egli dette ordine privato ad alcuni suoi uomini di scoprire la donna e in segreto portarla nella sua tenda, e poi fu inviato per il lucano e, chiamandolo in disparte, gli disse, che egli ben sapeva quante volte aveva stato di fuori dal campo durante la notte, che era una trasgressione capitale contro la disciplina militare e le leggi romane, ma sapeva anche quanto fosse coraggioso, e i servizi bene che aveva fatto, quindi, in considerazione di loro, era disposto a perdonargli la sua colpa, ma per tenerlo in buon ordine, è stato deciso di mettere uno sopra di lui che sia il suo custode, che dovrebbe essere responsabile per la sua buona condotta. Detto questo, ha presentato la donna, e disse il soldato, spaventato e sorpreso l'avventura:
"Questa è la persona che deve rispondere per voi e dal vostro comportamento futuro vedremo se il vostro divaga notte erano a causa d'amore, o per qualsiasi altro disegno peggiore ".
Un altro passo c'era, qualcosa dello stesso genere, che gli ha acquisito il possesso di Taranto. C'era un giovane tarantino dell'esercito che aveva una sorella a Tarentum, allora in possesso del nemico, che tanto amava suo fratello, e in tutto dipendeva da lui. Egli, essendo informato che un certo Bruttiano, che Annibale aveva fatto comandante della guarnigione, era profondamente innamorato di sua sorella, concepì speranze che di poter trasformare la cosa a vantaggio dei romani.
E dopo avendo comunicato il suo progetto a Fabio, lasciò l'esercito come un palese disertore, e andò a Taranto. I primi giorni passarono, e il Bruttiano astenne dal visitare la sorella, nessuno dei due sapeva che il fratello era a conoscenza dell'amore tra di loro. Il giovane tarantino, però, colse l'occasione per dire a sua sorella che aveva sentito dire che un uomo di rango e autorità aveva rivolto le sue attenzioni a lei, e voleva quindi che gli dicesse chi era.
"Perchè", disse , "se egli sia un uomo che ha coraggio e reputazione, non importa di quale nazionalità sia, dato che in questo momento la spada confonde tutte le nazioni, e le rende uguali; i sentimenti rendono onorevoli tutte le cose, e in un momento in cui il diritto è debole, possiamo essere grati se potesse assume una forma di gentilezza".
Dopo questo la donna manda attraverso la sua amica, e lo fa conoscere al fratello, e che d'ora in poi lei ha dimostrato di più volto al suo amante che nel passato, nella stessa misura che la sua gentilezza aumentava, la sua amicizia, anche, con il fratello avanzava. Così che finalmente il nostro Tarentino pensò che questo funzionario Bruttiano abbastanza preparato a ricevere l'offerta che voleva fargli, e che sarebbe facile per un uomo mercenario, che era innamorato, accettare, in merito ai progetti, la grandi ricompense promesse da Fabio.
In conclusione, l'affare fu fatto, con la promessa di consegnare la città. Questa è la tradizione comune, anche se alcuni raccontano la storia diversamente, e dicono che questa donna, dal quale il Bruttianp era stato portato a tradire la città, non era originaria di Taranto, ma connazionale di Bruttiano, e fu tenuta da Fabio come sua concubina, ed essere una connazionale e una conoscente del governatore Bruttiano, in privato la mandò a lui per corromperlo.
Mentre queste cose erano in corso, perchè Annibale non fiutasse il progetto, Fabio inviò ordini al presidio di Reggio, che essi dovessero spogliare e devastare il paese di Bruttiano, e dovessero anche assediare Caulonia, e tempestò il posto con tutta la loro forza. Questi erano un corpo di 8000 uomini, il peggiore dell'esercito romano, che per la maggior parte di loro erano fuggiti, ed era stato portato a casa da Marcello dalla Sicilia, nel disonore, cosìcche la perdita di loro non sarebbe stato un grande dolore per i romani. Fabio, quindi, buttò fuori questi uomini come esca per Annibale, per distoglierlo da Taranto: che immediatamente li catturò, e portò le sue forze a Caulonia, nel frattempo, Fabio si accampò vicino a Taranto.
Il sesto giorno di assedio, il giovane tarantino scivolò di notte fuori della città, e, dopo aver attentamente osservato il luogo dove il comandante Bruttiano, secondo l'accordo, avrebbe ammesso i romani, fece un resoconto di tutta la faccenda a Fabio, che pensava non fosse sicuro affidarsi totalmente sulla trama, ma, mentre si procedeva con segretezza, dette ordine di un assalto generale da effettuare dall'altra parte della città, via terra e via mare. Questo fu di conseguenza eseguito, mentre i Tarantini si affrettavano a difendere la città dalla parte attaccata, Fabio ricevette il segnale del Bruttiano, scalò i muri, ed entrò nella città incontrastato.
Qui, dobbiamo confessare, l'ambizione sembra averlo superato. Per far apparire al mondo che aveva preso Taranto con la forza e il proprio valore, e non per tradimento, Fabio ordinò ai suoi uomini di uccidere i Bruttiani prima di tutti gli altri, ma non riuscì a stabilire l'impressione che desiderava, ma acquistò solo il carattere di perfidia e crudeltà. Molti dei Tarentini furono uccisi e 30 mila di loro furono venduti per schiavi, l'esercito aveva il saccheggio della città, e furono portati nel Tesoro 3000 talenti.
Mentre portavano via tutto il resto come bottino, l'ufficiale che aveva preso l'inventario chiesto che cosa dovesse essere fatto con i loro Dei, cioè i quadri e le statue, Fabio rispose: "Lasciamo i loro Dei arrabbiati ai Tarantini".Tuttavia, rimosse la statua colossale di Ercole, e l'aveva posta in Campidoglio, con una di se stesso a cavallo, in ottone, nei pressi di quella; procedimenti molto diversi da quelli di Marcello in un'occasione simile, e che, anzi, molto apparve agli occhi del mondo la sua clemenza e umanità, come risulta nel racconto della sua vita.
Annibale, si dice, era all'interno di dieci miglia da Taranto, quando fu informato che la città era stata presa. Disse apertamente, "Anche Roma poi ha avuto un Annibale, come abbiamo vinto Taranto, così l'abbiamo persa". E, in privato con alcuni dei suoi confidenti, disse loro, per la prima volta, che aveva sempre pensato che fosse difficile, ma ora lo teneva impossibile, con le forze di allora, padroneggiare l'Italia.
Su questo successo, Fabio ebbe un trionfo decretato a Roma, molto più splendido il suo primo; guardavano a lui ora come un campione che aveva imparato a convivere con il suo antagonista, e potrebbe ora facilmente con le sue arti provare la sua migliore abilità inefficace. E, in effetti, l'esercito di Annibale era in questo momento in parte allontanato con l'azione continua, e in parte indebolito e diventato dissoluto con l'abbondanza e il lusso.
Marco Livio, che era governatore di Taranto quando fu tradito da Annibale, e poi si ritirò nella cittadella, e rimase finchè la città fu riconquistata, fu infastidito in questi onori e distinzioni, e, in un'occasione, dichiarò apertamente al senato, che con la sua resistenza, più che da qualsiasi azione di Fabio, Taranto era stato recuperata, su cui Fabio rispose ridendo:
E, infatti, si racconta che il bisnonno del nostro Fabio, che è stato senza dubbio l'uomo più grande di Roma nel suo tempo, sia in reputazione e autorità, che era stato cinque volte console, e fu insignito di numerosi trionfi per le vittorie da lui ottenute, si divertiva a servire come luogotenente sotto il proprio figlio, quando andò come console al suo comando.
E quando poi il figlio aveva avuto un trionfo a lui dato per il suo buon servizio, il vecchio seguì, a cavallo, il suo carro trionfale, come uno dei suoi assistenti, e ne fece la sua gloria, che mentre egli era veramente, e fu riconosciuto essere, l'uomo più grande di Roma, ed ebbe il pieno potere di un padre sul figlio, ma ancora si sottopose alle leggi e al magistrato.
Ma le lodi del nostro Fabius non sono limitate questo. Egli poi perse suo figlio, e fu notevole nel sopportare la perdita con la moderazione diventando un pio padre e un uomo saggio, e come era consuetudine tra i Romani, dopo la morte di una persona illustre, di avere una orazione funebre recitata da alcuni dei parenti più prossimi, prese su di sé questo ufficio, e pronunciò un discorso nel forum, che aveva poi scritto.
Dopo Cornelio Scipione, che fu mandato in Spagna, egli aveva guidato i Cartaginesi, sconfitti da lui in molte battaglie, fuori dal paese, e aveva guadagnato oltre alle città di Roma e di molte nazioni con grandi risorse, fu ricevuto nella sua casa con inaudita gioia e acclamazione del popolo,che, per dimostrare la sua gratitudine, lo elesse console per l'anno successivo.
Conoscendo quali grandi aspettative avessero di lui, pensò all'occupazione di contendere l'Italia ad Annibale, un lavoro non per un uomo vecchio, e propose non di meno un compito a se stesso, di portare a Cartagine la sede della guerra, riempire l'Africa di eserciti e devastazioni, in modo da obbligare Annibale, invece di invadere i paesi altrui, tirarsi indietro e difendere il suo.
E a tal fine ha proceduto a esercitare tutta l'influenza che aveva con la gente. Fabio, dall'altro lato, si oppose all'impresa con tutte le sue forze, allarmando la città, e dicendo loro che niente come la temerarietà di un caldo giovane poteva ispirare pericolosi consigli, e senza risparmio di mezzi, con parole o atti, per prevenirlo. Prevalse nel senato di sposare i suoi sentimenti, ma la gente comune pensava che invidiava la fama di Scipione, e che egli temeva che questo giovane conquistatore raggiungesse qualcosa di grande e nobile, ed avere la gloria, forse, di guidare Annibale fuori d'Italia, o addirittura por fine alla guerra, che aveva per tanti anni continuato e prolungato sotto la sua gestione.
A dire il vero, quando Fabio prima si oppose a questo progetto di Scipione, probabilmente lo fece per cautela e prudenza, in considerazione solo della sicurezza pubblica, e del pericolo in cui lo stato potrebbe incorrere, ma quando scoprì Scipione ogni giorno sempre più nella stima della gente, la rivalità e l'ambizione lo portarono oltre, e divenne violento e personale nell'opposizione. Per questo si applicò a Crasso, il collega di Scipione, e lo esortò a non cedere il comando a Scipione, ma che, se fossero per questo le sue inclinazioni, avrebbe dovuto di persona guidare l'esercito contro Cartagine. Egli pose anche ostacoli sui soldi da dare a Scipione per la guerra, tanto che quello fu costretto a darli sul suo credito e il proprio interesse dalle città dell'Etruria, che erano molto legate a lui.
Dall'altro lato, Crasso non si sarebbe mosso contro di lui, né mosso fuori d'Italia, essendo, nella sua natura, avverso a ogni contesa, e avendo anche, dal suo ufficio di sommo sacerdote, doveri religiosi che lo trattenevano. Fabio, quindi, cercò altri modi per opporsi al progetto, impedendogli i prelievi, e declamò, sia nel senato e al popolo, che Scipione non era solo lui che voleva correre da Annibale, ma stava anche cercando di privare l'Italia di tutte le sue forze, e tentando di far sparire i giovani del paese per una guerra straniera, lasciando dietro di loro i loro genitori, mogli e bambini, e la città stessa, preda indifesa al nemico che desideroso di conquista si affacciasse alle loro porte.
Con questo egli finora aveva allarmato la gente, che alla fine avrebbe voluto accompagnare Scipione per la guerra; solo le legioni che erano in Sicilia, e 300, di cui lui si fidava particolarmente, di quegli uomini che avevano servito con lui in Spagna. In tali operazioni, Fabio sembra aver seguito i dettami del suo temperamento diffidente.
Ma, dopo che Scipione era andato in Africa, quando giunse la notizia quasi subito a Roma di una meravigliosa esplosione di vittorie, della cui fama venne a conferma il bottino che aveva mandato a casa, di un re numidio prigioniero; del vasto massacro dei loro uomini, di due campi del nemico bruciati e distrutti, e in loro una grande quantità di armi e cavalli, e al che i Cartaginesi furono costretti a mandare inviati ad Annibale per richiamarlo a casa, e lasciare le sue speranze di attività in Italia, per difendere Cartagine, quando, per questi servizi eccezionali, tutto il popolo di Roma pianse ed esaltò le azioni di Scipione, anche allora, Fabio sostenne che un successore deve essere inviato al suo posto, adducendo perciò la sola vecchia ragione della mutabilità della fortuna, come se lei fosse stanca di favorire a lungo la stessa persona.
Con questo linguaggio molti cominciarono a sentirsi offesi, sembrava di una mente malata, la pusillanimità della vecchiaia, o di una paura, che era diventata esagerata, della capacità di Annibale. Anzi, quando Annibale aveva messo il suo esercito a bordo, e preso congedo dall'Italia, Fabio ancora non poteva fare a meno di contrastare e disturbare la gioia universale di Roma, esprimendo le sue paure e apprensioni, dicendo loro che lo stato non era mai stato più in pericolo di adesso, e che Annibale era un nemico più temibile sotto le mura di Cartagine come mai era stato in Italia, che sarebbe stato fatale a Roma ogni volta Scipione dovrebbe incontrare il suo esercito vittorioso, ancora caldo con il sangue dei tanti generali romani, dittatori , e consoli uccisi.
E la gente, in qualche modo fu sorpresa a queste declamazioni, e portata a credere che il più lontano Annibale era più vicino il loro pericolo. Scipione, però, poco dopo aver combattuto Annibale, assolutamente lo sconfisse, umiliò l'orgoglio di Cartagine sotto i suoi piedi, dette ai connazionali gioia ed esultanza al di là di tutte le loro speranze.
Fabio Massimo, tuttavia, non visse abbastanza per vedere la fine prospera di questa guerra, e la sconfitta finale di Annibale, né a gioire per la ristabilito la felicità e la sicurezza della repubblica, per il tempo che Annibale lasciò l'Italia, cadde ammalato e morì. A Tebe, Epaminonda morì così povero che fu sepolto a spese pubbliche, una moneta di ferro era, si disse, tutto quello che si trovava nella sua casa. Fabio non aveva bisogno di questo, ma il popolo, come segno del loro affetto, rimborsate le spese del suo funerale con un contributo privato di ogni cittadino dal più piccolo pezzo di moneta: così facendo di lui il loro padre comune, e rendendo la sua fine non meno onorata della sua vita. -
BIBLIO
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- Plutarco - Vite parallele - Fabio Massimo, Emilio Paolo -
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- Carcopino - Annibale - Come un'autobiografia - Milano - Rusconi - 1994 -
- Giovanni Brizzi - Scipione e Annibale - la guerra per salvare Roma - Bari-Roma - Laterza - 2007 -
- Howard Hayes Scullard - Scipio and the second Punic war - 1930 -
- Santo Mazzarino - Scipio Africanus: soldier and politician - 1970 -
Così Plutarco descrisse la vita di Fabio Massimo detto Il Temporeggiatore nel 75 d.c.
- Figlio di Ercole e di una ninfa, o di qualche donna del paese che lo abbandonò sulle rive del Tevere, fu il primo Fabio e il fondatore della famosa e numerosa familia di questo nome. Secondo altri si chiamarono prima Fodii, perchè fodere in Latino significava scavare e i primi Fabii scavarono trappole per gli animali selvatici. Vero o falso che fosse questa famiglia generò un gran numero di eminenti personaggi.
Fabio Massimo, che fu il IV discendente di quel Fabius Rullus che per primo portò l'onorevole soprannome di Maximus nella sua famiglia, ebbe anche un soprannome personale, il Verrucoso, da una verruca sul labbro superiore, e nella sua infanzia venne anche detto "Ovicula", o "l'agnello", a causa della estrema mitezza di temperamento.
La sua lentezza nel parlare, le difficoltà nell'apprendimento, la sua facile sottomissione a tutti, come non avesse volontà propria, lo fecero giudicare superficialmente insensibile e stupido, e solo pochi ne compresero la grandezza della mente, e la forza di carattere. Ma appena entrò nei pubblici impieghi, si mostrarono le sue virtù, la libertà dalle passioni, la prudenza, la sua costanza e la sua fermezza.
Vivendo in un grande paese, circondato da molti nemici, vide quanto fosse saggio addestrarsi nel corpo (la sua arma datagli dalla natura) per esercizi di guerra, e la disciplina della lingua per l'orazione pubblica in uno stile conforme alla sua vita e al suo carattere. La sua eloquenza, infatti, non aveva molto di ornamenti popolari, né di vuoto artificio, ma c'era in esso grande significato, era forte e sentenziosa, molto dopo l'insegnamento di Tucidide. Dobbiamo riferirci alla sua orazione funebre alla morte di suo figlio, morto console, che recitò davanti al popolo.
Fu nominato cinque volte console, e nel suo primo consolato ebbe l'onore di un trionfo per la vittoria che aveva guadagnato sui Liguri, che sconfisse in battaglia spingendoli a rifugiarsi nelle Alpi, da dove non hanno mai più fatto incursioni o depredazioni sui loro vicini. Dopo di ciò, Annibale venne in Italia, che, alla sua prima entrata, avendo acquisito una grande vittoria nei pressi del fiume Trebbia, attraversò tutta la Toscana con il suo esercito vittorioso, devastando il paese tutt'intorno, e riempiendo Roma stessa di stupore e terrore.
Oltre ai segni più comuni di tuoni e fulmini poi accade, secondo il rapporto di molti, inauditi e strani portenti che accrebbero molto la costernazione popolare. Perciò si disse che alcune statue sudassero sangue, che ad Anzio, quando mieterono il grano, molte spighe erano piene di sangue, che aveva piovuto pietre roventi, che i Faleriani videro aprirsi i cieli e molte pergamene cadere giù, in una delle quali era chiaramente scritto: "Marte stesso agita le armi"
Oltre ai segni più comuni di tuoni e fulmini poi accade, secondo il rapporto di molti, inauditi e strani portenti che accrebbero molto la costernazione popolare. Perciò si disse che alcune statue sudassero sangue, che ad Anzio, quando mieterono il grano, molte spighe erano piene di sangue, che aveva piovuto pietre roventi, che i Faleriani videro aprirsi i cieli e molte pergamene cadere giù, in una delle quali era chiaramente scritto: "Marte stesso agita le armi"
Ma questi prodigi non ebbero effetto sul temperamento impetuoso e fiero del console Flaminio, la cui naturale prontezza era stato molto accresciuta dalla sua vittoria inaspettata sui Galli, quando li combattè pur avendo ricevuto contrari sia l'ordine del senato che il consiglio del suo collega.
MONETA RITRAENTE FABIO MASSIMO |
Queste ragioni pesanti non prevalsero con Flaminius, che protestò che non avrebbe mai sopportato l'avanzata del nemico verso la città, né essere ridotto, come Camillo nel tempo antico, a combattere per Roma entro le mura di Roma. Di conseguenza ordinò ai tribuni di trarre l'esercito in campo, e sebbene lui stesso, saltando a cavallo per partire, era appena montato che la bestia, senza causa apparente, cadde in si violento tremore e gettò a capofitto il cavaliere a terra; questi in nessun modo scoraggiato, procedette come aveva iniziato, e marciò incontro ad Annibale, che si era accampato nei pressi del Lago Trasimeno in Toscana. Al momento di impegnarsi, vi fu un terremoto così forte, che distrusse diverse città, alterò il corso dei fiumi, e portò via parti di alte scogliere, ma tale era il desiderio dei combattenti, che furono completamente insensibili a questo.
In questa battaglia Flaminio cadde, dopo molte prove della sua forza e il coraggio, e intorno a lui tutti i più coraggiosi dell'esercito, in tutto, 15000 furono uccisi, e molti vennero fatti prigionieri. Annibale, desideroso di dare onori funebri al corpo del Flaminio, fece ricerche accurate, ma non riuscì a trovarlo tra i morti, né seppe cosa ne fosse di lui. Al momento l'impegno era vicino Trebbia, ma né il generale che ha scritto, né il messaggero che riportò le notizie, usarono termini semplici e diretti, né connessi, nè altrimenti del disegno di una battaglia, con perdite pari su entrambi i lati, ma in questa occasione non appena Pomponio il pretore capì, fece riunire la gente e, senza nascondere o dissimulare la cosa, disse loro apertamente:
"Noi siamo battuti, o Romani, in una grande battaglia, il console Flaminio è stato ucciso, penso quindi a ciò che deve essere fatto per la vostra sicurezza ".
Lasciando diffondere la notizia come vento su un mare aperto, gettò la città in totale confusione: in tale costernazione, che i loro pensieri non trovarono sostegno o rifugio. Il pericolo incombente finalmente risvegliò i loro giudizi nella risoluzione di scegliere un dittatore, che per l'autorità sovrana del suo ufficio, e con la sua saggezza e il coraggio personale, poteva essere in grado di gestire la cosa pubblica. La loro scelta cadde all'unanimità Fabio, il cui carattere sembrava grande quanto il compito, la cui età era così avanzata da dargli l'esperienza, senza prendere da lui la forza d'azione, il suo corpo poteva eseguire ciò che la sua anima progettava, e il suo temperamento era un composto felice di fiducia e prudenza.
Fabio, entrato così nella carica di dittatore, in primo luogo dette il comando di consegnare un cavallo a Lucio Minucio, e insieme chiese il permesso al Senato per se stesso, che in tempo di battaglia potesse servire a cavallo, poichè da un antica legge romana era proibito ai loro generali, se così fosse, che, ponendo forza nei loro piedi, avrebbero avuto i loro generali in mezzo a loro, oppure per far sapere loro che, per quanto grande e assoluta fosse la loro autorità, il popolo e il senato erano ancora loro padroni, da cui dovevano chiedere licenza.
Fabio, però, per rendere l'autorità della sua carica più visibile, e per rendere la gente più docile e obbediente a lui, chiese di essere accompagnato con il corpo completo di 24 littori: e, quando il console sopravvissuto venne a fargli visita, gli intimò di licenziare i suoi littori con i loro fasci littori, le insegne di autorità, e apparire davanti a lui come persona privata.
Il primo atto solenne della sua dittatura fu anzitutto religioso: un monito al popolo, che la loro caduta non era dovuta alla mancanza di coraggio dei loro soldati, ma per l'abbandono delle cerimonie divine in generale. Egli perciò li esortò a non temere il nemico, ma ad onorare in modo straordinario gli Dei per propiziarseli. Questo fece, non riempire le loro menti di superstizione, ma di sentimento religioso per aumentare il loro coraggio, e diminuire la loro paura del nemico, ispirando la convinzione che il Cielo era dalla loro parte.
Con questa visuale, le profezie segrete chiamate i libri sibillini furono consultati, le risposte varie trovate in loro indicavano come causa dei malesseri le fortune e gli eventi del tempo, ma nessuno tranne il consultante ne fu informato. Presentandosi al popolo, il dittatore fece un voto prima di loro di offrire in sacrificio il prodotto di tutta la prossima stagione, in tutta Italia, delle mucche, capre, suini, ovini, sia in montagna e la pianura, e di celebrare feste musicali con una spesa della somma esatta di 333 sesterzi e 333 denari, con un terzo di un denaro sopra.
La somma totale di ciò, nella nostra moneta, è di 83.583 dracme e 2 oboli. Quale mistero potesse essere in quel numero esatto non è facile da determinare, se non fosse in onore della perfezione del numero tre, come il primo dei numeri dispari, il primo che contiene in sé la moltiplicazione, con tutte le altre proprietà dei numeri in generale.
In questo modo Fabius, avendo dato alla gente miglior coraggio per il futuro, facendo loro credere che gli Dei erano dalla loro parte, da parte sua aveva riposto tutta la fiducia in se stesso, credendo che gli Dei concedessero la vittoria e la buona sorte dagli strumenti di valore e di prudenza, e così preparato stabilì di opporsi ad Annibale, non con l'intenzione di combattere contro di lui, ma con lo scopo di usurare e sprecare il vigore delle sue braccia col passare del tempo, di incontrare la sua mancanza di risorse con mezzi superiori, da un gran numero la piccolezza delle sue forze.
Con questo disegno, egli si accampò sempre sui terreni più alti, dove la cavalleria nemica non poteva avere accesso a lui. Tuttavia tenne il passo con loro, quando marciavano li seguiva, quando si accamparono faceva lo stesso, ma ad una distanza tale da non essere costretto allo scontro e sempre tenendosi sulle colline, libero dai pericoli dei loro cavalli; con tali mezzi non dava loro tregua, ma li teneva in un allarme continuo.
Ma questo suo modo dilatorio ha dato occasione nel suo campo di sospettarlo di mancanza di coraggio, e questa opinione prevalse ancora più nell'esercito di Annibale. Annibale stesso fu l'unico uomo che non fu tratto in inganno, che discerneva la sua abilità e aveva rilevato le sue tattiche, e vide, a meno che avesse potuto per l'arte o la forza portarlo in battaglia, che i Cartaginesi, in grado di utilizzare le armi in cui erano superiori, e soffrendo il dissanguamento continuo di vite e di risorse in cui erano inferiori, sarebbero alla fine venuti per nulla.
Decise, quindi, con tutte le arti e le sottigliezze della guerra, di rompere le difese e portare Fabio ad uno scontro, come un abile lottatore, guardando tutte le possibilità per chiudere con il suo avversario per sempre. Egli una volta attaccato, cercando di distrarre la sua attenzione, tentò di dirottarlo in varie direzioni, cercando in tutti i modi di allontanarlo dalla sua politica di sicurezza.
Tutto questo artificio non ebbe effetto sul giudizio definitivo e la convinzione del dittatore, ma sul soldato semplice si, e anche sul generale al suo fianco, troppo grande era l'operazione: Minucius, fatto per l'azione, audace e fiducioso di sì, assecondato dai soldati, che lui stesso aveva contribuito a riempire con entusiasmo selvaggio e speranze vuote, scaricò rimproveri su Fabius, chiamandolo pedagogo di Annibale, in quanto egli non aveva fatto altro che seguirlo su e giù aspettando le sue mosse.
Allo stesso tempo, gridavano a Minucio che lui era il solo capitano degno di comandare i romani, per cui la sua vanità e presunzione salirono così in alto, che insolentemente scherzò sull'accampamento di Fabio che era sui monti, e loro seduti lì come in un teatro, per contemplare le fiamme e la desolazione del loro paese. E lui a volte avrebbe chiesto agli amici del generale, se non fosse questo il senso, di condurli così da monte a monte, per portarli alla fine (non avendo speranze sulla terra) in cielo, o per nasconderli tra le nuvole dall'esercito di Annibale?
Quando i suoi amici riferirono queste cose al dittatore, persuadendolo che, per evitare il biasimo generale, dovesse impegnare il nemico in battaglia, la sua risposta fu:
"Dovrei essere più debole di cuore di quello che credono, se, per timore di noiosi rimproveri, dovessi abbandonare le mie convinzioni. Non è inglorioso avere paura per la sicurezza del nostro paese, ma essere mutato nelle opinioni degli uomini, da biasimevoli e false dichiarazioni, mostra un uomo inadatto a ricoprire una carica, così come questo, che, per tale condotta, fa degli schiavi di coloro i cui errori dovrebbe controllare".
Una svista di Annibale si verificò poco dopo. Desiderosi di rinfrescare il suo cavallo in buoni pascoli, e di trarre fuori il suo esercito, ordinò alle sue guide di condurlo nel distretto di Casinum. Essi, fraintendendo la sua cattiva pronuncia, portarono lui e il suo esercito alla città di Casilinum, sulla frontiera della Campania in cui il fiume Lothronus, chiamato dai Romani Vulturnus, si divide in due parti. Il paese intorno è circondato da montagne, con una apertura a valle verso il mare, in cui il fiume in piena forma una quantità di terra palustre con banchi profondi di sabbia, e si scarica in mare su una spiaggia molto pericolosa e ruvida.
Mentre Annibale procedeva, Fabio, con la sua conoscenza delle strade, riuscì a fare la strada prima di lui, e inviò 4000 uomini scelti per cogliere l'uscita da esso e fermarlo, e depositato il resto del suo esercito sulle vicine colline, nei luoghi più vantaggiosi, allo stesso tempo staccò una parte dei suoi uomini armati più leggeri per scendere alle spalle di Annibale, cosa che fecero con tanto successo, che tagliarono fuori 800 di loro, mettendo l'intero esercito in disordine.
Annibale, capendo l'errore e il pericolo in cui era caduto, immediatamente crocifisse le guide, ma considerato che il nemico era posto in così tale vantaggio, non c'era speranza di rompere attraverso di loro, mentre i suoi soldati cominciarono ad essere depressi e terrorizzati, e a credersi circondati da ostacoli troppo difficili da superare.
Così ridotto, Annibale fece ricorso a uno stratagemma, fece legare torce e fascine secche alle corna di 2000 buoi che aveva nel suo campo, e le fece accendere all'inizio della notte, ordinando alle bestie di passare attraverso le alture dominanti i passaggi fuori dalla valle e gli appostamenti del nemico: quando questo fu fatto, fece marciare il suo esercito piacevolmente al buio dopo di essi. I buoi in un primo momento mantennero un ritmo lento e ordinato, e con la testa illuminata somigliavano a un esercito in marcia di notte, sorprendendo i pastori delle colline.
Ma quando il fuoco bruciò le corna e la carne delle bestie, non ebbero più il loro ritmo sobrio, ma indisciplinato e selvaggio per il dolore, correndo e disperdendosi, scuotendo la testa e spargendo il cerchio di fuoco l'uno sull'altro e spargendo luce mentre passavano tra gli alberi. Fu uno spettacolo sorprendente per i Romani in guardia sulle alture. Vedendo le fiamme che sembrava venire da uomini che avanzavano con le torce, diedero l'allarme che il nemico si stava avvicinando in più parti, e che stavano per essere circondati e, lasciato il loro posto, abbandonato il passo, e si ritirarono precipitosamente al loro campo sulle colline.
Non appena furono andati, la luce degli uomini armati di Annibale, secondo il suo ordine, immediatamente raggiunse le altezze, e subito dopo tutto l'esercito, con tutto il bagaglio, si avvicinò e sicuro marciò attraverso i valichi.
Fabio, prima che la notte fosse finita, presto scoperto il trucco, per alcune delle bestie caduta nelle sue mani, e per paura di un agguato nel buio, tenne i suoi uomini per tutta la notte con le armi nel campo. Appena fu giorno, attaccò il nemico alle spalle, dove, dopo una buona dose di schermaglie sul terreno irregolare, il disagio avrebbe potuto diventare generale, ma Annibale staccò dai suoi il corpo di spagnoli, i quali, di per sè attivi e agili, erano abituati alla scalata delle montagne.
Questi vivamente attaccarono le truppe romane, che erano in armatura pesante, e uccisero un buon numero di uomini e lasciarono Fabio non più in condizione di seguire il nemico. Questa azione ha portato all'estremo di biasimo e disprezzo del dittatore, dicendo che era ormai evidente che non era solo inferiore al suo avversario, come avevano sempre pensato, nel coraggio, ma anche in quella condotta, lungimiranza, e generalato, da che aveva proposto di finire la guerra.
E Annibale, per aumentare la loro rabbia contro di lui, marciò con il suo esercito vicino alle terre e i possedimenti di Fabio, e diede ordini ai suoi soldati di bruciare e distruggere tutto il paese, proibendo loro di fare il minor danno nelle tenute del generale romano, e posto le guardie per la loro sicurezza.
Questo, riferito a Roma, ebbe l'effetto con la gente che Annibale aveva desiderato. Le tribune sollevarono mille storie contro di lui, soprattutto su iniziativa di Metilius, che, non tanto in odio a lui come per amicizia a Minucio, di cui parente, pensando che deprimendo Fabio avrebbe fatto risorgere il suo amico.
I Senatori da parte loro erano anche offesi con lui per il patto che aveva fatto con Annibale circa lo scambio di prigionieri, le cui condizioni erano che, dopo lo scambio fatto dell'uomo per l'uomo, se presente su entrambi i lati rimasti, dovrebbero essere riscattati al prezzo di 250 dracme una testa. Dopo lo scambio, erano rimasti 240 Romani non scambiati, e il senato ora non solo si rifiutò di erogare i soldi del riscatto, ma rimproverò Fabius per aver siglato un contratto, in contrasto con l'onore e l'interesse della comunità, per salvare degli uomini la cui vigliaccheria li aveva messi nelle mani del nemico.
Fabio sentito e sofferto tutto questo con pazienza invincibile, e, non avendo soldi di per sè, e d'altra parte deciso a mantenere la sua parola con Annibale e di non abbandonare i prigionieri, inviò suo figlio a Roma per vendere i terreni, e per portare con sé il prezzo, sufficiente per il riscatto puntualmente eseguito da suo figlio e di conseguenza la consegna dei prigionieri, tra i quali molti, quando sono stati rilasciati, hanno proposto di restituire il denaro, cosa che Fabio in tutti i casi rifiutò.
A proposito di questo tempo, egli fu chiamato a Roma da parte dei sacerdoti, per assistere, secondo il dovere del suo ufficio, in alcuni sacrifici, e fu così costretto a lasciare il comando dell'esercito a Minucio, ma prima che si separassero, non solo lo incaricò come un comandante in capo, ma pregò e lo supplicò di non venire, in sua assenza, ad una battaglia con Annibale.
I suoi comandi, le sue suppliche, e i suoi consigli erano persi con Minucio, perchè non appena gli volse le spalle il nuovo generale immediatamente cercò le occasioni per attaccare il nemico.
Ed avendo ricevuto notizia che Annibale aveva inviato gran parte del suo esercito a trovare foraggio, egli piombò sul distaccamento rimasto, facendone grande esecuzione, e spingendoli al loro campo, senza non poco terrore, che appresero la loro sconfitta, e quando Annibale aveva raccolto le sue forze disperse al campo, e tuttavia, senza alcuna perdita, ordinò la ritirata, un successo che aggravato la sua audacia e presunzione, riempì i soldati di fiducia come un'eruzione cutanea.
La notizia volò a Roma, dove Fabio, uditala, disse che ciò che più temeva era il successo di Minucio: ma il popolo, fortemente euforico, si affrettò al forum per ascoltare un'orazione di Metilius in tribuna, in cui esaltò infinitamente il valore di Minucio, e calò pesantemente su Fabio, accusandolo non solo di mancanza di coraggio, ma anche di lealtà, e non solo lui, ma anche molte altre persone illustri e considerevoli.
Disse che erano loro che avevano portato i Cartaginesi in Italia, con il progetto di distruggere la libertà del popolo, per il quale fine si era subito messa la suprema autorità nelle mani di una sola persona, che con la sua lentezza ed i ritardi potrebbero dare ad Annibale la libertà di stabilirsi in Italia, e al popolo di Cartagine il tempo e la possibilità di fornirgli soccorsi freschi per completare la sua conquista.
Fabio non mostrò alcuna intenzione di rispondere alla tribuna, ma solo disse, che dovrebbero accelerare i sacrifici, che così potrebbe rapidamente tornare all'esercito per punire Minucio, che aveva preteso di combattere in contrasto con i suoi ordini; parole che immediatamente dettero alle persone la convinzione che Minucio fosse in pericolo di vita. Perché era in potere del dittatore di imprigionare e mettere a morte, e temevano che Fabio, di un temperamento mite in generale, potrebbe essere il più difficile da essere placato una volta irritato, come era lento per essere provocato.
Nessuno osò alzare la voce in opposizione; Metilius solo, il cui ufficio di tribuno gli dava la sicurezza di dire ciò che voleva (per il tempo di una dittatura quel magistrato conserva la sua autorità), si dedicò con coraggio alla gente nel nome di Minucio, che non dovrebbero soffrire per aver fatto un sacrificio per l'inimicizia di Fabio, né gli permettano di venire distrutto, come il figlio di Manlio Torquato, che è stato decapitato dal padre per una vittoria combattuta e vinta trionfalmente contro l'ordine, egli li esortò a togliere a Fabio il potere assoluto di un dittatore, e di metterlo in mani più degne, più capace e più propensi a usarlo per il bene pubblico.
Queste impressioni fortemente prevalso sul popolo, anche se non abbastanza per espropriare Fabio della dittatura. Ma decretarono che Minucio dovesse avere un'autorità pari al dittatore nella condotta della guerra, che allora era una cosa senza precedenti, anche se un po' più tardi verrà di nuovo praticata dopo il disastro di Canne, quando il dittatore, Marco Giunio, essendo con l'esercito, venne scelto a Roma dittatore Fabio Buteo, che poteva creare nuovi senatori, per rimpiazzare i posti di coloro che erano stati uccisi.
Ma non appena, una volta nel pubblico ufficio, aveva riempito i posti vacanti con un numero sufficiente, immediatamente licenziò i suoi littori, e si ritirò da ogni sua presenza, e mescolandosi come una persona comune con il resto del popolo, tranquillamente andò per i propri affari nel forum.
I nemici di Fabio pensavano di averlo sufficientemente umiliato e sottomesso alzando Minucio fino ad essere il suo eguale in autorità, ma scambiando il temperamento di un uomo, che considerava la loro follia, invece che la loro perdita, come Diogene di cui viene detto che ad alcune persone lo insultavano, rispose: "Ma io non sono deriso", nel senso che erano davvero insultati solo quelli sui quali tali insulti facevano impressione, così Fabio, con grande tranquillità e indifferenza, sottomettendosi a quanto successo, fornì una prova alla tesi dei filosofi che un uomo giusto e buono non è in grado di essere disonorato.
La sua irritazione solo si alzò dal timore che questo consiglio malato, fornendo opportunità per l'ambizione militare del suo subordinato, dovesse danneggiare la causa pubblica. Per timore che la temerità di Minucio corresse immediatamente a capofitto in qualche disastro, tornò indietro con tutta velocità all'esercito, dove trovò Minucio così elevato con la sua nuova dignità, e non accontentandosi più di un'autorità divisa, richiese di volta in volta di avere il comando dell'esercito a giorni alterni.
Questo Fabio lo respinse, ma era contento che l'esercito dovesse essere diviso; pensare a ogni cosa della sua parte di esercito sarebbe meglio del comando di tutto l'esercito diviso con l'altro. La legione primo e il quarto ha preso per la sua divisione, la seconda e la terza ha consegnato a Minucio, così anche le forze ausiliarie ognuno aveva una parte uguale.
Minucio, così esaltato, non riusciva a contenersi dal vantarsi del suo successo umiliando peraltro l'alto potere della dittatura. Fabio tranquillamente gli ricordava che era, in tutta coscienza, Annibale, e non Fabio, che doveva combattere: ma a fare i conti con il suo collega, era meglio avere diligenza e cura per la conservazione di Roma, che si potesse piuttosto dire che un uomo così favorito dal popolo lo serviva peggio di colui che era stato maltrattato e disonorato da loro.
ll giovane generale, disprezzando le ammonizioni come falsa umiltà dovuta all'età, subito mosse con l'esercito in armi, e si accamparono per conto loro. Annibale, che non era all'oscuro di tutti questi maneggi, osservava per trarre il suo vantaggio da loro. Accadde che tra il suo esercito e quello di Minucio c'era una certa altura, che sembrava un posto molto vantaggioso e non difficile per accamparcisi: il livello dei campi appariva tutt'intorno liscio e uniforme, se non fosse per molti fossati non visibili ad occhio.
Ad Annibale era piaciuto, e avrebbe potuto facilmente venire in possesso di questa terra, ma lo aveva riservato ad un esca, un tranello, nella stagione adatta, per attirare i Romani in battaglia. Ora che Minucio e Fabio si erano divisi, egli pensò alla fiera opportunità del suo proposito e, quindi, avendo nella notte raccolto un numero conveniente dei suoi uomini in questi fossi e conche, di buon mattino mandò un piccolo distaccamento, che, agli occhi di Minucio, procedeva per impossessarsi del terreno in salita.
"Noi siamo battuti, o Romani, in una grande battaglia, il console Flaminio è stato ucciso, penso quindi a ciò che deve essere fatto per la vostra sicurezza ".
Lasciando diffondere la notizia come vento su un mare aperto, gettò la città in totale confusione: in tale costernazione, che i loro pensieri non trovarono sostegno o rifugio. Il pericolo incombente finalmente risvegliò i loro giudizi nella risoluzione di scegliere un dittatore, che per l'autorità sovrana del suo ufficio, e con la sua saggezza e il coraggio personale, poteva essere in grado di gestire la cosa pubblica. La loro scelta cadde all'unanimità Fabio, il cui carattere sembrava grande quanto il compito, la cui età era così avanzata da dargli l'esperienza, senza prendere da lui la forza d'azione, il suo corpo poteva eseguire ciò che la sua anima progettava, e il suo temperamento era un composto felice di fiducia e prudenza.
Fabio, entrato così nella carica di dittatore, in primo luogo dette il comando di consegnare un cavallo a Lucio Minucio, e insieme chiese il permesso al Senato per se stesso, che in tempo di battaglia potesse servire a cavallo, poichè da un antica legge romana era proibito ai loro generali, se così fosse, che, ponendo forza nei loro piedi, avrebbero avuto i loro generali in mezzo a loro, oppure per far sapere loro che, per quanto grande e assoluta fosse la loro autorità, il popolo e il senato erano ancora loro padroni, da cui dovevano chiedere licenza.
Fabio, però, per rendere l'autorità della sua carica più visibile, e per rendere la gente più docile e obbediente a lui, chiese di essere accompagnato con il corpo completo di 24 littori: e, quando il console sopravvissuto venne a fargli visita, gli intimò di licenziare i suoi littori con i loro fasci littori, le insegne di autorità, e apparire davanti a lui come persona privata.
Il primo atto solenne della sua dittatura fu anzitutto religioso: un monito al popolo, che la loro caduta non era dovuta alla mancanza di coraggio dei loro soldati, ma per l'abbandono delle cerimonie divine in generale. Egli perciò li esortò a non temere il nemico, ma ad onorare in modo straordinario gli Dei per propiziarseli. Questo fece, non riempire le loro menti di superstizione, ma di sentimento religioso per aumentare il loro coraggio, e diminuire la loro paura del nemico, ispirando la convinzione che il Cielo era dalla loro parte.
Con questa visuale, le profezie segrete chiamate i libri sibillini furono consultati, le risposte varie trovate in loro indicavano come causa dei malesseri le fortune e gli eventi del tempo, ma nessuno tranne il consultante ne fu informato. Presentandosi al popolo, il dittatore fece un voto prima di loro di offrire in sacrificio il prodotto di tutta la prossima stagione, in tutta Italia, delle mucche, capre, suini, ovini, sia in montagna e la pianura, e di celebrare feste musicali con una spesa della somma esatta di 333 sesterzi e 333 denari, con un terzo di un denaro sopra.
La somma totale di ciò, nella nostra moneta, è di 83.583 dracme e 2 oboli. Quale mistero potesse essere in quel numero esatto non è facile da determinare, se non fosse in onore della perfezione del numero tre, come il primo dei numeri dispari, il primo che contiene in sé la moltiplicazione, con tutte le altre proprietà dei numeri in generale.
In questo modo Fabius, avendo dato alla gente miglior coraggio per il futuro, facendo loro credere che gli Dei erano dalla loro parte, da parte sua aveva riposto tutta la fiducia in se stesso, credendo che gli Dei concedessero la vittoria e la buona sorte dagli strumenti di valore e di prudenza, e così preparato stabilì di opporsi ad Annibale, non con l'intenzione di combattere contro di lui, ma con lo scopo di usurare e sprecare il vigore delle sue braccia col passare del tempo, di incontrare la sua mancanza di risorse con mezzi superiori, da un gran numero la piccolezza delle sue forze.
Con questo disegno, egli si accampò sempre sui terreni più alti, dove la cavalleria nemica non poteva avere accesso a lui. Tuttavia tenne il passo con loro, quando marciavano li seguiva, quando si accamparono faceva lo stesso, ma ad una distanza tale da non essere costretto allo scontro e sempre tenendosi sulle colline, libero dai pericoli dei loro cavalli; con tali mezzi non dava loro tregua, ma li teneva in un allarme continuo.
Ma questo suo modo dilatorio ha dato occasione nel suo campo di sospettarlo di mancanza di coraggio, e questa opinione prevalse ancora più nell'esercito di Annibale. Annibale stesso fu l'unico uomo che non fu tratto in inganno, che discerneva la sua abilità e aveva rilevato le sue tattiche, e vide, a meno che avesse potuto per l'arte o la forza portarlo in battaglia, che i Cartaginesi, in grado di utilizzare le armi in cui erano superiori, e soffrendo il dissanguamento continuo di vite e di risorse in cui erano inferiori, sarebbero alla fine venuti per nulla.
Decise, quindi, con tutte le arti e le sottigliezze della guerra, di rompere le difese e portare Fabio ad uno scontro, come un abile lottatore, guardando tutte le possibilità per chiudere con il suo avversario per sempre. Egli una volta attaccato, cercando di distrarre la sua attenzione, tentò di dirottarlo in varie direzioni, cercando in tutti i modi di allontanarlo dalla sua politica di sicurezza.
Tutto questo artificio non ebbe effetto sul giudizio definitivo e la convinzione del dittatore, ma sul soldato semplice si, e anche sul generale al suo fianco, troppo grande era l'operazione: Minucius, fatto per l'azione, audace e fiducioso di sì, assecondato dai soldati, che lui stesso aveva contribuito a riempire con entusiasmo selvaggio e speranze vuote, scaricò rimproveri su Fabius, chiamandolo pedagogo di Annibale, in quanto egli non aveva fatto altro che seguirlo su e giù aspettando le sue mosse.
Allo stesso tempo, gridavano a Minucio che lui era il solo capitano degno di comandare i romani, per cui la sua vanità e presunzione salirono così in alto, che insolentemente scherzò sull'accampamento di Fabio che era sui monti, e loro seduti lì come in un teatro, per contemplare le fiamme e la desolazione del loro paese. E lui a volte avrebbe chiesto agli amici del generale, se non fosse questo il senso, di condurli così da monte a monte, per portarli alla fine (non avendo speranze sulla terra) in cielo, o per nasconderli tra le nuvole dall'esercito di Annibale?
Quando i suoi amici riferirono queste cose al dittatore, persuadendolo che, per evitare il biasimo generale, dovesse impegnare il nemico in battaglia, la sua risposta fu:
"Dovrei essere più debole di cuore di quello che credono, se, per timore di noiosi rimproveri, dovessi abbandonare le mie convinzioni. Non è inglorioso avere paura per la sicurezza del nostro paese, ma essere mutato nelle opinioni degli uomini, da biasimevoli e false dichiarazioni, mostra un uomo inadatto a ricoprire una carica, così come questo, che, per tale condotta, fa degli schiavi di coloro i cui errori dovrebbe controllare".
Una svista di Annibale si verificò poco dopo. Desiderosi di rinfrescare il suo cavallo in buoni pascoli, e di trarre fuori il suo esercito, ordinò alle sue guide di condurlo nel distretto di Casinum. Essi, fraintendendo la sua cattiva pronuncia, portarono lui e il suo esercito alla città di Casilinum, sulla frontiera della Campania in cui il fiume Lothronus, chiamato dai Romani Vulturnus, si divide in due parti. Il paese intorno è circondato da montagne, con una apertura a valle verso il mare, in cui il fiume in piena forma una quantità di terra palustre con banchi profondi di sabbia, e si scarica in mare su una spiaggia molto pericolosa e ruvida.
Mentre Annibale procedeva, Fabio, con la sua conoscenza delle strade, riuscì a fare la strada prima di lui, e inviò 4000 uomini scelti per cogliere l'uscita da esso e fermarlo, e depositato il resto del suo esercito sulle vicine colline, nei luoghi più vantaggiosi, allo stesso tempo staccò una parte dei suoi uomini armati più leggeri per scendere alle spalle di Annibale, cosa che fecero con tanto successo, che tagliarono fuori 800 di loro, mettendo l'intero esercito in disordine.
Annibale, capendo l'errore e il pericolo in cui era caduto, immediatamente crocifisse le guide, ma considerato che il nemico era posto in così tale vantaggio, non c'era speranza di rompere attraverso di loro, mentre i suoi soldati cominciarono ad essere depressi e terrorizzati, e a credersi circondati da ostacoli troppo difficili da superare.
Così ridotto, Annibale fece ricorso a uno stratagemma, fece legare torce e fascine secche alle corna di 2000 buoi che aveva nel suo campo, e le fece accendere all'inizio della notte, ordinando alle bestie di passare attraverso le alture dominanti i passaggi fuori dalla valle e gli appostamenti del nemico: quando questo fu fatto, fece marciare il suo esercito piacevolmente al buio dopo di essi. I buoi in un primo momento mantennero un ritmo lento e ordinato, e con la testa illuminata somigliavano a un esercito in marcia di notte, sorprendendo i pastori delle colline.
Ma quando il fuoco bruciò le corna e la carne delle bestie, non ebbero più il loro ritmo sobrio, ma indisciplinato e selvaggio per il dolore, correndo e disperdendosi, scuotendo la testa e spargendo il cerchio di fuoco l'uno sull'altro e spargendo luce mentre passavano tra gli alberi. Fu uno spettacolo sorprendente per i Romani in guardia sulle alture. Vedendo le fiamme che sembrava venire da uomini che avanzavano con le torce, diedero l'allarme che il nemico si stava avvicinando in più parti, e che stavano per essere circondati e, lasciato il loro posto, abbandonato il passo, e si ritirarono precipitosamente al loro campo sulle colline.
Non appena furono andati, la luce degli uomini armati di Annibale, secondo il suo ordine, immediatamente raggiunse le altezze, e subito dopo tutto l'esercito, con tutto il bagaglio, si avvicinò e sicuro marciò attraverso i valichi.
Fabio, prima che la notte fosse finita, presto scoperto il trucco, per alcune delle bestie caduta nelle sue mani, e per paura di un agguato nel buio, tenne i suoi uomini per tutta la notte con le armi nel campo. Appena fu giorno, attaccò il nemico alle spalle, dove, dopo una buona dose di schermaglie sul terreno irregolare, il disagio avrebbe potuto diventare generale, ma Annibale staccò dai suoi il corpo di spagnoli, i quali, di per sè attivi e agili, erano abituati alla scalata delle montagne.
Questi vivamente attaccarono le truppe romane, che erano in armatura pesante, e uccisero un buon numero di uomini e lasciarono Fabio non più in condizione di seguire il nemico. Questa azione ha portato all'estremo di biasimo e disprezzo del dittatore, dicendo che era ormai evidente che non era solo inferiore al suo avversario, come avevano sempre pensato, nel coraggio, ma anche in quella condotta, lungimiranza, e generalato, da che aveva proposto di finire la guerra.
E Annibale, per aumentare la loro rabbia contro di lui, marciò con il suo esercito vicino alle terre e i possedimenti di Fabio, e diede ordini ai suoi soldati di bruciare e distruggere tutto il paese, proibendo loro di fare il minor danno nelle tenute del generale romano, e posto le guardie per la loro sicurezza.
Questo, riferito a Roma, ebbe l'effetto con la gente che Annibale aveva desiderato. Le tribune sollevarono mille storie contro di lui, soprattutto su iniziativa di Metilius, che, non tanto in odio a lui come per amicizia a Minucio, di cui parente, pensando che deprimendo Fabio avrebbe fatto risorgere il suo amico.
I Senatori da parte loro erano anche offesi con lui per il patto che aveva fatto con Annibale circa lo scambio di prigionieri, le cui condizioni erano che, dopo lo scambio fatto dell'uomo per l'uomo, se presente su entrambi i lati rimasti, dovrebbero essere riscattati al prezzo di 250 dracme una testa. Dopo lo scambio, erano rimasti 240 Romani non scambiati, e il senato ora non solo si rifiutò di erogare i soldi del riscatto, ma rimproverò Fabius per aver siglato un contratto, in contrasto con l'onore e l'interesse della comunità, per salvare degli uomini la cui vigliaccheria li aveva messi nelle mani del nemico.
Fabio sentito e sofferto tutto questo con pazienza invincibile, e, non avendo soldi di per sè, e d'altra parte deciso a mantenere la sua parola con Annibale e di non abbandonare i prigionieri, inviò suo figlio a Roma per vendere i terreni, e per portare con sé il prezzo, sufficiente per il riscatto puntualmente eseguito da suo figlio e di conseguenza la consegna dei prigionieri, tra i quali molti, quando sono stati rilasciati, hanno proposto di restituire il denaro, cosa che Fabio in tutti i casi rifiutò.
SCIPIONE DIBATTE IN SENATO CON FABIO MASSIMO |
I suoi comandi, le sue suppliche, e i suoi consigli erano persi con Minucio, perchè non appena gli volse le spalle il nuovo generale immediatamente cercò le occasioni per attaccare il nemico.
Ed avendo ricevuto notizia che Annibale aveva inviato gran parte del suo esercito a trovare foraggio, egli piombò sul distaccamento rimasto, facendone grande esecuzione, e spingendoli al loro campo, senza non poco terrore, che appresero la loro sconfitta, e quando Annibale aveva raccolto le sue forze disperse al campo, e tuttavia, senza alcuna perdita, ordinò la ritirata, un successo che aggravato la sua audacia e presunzione, riempì i soldati di fiducia come un'eruzione cutanea.
La notizia volò a Roma, dove Fabio, uditala, disse che ciò che più temeva era il successo di Minucio: ma il popolo, fortemente euforico, si affrettò al forum per ascoltare un'orazione di Metilius in tribuna, in cui esaltò infinitamente il valore di Minucio, e calò pesantemente su Fabio, accusandolo non solo di mancanza di coraggio, ma anche di lealtà, e non solo lui, ma anche molte altre persone illustri e considerevoli.
Disse che erano loro che avevano portato i Cartaginesi in Italia, con il progetto di distruggere la libertà del popolo, per il quale fine si era subito messa la suprema autorità nelle mani di una sola persona, che con la sua lentezza ed i ritardi potrebbero dare ad Annibale la libertà di stabilirsi in Italia, e al popolo di Cartagine il tempo e la possibilità di fornirgli soccorsi freschi per completare la sua conquista.
Fabio non mostrò alcuna intenzione di rispondere alla tribuna, ma solo disse, che dovrebbero accelerare i sacrifici, che così potrebbe rapidamente tornare all'esercito per punire Minucio, che aveva preteso di combattere in contrasto con i suoi ordini; parole che immediatamente dettero alle persone la convinzione che Minucio fosse in pericolo di vita. Perché era in potere del dittatore di imprigionare e mettere a morte, e temevano che Fabio, di un temperamento mite in generale, potrebbe essere il più difficile da essere placato una volta irritato, come era lento per essere provocato.
Nessuno osò alzare la voce in opposizione; Metilius solo, il cui ufficio di tribuno gli dava la sicurezza di dire ciò che voleva (per il tempo di una dittatura quel magistrato conserva la sua autorità), si dedicò con coraggio alla gente nel nome di Minucio, che non dovrebbero soffrire per aver fatto un sacrificio per l'inimicizia di Fabio, né gli permettano di venire distrutto, come il figlio di Manlio Torquato, che è stato decapitato dal padre per una vittoria combattuta e vinta trionfalmente contro l'ordine, egli li esortò a togliere a Fabio il potere assoluto di un dittatore, e di metterlo in mani più degne, più capace e più propensi a usarlo per il bene pubblico.
Queste impressioni fortemente prevalso sul popolo, anche se non abbastanza per espropriare Fabio della dittatura. Ma decretarono che Minucio dovesse avere un'autorità pari al dittatore nella condotta della guerra, che allora era una cosa senza precedenti, anche se un po' più tardi verrà di nuovo praticata dopo il disastro di Canne, quando il dittatore, Marco Giunio, essendo con l'esercito, venne scelto a Roma dittatore Fabio Buteo, che poteva creare nuovi senatori, per rimpiazzare i posti di coloro che erano stati uccisi.
Ma non appena, una volta nel pubblico ufficio, aveva riempito i posti vacanti con un numero sufficiente, immediatamente licenziò i suoi littori, e si ritirò da ogni sua presenza, e mescolandosi come una persona comune con il resto del popolo, tranquillamente andò per i propri affari nel forum.
I nemici di Fabio pensavano di averlo sufficientemente umiliato e sottomesso alzando Minucio fino ad essere il suo eguale in autorità, ma scambiando il temperamento di un uomo, che considerava la loro follia, invece che la loro perdita, come Diogene di cui viene detto che ad alcune persone lo insultavano, rispose: "Ma io non sono deriso", nel senso che erano davvero insultati solo quelli sui quali tali insulti facevano impressione, così Fabio, con grande tranquillità e indifferenza, sottomettendosi a quanto successo, fornì una prova alla tesi dei filosofi che un uomo giusto e buono non è in grado di essere disonorato.
La sua irritazione solo si alzò dal timore che questo consiglio malato, fornendo opportunità per l'ambizione militare del suo subordinato, dovesse danneggiare la causa pubblica. Per timore che la temerità di Minucio corresse immediatamente a capofitto in qualche disastro, tornò indietro con tutta velocità all'esercito, dove trovò Minucio così elevato con la sua nuova dignità, e non accontentandosi più di un'autorità divisa, richiese di volta in volta di avere il comando dell'esercito a giorni alterni.
Questo Fabio lo respinse, ma era contento che l'esercito dovesse essere diviso; pensare a ogni cosa della sua parte di esercito sarebbe meglio del comando di tutto l'esercito diviso con l'altro. La legione primo e il quarto ha preso per la sua divisione, la seconda e la terza ha consegnato a Minucio, così anche le forze ausiliarie ognuno aveva una parte uguale.
Minucio, così esaltato, non riusciva a contenersi dal vantarsi del suo successo umiliando peraltro l'alto potere della dittatura. Fabio tranquillamente gli ricordava che era, in tutta coscienza, Annibale, e non Fabio, che doveva combattere: ma a fare i conti con il suo collega, era meglio avere diligenza e cura per la conservazione di Roma, che si potesse piuttosto dire che un uomo così favorito dal popolo lo serviva peggio di colui che era stato maltrattato e disonorato da loro.
ll giovane generale, disprezzando le ammonizioni come falsa umiltà dovuta all'età, subito mosse con l'esercito in armi, e si accamparono per conto loro. Annibale, che non era all'oscuro di tutti questi maneggi, osservava per trarre il suo vantaggio da loro. Accadde che tra il suo esercito e quello di Minucio c'era una certa altura, che sembrava un posto molto vantaggioso e non difficile per accamparcisi: il livello dei campi appariva tutt'intorno liscio e uniforme, se non fosse per molti fossati non visibili ad occhio.
Ad Annibale era piaciuto, e avrebbe potuto facilmente venire in possesso di questa terra, ma lo aveva riservato ad un esca, un tranello, nella stagione adatta, per attirare i Romani in battaglia. Ora che Minucio e Fabio si erano divisi, egli pensò alla fiera opportunità del suo proposito e, quindi, avendo nella notte raccolto un numero conveniente dei suoi uomini in questi fossi e conche, di buon mattino mandò un piccolo distaccamento, che, agli occhi di Minucio, procedeva per impossessarsi del terreno in salita.
Secondo le sue aspettative, Minucio ingoiò l'esca, e prima inviò le sue truppe leggere, e dopo di loro dei cavalieri, per sloggiare il nemico e, alla fine, quando vide Annibale in persona avanzare per l'assistenza dei suoi uomini, marciò verso il basso con tutto l'esercito. Si impegnò con le truppe sull'altura, sostenendo i loro attacchi, il combattimento per qualche tempo fu pari, ma non appena Annibale ebbe percepito che tutto l'esercito era ormai sufficientemente avanzato all'interno dei lacci che aveva posto per loro, in modo che le sue spalle erano aperte ai suoi uomini che aveva nascosto nelle cavità, dette il segnale, al che si precipitarono fuori da più parti, e con forti grida furiosamente attaccarono Minucio alle spalle.
La sorpresa e la strage fu grande, e portò allarme universale e disordine per l'intero esercito. Minucio perse tutta la sua fiducia, li guardava da ufficiale e ufficiale, trovando tutti ugualmente impreparati ad affrontare il pericolo, e cedere ad una fuga, che però non poteva finire in sicurezza. I cavalieri numidi erano già in piena vittoria a cavallo sulla pianura, abbattendo i fuggitivi.
Fabio non era ignaro di questo pericolo del suo paese, previde ciò che sarebbe accaduto per l'avventatezza di Minucio, e l'astuzia di Annibale, e, quindi, aveva mantenuto i suoi uomini in armi, pronti ad aspettare l'evento, né si sarebbe fidato dei rapporti degli altri, ma egli stesso, davanti al suo campo, vide tutto quello che passava. Quando, dunque, vide l'esercito di Minucio circondato dal nemico, e che per loro contegno e scivolando sul terreno che sembrava più disposto alla fuga che alla resistenza, con un gran sospiro, colpendo la mano sulla sua coscia, disse a quelli su di lui:
"O Ercole! quanto prima di quanto mi aspettassi, anche se poi quello sembrava desiderare, Minucio ha distrutto se stesso!"
Comandò alle insegne di portarsi avanti, e l'esercito al seguito, dicendo loro: "Dobbiamo fare in fretta per salvare Minucio, che è un uomo valoroso, e amante del suo paese, e se si è spinto troppo avanti per attaccare il nemico, in un altro momento gli diremo di esso."
Così, alla testa dei suoi uomini, Fabio marciò fino al nemico, e prima eliminò la pianura dai Numidi, e dopo piombò su quelli che attaccavano i romani nella parte posteriore, tagliando via ogni resistenza, e obbligando gli altri a salvarsi da una frettolosa ritirata, perché non dovessero venire circondati come lo erano stati i Romani.
Annibale vedendo un così improvviso cambiamento delle cose, e Fabio, al di là della forza dei suoi anni, aprendo la sua strada attraverso le fila lungo il pendio, che avrebbe potuto unirsi a Minucio, con circospezione si astenne, suonò la ritirata, e trasse fuori i suoi uomini nella loro campo, mentre i Romani dal canto loro non erano meno contenti di ritirarsi in sicurezza. Si dice che in questa occasione Annibale abbia detto scherzando ai suoi amici:
"Non vi dissi, che questa nuvola che sempre aleggiava sui monti sarebbe, una volta o l'altra, venuta giù con una tempesta su di noi?"
LUCIO EMILIO PAOLO |
"Condurre cose grandi e mai commettere un errore è superiore alla forza della natura umana, ma imparare e migliorare con le colpe abbiamo commesso, è quella che fa diventare un uomo buono e sensibile.
Alcune ragioni che possono avere ad accusare la fortuna, ma ce ne sono molte di più per ringraziarla, perché in poche ore lei ha curato un errore lungo, e mi ha insegnato che non sono l'uomo che dovrebbe svegliare gli altri, ma hanno bisogno di un altro comando per me, e che non siamo a lottare per la vittoria su quelli ai quali è nostro vantaggio cedere. Pertanto in tutto il resto d'ora in poi il dittatore deve essere il vostro comandante.
Soltanto nel mostrare gratitudine verso di lui che sarà ancora il vostro capo, ed essere sempre i primi ad obbedire ai suoi ordini ".
Detto questo, comandò le aquile romane di andare avanti, e tutti i suoi uomini a seguirlo al campo di Fabio.
I soldati, poi, come era entrato, stupirono dalla novità dei segnali, ed erano ansiosi e incerti su quale significato potesse avere. Quando arrivò vicino alla tenda del dittatore, Fabio uscì incontro a lui, che improvvisamente era ai suoi piedi, chiamandolo a gran voce Padre, mentre i suoi soldati salutarono i soldati qui come loro patroni, termine impiegato da liberti a coloro che li hanno dato la loro libertà. Dopo che il silenzio è stato ottenuto, Minucio ha detto:
"Tu hai questo giorno, o dittatore, ottenuto due vittorie, una per il tuo valore e condotta su Annibale, e un altro con la tua sapienza e bontà sul tuo collega: con una vittoria avete preservato, e con l'altra ci avete istruito, e quando noi avevamo già sofferto una sconfitta vergognosa da Annibale, da un altro benvenuto da voi siamo stati restaurati nell'onore e nella sicurezza.
Posso confrontarvi con nessun nome più nobile di quello di un padre gentile, anche se la beneficenza di un padre è poca rispetto a quella ricevuta da voi. Dal padre individualmente riceviamo il dono della vita; a te devo la sua conservazione non solo per me, ma per tutti questi che sono sotto di me "
Dopo di ciò, si gettò nelle braccia del dittatore, e nella stessa maniera i soldati di ogni esercito si abbracciarono con gioia e lacrime di gioia.
Non molto tempo dopo, Fabio lasciò la dittatura, e nuovamente vennero creati i consoli. Coloro che gli succederono osservarono lo stesso metodo nella gestione della guerra, ed evitarono ogni occasione di combattere Annibale in una battaglia campale, ma solo portarono soccorsi ai loro alleati, ed evitarono che le città potessero cadere nelle mani del nemico. Ma dopo, quando Terenzio Varrone, uomo di nascita oscura, ma molto popolare e audace, aveva ottenuto il consolato, ben presto fece sembrare con la sua temerarietà e ignoranza che avrebbe giocato tutto sul pericolo.
Perché era sua abitudine declamare in tutte le assemblee, e, fintanto che Roma impiegava generali come Fabio, non ci sarebbe stata una fine della guerra; vantandosi che quando avesse avuto in vista il nemico, avrebbe lo stesso giorno resa libera l'Italia da estranei. Con queste promesse così prevalse, si che sollevò l'esercito più grande che fosse stato inviato fuori da Roma.
Erano stati arruolati 88 mila combattenti, ma quello che dette fiducia alla popolazione, terrorizzata anche nel più saggio ed esperto, e nessuno più di Fabio, poiché se così grande esercito, e il fiore della gioventù romana, poteva essere tagliato fuori, non vedevano alcuna nuova risorsa per la sicurezza di Roma.
Essi si rivolsero, pertanto, all'altro console, Emilio Paolo, uomo di grande esperienza in guerra, ma impopolare, e timoroso anche della gente, che un tempo su qualche impiccio lo aveva condannato: così che aveva bisogno di incoraggiamento per resistere alle temerarietà del collega. Fabio gli disse, se voleva proficuamente servire il suo paese, doveva opporsi all'entusiasmo ignorante di Varrone non meno che alla preparazione consapevole di Annibale, dal momento che entrambi allo stesso modo cospiravano per decidere il destino di Roma in una battaglia.
"E 'più ragionevole", gli disse, "che tu creda più me che Varrone, in materia di Annibale, quando ti dico che se per quest'anno si astiene dalla lotta con lui, il suo esercito perirà di se stesso, altrimenti sarà felice di allontanarsi di sua spontanea volontà. Ciò appare evidente, in quanto, nonostante le sue vittorie, nessuno dei paesi o delle città d'Italia viene da lui, e il suo esercito non è ora la terza parte di ciò che era in un primo momento. "
Al che Paolo si dice abbia risposto: "Considerando me stesso, dovrei piuttosto scegliere di essere esposto alle armi di Annibale ancora una volta per i suffragi dei miei concittadini, che hanno urgenza di ciò che tu disapprovi, ma poichè è in gioco il destino di Roma, cercherò piuttosto nella mia condotta di compiacere e obbedire a Fabio che a tutto il resto del mondo".
Queste buone misure vennero sconfitte dall'importunità di Varrone, che, quando erano entrambi giunti all'esercito, nulla sarebbe piaciuto più di un comando separato, che ogni console avrebbe avuto il suo giorno, e quando arrivò il suo turno, inviò il suo esercito nei pressi di Annibale, in un villaggio chiamato Canne, presso il fiume Aufidus. Si era appena giorno, ma egli pose il mantello scarlatto a svolazzare sopra la sua tenda, che era il segnale della battaglia.
Questa audacia del console, e la numerosità del suo esercito, il doppio del loro, spaventò i Cartaginesi, ma Annibale li comandò alle armi, e con un piccolo plotone uscì a prendere una prospettiva completa del nemico che stavano ormai formando le fila, da un terreno in salita, non molto distante. Uno dei suoi seguaci, chiamato Gisco, un cartaginese di pari rango al suo, gli disse che il numero dei nemici era sorprendente, a cui Annibale rispose con un volto serio:
"C'è una cosa, Giscone, ancora più sorprendente, che tu non sai.. "
e quando Giscone chiese che cosa, rispose che
"in tutti quei gran numero davanti a noi, non c'è un uomo chiamato Gisco".
Questo scherzo inaspettato del loro generale fece ridere tutta la compagnia, e mentre scendevano dalla collina lo ripetevano a tutti coloro che incontravano, provocando una risata generale fra tutti, da cui facevano fatica a riprendersi. L'esercito, vedendo gli assistenti di Annibale tornare dalla visione del nemico in una tali risate, conclusero che dovesse essere per il profondo disprezzo del nemico, che faceva indulgere il loro generale in tale ilarità.
Secondo il consueto, Annibale impiegò stratagemmi a suo favore. In primo luogo, mosse i suoi uomini in modo che avessero il vento alle spalle, che in quel momento soffiava come una perfetta tempesta di violenza, e, sorvolando la grande pianura di sabbia, portò una nube di polvere sopra esercito cartaginese sui volti dei romani, che tanto li disturbava nella lotta. In secondo luogo, aveva posto tutti i suoi uomini migliori sulle ali, e nel corpo che era un po' più avanzato delle ali, pose la parte peggiore e più debole del suo esercito.
Comandò alle ali, che quando il nemico avesse fatto una carica su quel corpo avanzato al centro, che sapeva avrebbe rinculato, come non essendo in grado di sopportare il colpo, e quando i romani nella loro intento dovevano essere abbastanza impegnati all'interno delle due ali, essi dovrebbero, sia a destra che a sinistra, caricarli sul fianco, cercando di accerchiarli.
Questo sembra essere stata la causa principale della perdita romana. Premendo sul fronte di Annibale, che concedeva terreno, ridusse la forma del suo esercito in una perfetta mezza luna, e dette ampie opportunità ai capitani delle truppe scelto di caricarli a destra e a sinistra sui loro fianchi, e di tagliare e distruggere tutti quelli che non ricadevano prima nelle ali cartaginesi unite nella loro parte posteriore. In questa calamità generale, si dice anche che un errore strano nella cavalleria abbia molto contribuito.
Il cavallo di Emilio ricevendo un colpo e gettando a terra il suo padrone, quelli accanto a lui immediatamente si fermarono per aiutare il console, e le truppe romane, vedendo i loro comandanti smontare dai loro cavalli, lo presero per il segno che tutte dovessero smontare e caricare il nemico a piedi. Alla vista di ciò, Annibale fu sentito dire:
"Questo mi piace più che se fossero stati consegnati a me legati mani e piedi".
Per i particolari di questa battaglia, si fa riferimento il nostro lettore a quegli autori che hanno scritto in generale sull'argomento.
ANNIBALE |
Il suo volto era così sfigurato, e tutta la sua persona così macchiata di sangue, che i suoi amici e i suoi domestici che passavano non lo riconobbero.
Finalmente Cornelio Lentulo, un giovane patrizio, capì chi fosse, scese da cavallo, e avvicinandosi a lui, lo pregò di alzarsi e salvare una vita così necessaria per la sicurezza dello stato, che, in questi tempi, sarebbe molto caro un così grande capitano.
Ma nulla potè prevalere su di lui per accettare l'offerta, obbligando il giovane Lentulo giovane, con le lacrime agli occhi, a rimontare il suo cavallo, poi in piedi, gli dette la mano, e gli ordinò di dire che Fabio Massimo Emilio Paolo aveva seguito le sue indicazioni fino all'ultimo, e non aveva la minimamente deviato da quelle misure concordate tra loro, ma che era il suo destino essere sopraffatti da Varrone in primo luogo, e in secondo luogo da Annibale.
Avendo Lentulo spedito con questa commissione, individuò dove il massacro era grande, e si gettò sulla spada del nemico. In questa battaglia si segnala che 50.000 romani furono uccisi, 4000 prigionieri nel campo, e di 10.000 nel campo di entrambi i consoli.
Gli amici di Annibale premurosamente lo convinsero a seguire la sua vittoria, e perseguire i Romani fuggitivi fino alle porte di Roma, assicurando "che nel giro di cinque giorni" sarebbe salito in Campidoglio, né è facile immaginare quale considerazione glielo impedì. Sembrerebbe piuttosto che un intervento soprannaturale o divino provocato esitazione e timidezza che non appena visibili, portò Barcas, un cartaginese, a dirgli con indignazione: "Sai, Annibale, come ottenere una vittoria, ma non come utilizzarla."
Eppure produsse una rivoluzione meravigliosa nei suoi affari, lui che fino a quel momento non aveva una città, un mercato, un porto in suo possesso, che non aveva nulla per la sussistenza dei suoi uomini, ma quello che saccheggiava da un giorno all'altro, che non avevano luogo di ritiro o base delle operazioni, ma era itinerante, per così dire, con una schiera enorme di banditi, ora era diventato maestro delle migliori province e comuni d'Italia, e di Capua stessa, vicino a Roma la città più fiorente e opulenta, tutto ciò che si avvicinò a lui, e si sottoponeva alla sua autorità.
E' il detto di Euripide, che "un uomo è malato nel caso in cui si deve cercare un amico", e così nessuno, a quanto pare, è in buono stato, quando ha bisogno di un abile generale. E così è stato con i Romani, i consigli e le azioni di Fabius, che, prima della battaglia, avevano bollato come codardia e paura, ora, all'altro estremo, hanno reputato essere stato aldisopra della sapienza umana, come se niente ma solo una potenza o un intelletto divino avesse potuto vedere così lontano, e in contrasto col giudizio di tutti gli altri, un risultato che, anche ora che era arrivato, era difficile da credere.
In lui, dunque, riposero le loro ultime speranze; la sua saggezza era l'altare e il tempio sacro a cui si rifugiarono, e i suoi consigli, più di ogni altra cosa, li preservò dal disperdersi e desertificare la loro città, come al tempo in cui il Galli presero possesso di Roma.
Lui, che essi stimavano pauroso e pusillanime quando erano, come si pensava, in una condizione prospera, era ormai l'unico uomo, in questo generale sconforto e confusione, che non mostrava alcuna paura, ma camminava per le strade con un volto sicuro e sereno, rivolto ai suoi concittadini, controllando i lamenti delle donne, e le riunioni pubbliche di coloro che volevano in tal modo sfogare i loro dolori. Egli causò l'incontro in Senato, rincuorò la magistratura, e fu lui stesso come l'anima e la vita di ogni ufficio.
Mise guardie alle porte della città per fermare la moltitudine dal fuggire, regolò e limitò i loro lutti per gli amici uccisi, sia in termini di tempo e luogo, ordinando che ogni famiglia debba eseguire tali osservanze all'interno delle mura private, e che dovrebbe durare solo lo spazio di un mese, e poi tutta la città dovrebbe essere purificata.
La festa di Cerere cadendo in quel periodo, fu decretato che la solennità dovrebbe essere interrotta, perché la sobrietà, e il volto triste di chi dovrebbe festeggiare, troppo potrebbe esporre il popolo alla grandezza della loro perdita, oltre che, il culto più accettabile agli Dei è quello che viene dal cuore allegro.
Ma quei riti che dovevano proprio placare la loro collera, e procurare i segni di buon auspicio e di presagi, sarebbero stati sotto la direzione degli àuguri accuratamente eseguiti. Fabio Pittore, un parente vicino a Massimo, fu inviato a consultare l'oracolo di Delfi, e circa nello stesso periodo, due vestali essendo state scoperte di essere state violate, una si uccise, e l'altra, secondo la consuetudine, fu sepolta viva.
Soprattutto, ammiriamo l'alto spirito alto e la serenità di questa repubblica romana, che, quando il console Varrone venne picchiato e fuggì a casa, pieno di vergogna e di umiliazione, dopo aver così vergognosamente e calamitosamente gestito i loro affari, ancora l'intero senato e le persone uscirono ad incontrarlo alle porte della città, e lo accolsero con onore e rispetto.
E, essendo stato ordinato il silenzio, i magistrati e il capo del Senato, tra cui Fabio, lo ha lodato davanti al popolo, perché non disperò della sicurezza della repubblica, dopo una così grande perdita, ma era venuto a prendere il governo nelle sue mani, per eseguire le leggi, ed aiutare i suoi concittadini nella prospettiva di una futura liberazione.
Quando giunse a Roma la notizia che Annibale, dopo la battaglia, aveva marciato con il suo esercito in altre parti d'Italia, i cuori dei romani cominciarono a rivivere, e procedettero a inviare fuori i generali e gli eserciti. I comandanti che si erano più distinti erano Fabio Massimo e Claudio Marcello, entrambi generali di grande fama, anche se di tendenze opposte. Per Marcello, come abbiamo visto nella sua vita, era un uomo di azione e di alto spirito, pronto e audace di mano, e, come Omero descrive i suoi guerrieri, fiero, e deliziato nei combattimenti.
L'audacia e l'intraprendenza, corrispondenti a quelle di Annibale, costruivano la sua tattica, e segnavano le sue battaglie. Ma Fabio aderiva ai suoi principi primi, ancora convinto che, seguendo vicino e non combattendolo, Annibale e il suo esercito avrebbe finalmente provato e consumato, come un lottatore in condizioni troppo alte, il cui grande eccesso di forza lo rende più possibile a cedere improvvisamente e perdere.
Posidonio ci dice che i Romani chiamavano Marcello loro spada e loro scudo Fabio, e che il vigore di uno, unito alla fermezza dell'altro, fecero un felice composto che fecero la salvezza di Roma. Così che Annibale scoprì per esperienza che incontrando l'uno, egli incontrò un rapido, impetuoso fiume, che lo spinse indietro, e ancora fece alcune brecce su di lui; e per l'altro, per quanto silenziosamente e quietamente passò da lui, fu insensibilmente lavato via e consumato, e, infine fu portato a questo, che temeva Marcello quando era in moto, e Fabio quando sedeva.
Durante tutto il corso di questa guerra, egli ebbe ancora a che fare con uno o entrambi questi generali; per ciascuno di essi vi è stato il consolato cinque volte, e, come pretori o proconsoli e consoli, avevano sempre un ruolo nel governo delle forze armate, finché, finalmente, Marcello cadde nella trappola che Annibale aveva posto per lui, e fu ucciso nel suo V consolato.
Ma tutto il suo mestiere e la finezza non ebbero successo su Fabio, che solo una volta fu in pericolo di essere catturato, quando lettere contraffatte vennero a lui da i principali abitanti di Metaponto, con la promessa di consegnare le loro città se fosse venuto col suo esercito, e intimazioni che lo stavano aspettando.
Questo inganno già stava per riuscire, decise di marciare verso di loro con una parte del suo esercito, e fu deviato solo consultando i presagi degli uccelli, che trovò essere infausti, e non molto tempo dopo si scoprì che le lettere erano state inviate da Annibale, il quale, per intercettarlo, aveva teso un'imboscata. Questo, forse, dobbiamo piuttosto attribuire al favore degli Dei che alla prudenza di Fabio.
FUGA DI ANNIBALE INCENDIANDO I BUOI |
Si racconta di lui, che essendo informati di un certo Marsiano, eminente per coraggio e buona nascita, che aveva parlato di nascosto con alcuni dei soldati di disertare, Fabio fu così lontano da usare severità contro di lui, che lo mandò a chiamare, e gli disse che era sensibile l'incuria che era stato mostrato al suo merito e un buon servizio, che, disse, era stato un grande errore dei comandanti che ricompensano più dal favore che dal deserto, "ma d'ora in poi, ogni volta che ti riterrai leso, "disse Fabio," Io considero colpa tua, se non lo attribuirai non ad altri ma a me," e quando ebbe così parlato, gli dette un ottimo cavallo, e altri regali e, da quel momento in avanti, non vi fu un uomo più fidato in tutto l'esercito.
Con buona ragione egli giudicò, che, se coloro che hanno il governo dei cavalli e dei cani si sforzano di usare la dolcezza per curare i loro temperamenti arrabbiati e intrattabili, piuttosto che con la crudeltà e percosse, a maggior ragione quelli che siano al comando di uomini cerchino di portare loro ordine e disciplina con il mezzo più mite e più giusto, e non trattarli peggio di come i giardinieri fanno con le piante selvatiche, che, con cura e attenzione, perdono gradualmente la ferocia della loro natura, e danno frutti eccellenti.
In un altro momento, alcuni dei suoi ufficiali lo informarono che uno dei loro uomini era stato molto spesso assente dal suo posto, e fuori di notte, ha chiesto loro che tipo di uomo era, ma tutti risposero che tutto l'esercito non ha avuto un migliore uomo, che era nativo della Lucania, e cominciò a parlare di diverse azioni che avevano visto eseguire. Fabio fece una ricerca rigorosa, e scoprì finalmente che queste frequenti escursioni in cui si avventurò erano per visitare una giovane ragazza, di cui era innamorato.
Egli dette ordine privato ad alcuni suoi uomini di scoprire la donna e in segreto portarla nella sua tenda, e poi fu inviato per il lucano e, chiamandolo in disparte, gli disse, che egli ben sapeva quante volte aveva stato di fuori dal campo durante la notte, che era una trasgressione capitale contro la disciplina militare e le leggi romane, ma sapeva anche quanto fosse coraggioso, e i servizi bene che aveva fatto, quindi, in considerazione di loro, era disposto a perdonargli la sua colpa, ma per tenerlo in buon ordine, è stato deciso di mettere uno sopra di lui che sia il suo custode, che dovrebbe essere responsabile per la sua buona condotta. Detto questo, ha presentato la donna, e disse il soldato, spaventato e sorpreso l'avventura:
"Questa è la persona che deve rispondere per voi e dal vostro comportamento futuro vedremo se il vostro divaga notte erano a causa d'amore, o per qualsiasi altro disegno peggiore ".
Un altro passo c'era, qualcosa dello stesso genere, che gli ha acquisito il possesso di Taranto. C'era un giovane tarantino dell'esercito che aveva una sorella a Tarentum, allora in possesso del nemico, che tanto amava suo fratello, e in tutto dipendeva da lui. Egli, essendo informato che un certo Bruttiano, che Annibale aveva fatto comandante della guarnigione, era profondamente innamorato di sua sorella, concepì speranze che di poter trasformare la cosa a vantaggio dei romani.
E dopo avendo comunicato il suo progetto a Fabio, lasciò l'esercito come un palese disertore, e andò a Taranto. I primi giorni passarono, e il Bruttiano astenne dal visitare la sorella, nessuno dei due sapeva che il fratello era a conoscenza dell'amore tra di loro. Il giovane tarantino, però, colse l'occasione per dire a sua sorella che aveva sentito dire che un uomo di rango e autorità aveva rivolto le sue attenzioni a lei, e voleva quindi che gli dicesse chi era.
"Perchè", disse , "se egli sia un uomo che ha coraggio e reputazione, non importa di quale nazionalità sia, dato che in questo momento la spada confonde tutte le nazioni, e le rende uguali; i sentimenti rendono onorevoli tutte le cose, e in un momento in cui il diritto è debole, possiamo essere grati se potesse assume una forma di gentilezza".
Dopo questo la donna manda attraverso la sua amica, e lo fa conoscere al fratello, e che d'ora in poi lei ha dimostrato di più volto al suo amante che nel passato, nella stessa misura che la sua gentilezza aumentava, la sua amicizia, anche, con il fratello avanzava. Così che finalmente il nostro Tarentino pensò che questo funzionario Bruttiano abbastanza preparato a ricevere l'offerta che voleva fargli, e che sarebbe facile per un uomo mercenario, che era innamorato, accettare, in merito ai progetti, la grandi ricompense promesse da Fabio.
In conclusione, l'affare fu fatto, con la promessa di consegnare la città. Questa è la tradizione comune, anche se alcuni raccontano la storia diversamente, e dicono che questa donna, dal quale il Bruttianp era stato portato a tradire la città, non era originaria di Taranto, ma connazionale di Bruttiano, e fu tenuta da Fabio come sua concubina, ed essere una connazionale e una conoscente del governatore Bruttiano, in privato la mandò a lui per corromperlo.
Mentre queste cose erano in corso, perchè Annibale non fiutasse il progetto, Fabio inviò ordini al presidio di Reggio, che essi dovessero spogliare e devastare il paese di Bruttiano, e dovessero anche assediare Caulonia, e tempestò il posto con tutta la loro forza. Questi erano un corpo di 8000 uomini, il peggiore dell'esercito romano, che per la maggior parte di loro erano fuggiti, ed era stato portato a casa da Marcello dalla Sicilia, nel disonore, cosìcche la perdita di loro non sarebbe stato un grande dolore per i romani. Fabio, quindi, buttò fuori questi uomini come esca per Annibale, per distoglierlo da Taranto: che immediatamente li catturò, e portò le sue forze a Caulonia, nel frattempo, Fabio si accampò vicino a Taranto.
Il sesto giorno di assedio, il giovane tarantino scivolò di notte fuori della città, e, dopo aver attentamente osservato il luogo dove il comandante Bruttiano, secondo l'accordo, avrebbe ammesso i romani, fece un resoconto di tutta la faccenda a Fabio, che pensava non fosse sicuro affidarsi totalmente sulla trama, ma, mentre si procedeva con segretezza, dette ordine di un assalto generale da effettuare dall'altra parte della città, via terra e via mare. Questo fu di conseguenza eseguito, mentre i Tarantini si affrettavano a difendere la città dalla parte attaccata, Fabio ricevette il segnale del Bruttiano, scalò i muri, ed entrò nella città incontrastato.
Qui, dobbiamo confessare, l'ambizione sembra averlo superato. Per far apparire al mondo che aveva preso Taranto con la forza e il proprio valore, e non per tradimento, Fabio ordinò ai suoi uomini di uccidere i Bruttiani prima di tutti gli altri, ma non riuscì a stabilire l'impressione che desiderava, ma acquistò solo il carattere di perfidia e crudeltà. Molti dei Tarentini furono uccisi e 30 mila di loro furono venduti per schiavi, l'esercito aveva il saccheggio della città, e furono portati nel Tesoro 3000 talenti.
Mentre portavano via tutto il resto come bottino, l'ufficiale che aveva preso l'inventario chiesto che cosa dovesse essere fatto con i loro Dei, cioè i quadri e le statue, Fabio rispose: "Lasciamo i loro Dei arrabbiati ai Tarantini".Tuttavia, rimosse la statua colossale di Ercole, e l'aveva posta in Campidoglio, con una di se stesso a cavallo, in ottone, nei pressi di quella; procedimenti molto diversi da quelli di Marcello in un'occasione simile, e che, anzi, molto apparve agli occhi del mondo la sua clemenza e umanità, come risulta nel racconto della sua vita.
Annibale, si dice, era all'interno di dieci miglia da Taranto, quando fu informato che la città era stata presa. Disse apertamente, "Anche Roma poi ha avuto un Annibale, come abbiamo vinto Taranto, così l'abbiamo persa". E, in privato con alcuni dei suoi confidenti, disse loro, per la prima volta, che aveva sempre pensato che fosse difficile, ma ora lo teneva impossibile, con le forze di allora, padroneggiare l'Italia.
Su questo successo, Fabio ebbe un trionfo decretato a Roma, molto più splendido il suo primo; guardavano a lui ora come un campione che aveva imparato a convivere con il suo antagonista, e potrebbe ora facilmente con le sue arti provare la sua migliore abilità inefficace. E, in effetti, l'esercito di Annibale era in questo momento in parte allontanato con l'azione continua, e in parte indebolito e diventato dissoluto con l'abbondanza e il lusso.
Marco Livio, che era governatore di Taranto quando fu tradito da Annibale, e poi si ritirò nella cittadella, e rimase finchè la città fu riconquistata, fu infastidito in questi onori e distinzioni, e, in un'occasione, dichiarò apertamente al senato, che con la sua resistenza, più che da qualsiasi azione di Fabio, Taranto era stato recuperata, su cui Fabio rispose ridendo:
"Tu dici molto vero, perché se Marco Livio non aveva perso Taranto, Fabio Massimo non l'avrebbe mai recuperato."
Il popolo, tra gli altri segni di gratitudine, dette a suo figlio il consolato del prossimo anno; poco dopo il cui ingresso al suo ufficio, che vi fosse qualche affare a piedi circa le provviste per la guerra, suo padre, sia per motivi di età e infermità, o forse cercando di trovare suo figlio, gli si avvicinò a cavallo. Mentre era ancora a distanza, il console giovane osservò, e ordinò a uno dei suoi littori che comandasse il padre di scendere, e dirgli che se avesse qualsiasi attività commerciale con il console, dovrebbe venire a piedi.
Il littore sembrava offeso dalla imperiosità del figlio verso un padre così venerabile per la sua età e la sua autorità, e voltò gli occhi in silenzio verso Fabio. Egli, tuttavia, immediatamente scese da cavallo, e con le braccia aperte si avvicinò, quasi correndo, e abbracciò suo figlio, dicendo:
"Sì, figlio mio, fai bene, e comprendi bene quale autorità hai ricevuto, e su chi dovrai usarla. Questo era il modo con cui noi e i nostri antenati abbiamo promosso la dignità di Roma, preferendo sempre il suo onore e servizio ai nostri padri e figli ".
Il popolo, tra gli altri segni di gratitudine, dette a suo figlio il consolato del prossimo anno; poco dopo il cui ingresso al suo ufficio, che vi fosse qualche affare a piedi circa le provviste per la guerra, suo padre, sia per motivi di età e infermità, o forse cercando di trovare suo figlio, gli si avvicinò a cavallo. Mentre era ancora a distanza, il console giovane osservò, e ordinò a uno dei suoi littori che comandasse il padre di scendere, e dirgli che se avesse qualsiasi attività commerciale con il console, dovrebbe venire a piedi.
Il littore sembrava offeso dalla imperiosità del figlio verso un padre così venerabile per la sua età e la sua autorità, e voltò gli occhi in silenzio verso Fabio. Egli, tuttavia, immediatamente scese da cavallo, e con le braccia aperte si avvicinò, quasi correndo, e abbracciò suo figlio, dicendo:
"Sì, figlio mio, fai bene, e comprendi bene quale autorità hai ricevuto, e su chi dovrai usarla. Questo era il modo con cui noi e i nostri antenati abbiamo promosso la dignità di Roma, preferendo sempre il suo onore e servizio ai nostri padri e figli ".
E, infatti, si racconta che il bisnonno del nostro Fabio, che è stato senza dubbio l'uomo più grande di Roma nel suo tempo, sia in reputazione e autorità, che era stato cinque volte console, e fu insignito di numerosi trionfi per le vittorie da lui ottenute, si divertiva a servire come luogotenente sotto il proprio figlio, quando andò come console al suo comando.
E quando poi il figlio aveva avuto un trionfo a lui dato per il suo buon servizio, il vecchio seguì, a cavallo, il suo carro trionfale, come uno dei suoi assistenti, e ne fece la sua gloria, che mentre egli era veramente, e fu riconosciuto essere, l'uomo più grande di Roma, ed ebbe il pieno potere di un padre sul figlio, ma ancora si sottopose alle leggi e al magistrato.
IL RITORNO DI FABIO A ROMA |
Dopo Cornelio Scipione, che fu mandato in Spagna, egli aveva guidato i Cartaginesi, sconfitti da lui in molte battaglie, fuori dal paese, e aveva guadagnato oltre alle città di Roma e di molte nazioni con grandi risorse, fu ricevuto nella sua casa con inaudita gioia e acclamazione del popolo,che, per dimostrare la sua gratitudine, lo elesse console per l'anno successivo.
Conoscendo quali grandi aspettative avessero di lui, pensò all'occupazione di contendere l'Italia ad Annibale, un lavoro non per un uomo vecchio, e propose non di meno un compito a se stesso, di portare a Cartagine la sede della guerra, riempire l'Africa di eserciti e devastazioni, in modo da obbligare Annibale, invece di invadere i paesi altrui, tirarsi indietro e difendere il suo.
E a tal fine ha proceduto a esercitare tutta l'influenza che aveva con la gente. Fabio, dall'altro lato, si oppose all'impresa con tutte le sue forze, allarmando la città, e dicendo loro che niente come la temerarietà di un caldo giovane poteva ispirare pericolosi consigli, e senza risparmio di mezzi, con parole o atti, per prevenirlo. Prevalse nel senato di sposare i suoi sentimenti, ma la gente comune pensava che invidiava la fama di Scipione, e che egli temeva che questo giovane conquistatore raggiungesse qualcosa di grande e nobile, ed avere la gloria, forse, di guidare Annibale fuori d'Italia, o addirittura por fine alla guerra, che aveva per tanti anni continuato e prolungato sotto la sua gestione.
A dire il vero, quando Fabio prima si oppose a questo progetto di Scipione, probabilmente lo fece per cautela e prudenza, in considerazione solo della sicurezza pubblica, e del pericolo in cui lo stato potrebbe incorrere, ma quando scoprì Scipione ogni giorno sempre più nella stima della gente, la rivalità e l'ambizione lo portarono oltre, e divenne violento e personale nell'opposizione. Per questo si applicò a Crasso, il collega di Scipione, e lo esortò a non cedere il comando a Scipione, ma che, se fossero per questo le sue inclinazioni, avrebbe dovuto di persona guidare l'esercito contro Cartagine. Egli pose anche ostacoli sui soldi da dare a Scipione per la guerra, tanto che quello fu costretto a darli sul suo credito e il proprio interesse dalle città dell'Etruria, che erano molto legate a lui.
Dall'altro lato, Crasso non si sarebbe mosso contro di lui, né mosso fuori d'Italia, essendo, nella sua natura, avverso a ogni contesa, e avendo anche, dal suo ufficio di sommo sacerdote, doveri religiosi che lo trattenevano. Fabio, quindi, cercò altri modi per opporsi al progetto, impedendogli i prelievi, e declamò, sia nel senato e al popolo, che Scipione non era solo lui che voleva correre da Annibale, ma stava anche cercando di privare l'Italia di tutte le sue forze, e tentando di far sparire i giovani del paese per una guerra straniera, lasciando dietro di loro i loro genitori, mogli e bambini, e la città stessa, preda indifesa al nemico che desideroso di conquista si affacciasse alle loro porte.
Con questo egli finora aveva allarmato la gente, che alla fine avrebbe voluto accompagnare Scipione per la guerra; solo le legioni che erano in Sicilia, e 300, di cui lui si fidava particolarmente, di quegli uomini che avevano servito con lui in Spagna. In tali operazioni, Fabio sembra aver seguito i dettami del suo temperamento diffidente.
Ma, dopo che Scipione era andato in Africa, quando giunse la notizia quasi subito a Roma di una meravigliosa esplosione di vittorie, della cui fama venne a conferma il bottino che aveva mandato a casa, di un re numidio prigioniero; del vasto massacro dei loro uomini, di due campi del nemico bruciati e distrutti, e in loro una grande quantità di armi e cavalli, e al che i Cartaginesi furono costretti a mandare inviati ad Annibale per richiamarlo a casa, e lasciare le sue speranze di attività in Italia, per difendere Cartagine, quando, per questi servizi eccezionali, tutto il popolo di Roma pianse ed esaltò le azioni di Scipione, anche allora, Fabio sostenne che un successore deve essere inviato al suo posto, adducendo perciò la sola vecchia ragione della mutabilità della fortuna, come se lei fosse stanca di favorire a lungo la stessa persona.
Con questo linguaggio molti cominciarono a sentirsi offesi, sembrava di una mente malata, la pusillanimità della vecchiaia, o di una paura, che era diventata esagerata, della capacità di Annibale. Anzi, quando Annibale aveva messo il suo esercito a bordo, e preso congedo dall'Italia, Fabio ancora non poteva fare a meno di contrastare e disturbare la gioia universale di Roma, esprimendo le sue paure e apprensioni, dicendo loro che lo stato non era mai stato più in pericolo di adesso, e che Annibale era un nemico più temibile sotto le mura di Cartagine come mai era stato in Italia, che sarebbe stato fatale a Roma ogni volta Scipione dovrebbe incontrare il suo esercito vittorioso, ancora caldo con il sangue dei tanti generali romani, dittatori , e consoli uccisi.
E la gente, in qualche modo fu sorpresa a queste declamazioni, e portata a credere che il più lontano Annibale era più vicino il loro pericolo. Scipione, però, poco dopo aver combattuto Annibale, assolutamente lo sconfisse, umiliò l'orgoglio di Cartagine sotto i suoi piedi, dette ai connazionali gioia ed esultanza al di là di tutte le loro speranze.
Fabio Massimo, tuttavia, non visse abbastanza per vedere la fine prospera di questa guerra, e la sconfitta finale di Annibale, né a gioire per la ristabilito la felicità e la sicurezza della repubblica, per il tempo che Annibale lasciò l'Italia, cadde ammalato e morì. A Tebe, Epaminonda morì così povero che fu sepolto a spese pubbliche, una moneta di ferro era, si disse, tutto quello che si trovava nella sua casa. Fabio non aveva bisogno di questo, ma il popolo, come segno del loro affetto, rimborsate le spese del suo funerale con un contributo privato di ogni cittadino dal più piccolo pezzo di moneta: così facendo di lui il loro padre comune, e rendendo la sua fine non meno onorata della sua vita. -
BIBLIO
- Plutarco - Fabio Massimo - 24 -
- Plutarco - Vite parallele - Fabio Massimo, Emilio Paolo -
- Tito Livio - La guerra con Annibale tradotto da Aubrey de Selincourt - 1974 - Penguin Books - London - England -
- Guido Clemente - La guerra annibalica - Storia Einaudi dei Greci e dei Romani - XIV - Milano - Il - 2008.
- Carcopino - Annibale - Come un'autobiografia - Milano - Rusconi - 1994 -
- Giovanni Brizzi - Scipione e Annibale - la guerra per salvare Roma - Bari-Roma - Laterza - 2007 -
- Howard Hayes Scullard - Scipio and the second Punic war - 1930 -
- Santo Mazzarino - Scipio Africanus: soldier and politician - 1970 -
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