TITO MANLIO TORQUATO CONDANNA A MORTE SUO FIGLIO |
Nome originale: Titus Manlius Imperiosus Torquatus
Nascita: 400 avanti Cristo
Morte: ?
Genitori: Lucio Manlio Capitolino Imperioso
Consolato: 347 a.c. 344 a.c. 340 a.c.
Dittatura: 353 a.c. 349 a.c.
Gens: Manlia
Non si può capire chi sia stato Tito Manlio Torquato senza comprendere chi fosse stato suo padre, cioè Lucio Manlio Capitolino Imperioso.
Genitori: Lucio Manlio Capitolino Imperioso
Consolato: 347 a.c. 344 a.c. 340 a.c.
Dittatura: 353 a.c. 349 a.c.
Gens: Manlia
Non si può capire chi sia stato Tito Manlio Torquato senza comprendere chi fosse stato suo padre, cioè Lucio Manlio Capitolino Imperioso.
LUCIO MANLIO CAPITOLINO IMPERIOSO
Lucio Manlio Capitolino Imperioso (... – ...) è stato un politico romano che nel 363 a.c. venne eletto dittatore per condurre la cerimonia con cui si piantava un chiodo alle idi di settembre, per scongiurare la pestilenza che da tre anni imperversava a Roma.
Si dimise però in breve dalla carica in seguito all'opposizione dei tribuni della plebe, per il suo tentativo di chiamare la leva, per condurre una campagna militare contro gli Ernici. La smania di gloria per lui era tale che sperava in una guerra da condurre onde avere lustro e magari un trionfo. Pertanto invece di occuparsi della peste si preoccupò di indire una guerra scagliandosi contro i giovani renitenti, già molto provati dalla peste.
«Ciò non ostante in quel periodo sembrò essere di per sé motivo sufficiente per la nomina di un dittatore. Per tale ragione venne eletto Lucio Manlio il quale, come se fosse stato nominato per condurre una guerra e non per assecondare una semplice superstizione, aspirando a portare guerra agli Ernici, suscitò il malcontento dei giovani bandendo una leva che non ammetteva esclusioni. Ma alla fine, quando tutti i tribuni della plebe insorsero uniti contro di lui, si lasciò piegare dalla forza o dalla vergogna e rinunciò alla dittatura.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 3.)
Lucio Manlio era un uomo privo di sentimenti verso gli altri e verso i figli che non solo avrebbe sacrificato volentieri per la propria gloria, ma di cui si sentiva perfino in conflitto, temendo potessero oscurare la sua fama.
- Dopo che i Galli avevano posto l'accampamento dalle due parti del fiume Aniene, l'esercito romano usci dalla città. Nel mezzo c'era un ponte; un Gallo di grande stazza, dopo che era arrivato nel ponte libero, a gran voce disse:
Nel 353 a.c., quando sembrò che Cere si fosse alleata con Tarquinia contro Roma, fu nominato dittatore. Mentre Roma organizzava la campagna, giunsero a Roma gli ambasciatori di Caere per implorare la pace, poichè solo pochi cittadini, fattisi convincere dai tarquiniesi, erano avversi a Roma, la maggior parte dei cittadini si sentivano in pace con Roma. Pertanto venne rinnovata questa pace con Cere, e Tito Manlio potè rivolgere l'esercito contro i Falisci, senza però arrivare ad uno scontro in campo aperto.
Nel 349 a.c. fu nominato dittatore una terza volta, perché presiedesse alle elezioni consolari. Per il suo valore militare, anche in questo simile a suo padre, venne eletto console nel 347 a.c. assieme a Gaio Plauzio Venoce Ipseo.
Si dimise però in breve dalla carica in seguito all'opposizione dei tribuni della plebe, per il suo tentativo di chiamare la leva, per condurre una campagna militare contro gli Ernici. La smania di gloria per lui era tale che sperava in una guerra da condurre onde avere lustro e magari un trionfo. Pertanto invece di occuparsi della peste si preoccupò di indire una guerra scagliandosi contro i giovani renitenti, già molto provati dalla peste.
«Ciò non ostante in quel periodo sembrò essere di per sé motivo sufficiente per la nomina di un dittatore. Per tale ragione venne eletto Lucio Manlio il quale, come se fosse stato nominato per condurre una guerra e non per assecondare una semplice superstizione, aspirando a portare guerra agli Ernici, suscitò il malcontento dei giovani bandendo una leva che non ammetteva esclusioni. Ma alla fine, quando tutti i tribuni della plebe insorsero uniti contro di lui, si lasciò piegare dalla forza o dalla vergogna e rinunciò alla dittatura.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 3.)
Lucio Manlio era un uomo privo di sentimenti verso gli altri e verso i figli che non solo avrebbe sacrificato volentieri per la propria gloria, ma di cui si sentiva perfino in conflitto, temendo potessero oscurare la sua fama.
L'anno successivo infatti fu citato in giudizio dal tribuno della plebe Marco Pomponio, per la crudeltà di carattere con cui aveva chiamato la leva, e per come crudelmente avesse trattato il figlio Tito Manlio Imperioso Torquato.
«Tra le altre imputazioni il tribuno lo accusava del comportamento tenuto nei riguardi del figlio: quest'ultimo, benché non fosse stato riconosciuto colpevole di alcun reato, era stato bandito da Roma, dalla casa paterna e dai penati; Manlio lo aveva allontanato dal foro, privato della luce del giorno e della compagnia dei coetanei, costretto a un lavoro da schiavo»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 4.)
Il processo però non ebbe luogo, proprio per l'intervento a favore del padre del figlio Tito Manlio Torquato, che arrivò a minacciare di morte il tribuno, se non avesse ritirato l'accusa. In realtà il figlio era crudele e spietato quanto il padre, proprio in quanto era succube e connivente col padre. Non era il padre ad avere ragione ma i padri in genere, per cui lui avrebbe avuto tutti diritti quando fosse diventato padre, cioè si sarebbe scagliato sul figlio come suo padre aveva fatto con lui.
«Dopo che a tutti i presenti venne ordinato di allontanarsi dalla stanza, afferrò il coltello e, fermo in piedi sopra il letto del tribuno con in mano l'arma pronta a colpire, minacciò di pugnalarlo lì sul momento, se Pomponio non avesse giurato, nei termini che egli stesso avrebbe imposto, di non aver alcuna intenzione di convocare un'assemblea popolare per mettere suo padre sotto accusa»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 5.)
«Tra le altre imputazioni il tribuno lo accusava del comportamento tenuto nei riguardi del figlio: quest'ultimo, benché non fosse stato riconosciuto colpevole di alcun reato, era stato bandito da Roma, dalla casa paterna e dai penati; Manlio lo aveva allontanato dal foro, privato della luce del giorno e della compagnia dei coetanei, costretto a un lavoro da schiavo»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 4.)
Il processo però non ebbe luogo, proprio per l'intervento a favore del padre del figlio Tito Manlio Torquato, che arrivò a minacciare di morte il tribuno, se non avesse ritirato l'accusa. In realtà il figlio era crudele e spietato quanto il padre, proprio in quanto era succube e connivente col padre. Non era il padre ad avere ragione ma i padri in genere, per cui lui avrebbe avuto tutti diritti quando fosse diventato padre, cioè si sarebbe scagliato sul figlio come suo padre aveva fatto con lui.
«Dopo che a tutti i presenti venne ordinato di allontanarsi dalla stanza, afferrò il coltello e, fermo in piedi sopra il letto del tribuno con in mano l'arma pronta a colpire, minacciò di pugnalarlo lì sul momento, se Pomponio non avesse giurato, nei termini che egli stesso avrebbe imposto, di non aver alcuna intenzione di convocare un'assemblea popolare per mettere suo padre sotto accusa»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 5.)
TITO MANLIO TORQUATO
Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino fu un politico romano del IV secolo a.c. che fu nominato dittatore nel 361 a.c. per condurre la guerra contro i Galli riportando una vittoria che fu celebrata con un trionfo nello stesso anno.
Durante questa stessa guerra Tito Manlio Torquato, figlio di Lucio Manlio Capitolino Imperioso, vinse in duello un nemico fisicamente molto più alto e possente di lui, e, dopo avergli strappato la collana (torque) e averla messa al suo collo, prese per sempre il soprannome di "Torquato" per sé e per i suoi discendenti. I Galli, intimoriti da tanto valore e da tanta maestria, si decisero ad abbandonare il campo di battaglia.
«E per Ercole quel duello fu così determinante nello svolgimento dell'intera guerra che l'esercito dei Galli la notte successiva lasciò l'accampamento in fretta e furia e si diresse nel territorio dei Tiburtini.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, Libro VII, 11)
(Tito Livio, Ab Urbe condita, Libro VII, 11)
Tito Manlio Torquato dimostrò di essere un grande militare e un grande condottiero, ma pure di essere spietato come suo padre, e soprattutto di non essere padre. Secondo altri, avrebbe combattuto nel 367 a.c., in veste di "tribunus militum consulari potestate" contro i Galli, presso il ponte dell'Aniene, e, vinto in singolar tenzone uno degli avversari, gli avrebbe tolto la collana (torques), dal che gli sarebbe derivato il cognome di Torquatus.
"Venga a combattere, quello che è il più forte di Roma!"
Allora Tito Manlio si diresse dal comandante:
"Se tu me lo permetti, voglio mostrare a codesta belva la virtù di Roma"
A questo il comandante:
"Te lo permetto, Tito Manlio, e teni alto l'invincibile onore Romano!'
II Gallo lo aspettava stupidamente felice, e lo disprezzava brevemente, infatti dopo che si fermarono tutti e due tra le due schiere, il Gallo scagliò la spada con un gran rumore nell'armatura di Manlio. In verità Manlio finse che lui era stato colpito dalla spada. e con l'arma del Gallo, sia con uno che con l'altro attacco gli tagliò il ventre; mentre il Gallo era a terra gli tolse la collana, che pose
al suo collo sporco di sangue. Da ciò Manlio prese il cognome di Torquato. -
al suo collo sporco di sangue. Da ciò Manlio prese il cognome di Torquato. -
Il FILICIDA
La Repubblica romana, stavolta alleata alla confederazione sannitica, era infatti entrata in guerra coi vicini popoli Latini, alleati ad alcune città dei Campani, dei Volsci, degli Aurunci e dei Sidicini, guerra che si protrasse dal 340 a.c. al 338 a.c.. Fu qui che condannò a morte il figlio Tito Manlio Torquato per la vittoria contro il suo sfidante latino, conseguita senza il suo permesso. (Tito Livio, Ab urbe condita VIII, 7, 13-22)
La cosa andò così: nella guerra latina era stato proclamato dai consoli che i soldati non combattessero contro il nemico senza l'ordine. Per caso Manlio, figlio dell'altro console, giovane di esimio aspetto e virtù, uscendo dall'accampamento con i compagni, fu chiamato dal prefetto dei cavalieri e fu sfidato ad un singolare duello. Era vergognoso allora rifiutare il duello, e così Manlio, forse volendo emulare la gloria di suo padre, immemore dell'editto dei consoli, lottò con il nemico e lo sconfisse.
«Il Romano (Tito Manlio), tenendo alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di quello dell'avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest'ultimo in modo tale da non correre il rischio di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l'altro gli trapassò il ventre e l'inguine facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio si astenne dall'infierire sul corpo del nemico crollato al suolo, limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò a sua volta, coperta com'era di sangue.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 10.)
Il giovane vincitore, pieno delle spoglie del nemico ucciso, tornò all'accampamento con i compagni che esultavano, ma essendo stato il padre informato di quello che era successo, convocò l'assemblea dei soldati e verso tutti disse:
"Tu, Manlio, hai combattuto il nemico senza l'ordine dei consoli, e hai infranto la disciplina romana, devi pagare la pena con la morte. Saremo un triste esempio ma molto utile e sano ai posteri. Così il console percosse il giovane con la scure."
Poi gli disse:
«Poiché tu, Tito Manlio, senza portare rispetto né all'autorità consolare né alla patria potestà, hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno d'oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso, se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un precedente penoso, che però sarà d'aiuto per i giovani di domani. Quanto a me, sono toccato non solo dall'affetto naturale che un padre ha verso i figli, ma anche dalla dimostrazione di valore che ti ha fuorviato con una falsa parvenza di gloria. Ma visto che l'autorità consolare dev'essere o consolidata dalla tua morte oppure del tutto abrogata dalla tua impunità, e siccome penso che nemmeno tu, se in te c'è una goccia del mio sangue, rifiuteresti di ristabilire la disciplina militare messa in crisi dalla tua colpa, va, o littore, e legalo al palo»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 7.)
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 7.)
Così suo figlio venne giustiziato, reo soltanto di essere uscito, contro gli ordini, dalle file per combattere in singolare duello il tuscolano Gemino Mecio, e forse proprio per far colpo sul padre che aveva operato una prodezza del genere.
Tito Manlio, insieme al collega Decio Mure, condusse poi i romani alla vittoria nella sanguinosa Battaglia del Vesuvio, ma secondo altri vinse invece presso il monte Vescino, a Trifano, e non alle falde del Vesuvio, dove l'altro console trovò la morte nella sua "Devotio". Tito Manlio ricevette un responso dagli auguri per cui ovunque fosse andato avrebbe vinto, e si dice fu anche per questo che Decio Mure compì il suo sacrificio, per lasciare in vita tale campione.
Sconfitti nuovamente i Latini nella battaglia di Trifano, Manlio, tornato a Roma malato, nominò dittatore Lucio Papirio Crasso, perché combattesse contro gli anziati, ed uscì dalla scena politica. E' sconosciuta la data della sua morte. Non un romano integerrimo ma un criminale filicida che la storia ricorderà sempre negativamente.
BIBLIO
- G. De Sanctis - Storia dei Romani - II - Torino -1907 -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - VII 9 -
- Storia di Roma dalla fondazione - Newton & Compton editori s.r.l. - Roma - 1997 -
- Dionigi di Alicarnasso - Storia di Roma Antica -
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