(Accio, Eneadi framm. 3)
Detta anche BATTAGLIA DELLE NAZIONI
I PERSONAGGI
- Publio Decio Mure (puntò su una tattica offensiva impegnando tutte le sue forze)
- Fabio Massimo Rolliano Quinto (convinto che Galli e Sanniti non fossero avvezzi alle battaglie prolungate, puntò su una tattica difensiva)
- Lucio Cornelio Scipione Barbato (Conquistò la Taurasia, Cisauna, il Sannio, soggiogò tutta la Lucania e liberò gli ostaggi)
- Gellio Egnazio (grande condottiero Sannita)
- Vel Lathites (grande condottiero Etrusco)
Questi gli uomini che ebbero in mano il destino di Roma. L'Urbe sopportò una delle battaglie più rischiose e cruente della sua storia. In questa battaglia si sarebbe definito il suo destino, perchè come non mai Roma fu qui sola contro tutti, ovvero contro tutte le nazioni.
La battaglia del Sentino, detta anche delle nazioni, si svolse nel 295 a.c., durante la III guerra sannitica, ed ebbe l'esercito romano, con unici alleati i Piceni, contro un'alleanza di popolazioni, composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri, che una volta per tutte volevano distruggere l'esercito e la città di Roma. Si chiamò "Battaglia delle Nazioni dell'antichità": perchè tutte le popolazioni (o nazioni) del centro Italia furono coinvolte nello scontro, che decise le sorti di tutto quel territorio. Era in gioco il dominio dell'Italia centrale e l'esistenza stessa del popolo Romano.
All'inizio del III secolo a.c. l'Italia centrale era divisa nelle "Nazioni" dei Sanniti nel Sannio, dei Romani nel Latium, degli Etruschi nell'Etruria, dei Piceni e dei Galli Senoni nel Picenum, degli Umbri nel territorio fra il Tevere e il Sannio settentrionale, dei Greci nel sud Italia.
Tra questi stati c'era un certo equilibrio ma Roma grazie alle vittorie sui Latini (340 - 338 a.c.), sui Sanniti nella I guerra sannitica (343 - 341 a.c.), e nella II guerra sannitica (326 - 304 a.c.), e sugli Etruschi (310 - 309 a.c.) lo stava distruggendo a proprio favore.
Nell'anno 300 a.c. ormai la potenza che aveva maggiori possibilità di conquista era Roma e se ne accorse il capo dei Sanniti, Gellio Egnazio, il quale pensò che per bloccare l'avanzata romana, era necessario una coalizione tra tutte le nazioni che erano minacciate più da vicino, perchè: « una pace da servi era per loro ben più pesante di una guerra da liberi » (discorso di Gellio - Tito Livio)
Così Gellio riuscì a convincere tutti i popoli confinanti con i romani a creare la coalizione formata da:
Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli Senoni. Si formò una coalizione di quattro popoli, che radunò un grosso esercito nel territorio di Sentino. I Piceni, invece, che avevano subito l'invasione dei Galli in tutto il loro territorio settentrionale, si allearono con i Romani fin dal 299 a.c. Mai Roma fu tanto minacciata da tanti popoli alleati contro di lei, poche volte come allora corse il rischio di venire vinta e fatta sparire dalla storia.
GLI ANTEFATTI
Il forte contingente sannita si era spinto fuori dal suo territorio affrontando vari rischi, come l'attraversamento del territorio ostile dei Peligni e quello dei Vestini, risalendo il corso del fiume Aterno, per poi scendere dalle montagne a Rieti, che divenne loro alleata, così come lo divennero Norcia, Spoleto e Foligno.
Quindi riuscì raggiungere e contattare gli Umbri, gli Etruschi e poi i Galli, i detentori dei maggiori eserciti, ottenendo alleanze. Dopodichè i sanniti dovettero ripercorrere tutti i pericolosi percorsi dell'andata per raggiungere di nuovo il proprio paese: era stata stabilita la più grande coalizione mai esistita contro Roma, formata per giunta da tre popoli famosi per i suoi terribili e valorosi guerrieri.
Tutto ebbe inizio dall’alleanza stretta tra Roma e i Lucani, i quali nel 298 a.c. avevano chiesto aiuto a Roma per essere stati assaliti e saccheggiati dai Sanniti. Roma però aveva i suoi informatori e le sue spie, per cui non sfuggì il lungo viaggio dei sanniti e comprese che si stava tramando un attacco congiunto tra i suoi nemici più temibili.
Roma, percepito il grande pericolo che incombeva, organizzò un arruolamento in grande stile, esteso perfino ai liberti, Appio Claudio si ritirò con le sue truppe dalla Campania Settentrionale, cui reagirono i Sanniti con un’invasione - che pur essendo evidentemente solo un diversivo - fu arrestata solo grazie all’intervento di Q. Fabio Rulliano e Volumnio Flamma che fondarono allora due nuove colonie – Sinuessa e Minturno – di chiara importanza strategica. Le operazioni si concentrarono per il momento nell’Etruria Centrale, tra Chiusi e Perugia, con alterne e non chiare vicende.
ETRUSCHI |
L’ESERCITO ROMANO: VELITES, HASTATI, PRINCIPES, TRIARII, EQUITES, SOCII, EXTRAORDINARII
L'esercito romano era una grande armata di cittadini in armi, senza mercenari, tutti cittadini romani e liberi, la maggior parte veterani perchè si erano abituati a combattere i confinanti e oltre, per difesa e per offesa.
I patrizi partecipavano sempre perchè da lì derivava il loro onore e la possibilità di cariche pubbliche, anche i plebei partecipavano ma a rotazione, sia perchè erano più numerosi dei patrizi, sia perchè altrimenti in patria non lavorava più nessuno, nei campi, nei laboratori (armerie comprese) e nelle botteghe.
I comandanti in capo erano i consoli che venivano eletti annualmente. A ciascuno dei due consoli, in caso di guerra veniva affidato il comando di due legioni assieme ai contingenti alleati. All'occorrenza, un pretore comandava eserciti minori.
Il console a sua volta nominava sei tribuni militum, a due dei quali era affidato, a turno, il comando di ogni legione. Ogni legione aveva dei centurioni, soldati di grande esperienza e dimostrato valore, che comandavano le due centurie di ogni manipolo, e quello della centuria di destra (centurio prior) aveva il comando dell’intero manipolo. Il centurione più alto in grado della legione era il primus pilus.
Ogni centurione era coadiuvato da “sottufficiali”:
- l’optio, il secondo in comando,
- un vessillifero (signifer),
- un cornicen (suonatore di corno, per dare gli ordini in battaglia),
- un comandante della guardia (tesserarius).
I veliti, la fanteria leggera
Oltre un quarto dell’organico di una legione, come narra Polibio, era costituito dai Velites. Si trattava di uomini che non potevano permettersi una panoplia completa, o troppo giovani per operare con la “fanteria di linea”. Loro compito era disturbare con il lancio di giavellotti o pietre le linee avversarie prima dello scontro con la fanteria pesante.
Erano protetti da un leggero scudo circolare (parma) e un elmo, a volte semplicemente di cuoio, su cui, come riportato da Polibio, applicavano una pelliccia con testa di lupo, per essere meglio identificati dai comandanti, ma con un probabile originale significato totemico.
Hastati e Principes, il nerbo della legione
I manipoli degli hastati erano quelli della prima linea, destinati al primo impatto con l’avversario, mentre ai manipoli dei principes, il fior fiore dei soldati, era destinato il compito di penetrare nei varchi aperti dagli hastati e infliggere il colpo decisivo. L’equipaggiamento difensivo comprendeva l’elmo di bronzo, una piasta pettorale (kardiophylax), uno schiniere nella gamba sinistra (quella rivolta al nemico) e un grande scudo ovale e ricurvo, composto di listelle di legno sovrapposte coperte da cuoio.
Al tempo di Polibio l’armamento comprendeva una spada e due giavellotti (pila), uno più pesante dell’altro; è però possibile che al tempo della battaglia di Sentino uno dei due schieramenti fosse armato con una lancia (hasta) in luogo dei pila.
Triarii
I veterani I triari, i veterani dell’esercito schierati in un numero circa pari alla metà degli hastati/principes, erano l’ultima schiera della legione e generalmente usati solo come ultima risorsa, in situazioni di difficoltà, tanto da ispirare la massima “res ad triarios redit” (la cosa è ridotta ai triari) per indicare situazioni disperate.
Polibio li descrive armati di una lunga lancia (hasta) al posto dei pila, ma per il resto equipaggiati come gli altri legionari (i più ricchi potevano permettersi cotte di maglia di ferro, come in uso tra i Celti); è possibile che al tempo della terza guerra sannitica l’armamento di tipo oplitico non si limitasse alla lancia ma comprendesse tutta la panoplia.
La cavalleria
La cavalleria romana, i cui compiti erano soprattutto la ricognizione e l’inseguimento dei nemici, era numericamente scarsa e forse anche di qualità mediocre. I suoi membri provenivano dall’aristocrazia (ordine equestre) ed erano probabilmente equipaggiati come opliti, con elmo, corazza anatomica e scudo, lancia e spada. Cavalcavano a pelo, senza staffe, cioè senza poter caricare “lancia in resta”.
Gli eserciti alleati
Gli alleati di Roma fornivano contingenti di fanteria pari a quelli romani ma cavalieri in numero tre volte superiore. Gli alleati (socii) venivano divisi in due alae poste ai fianchi dello schieramento romano; ogni alae, al comando di tre praefecti romani era divisa in non ben definite coorti. Le turmae della cavalleria venivano disposte ai fianchi delle alii di fanteria, forse insieme agli equites romani. Le truppe più valorose (sia fanti che cavalieri) andavano a formare una specie di “corpo speciale”, gli extraordinarii, usato, ad esempio, come avanguardia durante le marce di trasferimento.
I NEMICI DI ROMA I CELTI E I SANNITI
Della Lega antiromana al tempo della terza Guerra Sannitica facevano parte Sanniti, Celti, Etruschi ed Umbri. A questi si devono probabilmente aggiungere altre genti minori o singole città italiche.
I Celti
Al Sentinum i padroni di casa erano i Celti, o Galli secondo i romani (Gàlatai in greco), divisi in varie tribù accomunate da lingua e cultura simile. Il territorio del Sentino era occupato da circa un secolo dalla tribù dei Senoni, così come la Romagna e le Marche a nord dell’Esino, mentre proseguendo a settentrione s’incontravano Boii, Lingoni, Insubri, Cenomani, e altri.
La tribù era un insieme di clan, comandate da un re (rix) eletto tra i guerrieri. Al vertice della gerarchia sociale vi erano i sacerdoti (druidi) e i guerrieri, a cui seguivano gli uomini liberi (artigiani, contadini, commercianti) e gli schiavi.
La guerra era quindi un affare riservato alla sola classe guerriera, che doveva la sua ricchezza e prestigio alla pratica stessa della guerra, finalizzata non solo all’espansione territoriale (in Italia, i Celti occuparono territori già etruschi, umbri e piceni) quanto al saccheggio dei beni e alla predazione degli schiavi, oltre a combattere come mercenari. Anche se la fanteria era il corpo più consistente, la forza dell'esercito celtico era la cavalleria.
Formata dai membri più importanti e facoltosi dell’aristocrazia, era costituita sia da cavalleria montata che da carri da guerra che ebbero non poca importanza nella battaglia del Sentinum. Il carro veniva piuttosto usato, più che per attaccare, per terrorizzare l’avversario con la carica e il frastuono, correndo poi attorno al nemico per lanciare giavellotti, oppure come trasporto veloce di guerrieri di rango che combattevano poi appiedati.
I Galli erano coraggiosi e indisciplinati, alti e biondi, con grandi baffi; alcuni, con acqua e calce, si sbiancavano i capelli che poi pettinavano all’indietro formando una sorta di cresta. I guerrieri si distinguevano indossando il torques, un caratteristico collare rigido. Usavano lance e giavellotti, ma soprattutto la lunga spada, usata di taglio, ma di scarsa qualità, tanto da potersi piegare facilmente.
Indossavano inoltre un elmo di bronzo, tipo “Montefortino” diffuso in tutta Italia, uno scudo piatto ovale e, per i più ricchi, una cotta di maglia di ferro, copiata poi dai romani. Sembea che alcuni guerrieri combattessero completamente nudi, protetti solo dallo scudo, forse particolari unità di guerrieri molto valorosi.
I Sanniti
SOLDATO SANNITA |
Livio dice che i linteati portavano bianche tuniche di lino e scudi coperti d’argento, mentre gli altri indossavano tuniche colorate e scudi dorati. Dalle pitture e dai reperti archeologici, sappiamo che i guerrieri indossavano, sopra una corta tunica, un pettorale detto spongia (forse perché una spugna applicata sul retro della corazza fungeva da ammortizzatore) e una caratteristica cintura di bronzo, forse ricoperta di tessuto o cuoio.
Indossavano inoltre un elmo di bronzo, del tipo “Montefortino” o della variante italica dell’elmo attico, sui quali erano applicate delle piume o creste metalliche, e uno o due schinieri. Portavano uno scutum ricurvo che Livio dice trapezoidale, per facilitare i movimenti, oppure scudi ovali o circolari. Le armi erano il giavellotto (le teretes aclydes, munite di un’appendice lungo l’asta per aumentarne la spinta iniziale con l’aiuto di una correggia) e lance. Ma non sappiamo come fossero le spade.
I NEMICI DI ROMA ETRUSCHI ED UMBRI
Etruschi ed Umbri, come riferisce Livio, non parteciparono alla battaglia del Sentino, o forse solo alcuni contingenti vi parteciparono.
Gli Etruschi
Per quanto avversari dei Sanniti, che a loro sottrassero la costa campana, gli Etruschi si unirono ai loro nemici per contrastare la più pericolosa minaccia: Roma con cui i rapporti erano piuttosto tesi. Nella III guerra sannitica, alcune città Etrusche parteciparono alla Lega contro Roma, ma altre vi si allearono. Gli etruschi dovevano aver mantenuto la tattica e la panoplia oplitica, affiancati da cavalleria e fanteria leggera. L’oplita etrusco del III-IV sec. a.c. aveva una corazza di sottili lamelle metalliche cucite sul corpetto di cuoio o lino.
Gli Umbri
L'Umbria era anch’essa composta da una serie di città-stato (trifu), di cui ci restano le imponenti mura poligonali. Il guerriero Umbro doveva essere anch'esso un oplita, affiancato da truppe leggere, ma non sappiamo se usasse ancora la formazione della falange. Il suo equipaggiamento era un misto di armi e armature principalmente di tipo etrusco e piceno.
GLI ESERCITI VERSO SENTINO
I Romani nel timore che i Piceni fino allora neutrali, decidessero o fossero costretti a mutare fazione, inviarono l’esercito dei due consoli, Q. Fabio Rulliano, con la I e la III Legione, e P. Decio Mure con la IV e la VI; oltre a un grosso contingente di cavalleria romana e mille cavalieri scelti inviati dalla Lega Campana e un esercito di alleati e di Latini più numeroso di quello romano.
Altri due eserciti furono inviati per fronteggiare l’Etruria, coprendo Roma uno nel territorio falisco e l’altro nell’agro vaticano, alle porte della città; sul fronte meridionale, verso il Sannio, il proconsole Lucio Volumnio combatteva con la II e la IV Legione.
L’esercito romano si sarebbe riunito, come riporta Livio, ad Aharna, (Civitella d’Arno), a dieci km da Perugia. Da qui, per raggiungere la zona di Sassoferrato, vi è il percorso che da Gubbio - allora alleata a Roma - porta al Passo dello Scheggia, anche in considerazione dell’addestramento acquisito dall’esercito romano nelle precedenti campagne nel cuore del Sannio e del ruolo di quei contingenti alleati di Marsi, Marrucini, Peligni e Vestini, abili e valorosi come gli stessi Sanniti. Il testo di Polibio considera Camerino, l’altra alleata umbra di Roma, come punto di riferimento delle operazioni precedenti la battaglia, transitando per il valico di Colfiorito.
L'ACCAMPAMENTO DEI ROMANI
L'accampamento dei romani, che distava circa 4 miglia, circa 6 chilometri, da quelli nemici, è descritto sempre da T. Livio:
"I consoli valicato l'Appennino raggiunsero il nemico nel territorio di Sentino; ivi, a circa quattro miglia di distanza, fu posto l'accampamento. L'esercito Romano percorse tale via e giunse nei pressi della pianura dell'odierna Fabriano."
La via di collegamento toccava le località di Civita-Tuficum-Aesis-Sextia e raggiungeva Ancona. Un insediamento romano con alcune ceramiche e reperti preromani sono emersi nei pressi di S.Maria in Campo. Secondo la tradizione nel trivio di S.Croce esisteva un tempio dedicato ad Apollo, quindi si può ipotizzare che la via di comunicazione che l'attraversava era molto antica.
L'ACCAMPAMENTO DEI GALLI
Gli Umbri, gli Etruschi arrivarono sul luogo della battaglia attraverso i passi di Croce d’Appennino, Scheggia e Cagli e potrebbero aver posto gli accampamenti nella piane di S.Cassiano, Molinaccio, Pegliole e Marischio. A questi venne affidato il compito di attaccare l'accampamento romano.
I Sanniti potrebbero essere arrivati dal Molise attraversando i territori dei Peligni, Prestini, Pretuzzi e Piceni e tramite la Via gallica di Firmium, Urbs Salvia, Helvia Recina, Auximum, Aesis, penetrarono nell’area della battaglia. Essi raggiunsero i loro alleati attraverso le valli del Misa, del Cesano o Esino.
I Senoni, già padroni del territorio Sentinate, si schierarono a fianco dei Sanniti, nella stessa area, seguendo le medesime strade sicuramente adatte al transito di carri da combattimento. Ai Sanniti ed ai Galli fu affidato il compito di dare battaglia ai romani sul campo di guerra.
LA I MOSSA ROMANA
Venuti a sapere dei piani dei nemici grazie a dei delatori, i consoli romani fecero attaccare Chiusi da un loro distaccamento che era rimasto presso Roma, ottenendo che gli Etruschi si allontanassero da Sentino, per proteggere la loro città. Un nemico in meno. Sempre secondo Livio, gli eserciti contrapposti schieravano un ugual numero di combattenti tanto che scrive:
«... al primo scontro si lottò con tale parità di forze che, se ci fossero stati gli Etruschi e gli Umbri si sarebbe dovuta subire una sconfitta». Livio scrive inoltre che altri due eserciti romani erano acquartierati, uno nel territorio dei Falisci e l’altro nell’agro vaticano, agli ordini dei propretori Cneo Fulvio e Lucio Postumio Megello, e che la II e la IV legione, con il proconsole Lucio Volumnio, erano nel Sannio.
LA DEVOTIO |
PERSONAGGI DELLA BATTAGLIA
PUBLIO DECIO MURE
La devotio per la battaglia di Sentino, eseguita dal secondo Publio Decio Mure, viene narrata da Tito Livio, con la formula che il pontefice Marco Valerio suggerisce al console Publio Decio Mure:
"Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est potestam nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut uerbis nuncupaui, ita pro re publica populi Romani Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique deuoueo."
Traduzione:
"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dei Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."
FABIO MASSIMO RULLIANO (QUINTO)
Condannato a morte dal dittatore, sfuggì al supplizio grazie alle minacce dell'esercito e alle suppliche del popolo e del vecchio padre. Trionfatore dei Sanniti nel 322 a.c., fu da loro sconfitto durante la dittatura del 315 al passo di Lautule, presso Terracina; ma, rieletto console, sorprese gli Etruschi con un'ardita marcia attraverso la Selva Ciminia e li costrinsero a ritirarsi dalla guerra, dando così inizio alla fase offensiva della II guerra sannitica, cui partecipò, come console, nel 308 a.c.
Censore nel 304, limitò la riforma d’Appio Claudio sulle iscrizioni dei cittadini alle tribù; negli ultimi due consolati combatté validamente la grande lega antiromana dei coalizzati della III guerra sannitica e, insieme con Decio Mure, vinse la decisiva battaglia di Sentino. Ebbe gli onori del trionfo e, primo dei Fabi, ricevette il soprannome di Massimo.
LUCIO CORNELIO SCIPIONE BARBATO
Console nel 298 a.c., guidò l'esercito di Roma alla vittoria contro gli Etruschi nei pressi di Chiusi e Volterra. Membro della nobile famiglia romana degli Corneli, fu padre di Lucio Cornelio Scipione e di Gneo Cornelio Scipione.
Il suo sarcofago, che ora si trova nei Musei Vaticani, mantiene intatta il epitaffio, scritto in latino arcaico:
CORNELIVS• LVCIVS• SCIPIO• BARBATVS• GNAIVOD• PATRE
PROGNATVS• FORTIS• VIR• SAPIENSQVE—QVOIVS• FORMA•
VIRTVTEI•PARISVMA.FVIT.CONSOL .CENSOR•AIDILIS•QVEI
•FVIT• APVD• VOS — TAVRASIA• CISAVNA . SAMNIO• CEPIT.
SVBIGIT•OMNE.•LOVCANA•OPSIDESQVE•ABDOVCIT.
"Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato da Gnaeus suo padre, uomo forte e saggio, la cui apparenza era in armonia con la sua virtù, che fu console, censore e edile fra voi. Conquistò la Taurasia, Cisauna, il Sannio, soggiogò tutta la Lucania e liberò ostaggi."
Il suo titolo di censore del 280 a.c. è il primo di cui abbiamo una testimonianza affidabile, malgrado tale magistratura fosse già da molto tempo in vigore.
GELLIO EGNAZIO
Condottiero Sannita, fu l’ideatore della lega Italica, un’alleanza armata contro Roma. Non era facile riunire Etruschi, Umbri, Sanniti e Galli, inoltre i Galli Senoni erano mercenari pronti a combattere per chi li pagava meglio. L’idea di G.Egnazio fu di spostare il conflitto dal Sannio, ormai accerchiato dai Romani, nell'Italia centrale e affrontare il nemico con un forte esercito Italico.
Tito Livio narra: “Mentre si conducevano diverse operazioni nel Sannio,una grossa guerra viene scatenata contro i Romani in Etruria da molte popolazioni,per istigazione del sannita G.Egnazio. Alla guerra si erano rivolti tutti i Tusci, i vicini popoli dell’Umbria e con la promessa d’un compenso si sollecitavano aiuti dai Galli.Tutta quella moltitudine si era radunata presso il campo dei Sanniti”.
Con una stupefacente marcia dal Sannio, Gellio Egnazio, con l'aiuto di un altro abile Comandante Sannita Minazio Staio, riuscì ad eludere la sorveglianza dei romani e raggiungere gli alleati, stanziati in Umbria. Si ebbe subito una clamorosa sconfitta dei romani guidati da Cornelio Scipione Barbato ad opera dei Galli e solo lo scoordinamento italico impedì a Gellio di sfruttare la situazione
Mario Egnazio, generale sannita durante la guerra sociale sconfisse presso Camerino la legione romana del propretore L. Cornelio Scipione Barbato. Dopo aver sconfitto presso Teanum Sùlicinum il console L. Giulio Cesare, prese per tradimento Venafro uccidendo due manipoli di soldati romani. Ma nell'89 a.c. Gaio Cosconio, dopo aver devastato i territori di Larinum, Asclum (Ausculum) e Venusia uccise il condottiero sannita.
VEL LATHITES
Tuttavia, poco dopo, un altro contingente romano, con abile mossa diversiva, prese a saccheggiare gravemente il territorio chiusino, costringendo l'esercito della lega etrusca a muoversi «dal territorio di Sentino per difendere il loro paese” abbandonando le schiere gallo-umbro-sannitiche poco prima dello scontro decisivo. Grazie a questa mossa i Romani ottennero la clamorosa vittoria sui Sanniti, nella battaglia di Sentino in Umbria (295 a.c.).
Gli Etruschi, pur non avendo "partecipato" all'eccidio di Sentino, furono indotti, dopo altri scontri di secondaria importanza, alla stipulazione di una tregua quarantennale (294 a.c.), implicante la clausola del pagamento (a Roma) di una penale di cinquecentomila assi per ciascuna città della lega (Livio, 10,37). Nella battaglia di Sentino, Vel Lathites potrebbe, come capo della lega etrusca, aver comandato l'esercito etrusco “nella battaglia romana” de1 298-295 a.c.
Helmut Rix ha correttamente riconosciuto in Vel Lathites un appartenente alla famiglia Leinies di Volsinii; il suo gentilizio "Lathites" indica verosimilmente che egli fu adottato dai Lathites (scritto anche Latithes o Latites) di Chiusi. Dunque Vel Lathites era, di nascita, un Leinies: ecco perchè il suo elogio funebre si trova scritto nel sepolcro gentilizio di quest'ultima famiglia, a Volsinii (la Tomba Golini I). In etrusco Lars significava 'capo militare', 'guerriero', 'coraggioso' (infatti Laran è il nome etrusco del Dio Marte; sulla radice lar- si formano i prenomi etruschi Larth e Laris).
LE AZIONI DIPLOMATICHE ETRUSCO ROMANE
L’operazione dei Romani nel devastare i territori nemici fu un segnale di avvertimento alle classi sociali etrusche filo romane che dovevano disimpegnarsi dalla Lega e collaborare con la politica di Roma per non perdere i poteri acquisiti nel territorio etrusco.
Narra Tito Livio che nel 311 a.c. tutti i popoli d'Etruria, tranne gli Aretini, presero le armi e posero l'assedio a Sutri, già città etrusca, ma allora colonia romana (dal 383 a.c.) e "ingresso dell'Etruria". Nel 310 i Romani inflissero una pesante sconfitta alle truppe etrusche con 60.000 nemici uccisi o fatti prigionieri.
Subito dopo da Perugia, Cortona e Arezzo, che a quel tempo erano come le capitali dei popoli d'Etruria, furono inviati ambasciatori a Roma con richieste di pace, ottenendo una tregua trentennale.
Nel 294 a.c., alla fine di una serie di scontri tra Roma e la coalizione gallo-etrusco-sannita di Volsinii, Perugia e Arezzo, ottennero una tregua quarantennale e un trattato di alleanza, essendo però comminata a ciascuna di loro un'ammenda di 500.000 assi, per la parte che avevano avuto nella recente guerra.
GLI SCHIERAMENTI PER LA BATTAGLIA
La battaglia di Sentino è narrata dalle fonti antiche dagli storici Polibio II,19,6; Tito Livio X, 17-30 e Frontino Strat. 1, 8, 3. Il più dettagliato è quello di Tito Livio che descrive il conflitto con toni drammatici:
“ Si tennero quindi delle consultazioni fra gli alleati, e si convenne di non congiungere tutte le forze in un solo accampamento e di non scendere a battaglia contemporaneamente; i Galli si unirono ai Sanniti, gli Etruschi agli Umbri. Venne fissato il giorno del combattimento; alla battaglia furono destinati i Sanniti e i Galli; gli Etruschi e gli Umbri ebbero l'incarico di assalire il campo romano proprio nel mezzo del combattimento.
Guastarono questi piani tre disertori di Chiusi, i quali durante la notte passarono al console Fabio e gli rivelarono i progetti dei nemici; essi furono quindi congedati con dei doni, perché continuassero a spiare e riferissero qualunque nuova decisione venisse presa. I consoli scrivono a Fulvio e a Postumio di fare avanzare i loro eserciti, rispettivamente dal territorio dei Falisci e dall'Agro Vaticano, verso Chiusi e di devastare con estrema violenza il paese dei nemici. La notizia di tale devastazione indusse gli Etruschi ed Umbri ad allontanarsi dal territorio di Sentino per difendere il loro paese”.
Lo schieramento degli eserciti per la battaglia del Sentino, viene descritto da Livio nel X Libro:
" I Galli si disposero a destra e i Sanniti a sinistra. Da questo passo si evince che semmai contingenti umbri ed etruschi, non citati dalle fonti antiche, avessero preso parte agli scontri, è indubbio che il loro apporto fu minimo. I Romani, oltre alle quattro legioni, avevano inoltre contingenti alleati (soprattutto, probabilmente, dalla Lega Sabellica, forniti da Marrucini, Marsi, Peligni e Vestini oltre a Frentani) e Latini. Oltre a ciò i Consoli potevano allineare, alle estreme ali, anche mille cavalieri scelti mandati dai Campani, oltre alla cavalleria romana. La mancata esplicita citazione degli alleati della Lega Sabellica forse dipende dall’atteggiamento degli storici romani dopo la guerra sociale. I Galli avevano una consistente componente di cavalleria e utilizzarono anche i combattenti sui carri, gli Essediari."
Livio specifica, anche nella narrazione della battaglia, che Celti e Sanniti avevano accampamenti diversi e inoltre indica la distanza da quello romano: 4 miglia, circa 6 chilometri. Gli schieramenti fanno pensare, a due dispositivi separati sia per i Romani che i per i loro avversari. Sempre secondo Livio, gli eserciti contrapposti schieravano un ugual numero di combattenti tanto che scrive: «... al primo scontro si lottò con tale parità di forze che, se ci fossero stati gli Etruschi e gli Umbri si sarebbe dovuta subire una sconfitta». Livio scrive inoltre che altri due eserciti romani erano acquartierati, uno nel territorio dei Falisci e l’altro nell’agro vaticano, agli ordini dei propretori Cneo Fulvio e Lucio Postumio Megello, e che la seconda e la quarta legione, con il proconsole Lucio Volumnio, erano nel Sannio.
IL COMBATTIMENTO
Il combattimento consisteva in una continua ricerca di un cedimento nello schieramento avversario, con assalti limitati, soste, ritirate e nuovi avanzamenti. La maggior parte delle uccisioni avveniva nel momento in cui uno o più settori del fronte perdevano compattezza e il nemico pentrava in profondità nello schieramento; a quel punto il panico poteva dilagare e gli attaccanti avevano facile ragione dell’incontrollata massa dei nemici in fuga, facendo strage. Infatti la battaglia del Sentinum vide a lungo una serie di azioni di disturbo della fanteria leggera, unite a limitate avanzate della fanteria pesante che, più volte si limitò, probabilmente, al lancio dei pila senza arrivare al corpo a corpo con le spade. Questo è senz’altro vero per le forze al comando di Q. Fabio Rulliano, che preferì tenere un atteggiamento difensivo, lasciando stancare i Sanniti in una serie di piccoli assalti inconcludenti.
Diversamente, Decio Mure, che secondo Livio era più irruente per la più giovane età, impiegò al primo scontro la maggior parte delle forze disponibili, senza tener conto che i Galli erano terribili e impetuosi combattenti che però mal sopportavano fatica e calura e, dopo i primi assalti, perdevano rapidamente vigore. Di essi Livio dice: «All’inizio dello scontro erano più che uomini, alla fine risultavano essere meno che donne». Poiché gli attacchi delle fanterie non sembravano avere l’impeto necessario per raggiungere lo scopo, impegnò nella mischia la cavalleria, in particolare i cavalieri campani, a cui si unì egli stesso.
Al secondo assalto la cavalleria gallica era in fuga e i romani stavano ormai impegnando la fanteria avversaria quando da dietro le file nemiche comparve un’arma sconosciuta ai romani. Alcune centinaia di carri da guerra venivano alla carica con un enorme polverone e frastuono di ruote. Molti cavalli, spaventati dai rumorì sbalzarono di groppa i cavalieri. La cavalleria ormai in fuga investì anche la propria fanteria mentre i guerrieri celti, da bordo dei carri lanciavano giavellotti, scompaginando ancor più le formazioni romane. Allora la fanteria gallica passò all’assalto dei manipoli nemici che cedevano in preda al panico, mentre Decio cercava invano di trattenere i fuggitivi.
DECIO MURE
Allora Decio decise di seguire l’esempio di suo padre nella guerra contro i Latini. Chiamò a sè il pontefice Marco Livio e gli ordinò di recitargli la formula della devotio, con cui sacrificare se stesso, assieme all’esercito nemico, agli Dei.
"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dei Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."
Alle parole del rito già pronunciate dal padre, aggiunse:
«Io getto davanti a me paura, fuga, massacro e sangue, l’ira degli Dei celesti e infernali!».
Maledisse le insegne e le armi nemiche unendo la sua rovina a quella dei Galli e dei Sanniti. Affidati al pontefice i littori, come simbolo di comando, annodò alla vita la toga pretesta, con un lembo a coprire il capo e spronò il cavallo dove le schiere galliche erano più compatte, offrendo il proprio corpo ai dardi nemici. Incitati dal pontefice Livio ad una vittoria ormai certa, grazie al sacrificio che portava gli Dei dalla loro parte, i romani si ricompattarono, anche grazie ai rinforzi mandati da Quinto Fabio e contrattaccarono i Galli, già spossati dalla fatica e dalla sete della calura estiva.
Diversamente, Decio Mure, che secondo Livio era più irruente per la più giovane età, impiegò al primo scontro la maggior parte delle forze disponibili, senza tener conto che i Galli erano terribili e impetuosi combattenti che però mal sopportavano fatica e calura e, dopo i primi assalti, perdevano rapidamente vigore. Di essi Livio dice: «All’inizio dello scontro erano più che uomini, alla fine risultavano essere meno che donne». Poiché gli attacchi delle fanterie non sembravano avere l’impeto necessario per raggiungere lo scopo, impegnò nella mischia la cavalleria, in particolare i cavalieri campani, a cui si unì egli stesso.
Al secondo assalto la cavalleria gallica era in fuga e i romani stavano ormai impegnando la fanteria avversaria quando da dietro le file nemiche comparve un’arma sconosciuta ai romani. Alcune centinaia di carri da guerra venivano alla carica con un enorme polverone e frastuono di ruote. Molti cavalli, spaventati dai rumorì sbalzarono di groppa i cavalieri. La cavalleria ormai in fuga investì anche la propria fanteria mentre i guerrieri celti, da bordo dei carri lanciavano giavellotti, scompaginando ancor più le formazioni romane. Allora la fanteria gallica passò all’assalto dei manipoli nemici che cedevano in preda al panico, mentre Decio cercava invano di trattenere i fuggitivi.
DECIO MURE VA AD IMMOLARSI PER IL POPOLO DI ROMA |
DECIO MURE
Allora Decio decise di seguire l’esempio di suo padre nella guerra contro i Latini. Chiamò a sè il pontefice Marco Livio e gli ordinò di recitargli la formula della devotio, con cui sacrificare se stesso, assieme all’esercito nemico, agli Dei.
"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dei Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."
Alle parole del rito già pronunciate dal padre, aggiunse:
«Io getto davanti a me paura, fuga, massacro e sangue, l’ira degli Dei celesti e infernali!».
Maledisse le insegne e le armi nemiche unendo la sua rovina a quella dei Galli e dei Sanniti. Affidati al pontefice i littori, come simbolo di comando, annodò alla vita la toga pretesta, con un lembo a coprire il capo e spronò il cavallo dove le schiere galliche erano più compatte, offrendo il proprio corpo ai dardi nemici. Incitati dal pontefice Livio ad una vittoria ormai certa, grazie al sacrificio che portava gli Dei dalla loro parte, i romani si ricompattarono, anche grazie ai rinforzi mandati da Quinto Fabio e contrattaccarono i Galli, già spossati dalla fatica e dalla sete della calura estiva.
LA VITTORIA
L'impeto dei barbari si attenuò: essi cominciarono a retrocedere travolgendo con i loro carri i propri guerrieri che battevano in ritirata. In quel difficile momento vi fu anche una forte resistenza da parte dei legionari Triari che erano molto esperti nel superare situazioni critiche. Essi entrarono in combattimento in un secondo momento ed essendo freschi ed esperti, spezzarono lo slancio degli alleati.
Fabio, resosi conto che i Sanniti, a causa della spossatezza, non opponevano una seria resistenza, lanciò la fanteria all’assalto, comprese tutte le riserve, e diede ai cavalieri il segnale per la carica. I nemici non ressero l’urto e le linee si sfaldarono, mentre un numero sempre più consistente di Sanniti si diede ad una fuga precipitosa verso l’accampamento, superando lo schieramento dei Galli ed abbandonandoli nella mischia. Incalzati da Fabio e dalle sue legioni, con una travolgente avanzata esse arrivarono fino agli accampamenti dei Sanniti e dei Galli. Nonostante una resistenza disperata, il campo dei Sanniti fu espugnato. Il loro duce Gellio Egnazio cadde nella difesa.
I Galli vennero sterminati prima di arrivare al loro accampamento. I Romani ottennero una strepitosa vittoria che costò 25.000 morti e 8000 prigionieri fra Galli e Sanniti, e circa 8700 caduti Romani.
Orgogliosi e commossi i romani cercarono le spoglie dell'eroe Decio Mure per due giorni di faticose ricerche, e infine le ritrovarono (T. Livio).
«In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700.»
(Livio, Ab Urbe condita libri, X, 29.)
I BUSTA GALLORUM
Nel luogo del massacro si ritrovarono un numero così elevato di morti che per i Galli fu necessario innalzare delle pire. I cumuli di ceneri (Busta Gallorum) furono talmente numerosi che lasciarono traccia nei secoli, forse con varie esagerazioni.
Si usava nelle battaglie, dopo aver spogliato i cadaveri, di ammucchiarli a centinaia dentro le fosse naturali o artificiali, poi si riempivano le fosse di legname e gli si dava fuoco. Per personaggi particolari d’alto grado era utilizzata la cremazione diretta o indiretta. Una volta istituita la sepoltura monumentale sul posto c'era la deposizione del corredo, connessa al rito di sepoltura, entro la fossa e diversificato in base alla ricchezza del defunto.
Fra i vari oggetti della sepoltura v'erano, vasellame di diverso tipo, la moneta, quale “obolo di Caronte”; la lucerna per illuminare il viaggio nell'aldilà; il balsamario in vetro per gli unguenti. Oggetti più personali, potevano invece essere indossati dal defunto fin dal momento del funerale.
GOTI E BIZANTINI
Procopio, nel racconto sullo scontro decisivo tra i Goti e Bizantini avvenuto nel 552 d.c. riporta che le parti si affrontarono nei pressi dei " Busta Gallorum", nel crematoio dei Galli:
"Le forze romane al comando di Narsete misero poco dopo anche loro il campo sull'Appennino: Stavano ad una distanza di circa 100 stadi da quell’avversario, in una posizione pianeggiante ma circondata da molte alture assai vicine, dove si narra che una volta Camillo, generale romano, vinse e distrusse in battaglia una moltitudine di Galli.
Di questo fatto la località porta tuttora la testimonianza nel nome, serbando memoria del rovescio dei Galli: si chiama Busta Gallorum. Busta è il nome che i Latini danno ai resti della cremazione. E ci sono moltissimi tumuli, in cui furono sepolti i cadaveri."
Lo storico fa riferimento all’offensiva di Camillo del 390 a.c. quando secondo alcune fonti inseguì i Galli fino alle vicinanze di Pesaro. Questa affermazione fa presumere ad un errore di Procopio che non era informato sull’accaduto della battaglia di Sentino avvenuta proprio nelle vicinanze di Tagina, e combattuta dai consoli Decio e Fabio nel 295 a.c.
Nel conflitto del 390 a.c. secondo T. Livio i Galli furono massacrati, vicino alla capitale, in una località chiamata Carinae, situata a nord ovest dell'Esquilino. Servio invece scrive che Camillo, giunto a Roma dopo che i Galli erano partiti, li inseguì e dopo averli raggiunti presso Pesaro, li attaccò, li sconfisse e recuperò l'oro del riscatto. A quale fonte aveva attinto Procopio?
In ogni caso la sconfitta dell’Allia e il saccheggio del Campidoglio fu catastrofico: l'esercito romano dovette essere travolto in campo aperto e subire perdite gravissime. Di questo disastro narrarono diversi storici greci del IV secolo: Filisto, Eraclide, Pontico, Teopompo e perfino Aristotele.
La località secondo Varrone è definita Busta Gallorum (De Lingua latina, V,157), l’ossario dei Galli, ammassati dai Romani. Secondo altri, i morti furono ammucchiati dagli stessi Galli durante la pestilenza.
A Roma nelle vicinanze di Tor de' Conti sul Vicus Cyprius s'incontra la piccola Chiesa di S. Andrea detta in Portogallo. Nome corrotto e si vuole che fosse il luogo, che i romani chiamarono Busta Gallica da quando Furio Camillo ordinò, che i corpi dei Galli Senoni uccisi sotto il Campidoglio fossero in questo luogo bruciati. Però tra Portogallo e Busta Gallorum ce ne corre parecchio e la cosa
appare poco credibile.
Procopio descrivendo i tumuli dei sepolcreti dei Galli, ancora visibili al tempo del confronto tra Totila e Narsete, cosa poco probabile per i secoli trascorsi (800 anni!) potrebbe aver scambiato tali cumuli con le tombe picene a tumulo, che erano numerose nella piana di S.Maria, nella stazione ferroviaria e in altre aree.
IL TEMPIO DI GIOVE
Il console Fabio, dopo la battaglia, bruciò in voto a Giove vincitore le spoglie nemiche ed eresse in suo onore un tempio. Di fronte a Bastia (località Molinaccio) al disopra dell'odierno bivio della strada diretta a Roma, esiste un'altura chiamata "Campo della Vittoria" dove negli anni passati sono stati ritrovati resti di capitelli, colonne e altri ruderi di un tempio. Purtroppo tali reperti sono andati perduti.
Altri ritrovamenti perduti erano nei pressi della chiesa di S.Maria in Campo, ma il tempio potrebbe essere stato eretto sopra al monte Civita, un monte sacro per gli Umbri. Anche qui sono stati rinvenuti reperti archeologici oltre a due cisterne d’acqua scavate sulla roccia.
LE ALTRE PIANURE
La città romana di Sentino si trovava nel pianoro roccioso di S. Lucia di Sassoferrato, circondato da dirupi naturali nel cui fondo scorrevano i fiumi Sentino e Marena.
Essa rappresentava un passaggio obbligato per chi proveniva da ovest (Scheggia) o sud ovest (Fabriano) diretto verso la costa adriatica.
I Romani per arrivare a Sentino potevano percorrere la via della Scheggia che s’inoltrava nell'impervia gola del Corno, via pericolosa, poiché attraversava i confini della Senonia.
Un’alternativa poteva essere la via di Camerino ovvero l’antico tracciato Piceno (futura Protoflaminia).
Un esercito, trovandosi alle porte di una città difesa dai Celti e dagli Umbri con una struttura fortificata ed in assetto di guerra doveva necessariamente assediarla, ma per quanto riguarda Sentino, non è minimamente accennato da Tito Livio.
Supponendo la posizione della città umbra vicina alla piana della Tovaglia, di S. Croce e Serragualdo, situate nel cuore del territorio gallico, sarebbe stata sicuramente attaccata e distrutta.
Non avendo alcuna notizia da T. Livio sull'assedio della città, si può dedurre o che la città umbra non era a S. Lucia o i Romani hanno affrontato gli alleati lontano dalla città ovvero a sud dell'Agro Sentinate, nella piana di Fabriano, senza coinvolgere Sentino.
Esaminate le aree pianeggianti esistenti nel territorio Sentinate, le pianure fabrianesi di S.Maria e del Maragone potrebbero essere state per la loro ampiezza e la natura del terreno le più idonee per il confronto tra i due eserciti.
(tratto da Federico Uncini)
- I duci dei Sanniti nelle guerre contro Roma - Studi storici per l'antichità classica - I - Pisa - 1908 -L'impeto dei barbari si attenuò: essi cominciarono a retrocedere travolgendo con i loro carri i propri guerrieri che battevano in ritirata. In quel difficile momento vi fu anche una forte resistenza da parte dei legionari Triari che erano molto esperti nel superare situazioni critiche. Essi entrarono in combattimento in un secondo momento ed essendo freschi ed esperti, spezzarono lo slancio degli alleati.
PRIMA FASE - ROMANI, GALLI, SANNITI |
I Galli vennero sterminati prima di arrivare al loro accampamento. I Romani ottennero una strepitosa vittoria che costò 25.000 morti e 8000 prigionieri fra Galli e Sanniti, e circa 8700 caduti Romani.
Orgogliosi e commossi i romani cercarono le spoglie dell'eroe Decio Mure per due giorni di faticose ricerche, e infine le ritrovarono (T. Livio).
«In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700.»
(Livio, Ab Urbe condita libri, X, 29.)
SECONDA FASE - ROMANI, GALLI, SANNITI |
I BUSTA GALLORUM
Nel luogo del massacro si ritrovarono un numero così elevato di morti che per i Galli fu necessario innalzare delle pire. I cumuli di ceneri (Busta Gallorum) furono talmente numerosi che lasciarono traccia nei secoli, forse con varie esagerazioni.
Si usava nelle battaglie, dopo aver spogliato i cadaveri, di ammucchiarli a centinaia dentro le fosse naturali o artificiali, poi si riempivano le fosse di legname e gli si dava fuoco. Per personaggi particolari d’alto grado era utilizzata la cremazione diretta o indiretta. Una volta istituita la sepoltura monumentale sul posto c'era la deposizione del corredo, connessa al rito di sepoltura, entro la fossa e diversificato in base alla ricchezza del defunto.
Fra i vari oggetti della sepoltura v'erano, vasellame di diverso tipo, la moneta, quale “obolo di Caronte”; la lucerna per illuminare il viaggio nell'aldilà; il balsamario in vetro per gli unguenti. Oggetti più personali, potevano invece essere indossati dal defunto fin dal momento del funerale.
FASE FINALE - ROMANI, GALLI, SANNITI |
GOTI E BIZANTINI
Procopio, nel racconto sullo scontro decisivo tra i Goti e Bizantini avvenuto nel 552 d.c. riporta che le parti si affrontarono nei pressi dei " Busta Gallorum", nel crematoio dei Galli:
"Le forze romane al comando di Narsete misero poco dopo anche loro il campo sull'Appennino: Stavano ad una distanza di circa 100 stadi da quell’avversario, in una posizione pianeggiante ma circondata da molte alture assai vicine, dove si narra che una volta Camillo, generale romano, vinse e distrusse in battaglia una moltitudine di Galli.
Di questo fatto la località porta tuttora la testimonianza nel nome, serbando memoria del rovescio dei Galli: si chiama Busta Gallorum. Busta è il nome che i Latini danno ai resti della cremazione. E ci sono moltissimi tumuli, in cui furono sepolti i cadaveri."
Lo storico fa riferimento all’offensiva di Camillo del 390 a.c. quando secondo alcune fonti inseguì i Galli fino alle vicinanze di Pesaro. Questa affermazione fa presumere ad un errore di Procopio che non era informato sull’accaduto della battaglia di Sentino avvenuta proprio nelle vicinanze di Tagina, e combattuta dai consoli Decio e Fabio nel 295 a.c.
Nel conflitto del 390 a.c. secondo T. Livio i Galli furono massacrati, vicino alla capitale, in una località chiamata Carinae, situata a nord ovest dell'Esquilino. Servio invece scrive che Camillo, giunto a Roma dopo che i Galli erano partiti, li inseguì e dopo averli raggiunti presso Pesaro, li attaccò, li sconfisse e recuperò l'oro del riscatto. A quale fonte aveva attinto Procopio?
In ogni caso la sconfitta dell’Allia e il saccheggio del Campidoglio fu catastrofico: l'esercito romano dovette essere travolto in campo aperto e subire perdite gravissime. Di questo disastro narrarono diversi storici greci del IV secolo: Filisto, Eraclide, Pontico, Teopompo e perfino Aristotele.
La località secondo Varrone è definita Busta Gallorum (De Lingua latina, V,157), l’ossario dei Galli, ammassati dai Romani. Secondo altri, i morti furono ammucchiati dagli stessi Galli durante la pestilenza.
A Roma nelle vicinanze di Tor de' Conti sul Vicus Cyprius s'incontra la piccola Chiesa di S. Andrea detta in Portogallo. Nome corrotto e si vuole che fosse il luogo, che i romani chiamarono Busta Gallica da quando Furio Camillo ordinò, che i corpi dei Galli Senoni uccisi sotto il Campidoglio fossero in questo luogo bruciati. Però tra Portogallo e Busta Gallorum ce ne corre parecchio e la cosa
appare poco credibile.
Procopio descrivendo i tumuli dei sepolcreti dei Galli, ancora visibili al tempo del confronto tra Totila e Narsete, cosa poco probabile per i secoli trascorsi (800 anni!) potrebbe aver scambiato tali cumuli con le tombe picene a tumulo, che erano numerose nella piana di S.Maria, nella stazione ferroviaria e in altre aree.
IL TEMPIO DI GIOVE
Il console Fabio, dopo la battaglia, bruciò in voto a Giove vincitore le spoglie nemiche ed eresse in suo onore un tempio. Di fronte a Bastia (località Molinaccio) al disopra dell'odierno bivio della strada diretta a Roma, esiste un'altura chiamata "Campo della Vittoria" dove negli anni passati sono stati ritrovati resti di capitelli, colonne e altri ruderi di un tempio. Purtroppo tali reperti sono andati perduti.
Altri ritrovamenti perduti erano nei pressi della chiesa di S.Maria in Campo, ma il tempio potrebbe essere stato eretto sopra al monte Civita, un monte sacro per gli Umbri. Anche qui sono stati rinvenuti reperti archeologici oltre a due cisterne d’acqua scavate sulla roccia.
LE ALTRE PIANURE
La città romana di Sentino si trovava nel pianoro roccioso di S. Lucia di Sassoferrato, circondato da dirupi naturali nel cui fondo scorrevano i fiumi Sentino e Marena.
Essa rappresentava un passaggio obbligato per chi proveniva da ovest (Scheggia) o sud ovest (Fabriano) diretto verso la costa adriatica.
I Romani per arrivare a Sentino potevano percorrere la via della Scheggia che s’inoltrava nell'impervia gola del Corno, via pericolosa, poiché attraversava i confini della Senonia.
Un’alternativa poteva essere la via di Camerino ovvero l’antico tracciato Piceno (futura Protoflaminia).
Un esercito, trovandosi alle porte di una città difesa dai Celti e dagli Umbri con una struttura fortificata ed in assetto di guerra doveva necessariamente assediarla, ma per quanto riguarda Sentino, non è minimamente accennato da Tito Livio.
Supponendo la posizione della città umbra vicina alla piana della Tovaglia, di S. Croce e Serragualdo, situate nel cuore del territorio gallico, sarebbe stata sicuramente attaccata e distrutta.
Non avendo alcuna notizia da T. Livio sull'assedio della città, si può dedurre o che la città umbra non era a S. Lucia o i Romani hanno affrontato gli alleati lontano dalla città ovvero a sud dell'Agro Sentinate, nella piana di Fabriano, senza coinvolgere Sentino.
Esaminate le aree pianeggianti esistenti nel territorio Sentinate, le pianure fabrianesi di S.Maria e del Maragone potrebbero essere state per la loro ampiezza e la natura del terreno le più idonee per il confronto tra i due eserciti.
(tratto da Federico Uncini)
L'ESPANSIONE ROMANA POST BATTAGLIA |
I FASTI CONSOLARI
Roma celebrò la vittoria di Sentino con i fasti consolari a Roma il giorno 4 Settembre 295 a.c. come riporta T. Livio: “Quinto Fabio, lasciato a Decio il compito di presidiare l'Etruria col proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su Galli, Etruschi e Sanniti.
I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei rozzi canti militari la valorosa morte di Decio fu celebrata non meno della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio fu richiamata la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili”.
Un frammento in un dei Fasti capitolini, custodito al Palazzo dei Conservatori, Sala della Lupa Capitolina di Roma, riporta i trionfi di Marco Fulvio Pitino, Gneo Fulvio Centumalo, Quinto Fabio Rulliano (avvenuto il 4 Settembre dell’anno CDLIIX 295 a.c., sui Sanniti, Etruschi e Galli..)
Nelle iscrizioni dei Fasti consolari (Museo della Civiltà Romana, Roma EUR) si notano le nomine dei censori partecipi allo scontro:
CENS.•O.FABIUS•. M.F.N.N. MAXIM. RULLIANUS. P. DECIUS. P.F.O.N.MUS. XXVIII
Rulliano e Decio sono nominati Censori (304 a.c.). A Rolliano viene dato l'appellativo di "Massimo".
O.FABIUS.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.IIII. P.DECIUS. P.F.O.N. MUS.III.
Q. Fabio Rullianoe P. Decio Mure, Consoli nel 297 a.c., rispettivamente per la IV e III volta.
O. FAB I US.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.V. P.DECIUS O.P.F.O.N.MUS. IIII.OUI.SE.DEVQVIT.
Nell'anno 295 a.c., vengono nuovamente nominati Consoli e vicino al nome di Publio Decio figura che egli si è sacrificato nella battaglia di Sentino.
Per l’evento di Sentino si coniò intorno al 289 a.c. una moneta tramite la zecca del Campidoglio e ripetuta nel 95 a.c. dal personaggio Sentius a ricordo dei duecento anni di quanto avvenuto nella terra delle sue genti.
Francesco Parvini Rosati, professore di numismatica greca e romana all'Università "La Sapienza" di Roma scrive su Archeo:
"Le ultime emissioni sono costituite da dracme e didracme che presentano al dritto un' effigie bifronte laureata giovanile e al rovescio Giove con lo scettro in atto di lanciare il fulmine, in quadriga al galoppo guidata dalla Vittoria. Sotto la quadriga, in una tavoletta, v' è la legenda Roma.
Gli eventi storici ricordati dai due gruppi di emissione sono probabilmente, la grande vittoria riportata dai Romani a Sentinum nel 295 a.c. cui si riferisce la figurazione di Giove che lancia il fulmine su una quadriga guidata dalla Vittoria e la pace tra Roma e i Sanniti nel 290, ricordata dalla scena del "giuramento".
(tratto da Federico Uncini)
LE CONSEGUENZE
Roma dette una terribile lezione agli avversari si che la coalizione sconfitta non venne mai più ripristinata. Dopo Sentino, le città etrusche e quelle umbre stipularono patti federativi, mentre con Celti e Sanniti perdurò lo stato di guerra.
Roma era ormai superiore militarmente alle altre potenze della penisola, anche se pur vincendo, non conquistò dei territori, ma proseguì la sua politica di egemonia sul resto della penisola.
I Piceni, alleati dei Romani vennero liberati della presenza nel nord delle Marche dei Galli Senoni. Successivamente, però, quando videro che i Romani cominciarono a fondare colonie nel loro territorio, cominciarono anch'essi a temere per la propria indipendenza. Quanto ai Galli Senoni, i romani si impossessarono dopo pochi decenni, di metà del loro territorio.
Roma aveva dato una lezione così pesante ai suoi numerosi avversari che la coalizione sconfitta non venne mai più ripristinata.
BIBLIO
- Elena Percivaldi - Grandi Battaglie: Sentinum, 295 a.C. - in "Storie di Guerre e Guerrieri" - Sprea Editore - 2016 -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - IX - 28 - (la devotio di Decio Mure) -Roma celebrò la vittoria di Sentino con i fasti consolari a Roma il giorno 4 Settembre 295 a.c. come riporta T. Livio: “Quinto Fabio, lasciato a Decio il compito di presidiare l'Etruria col proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su Galli, Etruschi e Sanniti.
I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei rozzi canti militari la valorosa morte di Decio fu celebrata non meno della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio fu richiamata la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili”.
Un frammento in un dei Fasti capitolini, custodito al Palazzo dei Conservatori, Sala della Lupa Capitolina di Roma, riporta i trionfi di Marco Fulvio Pitino, Gneo Fulvio Centumalo, Quinto Fabio Rulliano (avvenuto il 4 Settembre dell’anno CDLIIX 295 a.c., sui Sanniti, Etruschi e Galli..)
Nelle iscrizioni dei Fasti consolari (Museo della Civiltà Romana, Roma EUR) si notano le nomine dei censori partecipi allo scontro:
CENS.•O.FABIUS•. M.F.N.N. MAXIM. RULLIANUS. P. DECIUS. P.F.O.N.MUS. XXVIII
Rulliano e Decio sono nominati Censori (304 a.c.). A Rolliano viene dato l'appellativo di "Massimo".
O.FABIUS.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.IIII. P.DECIUS. P.F.O.N. MUS.III.
Q. Fabio Rullianoe P. Decio Mure, Consoli nel 297 a.c., rispettivamente per la IV e III volta.
O. FAB I US.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.V. P.DECIUS O.P.F.O.N.MUS. IIII.OUI.SE.DEVQVIT.
Nell'anno 295 a.c., vengono nuovamente nominati Consoli e vicino al nome di Publio Decio figura che egli si è sacrificato nella battaglia di Sentino.
Per l’evento di Sentino si coniò intorno al 289 a.c. una moneta tramite la zecca del Campidoglio e ripetuta nel 95 a.c. dal personaggio Sentius a ricordo dei duecento anni di quanto avvenuto nella terra delle sue genti.
Francesco Parvini Rosati, professore di numismatica greca e romana all'Università "La Sapienza" di Roma scrive su Archeo:
"Le ultime emissioni sono costituite da dracme e didracme che presentano al dritto un' effigie bifronte laureata giovanile e al rovescio Giove con lo scettro in atto di lanciare il fulmine, in quadriga al galoppo guidata dalla Vittoria. Sotto la quadriga, in una tavoletta, v' è la legenda Roma.
Gli eventi storici ricordati dai due gruppi di emissione sono probabilmente, la grande vittoria riportata dai Romani a Sentinum nel 295 a.c. cui si riferisce la figurazione di Giove che lancia il fulmine su una quadriga guidata dalla Vittoria e la pace tra Roma e i Sanniti nel 290, ricordata dalla scena del "giuramento".
(tratto da Federico Uncini)
LE CONSEGUENZE
Roma dette una terribile lezione agli avversari si che la coalizione sconfitta non venne mai più ripristinata. Dopo Sentino, le città etrusche e quelle umbre stipularono patti federativi, mentre con Celti e Sanniti perdurò lo stato di guerra.
Roma era ormai superiore militarmente alle altre potenze della penisola, anche se pur vincendo, non conquistò dei territori, ma proseguì la sua politica di egemonia sul resto della penisola.
I Piceni, alleati dei Romani vennero liberati della presenza nel nord delle Marche dei Galli Senoni. Successivamente, però, quando videro che i Romani cominciarono a fondare colonie nel loro territorio, cominciarono anch'essi a temere per la propria indipendenza. Quanto ai Galli Senoni, i romani si impossessarono dopo pochi decenni, di metà del loro territorio.
Roma aveva dato una lezione così pesante ai suoi numerosi avversari che la coalizione sconfitta non venne mai più ripristinata.
BIBLIO
- Elena Percivaldi - Grandi Battaglie: Sentinum, 295 a.C. - in "Storie di Guerre e Guerrieri" - Sprea Editore - 2016 -
- Storia di Roma: Le guerre civili - libro 1 e 2 - a cura di Atto Rupnik - Roma - Idee nuove - 2004 -
- Paolo Sommella - Antichi campi di battaglia in Italia, contributi all'identificazione topografica di alcune battaglie d'età repubblicana - Roma - De Luca - 1967 -
La guerriglia sannita proseguì. Popolo fiero ed indomito.
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