I LEMURI ROMANI - LEMURES

LEMURES
I Lemuri, in latino Lemures, erano entità o spiriti temuti dai romani appartenenti ad un defunto inquieto o malvagio, e sono probabilmente affini alle cosiddette larve (dal latino larva, "maschera") come inquietanti o terrificanti, dette anche "Bucce di morto". La parola lemures può essere ricondotta al termine indoeuropeo lem, riconducibile forse anche al nome del mostro greco Lamia. I Lemuri erano informi e liminari, dove il limen era il confine tra i vivi e i morti, associati all'oscurità e al suo terrore.

Lamia, nella mitologia greca, era una donna che divenne un mostro mangia-bambino dopo che i suoi figli furono distrutti da Hera, quando seppe che Giove l'aveva sedotta. Inoltre Hera affliggeva Lamia con insonnia, così da angosciarsi costantemente, ma Zeus le dava la capacità di rimuovere i propri occhi, con una chiara allusione a una seconda vista, non a caso gli indovini mitici greci erano sempre ciechi.

Nelle successive tradizioni e narrazioni, i lamiai divennero un tipo di fantasma, sinonimo delle greche "Empusai" che seducevano i giovani per soddisfare il loro appetito sessuale e nutrirsi poi della loro carne. Empusa o Empousa era un fantasma femminile capace di mutare la sua forma, che si diceva possedesse una singola gamba di rame. Ella faceva parte del corteo di Ecate Dea dell'oltretomba, della magia, equiparate ai " lamiai e mormolykeia", "lamie" e "mormo" (la variante mormolyce si traduce in "lupi terribili"), create per sedurre e nutrirsi di giovani uomini.

La lamia venne descritta simile a un serpente, quindi riconducibile alla natura della Madre Terra, il cui simbolo fu, in epoca antichissima e a tutte le latitudini, sempre il serpente. Si narra infatti di un mostro metà donna e metà serpente nel "mito libico" narrato da Dio Crisostomo, il filosofo e storico greco detto anche "Cocceiano", e il mostro inviato ad Argo da Apollo per vendicare Psamathe (Crotopus).

LA LAMIA

Come il serpente fu sacro nel matriarcato, divenne mostruoso e malvagio nel patriarcato. La Dea Serpente ricorre anche nel panteon egizio, con testa umana e corpo di serpente o viceversa con testa di serpente e corpo di donna.

Lemure è il termine letterario più comune per definire il fantasma, ma tra i romani ha un uso raro, ne scrivono i poeti di epoca augustea Orazio e Ovidio, quest'ultimo nei suoi Fasti, il poema calendariale di sei libri sulle feste romane e relative usanze religiose.

Verrà invece ripreso ampiamente nel medioevo, dove i sentimenti e gli istinti, relegati nell'inconscio dalla severa religione cattolica, usciranno fuori sotto forma di mostri che popoleranno soprattutto, strano a dirsi, le chiese.

Orazio nella sua Ars Poetica mette in guardia contro l'eccessivamente fantastico e spaventoso: "..né dovrebbe una storia dare l'immagine di un ragazzo vivo dal ventre di Lamia".

Ovidio descrive i Lemuri come spiriti vaganti e vendicativi per non aver ricevuto sepoltura, o riti funebri, o non essere stati ricordati e pregati dai vivi, o che non abbiano ricevuto iscrizioni nè su una tomba nè su una lapide. Il poeta li ravvisa nei Dei Manes, oppure dei genitori defunti con i figli ingrati, o antenati o spiriti degli Inferi. Sa che i Lemuri sono divinità o semidei del mondo rurale più antico, una tradizione magica dimenticata.


Nella Roma repubblicana e imperiale, il 9, l'11 e il 13 maggio si eseguivano le pratiche familiari dei Lemuralia o Lemuria. Il capofamiglia (pater familias) si alzava a mezzanotte e gettava fagioli neri dietro di lui con lo sguardo distolto, proferendo alcune formule di scongiuro; cibo per i Lemuri affinchè risparmiassero i membri della "familia", quindi servi e schiavi compresi. Il nero era il colore appropriato per le offerte alle divinità ctonie. 

William Warde Fowler interpreta il dono dei fagioli come un'offerta di vita, e sottolinea che si trattava di un procedimento rituale per i sacerdoti di Giove. Per convincere i lemuri a non infestare la casa, qualora non bastassero i fagioli offerti dal pater familias, si passavano a percuotere con possenti colpi dei vasi di bronzo, sembra che i Lemuri ne fossero terrorizzati.

Sull'offerta di vita dei fagioli ci sarebbe da dire, basti ricordare che le fave erano severamente vietate da Pitagora che preferì, si dice, farsi uccidere dai suoi nemici pur di non attraversare un campo di fave.

Queste erano considerate piante magiche, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini.
Erano un cibo sacro agli Dei dell’oltretomba o un cibo caro ai morti e per questo oggetto di tabù. Pertanto infrangere il divieto significava mettersi contro i morti o le potenze infernali.

Sappiamo però che i fagioli erano sacri per le antiche Dee Madri e tra l'altro connessi alla Dea italica Mellona o Mellonia che era ritenuta appunto Dea dei fagioli. I fagioli neri, una varietà da tempo esportata nella penisola italica, erano la pianta leguminosa più usata dai romani per la facilità della sua coltivazione, perchè era molto nutriente e perchè i suoi semi si potevano conservarsi molto a lungo.

Ma la ragione della sua sacralità risiedeva nel baccello, per arrivare al seme occorreva aprire il baccello, come per il culto di Diana Caria, per nutrirsi della noce occorreva spaccare il suo guscio.


Per le religioni di tipo femminile-matriarcale era basilare l'apertura della mente per contemplare il mondo altero, dei morti e degli Dei, e non si giungeva agli Dei se non attraverso i morti, e non si giungeva ai morti se non guardando nel buio di se stessi. "Nosce te ipsum" era scritto sul tempio della Madre Terra.

Il 24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre, veniva aperto con l'annuncio ufficiale " mundus patet " (il mundus è stato aperto), il mondo ctonio dei morti e si facevano offerte per le divinità agricole e ctonie, tra cui Cerere come Dea del terra fertile ma pure degli Inferi. In particolare i sacerdoti di Cerere offrivano ai Mani un toro nero, simbolo della Luna Nera per le loro corna arcuate e per il colore del suo mantello.

In queste occasioni i morti circolavano liberamente nel mondo dei vivi e mentre i padri gettavano fagioli neri recitando litanie, le donne, ponevano ai crocicchi nel cuore della notte dei dolcetti fatti da loro come offerta allettanti per attirare i morti. La cerimonia permetteva loro di fare domande ai morti e di riceverne responsi per passato, presente e futuro.

Insomma mentre nei tempi più antichi il popolo italico conviveva col mondo dei morti, coi romani il mondo infero veniva allontanato e tappato, però non veniva allontanata così tanto l'idea della morte. Essendo un popolo di guerrieri ne erano spesso a contatto. Vedevano i compagni cadere nelle battaglie e ringraziavano la Fortuna Redux ogni volta che ritornavano sani e salvi. Non temevano tanto la morte quanto i fantasmi, non sapendo che in genere sono dentro di noi.


BIBLIO

- Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio - De mortibus persecutorum - XXVI -
- Ovidio - Fasti - V -
- Agostino - De civitate dei - Books III; IV, edited with an Introduction - Translation and Commentary by P. G. - Walsh - Oxbow Books - Oxford - 2007 -- Agostino d'Ippona - La città di Dio, trad. e cura, Torino, Einaudi - 1992 -

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