TEMPIO DI MINERVA MEDICA

RICOSTRUZIONE

TEMPIO DI MINERVA MEDICA ALL'ESQUILINO DI ROMA

Negli scavi effettuati in varie epoche furono rinvenute diverse sculture: nel XVI secolo le statue di Asclepio, Igea e le figlie collegate con la scienza medica ed una statua di Minerva con il serpente (simbolo della medicina), da cui l'odierna denominazione ritenuta però ultimamente impropria.

Si dimentica però che Igea, o Igeia, era proprio uno degli aspetti di Minerva nella sua qualità di guaritrice, non ci si meravigli che le venisse associato anche Asclepio (corrispondente romano di Esculapio, Dio della medicina).

Del resto sia Cicerone che altre fonti parlano del tempio di Minerva Medica, uno degli aspetti più antichi della Dea.

Non a caso ad Atene, come a Roma, la Dea era corredata di serpenti, simbolo della Dea Madre e della guarigione sia in generale che miracolosa, infatti di solito era associata alle acque e questo tempio sembra non fare eccezione.

Robert Graves nella "Dea Bianca" scrive che Asclepio era legato al corvo, poiché sua madre era Coronide (cornacchia), probabilmente epiteto di Atena a cui questo animale era sacro.

Suo padre era Apollo, il cui animale sacro era sempre il corvo.

Per cui per l'autore Asclepio era figlio di Atena. Tanto è vero che fu proprio lei a donare ad Asclepio il sangue della Gorgone per guarire, dimostrandosi ancora una volta guaritrice. Uno dei suoi epiteti era infatti Minerva Medica.

Alla fine dell'Ottocento furono rinvenute altre statue (oggi ai Musei Capitolini), fra cui due statue di magistrati romani in procinto di lanciare la mappa, l'atto che dava inizio alle corse dei carri nel circo.

Si sa che le corse dei carri erano particolarmente care a Marte e Minerva, quest'ultima ritenuta inventrice del carro attaccato ai cavalli nonchè delle briglie per cavalcare o guidare l'animale.

L'edificio, risalente al IV secolo d.c., si presenta di pregevolissima architettura. Trattasi di una grande costruzione dalla pianta decagona, in origine coperta da una cupola (in parte crollata nel 1828) del diametro di circa 25 m.

Su ognuno dei lati del decagono erano presenti nove nicchie semicircolari, tranne quello di ingresso che forse era scandito da colonne.

Al di sopra delle nicchie grandi finestroni arcuati che oltre a fornire la fornire la luce alleggerivano la mole e il peso dell'edificio.

Dieci pilastri fornivano il sostegno alla cupola, la quale, partendo da una forma poligonale, assumeva gradualmente un aspetto emisferico.

Viene ritenuto e probabilmente a ragione, il ninfeo degli Horti Liciniani, dei quali è indefinibile l'epoca, ma nulla toglie che negli Horti si edificassero vari templi dedicati agli Dei più cari ai proprietari degli Horti, sia per fede, sia perchè volevano poter sacrificare o pregare ai propri Dei senza dover uscire dalla proprietà.

Inoltre il tempio era un abbellimento e un orgoglio per chi lo edificava, nonchè una benedizione da parte della divinità che si pensava accettasse di buon grado questa dedica.

Il tempio di Minerva viene misconosciuto così come è stato misconosciuto il tempio di Vesta, che solo successivamente fu attribuito ad Ercole, ed ora riattribuito a Vesta, anche perchè non si spiegherebbe il foro centrale per il fuoco, classico dei templi femminili, nonchè la rotondità dell'edificio, anch'esso classico dei templi più antichi, che erano quasi tutti femminili.

Eppure l'archeologia insegna che le attribuzioni popolari di un luogo contengono sempre un pizzico di verità.

IL TEMPIO OGGI


I colori segreti di Minerva medica ricostruiti virtualmente
ROMA

«Senza il cosiddetto tempio di Minerva Medica non ci sarebbe stata la basilica di Santa Sofia ad Istanbul». 

Non ha dubbi la Soprintendente ai beni archeologici di Roma Mariarosaria Barbera quando parla della maestosa struttura architettonica che sopravvive nel quartiere Esquilino, col suo fascino romantico di «rudere», da diciassette secoli. 

Oggi il colossale edificio che rasenta con la sua cupola i trentadue metri d’altezza, appare incastonato a via Giolitti, tra i binari della stazione Termini e le rotaie del tram. Gioiello di desolata solitudine affogato nella modernità.

Eppure la grande aula di «Minerva Medica», capolavoro della Roma dell’imperatore Costantino (primi decenni del IV secolo d.c.) è uno dei monumenti più importanti dell’antichità.

La sua struttura è tipica dell’epoca tardoantica con un’amplissima cupola a spicchi del tipo “a vela”, terza a Roma nelle proporzioni dopo il Pantheon e le Terme di Caracalla.

Magistralmente illuminata e alleggerita da finestroni, con un assetto poligonale che la cambia quasi inavvertitamente in emisferica con una fitta e precisissima opera laterizia.

Tutti i lati del decagono accolgono infatti altrettanti nicchioni semicircolari presenti in tutti i lati del decagono, ad eccezione dell’ingresso. Tra ogni nicchione si erigono massicci pilastri con funzione di contrafforti. 

Lo spazio risulta dilatato all’interno e all’esterno grazie alle profonde nicchie presenti su nove lati, disposte con simmetria assoluta e sovrastate da grandi finestre arcuate; l’elemento architettonico tradizionale, rappresentato dalle colonne, ritorna invece nell’ingresso e nei quattro nicchioni disposti ai lati dell’edificio. 

Per assicurare la stabilità dell’edificio, nel tempo furono tamponate le nicchie aperte, dando continuità alla struttura realizzando all’esterno, nelle zone di risulta fra le nicchie, poderosi contrafforti addossati ai pilastri angolari, interventi che modificarono la sagoma esterna dell’edificio.
Le due grandi esedre, disposte all’esterno sull’asse trasversale, come si vede nel disegno qui a lato, andarono a fiancheggiare il padiglione a pianta centrale, inserito in un complesso di altri ambienti curvilinei o absidali: tra questi, lo spazio allungato a doppia abside, simile ad un nartece, aggiunto davanti all’ingresso. 

Nei resti molteplici i segni di una sontuosa decorazione: sulla cupola restano tracce di mosaici in preziosa pasta vitrea, successivamente ricoperti da uno strato di intonaco.

Sulle pareti erano lastre marmoree, fissate come di consueto su un preparato di malta e frammenti di tegole; i pavimenti erano ricoperti da mosaici lapidei ed opus sectile a vivaci colori.

All'ampia bibliografia degli studi di settore, che sembra farne uno dei monumenti più studiati dell'antichità, ha fatto finora riscontro una preoccupante sottovalutazione dei problemi statici.

Infatti nel 1828 vi fu il rovinoso crollo della cupola, oggetto di un complesso restauro negli anni Quaranta del Novecento; mentre è in corso di avvio un intervento di consolidamento e restauro dell’intero monumento.

Così, dopo quasi un secolo di abbandono, è proprio la Barbera a guidare un complesso e ambizioso progetto di restauro e consolidamento che per la prima volta ha consentito uno studio integrale e innovativo del monumento. 

I risultati saranno presentati oggi in Spagna, a Merida, in occasione del Congresso internazionale di archeologia classica, ospitato presso il Museo nazionale di arte romana della cittadina spagnola. 
( E in Italia quando arrivano?...)



LE SCOPERTE

I lavori sono stati avviati nel 2011, con un piano di finanziamento complessivo di 2 milioni di euro.
La vera scoperta l’hanno riservata le tracce di mosaici, marmi e paste vitree originali. 

STATUA RINVENUTA NEI PRESSI
Prove con cui è stata elaborata per la prima volta la ricostruzione «virtuale» dell’intero complesso decorativo interno dell’edificio. 

«I dati certi rinvenuti nella struttura muraria sono stati confrontati con elementi decorativi di monumenti coevi», racconta la Barbera. 

Quello che ne viene fuori è «Un trionfo di luce, un’architettura che segna il punto di passaggio tra l’arte tardo antica e quella bizantina», dice la Barbera.

La struttura, dalla pianta rara e inconsueta, con forma decagonale dove si aprono nove nicchie semicircolari, era rivestita completamente di ricchi ornamenti. 

Le superfici erano ricoperte di lastre di marmi policromi combinati in giochi di tarsie in stile «opus sectile», che dal pavimento risalivano lungo le pareti, nell’incavo delle nicchie e su fino al tamburo della cupola.



MARMI «TRICOLORE»

STATUA DI DIONISO RINVENUTA
NEI PRESSI
«Sappiamo quali erano i colori - avverte la Barbera - all’insegna del tricolore, con marmi bianchi, abbinati al rosso antico africano e al verde porfido spartano». 

L’ipotesi più accreditata è che i mosaici riempissero le absidi delle nicchie e la possente calotta della cupola (tra le più ampie di Roma con un diametro di oltre 25 metri) con un repertorio di motivi floreali, animali e figure simboliche. 

Cuore del cantiere sono stati, poi, gli scavi archeologici condotti per la prima volta: «Siamo riusciti in questo modo a mettere a punto una diagnosi del dissesto del monumento - avverte la Barbera - abbiamo individuato tutte le strutture preesistenti su cui è stato costruito il monumento, che risalgono all’epoca repubblicana e ancora prima».

A rischio crollo, l’aula è rimasta dimenticata per un secolo, lasciata a resistere in balia di manutenzioni sporadiche (l’ultimo intervento parziale risale agli anni ’40 del secolo scorso). 

Non a caso tra il 1904 e il 2006 la superficie della cupola ha subito una riduzione di quasi il 50 per cento. 

Ora si va avanti con il consolidamento: «Il progetto prevede di integrare due archi che poggiano su un pilastro ottocentesco in modo da ripristinare la continuità della cupola ed evitare il collasso delle coperture superstiti», avverte Marina Magnani Cianetti, direttore dei lavori. 

L’obiettivo: valorizzare il monumento e aprirlo al pubblico entro il primo semestre del 2015.


BIBLIO

- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - I 14.3 -
- Alison E.Cooley - "History and Inscriptions, Rome" - in The Oxford History of Historical Writing - eds. A. Feldherr & G. Hardy - Oxford University Press - Oxford - 2011 -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Marija Gimbutas - Il linguaggio della dea - Roma - Venexia - 2008 -

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