FICUS-OLEA-VITIS NEL FORO ROMANO OGGI |
Vi era un'area sacra, presso la Colonna di Foca, non lastricata fin dall'antichità in quanto accoglieva un fico, un olivo e una vite che dovevano all'incirca occupare l'area centrale del Foro Romano. La colonna di Foca fu l'ultimo monumento in ordine di tempo ad essere costruito all'interno del Foro. Dal 608 d.c. in poi iniziò il progressivo abbandono di questa zona, presso la quale sorsero solamente edifici di culto cristiani costruiti sfruttando i monumenti pagani preesistenti.
Naturalmente col cristianesimo le tre piante persero il loro significato, ma soprattutto erano collegate al culto pagano e quindi probabilmente distrutte.
Una zona sterrata posta tra l'iscrizione pavimento di Nevio Surdinus e le basi su cui furono scoperti i Plutei fu scambiata da alcuni studiosi per la pianta del giardino in cui erano i tre alberi, ma Plinio sembra indicare che fossero cresciuti presso il Lacus Curtius. Questo oggi è lastricato, ma non doveva essere completamente asfaltato all'epoca di Plinio.
L'iscrizione di Nevio Surdinus, a lettere di bronzo, (reintegrata in parte nei lavori del 1955) era su pavimentazione in travertino. Essa fu realizzata in epoca augustea dal pretore urbano Lucio Nevio Surdino (Lucius Naevius Surdinus) in ricordo della nuova pavimentazione dell'area dove si trovava un vecchio anfiteatro adibito ai giochi gladiatorii.
Sul Plutei Traiani (Nash 2:. Fichi 902, 905) viene citato un fico che stava accanto alla Statua di Marsia, ma è molto probabile fosse artificiale, forse di bronzo, e non avesse nulla a che fare con quelli famosi. Sembra invece che l'antica statua di Marsia insieme all'ulivo fosse posta nel Foro.
Ma chi è Marsia?
MARSYA
Marsya era un satiro, una creatura dei boschi della Frigia. Minerva aveva inventato il flauto ma suonandolo in un convito olimpico, venne derisa dagli altri Dei per l'antiestetico gonfiarsi delle sue gote; la Dea allora si specchiò, si trovò orribile e gettò via lo strumento.
MARSYA
Marsya era un satiro, una creatura dei boschi della Frigia. Minerva aveva inventato il flauto ma suonandolo in un convito olimpico, venne derisa dagli altri Dei per l'antiestetico gonfiarsi delle sue gote; la Dea allora si specchiò, si trovò orribile e gettò via lo strumento.
Lo raccolse Marsya, che lo suonò benissimo, tanto bene da sfidare Apollo lasciandogli scegliere le condizioni della gara, alla fine della quale il vinto sarebbe stato alla mercé del vincitore: Apollo accettò, e pretese che essi suonassero i loro rispettivi strumenti, cetra e flauto, tenendoli rovesciati. Così Marsya suonò male, e le Muse aggiudicarono la vittoria ad Apollo che legò lo sfidante a un albero e lo scorticò vivo. La terribile punizione è descritta da Ovidio (Met. VI 382-400), il quale aggiunge che Marsya si sarebbe poi mutato in un fiume Frigio.
Dante nella terza cantica invoca "il buono Apollo", buono? Scuoia viva una creatura ed è buono?
"Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue".
De la vagina.... Apollo faceva la levatrice?
I commentatori moderni, concordi, hanno interperetato: " con quella potenza che mostrasti nella gara con Marsia ", ma qui si parla di scorticamento, non di gara. Dante dà allo scuioiamento un significato allegorico "tolta del tutto ogni apparenza esteriore" Ma sembra poco convincente anche questa.
STATUA DI MARSYA |
Marsia era in Frigia in relazione col culto di Cibele, un antico culto matriarcale e i Greci ne fecero un sileno o un satiro. Ora Athena-Minerva, Dea della guerra, abituata alla battaglia, alle membra tagliate e al sangue. l'Athena Promachos, colei che combatteva sempre in prima fila... si scandalizza perchè le si sono gonfiate le gote suonando il flauto? Non è credibile.
Sicuramente vi fu una lotta tra i seguaci di Apollo e i seguaci di Marsia, tra i suonatori di lira e i suonatori di flauto. Due popoli si scontrarono portando ciascuno i propri Dei, così come si scontrarono gli antichi Dei greci, i Titani, con le divinità dell'Olimpo, portate dai nuovi invasori elleni. Naturalmente non furono gli Dei a scontrasi ma i popoli.
Ma i romani che c'entravano con Marsia? C'entravano, perchè il Dio Mars era anch'esso il figlio della Grande Madre, quando Hera non era ancora la sposa di Giove. I suoi templi, come l'Heraion di Samo e l'Heraion di Argo risalgono al VIII sec. a.c. e furono i primissimi esempi di tempio greco monumentale della storia.
Guarda caso Giove e Giunone, gli Dei dell'Olimpo, fecero pochi o nessun figlio tra di loro, ovvero solo alcuni miti li reputano di Giove, perchè Hera partoriva senza marito, come tutte le Grandi Madri. Giove ne fece tanti ma con altre donne o Dee, e Giunone fece Ares, Ebe, Eris, Efesto, e Ilizia, toccandoli con dei fiori magici.
Ares a Roma divenne Mars, il Dio della guerra. Ovvero: Mars già esisteva, era un Dio italico, preromano, tanto è vero che iniziò come Dio dei giardini e dei campi, un Dio della vegetazione, un po' come Marsia, del resto da Mars a Marsia il passo è breve.
Ma Marsia aveva una peculiarità, già scuoiato, girava vivo e vegeto con la pelle sulla spalla, esattamente come San Bartolomeo che girava anch'egli con la pelle sulla spalla per quel vezzo tutto cattolico di rieditare Dei e semidei romani trasformandoli in santi cristiani.
In effetti Dante non aveva tutti i torti, quello scuoiamento (che dovette essere qualcosa di terribilmente vero al tempo delle guerre di invasione ellenica) divenne poi un simbolo legato ai Sacri Misteri, quello che veniva chiamato il "Togliersi i vestiti di pelle", o togliere la maschera nei misteri Dionisiaci. L'eroe che cambia pelle è colui che riesce a trasformare se stesso e più inconsciamente che consapevolmente, divenne un simbolo di libertà, cioè l'iniziato redento, o più semplicemente l'uomo liberato da se stesso, dai suoi schemi.
Ma Marsia aveva una peculiarità, già scuoiato, girava vivo e vegeto con la pelle sulla spalla, esattamente come San Bartolomeo che girava anch'egli con la pelle sulla spalla per quel vezzo tutto cattolico di rieditare Dei e semidei romani trasformandoli in santi cristiani.
In effetti Dante non aveva tutti i torti, quello scuoiamento (che dovette essere qualcosa di terribilmente vero al tempo delle guerre di invasione ellenica) divenne poi un simbolo legato ai Sacri Misteri, quello che veniva chiamato il "Togliersi i vestiti di pelle", o togliere la maschera nei misteri Dionisiaci. L'eroe che cambia pelle è colui che riesce a trasformare se stesso e più inconsciamente che consapevolmente, divenne un simbolo di libertà, cioè l'iniziato redento, o più semplicemente l'uomo liberato da se stesso, dai suoi schemi.
Secondo alcuni studiosi queste tre piante erano simboliche, stavano infatti ad indicare l'importanza del fico, dell'ulivo e della vite nel commercio romano che nel V-IV sec. a.c. si basava principalmente sulla vendita di queste tre piante.
"Ficus, Olea, Vitis": "un albero di fico, un ulivo, e una vite crescevano nel mezzo del foro presso il Lacus Curtius". Plinio (Plinio HN 15.78) dice che il fico si era autoseminato, così come lo era anche l'uva, mentre l'ulivo sarebbe stato stato piantato per fare ombra, e sotto di esso c'era un altare, dedicato a non si sa chi, che fu rimosso al momento dei giochi gladiatori indetti da Augusto per il Divus Iulius.
Ora guardiamo la realtà dei fatti. Sicuramente l'olio d'oliva e il vino erano un grosso commercio di esportazione per il suolo italico, in quanto ai fichi, molto usati dai romani, certamente davano il loro frutto economico, ma era più importato che esportato, ma ora guardiamone il simbolismo che fu all'origine della scelta delle piante.
L'olivo era la pianta sacra a Minerva, la vite era sacra a Dioniso-Bacco e il fico era sacro a... Rumina.. la Dea del Ficus Ruminalis.
IL FICO
Esso rimanda all'albero di fico selvatico nei pressi del Tevere sotto il quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa (e che secondo Livio si chiamava anche Romulare da Romolo).
La leggenda di Romolo e Remo narra che i due gemelli nacquero da Marte e Rea Silvia, la giovane vestale di Alba Longa violentata dal Dio.
Essendo figli della colpa, i gemelli vennero strappati alla madre per essere uccisi, ma un servo li pose in una cesta, affidandolo alle acque del Tevere.
Trasportata dallo straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto il fico ruminale, nel punto in cui la lupa provvidenziale li avrebbe allattati.
Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale.
Il termine "ruminale" venne discusso da Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso con varie interpretazioni.
Il termine "ruminale" venne discusso da Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso con varie interpretazioni.
Secondo alcuni deriverebbe dal latino "ruma" (mammella), parola che starebbe all'origine dei nomi di Romolo e Remo, secondo altri il fico prese il nome da Romolo, infatti fu detto anche ficus Romularis.
Comunque il ficus era già venerato in epoca preromana dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. In seguito vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Rumina.
Rumina
Rumina era una Dea preromana e poi romana che proteggeva le donne allattanti. Il suo tempio era ai piedi del Colle palatino, adiacente al fico ruminale, un albero di fico sotto cui la fatidica lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Alla Dea si offriva principalmente latte. (si pensa esistesse anche una Dea Ruma etrusca da cui si potrebbe aver attinto il nome). Certo che da Ruma a Rumina e a Roma il passo è breve.
Sebbene il fico ruminale fosse in origine solamente quello in riva al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli abbandonati, nel corso dei secoli successivi e fino in epoca imperiale altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta con l'epiteto di "ruminale".
Secondo una leggenda il Fico Navio (ficus navia), sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine, pertanto "aedes sacra", (Plinio, Nat. Hist. 15.77) oppure nacque da un virgulto del fico ruminale piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito al Comitium, nei pressi di una statua dell'augure Atto Navio dal quale prese il nome.
Tito Livio narra che nel 296 a.c. gli edili Gneo e Quinto Ogulnio avevano eretto "ad ficum ruminalem" un monumento che rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che ai tempi suoi (43 - 18 a.c.) del monumento non restava nulla.
Il monumento con tutta probabilità rappresentava una lupa coi gemelli sotto il fico ruminale, ma come mai sparì?
Plutarco e Plinio (Naturalis Historia 15.77) narrano invece che un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di buon auspicio, e che ogni qual volta il fico moriva veniva immediatamente ripiantato. Tacito racconta (Ann. 13.58) che nel 58 d.c. l'albero ruminale iniziò a inaridire: ciò fu visto come un cattivo presagio, ma la pianta si rinvigorì con gran sollievo della popolazione.
Il fico ha una caratteristica particolare, e cioè che i fichi non ancora maturi, se spremuti, secernono una specie di latte, per cui vennero associati alla Dea lattifera, tanto più che il frutto del fico alla lontana somiglia a una piccola mammella.
Si dice che Pitagora, che aveva orrore della fava, avesse invece un culto per il frutto del fico, che venisse portato in processione nelle feste sacre e che addirittura fosse usato come simbolo del mistero che avvolgeva il cosmo (secondo altri, sempre per i pitagorici, sarebbe stato una pera, anche questa però con una vaga somiglianza al seno femminile).
Per alcuni studiosi successivi il liquido del fico starebbe per il liquido seminale ma sembra davvero un po' tirata, tanto per volgere alcune leggende al maschile come usa ancora oggi. Per intenderci dunque il Fico Ruminale sarebbe stato il latte con cui la Dea allattò i gemelli romani e tutti i loro discendenti. Meritava davvero una statua nel Foro.
Il fico restava dunque un pianta sacra il cui significato era ormai già perduto al tempo dei romani, ma di cui continuava l'usanza legata a diverse leggende posteriori alla Dea Rumina. Il fico era comunque quello alla cui ombra furono allattati i figli di Marte, cioè: i Romani.
L'ULIVO
"Olea sacra erat Minervae" L'ulivo era sacro a Minerva. Originario dell'Asia minore venne diffuso dai fenici in tutto il Mediterraneo, per questo in Grecia fu sacro ad Athena. In Grecia però l'olio era conosciuto per le sue qualità medicamentose, per pulire e come per per lampade.
ATENA |
Minerva era Dea della saggezza e della guerra, e l'olio veniva usato tanto per le lampade quanto come frutto ma soprattutto come condimento, indubbiamente l'olio più buono che il mondo conosca a tutt'oggi. Poichè Minerva era Dea dell'intelligenza ella era l'ispiratrice dei generali più che dei soldati, delle strategie e del risparmio di vite romane e la sua guerra mirava a stabilire la pace. "Si vis pacem para bellum" fu il motto adottato da Augusto.
Saranno proprio i romani poi a migliorarne le tecniche colturali, ma, soprattutto, ne idearono i primi macchinari atti ad estrarre l’olio dalle olive, nonchè ne studiarono accuratamente i metodi di conservazione più validi.
I romani tennero così sempre in grande considerazione l’ulivo, tanto che in ogni territorio conquistato ne svilupparono la coltivazione, e per molto tempo costituì uno dei tributi che le popolazioni sottomesse al potere di Roma dovevano versare.
Inoltre i rametti dell’ulivo rappresentavano per i romani un simbolo di grande prestigio, ed intrecciati insieme con i rami di alloro divennero la corona che veniva posta sul capo delle persone più importanti e meritevoli.
LA VITE
La vite è la pianta che permette la produzione del vino, e Roma è sorta nell'antica Enotria, la Terra dei Vini.
Se è vero che in epoca monarchica e pure repubblicana alle donne romane era proibito bere vino pena ritorsioni pesantissime fino all'uccisione della poveretta, è vero che dalla fine della repubblica le cose cambiarono e con l'impero ancora di più, e le donne bevevano allegramente partecipando a tutti i banchetti possibili.
Non a caso Livia, la moglie di Augusto, si vantò di aver conseguito una venerabile età (86 anni) proprio per aver sempre bevuto un bicchiere di buon vino a pasto.
Lucrezio:
"E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi."
Insomma il vino era la consolazione dei mortali dalle sofferenze e delusioni della vita, e quindi il dono più gradito per i mortali, e l'Italia venne infatti definita da Sofocle (V sec. a.c.) "terra prediletta dal Dio Bacco".
Diodoro Siculo sosteneva che la vite qui cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.
I Romani invece impararono in fretta e bene, accumulando una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione. Avevano appreso tali segreti da Etruschi, Greci e Cartaginesi e, proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. I Romani avevano il senso del business, tutto doveva essere organizzato e produttivo.
Pertanto la vite non solo procurava grandi guadagni alla penisola, ma concedeva la letizia del vino, che bevuto in moderazione, concedeva quella distesa letizia che permetteva di addolcire una serata con gli amici in un lauto banchetto, o un piacevole incontro con l'amata.
I vini romani divennero pertanto migliori, curati e ben selezionati. I grappoli immaturi o alterati, venivano anch'essi raccolti, ma servivano per produrre il vino degli schiavi. Ma Catone narra che il vino degli schiavi si produceva anche aggiungendo acqua alle vinacce già pressate e facendo fermentare il tutto.
Della "lora", ossia del "vinello" così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media era di 260 litri/anno. Oltre agli schiavi anche i contadini e gli operai in genere bevevano la "lora". Non era poi un cattivo trattamento, se non altro non erano i vini contraffatti ottenuti chimicamente che hanno talvolta avvelenato le tavole di noi moderni.
CONCLUSIONI
Fico, olivo e vite furono, insieme ai cereali, la fonte del nutrimento dei romani, ma furono anche il piacere della tavola dei romani e se ciò fu ritenuto dono degli Dei non fu un male, visto che per le religioni orientali, (o di origine orientale come la cristiana) gli Dei più che fare doni puniscono.
Ma dietro questi doni nacquero dei Misteri Sacri che comparavano in qualche modo la vita umana alla trasformazione della vite in vino e dell'oliva in olio, mentre il mistero dell'inflorescenza doppia e tripla del fico, unica pianta della zona mediterranea, che fiorisce più di una volta l'anno, sicuramente alludeva alla possibilità della reincarnazione sulla terra.
Non a caso Marsia, lo scuoiato diventa simbolo di libertà, viene posta la sua statua nel foro ed è glorificato da un arco vegetale formato da un fico su cui è attorcigliata una vite che si inarcano sopra l'eroe per unire le fronde di un ulivo. Insomma l'arco di trionfo dell'uomo libero.
BIBLIO
- Antonietta Dosi - Spazio e tempo - (coautore Francois Schnell) - Vita e Costumi dei Romani Antichi - Quasar - Roma - 1992 -
"E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi."
Insomma il vino era la consolazione dei mortali dalle sofferenze e delusioni della vita, e quindi il dono più gradito per i mortali, e l'Italia venne infatti definita da Sofocle (V sec. a.c.) "terra prediletta dal Dio Bacco".
Diodoro Siculo sosteneva che la vite qui cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.
I Romani invece impararono in fretta e bene, accumulando una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione. Avevano appreso tali segreti da Etruschi, Greci e Cartaginesi e, proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. I Romani avevano il senso del business, tutto doveva essere organizzato e produttivo.
Pertanto la vite non solo procurava grandi guadagni alla penisola, ma concedeva la letizia del vino, che bevuto in moderazione, concedeva quella distesa letizia che permetteva di addolcire una serata con gli amici in un lauto banchetto, o un piacevole incontro con l'amata.
I vini romani divennero pertanto migliori, curati e ben selezionati. I grappoli immaturi o alterati, venivano anch'essi raccolti, ma servivano per produrre il vino degli schiavi. Ma Catone narra che il vino degli schiavi si produceva anche aggiungendo acqua alle vinacce già pressate e facendo fermentare il tutto.
Della "lora", ossia del "vinello" così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media era di 260 litri/anno. Oltre agli schiavi anche i contadini e gli operai in genere bevevano la "lora". Non era poi un cattivo trattamento, se non altro non erano i vini contraffatti ottenuti chimicamente che hanno talvolta avvelenato le tavole di noi moderni.
CONCLUSIONI
Fico, olivo e vite furono, insieme ai cereali, la fonte del nutrimento dei romani, ma furono anche il piacere della tavola dei romani e se ciò fu ritenuto dono degli Dei non fu un male, visto che per le religioni orientali, (o di origine orientale come la cristiana) gli Dei più che fare doni puniscono.
Ma dietro questi doni nacquero dei Misteri Sacri che comparavano in qualche modo la vita umana alla trasformazione della vite in vino e dell'oliva in olio, mentre il mistero dell'inflorescenza doppia e tripla del fico, unica pianta della zona mediterranea, che fiorisce più di una volta l'anno, sicuramente alludeva alla possibilità della reincarnazione sulla terra.
Non a caso Marsia, lo scuoiato diventa simbolo di libertà, viene posta la sua statua nel foro ed è glorificato da un arco vegetale formato da un fico su cui è attorcigliata una vite che si inarcano sopra l'eroe per unire le fronde di un ulivo. Insomma l'arco di trionfo dell'uomo libero.
BIBLIO
- Antonietta Dosi - Spazio e tempo - (coautore Francois Schnell) - Vita e Costumi dei Romani Antichi - Quasar - Roma - 1992 -
- Ab Urbe Condita Libri - Venetiis, apud Carolum Bonarrigum - 1714 -
- A. Carandini - Roma. Il primo giorno - Laterza - Roma-Bari - 2007 -
- A. Carandini - Roma. Il primo giorno - Laterza - Roma-Bari - 2007 -
- Claude Nicolet - Strutture dell'Italia romana, (sec. 3.-1. a.c.) - Roma - Jouvence - 1984 -
- Plutarco - Vite parallele -Teseo e Romolo - BUR - Milano - 2016 -
- Plutarco - Vite parallele -Teseo e Romolo - BUR - Milano - 2016 -
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