FALLI CONTRO IL MALOCCHIO |
Solo i non credenti, escludendo ogni intervento provvidenziale della divinità nella vita dell’uomo, negavano il presagio e si facevano beffe delle superstizioni, incorrendo perciò nei dovuti pericoli.
Ma ciò che noi chiamiamo superstizione era in realtà religione, è come se un'altra religione criticasse un cattolico perchè ogni mattina rivolge le sue preghiere al suo Dio, giudicandolo superstizioso perchè ritiene che se prega tutto andrà meglio.
I romani si raccomandavano agli Dei, in realtà con poco fanatismo, perchè la preghiera rivolta agli Dei era un riconoscerli e onorarli, ma senza svilire o calpestare se stessi, non si sentivano i servi degli Dei, ma coloro che avevano facoltà di onorarli e di ottenere cose da loro. Diciamo che più che pregare i romani nel quotidiano facevano scongiuri, cioè impedivano o credevano di impedire che un altro umano, o qualche spirito poco amichevole potessero giocargli un brutto tiro portandogli sfortuna, cioè facendolo incappare in eventi sfortunati.
I romani avevano anche un'idea della superstizione, per esempio Cicerone nel De Natura Deorum, chiama superstizioso chi sacrifica agli dei o prega ossessivamente affinchè i figli gli sopravvivano. Dal che il termine superstizioso sarebbe connesso al verbo superstare, cioè sopravvivere. Viene da pensare che Cicerone abbia sicuramente pregato per la sopravvivenza dell'amatissima figlia Tullia morta di parto, e che deluso del risultato abbia decretato che fosse stolido pretendere di forzare gli Dei a salvare la vita dei propri figli.
LE FORMULE
- ( 2 ) - Uno degli scongiuri più conosciuto e usato a Roma, era “Abracadabra”, del principio del III secolo, facente parte del “Liber Medicinalis”, di Quinto Sereno Sammonico, letterato, medico ed erudito, possessore di una biblioteca di ben 62.000 volumi, che Elio Sparziano narra venne fatto assassinare dall’imperatore Caracalla.
Per la cura "dell'hemitritaeus”, cioè la malaria, Sammònico prescrive una formula magica:
“Mortiferum magis est quod Graecis hemitritaeos
Vulgatur verbis; hoc nostra dicere lingua
Non potuere ulli, puto, nec volvere parentes.
Inscribes chartae quod dicitur ABRACADABRA
Saepius et subter repetes, sed detrahe summam
Et magis atque magis desint elementa figuris
Singula, quae semper rapies, et cetera figes
Donec in angustum redigatur littera conum:
His lino nexis collun redimire memento”.
- ( 4 ) - Un’altra interessante testimonianza in ambito latino di formule incantatorie si riscontra nel “De agri cultura” di Catone il Vecchio, opera nella quale, accanto ai consigli in materia di agricoltura, allevamento del bestiame ed economia domestica, sono ricordate anche alcune ricette mediche (De A. C., CLX):
“Luxum si quod est, hac cantatione sanum fiet. Harundinem prehende tibi viridem pedes quattuor aut quinque longa, mediam diffinde et duo homines teneant ad coxendices. Incipe cantare:
MOTAS VAETA DARIES DARDARES ASTARIES DISSUNAPITER, usque dum coeant. Ferrum insuper iactato. Ubi coierint et altera alteram tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra praecide, ad luxum aut ad fracturam alliga: sanum fiet. Et tamen cotidie cantato [et luxato] vel hoc modo: HUAT HAUT HAUT ISTASIS TARSIS ARDANNABOU DANNAUSTRA”
(“Se qualcuno ha una lussazione, con questo incantesimo guarirà. si prenda una canna verde lunga 4 o 5 piedi, circa un metro e mezzo, e la si tagli a metà. Due uomini tengano ciascuno una delle due parti all’altezza della anche e comincino a cantare [o a recitare]: Motas vaeta…ecc. fino a che non le abbiano riunite. Si agiti una lama di ferro al di sopra di esse: non appena le due metà della canna sono perfettamente ricongiunte, tagliatene via un pezzo da ciascuna estremità, la parte destra con la sinistra e viceversa, dopo di che legatele alle membra lussate o fratturate. Ripete poi tutti i giorni la medesima formula o la seguente: Huat haut… ecc.”).
Delle formule indicate nei codici compaiono però anche altre versioni:
“Moetas vaeta daries dardaries asiadarides una petes” della prima;
“Huat hauat huat pista sista dannabo dannaustra”,
“Huat hanat huat ista pista sista domiabo damnaustra”,
“Huat haut haut ista sis tar sis ardannabon dunnaustra”.
Queste differenti versioni deriverebbero dalla trasmissione dei testi nei codici dove anche le parole più semplici e chiare potevano essere involontariamente alterate o cambiate, tanto più che non esistendo in pratica negli scritti antichi e medioevali una vera punteggiatura, né spazi o intervalli tra parole, ed essendo la scrittura complicata da abbreviazioni e sostituzioni di lettere, gli errori erano molto frequenti; soprattutto trattandosi di parole prive di evidente significato.
Come si può facilmente capire, in effetti il rimedio di Catone non è altro che una steccatura dell’arto fratturato o lussato, alla quale però le “parole magiche” pronunciate, danno un valore in più, un aspetto placebo e quindi un aiuto nella guarigione.
Sulla composizione delle formule vi sono diverse ipotesi. Si è supposta una derivazione da voci osche, umbre, greche, celtiche, e fenice, pervenute nell’antico Lazio. Ma è più probabile che queste parole siano forme arcaiche, poi alterate foneticamente e iscritte nell’uso magico-terapeutico, di termini latini:
- “Motas vaeta” dovrebbe significare “mota sueta”, ovvero “movimenti abituali”;
- “daries dardaries, ecc.” potrebbero essere forme del verbo “dare”;
- “dissunapiter” sarebbe una contrazione deformata di “des una petes”, supposizione confermata dal fatto che in alcuni codici si tramanda pure una lezione “una petes”.
Cioè:
“Con il consueto movimento [lo steccare l'arto]
dai e nello stesso tempo chiedi [doni cura e chiedi magicamente]”.
Sulla seconda formula:
- “Huat” e “haut” sarebbero deformazioni del saluto “(h)ave” (verbo “(h)avere);
- oppure una variante di “haud”, “non”.
- “Istasis” potrebbe essere una contrazione di “instans sis” = “stai fermo”,
- “tarsis” dal greco “tarsos”, osso del piede;
- “sista” (e “pista”) imperativo di “sisto, - ere”, fermarsi.
- “Ardannabou (o “ardannabon”) dannaustra” da “Damnameneus”, la quinta delle “Ephesia grammata”;
- oppure una trasformazione, attraverso una forma arcaico-volgare “ast dannabo danna ustra”, di “at damnabo damna vestra” = “io neutralizzerò i vostri danni”.
Quindi:
- “Vai, vai, vai, stai fermo [riferito al male causato dalla frattura]
- e io con codeste [le stecche per immobilizzare l’arto] eliminerò i vostri danni”:
uno scongiuro agli spiriti maligni che hanno provocato la frattura, affinché lascino il malato.
- (5) - Varrone dichiara di aver tratto dal testo di agronomia dell’etrusco Saserna, la seguente frase che doveva essere cantata a digiuno dal praticante per 27 volte (nove volte tre): “La terra si prenda la malattia, la salute rimanga nei miei piedi”. Dopodichè doveva sputare in terra, gesto ritenuto di grande efficacia, perché la saliva era considerata capace di allontanare demoni e malanni a causa della repulsione che provoca la sua vista.
I romani si raccomandavano agli Dei, in realtà con poco fanatismo, perchè la preghiera rivolta agli Dei era un riconoscerli e onorarli, ma senza svilire o calpestare se stessi, non si sentivano i servi degli Dei, ma coloro che avevano facoltà di onorarli e di ottenere cose da loro. Diciamo che più che pregare i romani nel quotidiano facevano scongiuri, cioè impedivano o credevano di impedire che un altro umano, o qualche spirito poco amichevole potessero giocargli un brutto tiro portandogli sfortuna, cioè facendolo incappare in eventi sfortunati.
I romani avevano anche un'idea della superstizione, per esempio Cicerone nel De Natura Deorum, chiama superstizioso chi sacrifica agli dei o prega ossessivamente affinchè i figli gli sopravvivano. Dal che il termine superstizioso sarebbe connesso al verbo superstare, cioè sopravvivere. Viene da pensare che Cicerone abbia sicuramente pregato per la sopravvivenza dell'amatissima figlia Tullia morta di parto, e che deluso del risultato abbia decretato che fosse stolido pretendere di forzare gli Dei a salvare la vita dei propri figli.
LE FORMULE
- ( 1 ) - “EPHESIA GRAMMATA” (parole di Efeso), sono una formula a scopo propiziatorio e soprattutto apotropaico, le cui parole sono :
AΣKION KATAΣKION AIΞ TETPAΞ ΔAMNAMENEΥΣ AIΣIA . Secondo le principali fonti (Plutarco, Pausania, Clemente di Alessandria, Esichio) esse si chiamano così perché sarebbero state inscritte nel simulacro arcaico, sulla cintura e/o sul copricapo, della Dea Artemide venerato ad Efeso, uno “xoanon”, una statua di legno dai tratti sommari poi sostituito da una seconda e una terza immagine, di pregevole fattura artistica collocata nel grandioso santuario costruito a partire dal 560 a.c.
AΣKION KATAΣKION AIΞ TETPAΞ ΔAMNAMENEΥΣ AIΣIA . Secondo le principali fonti (Plutarco, Pausania, Clemente di Alessandria, Esichio) esse si chiamano così perché sarebbero state inscritte nel simulacro arcaico, sulla cintura e/o sul copricapo, della Dea Artemide venerato ad Efeso, uno “xoanon”, una statua di legno dai tratti sommari poi sostituito da una seconda e una terza immagine, di pregevole fattura artistica collocata nel grandioso santuario costruito a partire dal 560 a.c.
ARTEMIDE EFESINA |
Per la cura "dell'hemitritaeus”, cioè la malaria, Sammònico prescrive una formula magica:
“Mortiferum magis est quod Graecis hemitritaeos
Vulgatur verbis; hoc nostra dicere lingua
Non potuere ulli, puto, nec volvere parentes.
Inscribes chartae quod dicitur ABRACADABRA
Saepius et subter repetes, sed detrahe summam
Et magis atque magis desint elementa figuris
Singula, quae semper rapies, et cetera figes
Donec in angustum redigatur littera conum:
His lino nexis collun redimire memento”.
“Più mortale è ciò che volgarmente con parola greca
La formula ABRACADABRA si ritrova poi in età medioevale inscritta o incisa su medaglie coniate in “elettro magico”, cioè una lega di sette metalli, secondo la descrizione di Paracelso:
- 10 parti di oro;
- 10 parti di argento;
- 5 parti di rame;
- 5 parti di ferro;
- 2 parti di stagno;
- 2 parti di piombo;
- 1 parte di mercurio.
fondendo durante una congiunzione planetaria di Mercurio e di Saturno.
Il grammatico romano S. Pompeo Festo (II sec. d.c.), nel I libro del “De verborum significatione” scrive:
“Arse verse: “averte ignem” significat: Tuscorum lingua enim VERS “averte”,
ARSE “ignem” constat appellari.
Unde Afranius ait: inscribat aliquis in ostio: VERSE ARSE”
(“arse vers = allontana il fuoco. In etrusco “vers” vuol dire “scaccia, allontana”, mentre “arse” è chiamato il fuoco).
Pertanto Afranio dice: “Si scriva ARSE VERSE sulla porta”.
Tuttavia già dall’800 si è ritenuto derivasse dal latino “arse” connesso con “arceo, arcere”, allontanare, separare, difendersi da; “verse” con “ferveo, fervere”, ribollire.
si dice “hemitriteo” che gli avi
non poterono né, credo, vollero tradurre nella nostra lingua
Si scriva su una carta la formula ABRACADABRA
e la si riscriva più volte andando verso il basso
ma avendo cura di detrarre ogni volta la lettera finale
fino a che rimanga una sola lettera
a terminare una figura a forma di stretto cono.
a terminare una figura a forma di stretto cono.
Ricordati di cingere al collo il foglietto con un filo di lino”.
- il grasso di leone,
- indossare una collana di coralli, a cui si alternino autentici smeraldi,
- una perla di superiore qualità, preziosa per il niveo candore,
con tali potenti mezzi si allontanerà al più presto il letale morbo. Si direbbe che i consigli di Simmaco riguardassero solo i ricchi, visto che si parlava di gemme preziose. Ma detto scongiuro fu usato in vari modi.
La formula ABRACADABRA si ritrova poi in età medioevale inscritta o incisa su medaglie coniate in “elettro magico”, cioè una lega di sette metalli, secondo la descrizione di Paracelso:
- 10 parti di oro;
- 10 parti di argento;
- 5 parti di rame;
- 5 parti di ferro;
- 2 parti di stagno;
- 2 parti di piombo;
- 1 parte di mercurio.
fondendo durante una congiunzione planetaria di Mercurio e di Saturno.
- ( 3 ) - Un'altra formula di scongiuro largamente usata a Roma fu: ARSE VERSE.
Questa formula di origine preromana veniva scritta sulle porte della case per scongiurare gli eventi infausti che avessero potuto colpire l’edificio e soprattutto contro gli incendi. Si ritiene derivasse dall’etrusco, con il significato di “allontana il fuoco”
Questa formula di origine preromana veniva scritta sulle porte della case per scongiurare gli eventi infausti che avessero potuto colpire l’edificio e soprattutto contro gli incendi. Si ritiene derivasse dall’etrusco, con il significato di “allontana il fuoco”
Il grammatico romano S. Pompeo Festo (II sec. d.c.), nel I libro del “De verborum significatione” scrive:
“Arse verse: “averte ignem” significat: Tuscorum lingua enim VERS “averte”,
ARSE “ignem” constat appellari.
Unde Afranius ait: inscribat aliquis in ostio: VERSE ARSE”
(“arse vers = allontana il fuoco. In etrusco “vers” vuol dire “scaccia, allontana”, mentre “arse” è chiamato il fuoco).
Pertanto Afranio dice: “Si scriva ARSE VERSE sulla porta”.
Tuttavia già dall’800 si è ritenuto derivasse dal latino “arse” connesso con “arceo, arcere”, allontanare, separare, difendersi da; “verse” con “ferveo, fervere”, ribollire.
LUCERNA APOTROPAICA |
“Luxum si quod est, hac cantatione sanum fiet. Harundinem prehende tibi viridem pedes quattuor aut quinque longa, mediam diffinde et duo homines teneant ad coxendices. Incipe cantare:
MOTAS VAETA DARIES DARDARES ASTARIES DISSUNAPITER, usque dum coeant. Ferrum insuper iactato. Ubi coierint et altera alteram tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra praecide, ad luxum aut ad fracturam alliga: sanum fiet. Et tamen cotidie cantato [et luxato] vel hoc modo: HUAT HAUT HAUT ISTASIS TARSIS ARDANNABOU DANNAUSTRA”
PICCOLO GLADIO PORTAFORTUNA |
“Moetas vaeta daries dardaries asiadarides una petes” della prima;
“Huat hauat huat pista sista dannabo dannaustra”,
“Huat hanat huat ista pista sista domiabo damnaustra”,
“Huat haut haut ista sis tar sis ardannabon dunnaustra”.
Queste differenti versioni deriverebbero dalla trasmissione dei testi nei codici dove anche le parole più semplici e chiare potevano essere involontariamente alterate o cambiate, tanto più che non esistendo in pratica negli scritti antichi e medioevali una vera punteggiatura, né spazi o intervalli tra parole, ed essendo la scrittura complicata da abbreviazioni e sostituzioni di lettere, gli errori erano molto frequenti; soprattutto trattandosi di parole prive di evidente significato.
Come si può facilmente capire, in effetti il rimedio di Catone non è altro che una steccatura dell’arto fratturato o lussato, alla quale però le “parole magiche” pronunciate, danno un valore in più, un aspetto placebo e quindi un aiuto nella guarigione.
Sulla composizione delle formule vi sono diverse ipotesi. Si è supposta una derivazione da voci osche, umbre, greche, celtiche, e fenice, pervenute nell’antico Lazio. Ma è più probabile che queste parole siano forme arcaiche, poi alterate foneticamente e iscritte nell’uso magico-terapeutico, di termini latini:
- “Motas vaeta” dovrebbe significare “mota sueta”, ovvero “movimenti abituali”;
- “daries dardaries, ecc.” potrebbero essere forme del verbo “dare”;
- “dissunapiter” sarebbe una contrazione deformata di “des una petes”, supposizione confermata dal fatto che in alcuni codici si tramanda pure una lezione “una petes”.
Cioè:
“Con il consueto movimento [lo steccare l'arto]
dai e nello stesso tempo chiedi [doni cura e chiedi magicamente]”.
Sulla seconda formula:
- “Huat” e “haut” sarebbero deformazioni del saluto “(h)ave” (verbo “(h)avere);
- oppure una variante di “haud”, “non”.
- “Istasis” potrebbe essere una contrazione di “instans sis” = “stai fermo”,
- “tarsis” dal greco “tarsos”, osso del piede;
- “sista” (e “pista”) imperativo di “sisto, - ere”, fermarsi.
- “Ardannabou (o “ardannabon”) dannaustra” da “Damnameneus”, la quinta delle “Ephesia grammata”;
- oppure una trasformazione, attraverso una forma arcaico-volgare “ast dannabo danna ustra”, di “at damnabo damna vestra” = “io neutralizzerò i vostri danni”.
Quindi:
- “Vai, vai, vai, stai fermo [riferito al male causato dalla frattura]
- e io con codeste [le stecche per immobilizzare l’arto] eliminerò i vostri danni”:
uno scongiuro agli spiriti maligni che hanno provocato la frattura, affinché lascino il malato.
- (7) - Plinio il Vecchio: “Sputiamo sugli epilettici durante gli attacchi: così rigettiamo il contagio. Chiediamo anche venia agli dei di qualche progetto troppo audace sputandoci in grembo; per la stessa ragione è usanza sputare e fare tre volte gli scongiuri tutte le volte che adoperiamo una medicina, potenziandone gli effetti”. (poveri epilettici, ingiustamente sputacchiati)
- (8) - Nelle case come scongiuro si usava tenere un rametto di ruta per evitare incidenti domestici.
- (9) - Dentro la casa, dietro la porta, si appendeva un ferro di cavallo contro la malasorte. Ancora oggi molti ritengono che il ferro di cavallo porti fortuna.
Grande importanza veniva data al fallo maschile in erezione come simbolo di buon augurio, fertilità ed abbondanza. Nella bulla, una sorta di amuleto che veniva messo al collo dei ragazzini, al suo interno era contenuto un fascinus (o fascinum) fallico, cioè un piccolo amuleto con la forma di membro maschile. Nelle case veniva appeso il tintinnabulum che si rifaceva al Fascinus, una figura magico-religiosa che aveva il compito di allontanare il malocchio e portare fortuna e prosperità.
Vedi anche: CAMPANE E CAMPANELLI ROMANI.
BIBLIO
- Florence Dupon - Daily Life in Ancient Rome - Blackwell Publishing - 1993 -
- Antonietta Dosi - OTIUM, il tempo libero dei Romani - Vita e Costumi nel mondo romano antico - Quasar - Roma - 2006 -
- Antonietta Dosi - Spazio e tempo - (coautore Francois Schnell) - Vita e Costumi dei Romani Antichi - Quasar - Roma - 1992 -
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