VEDI: SVETONIO - CESARE, I PARTE (Par. 1-40)
I PROVVEDIMENTI DI CESARE
( 41 ) Cesare completò il Senato, creò nuovi patrizi, aumentò il numero dei pretori, degli edili, dei questori e anche dei magistrati minori, riabilitò i cittadini privati delle loro prerogative per intervento del censore o condannati per broglio dai giudici.
Divise con il popolo il diritto di eleggere i magistrati, stabilendo che, salvo per gli aspiranti al consolato, una metà degli eletti doveva essere presa tra i candidati scelti dal popolo, e l'altra metà tra quelli che lui stesso aveva designato.
E lui designava i suoi candidati per mezzo di circolari, indirizzate ai tribuni, che recavano questa semplice formula: «Il dittatore Cesare ha designato il tale. Vi raccomando il tale e il tal altro, perché con il vostro voto ottengano la loro carica.»
Ammise alle cariche anche i figli dei proscritti. Per la giustizia conservò soltanto due categorie di giudici: quelli dell'ordine equestre e quelli dell'ordine senatorio. Soppresse la terza, quella dei tribuni del tesoro.
Fece il censimento della popolazione, non secondo il modo e i luoghi consueti, ma in ogni quartiere, per mezzo dei proprietari di stabili di abitazione, e ridusse a centocinquantamila i trecentoventimila plebei che ricevevano frumento dallo Stato. Infine, perché il censimento non dovesse in avvenire far sorgere qualche sommossa, stabilì che ogni anno, per rimpiazzare i morti, il pretore estraesse a sorte tra i plebei quelli che non erano stati iscritti.
DISTRIBUZIONE DELLE COLONIE
( 42 ) Distribuì nelle colonie d'oltremare ottantamila cittadini, ma per assicurare nello stesso tempo alla capitale, così depauperata, una popolazione sufficiente, vietò ad ogni cittadino maggiore di vent'anni e minore di sessanta, a meno che fosse sotto le armi, di stare lontano dall'Italia per più di tre anni consecutivi.
Proibì ai figli dei senatori di andare all'estero, se non come membri dello stato maggiore o accompagnatori di un magistrato; volle infine che gli allevatori di bestiame avessero tra i loro pastori almeno un terzo di uomini liberi in pubere età.
A tutti coloro che esercitavano la medicina o insegnavano le arti liberali in Roma concesse la cittadinanza, perché più volentieri prendessero residenza in città e ve ne attirassero altri. Quanto ai debiti, deludendo le speranze di abolizione, che spesso si diffondevano, stabilì che i debitori si accordassero con i creditori nello stimare le loro proprietà al prezzo che ciascuna era costata prima della guerra civile, deducendo dalla cifra dei loro debiti ciò che avevano pagato a titolo di interesse, sia in argento, sia in valori; queste disposizioni ridussero il credito di circa un quarto.
Fece sciogliere tutte le associazioni, ad eccezione delle più antiche. Rese più dure le sanzioni contro i crimini, e poiché i ricchi tanto più facilmente si rendevano colpevoli in quanto se ne andavano in esilio senza perdere niente del loro patrimonio, stabilì, come riferisce Cicerone, che i parricidi fossero spogliati di tutti i loro beni, e tutti i colpevoli di altri delitti della metà del loro patrimonio.
TEMPIO DEL DIVO GIULIO |
AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
( 43 ) Amministrò la giustizia con il più grande zelo e con la massima severità. Arrivò perfino a rimuovere dall'ordine dei senatori i magistrati riconosciuti colpevoli di concussione. Annullò il matrimonio di un anziano pretore che aveva sposato una donna separata dal marito solo da due giorni, quantunque senza sospetto di adulterio.
Stabilì diritti di importazione sulle merci straniere. Permise l'uso delle lettighe, e così pure delle vesti di porpora e delle perle, solo a certe persone, ad una certa età e durante certi giorni. Fu severissimo nell'applicazione della legge suntuaria.
Mise delle guardie intorno al mercato con l'incarico di scoprire le derrate proibite e fargli rapporto: talvolta inviava di sorpresa littori e soldati che requisivano dalle sale da pranzo, dove già erano state sistemate, le merci che erano potute sfuggire alle guardie.
I MONUMENTI DELL'URBE
( 44 ) Inoltre, per ciò che concerne l'abbellimento e l'arricchimento dell'Urbe, la protezione e l'ingrandimento dell'Impero, faceva ogni giorno i più numerosi e vasti progetti. Si ripromise, innanzitutto, di costruire un tempio di Marte, il più grande del mondo, dopo aver riempito e spianato il bacino in cui era stata data la battaglia navale, e di realizzare un immenso teatro, a ridosso della rupe Tarpeia; di condensare il diritto civile e di scegliere nell'enorme congerie di leggi sparse ciò che vi era di migliore e di indispensabile per raggrupparlo in un piccolo numero di libri; di mettere a disposizione del pubblico biblioteche greche e latine, le più ricche possibili: aveva affidato a Marco Varrone l'incarico di procurare e catalogare i libri.
Aveva intenzione di bonificare le paludi pontine, di aprire uno sbocco al lago Fucino, di condurre una strada dall'Adriatico fino al Tevere, scavalcando l'Appennino, di tagliare l'istmo di Corinto, di contenere i Daci che si erano riversati nella Tracia e nel Ponto, di portare quindi guerra ai Parti, passando per l'Armenia minore, ma di non provocarli a battaglia, se non dopo aver saggiato le loro forze.
Nel bel mezzo di questi lavori e di questi progetti, lo sorprese la morte. Ma prima di raccontare la sua fine, non sarà fuori posto esporre sinteticamente tutto ciò che riguarda la sua persona, il suo carattere, il suo tenore di vita, le sue abitudini, non meno che il suo talento civile e militare.
L'ASPETTO E IL CARATTERE
( 45 ) Si dice che fosse di alta statura, di carnagione bianca, ben fatto di membra, di viso forse un po' troppo pieno, di occhi neri e vivaci, di fibra robusta, benché negli ultimi tempi andasse soggetto ad improvvisi svenimenti e fosse ossessionato da incubi che lo svegliavano nel sonno.
Fu anche colto, in pieno lavoro, da due attacchi di epilessia. Un po' ricercato nella cura del corpo, non si limitava a farsi tagliare i capelli e a radersi con meticolosità, ma si faceva anche depilare, tanto che alcuni lo rimproveravano per questo.
Non sopportava l'idea di essere calvo, soprattutto perché si era accorto più di una volta che suscitava le canzonature dei suoi denigratori. Per questo aveva preso l'abitudine di riportare in avanti i pochi capelli che aveva e di tutti gli onori che il Senato e il popolo gli avevano decretato, nessuno preferì o accettò più volentieri del diritto di tenere perennemente sul capo la corona di lauro.
Dicono anche che fosse elegante nel vestire: indossava un laticlavio guarnito di frange che arrivavano fino alle mani e su di esso portava la sua cintura, per altro allentata: da questa abitudine è venuta la battuta che Silla andava ripetendo agli ottimati di «fare attenzione a quel giovane che portava male la cintura».
( 46 ) In principio abitò in una modesta casa della Suburra; dopo il massimo pontificato si trasferì in un palazzo pubblico sulla via Sacra. Molti riferiscono che fosse avido del lusso e della sontuosità. Avrebbe fatto abbattere una villa nel bosco Nemorense, iniziata dalle fondamenta e con grande impiego di soldi, perché non corrispondeva completamente ai suoi desideri, e ciò benché fosse ancora povero e pieno di debiti. Durante le sue spedizioni avrebbe importato pavimenti di marmo fatti a mosaico.
I LUSSI
( 47 ) Avrebbe aggredito la Britannia con la speranza di trovare le perle e che, per raccogliere le più grosse, più volte, di sua mano, ne avrebbe saggiato il peso. Dicono che facesse collezione continuamente e con grande passione, di pietre preziose, di vasi cesellati, di statue, di quadri di antichi artisti; dicono anche che si assicurasse gli schiavi più belli e più educati ad un prezzo spropositato, ed egli stesso se ne vergognava a tal punto da vietare di registrarlo nei suoi conti.
( 48 ) Dicono che nelle province offrisse continuamente banchetti, facendo apparecchiare due tavole distinte: una per i suoi ufficiali e per i Greci, l'altra per i Romani e per i notabili del paese. In casa propria manteneva una disciplina così precisa e rigorosa, sia nelle piccole, sia nelle grandi cose, che fece mettere ai ferri uno schiavo addetto alla panificazione perché serviva agli invitati un tipo di pane diverso dal suo e punì con la morte uno dei suoi più cari liberti, senza che nessuno se ne lamentasse, perché aveva sedotto la moglie di un cavaliere romano.
L'OMOSESSUALITA'
( 49 ) Soltanto il suo soggiorno presso Nicomede diffuse la fama della sua sodomia, ma fu sufficiente per disonorarlo per sempre ed esporlo agli insulti di tutti. Lascio perdere i conosciutissimi versi di Licinio Calvo: «... tutto ciò che mai la Bitinia possedette e l'amante di Cesare.» Sorvolò sui discorsi di Dolabella e di Curione padre, nei quali il primo lo definisce a rivale della regina, «sponda interna della lettiga regale» e il secondo «postribolo di Nicomede, sotterraneo bitinico».
Non prendo nemmeno in considerazione le scritte con le quali, sui muri di Roma, Bibulo chiamò il suo collega «regina bitinica, al quale un tempo stava a cuore un re ed ora sta a cuore un intero regno».
Nello stesso tempo, come riferisce Marco Bruto, un certo Ottavio, la cui acutezza di mente lo autorizzava a dire tutto senza riguardi, davanti ad un'assemblea numerosissima, aveva dato a Pompeo il titolo di «re» e aveva salutato Cesare con il nome di «regina».
Ma Caio Memmio arriva perfino a rimproverarlo di aver servito, come coppiere, insieme con altri invertiti, questo Nicomede, durante un grande banchetto al quale avevano preso parte alcuni commercianti romani, dei quali riporta i nomi.
Cicerone, non contento di aver scritto in alcune sue lettere che le guardie lo portavano nella camera del re, che si sdraiava su un letto d'oro, con una veste dorata e che un discendente di Venere aveva contaminato in Bitinia il fiore della sua giovinezza, un giorno, anche in Senato disse a Cesare, che difendeva la causa di Nisa, la figlia di Nicomede e ricordava i benefici che aveva ricevuto dal re: «Lascia perdere queste cose, ti prego, dal momento che è ben noto quello che lui ti ha dato e quello che tu hai dato a lui.»
Infine, durante il trionfo sui Galli, tra i versi satirici che i suoi soldati cantavano, secondo la tradizione, mentre scortavano il suo carro, si udirono anche questi, divenuti assai popolari: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare: Ecco, Cesare che ha sottomesso le Gallie, ora trionfa, Nicomede, che ha sottomesso Cesare, non riporta nessun trionfo.»
L'ETEROSESSUALITA'
( 50 ) Tutti concordano nell'affermare che era portato alla sensualità ed era assai generoso nei suoi amori; che sedusse moltissime donne di nobile nascita: tra queste Postumia, moglie di Servio Sulpicio, Lollia, moglie di Aulo Gabinio, Tertulla, moglie di Marco Crasso e anche la moglie di Gneo Pompeo, Mucia.
In ogni caso i due Curioni, padre e figlio, e molti altri rimproveravano Pompeo perché, spinto dalla sete del potere, aveva accettato in matrimonio proprio la figlia di colui che lo aveva costretto a ripudiare la moglie, dopo averne avuti tre figli, e che egli, quasi lamentandosi, era solito chiamare «Egisto».
Ma in modo particolare Cesare amò Servilia, la madre di Marco Bruto: per lei, durante il suo primo consolato, acquistò una perla del valore di sei milioni di sesterzi e, nel corso della guerra civile, tra le altre donazioni, le fece aggiudicare al prezzo più basso possibile, immense proprietà messe all'asta.
Quando molti si stupirono del prezzo irrisorio, Cicerone, assai spiritosamente, disse: «La spesa fu ancora più esigua, perché è stata dedotta la terza parte.» Si supponeva infatti che Servilia avesse procurato a Cesare anche i favori della figlia Terza.
( 51 ) Non si astenne nemmeno dalle donne della provincia, come appare evidente da questo distico, continuamente ripetuto dai soldati durante il trionfo sui Galli: «Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo l'adultero calvo; In Gallia, o Cesare, hai dissipato con le donne il denaro che qui hai preso in prestito.»
( 52 ) Ebbe per amanti anche le regine, tra le quali Eunce di Mauritania, moglie di Bogude: a lei e a suo marito, come scrive Nasone, fece molte e grandi donazioni. La sua più grande passione fu però Cleopatra, con la quale protrasse i banchetti fino alle prime luci dell'alba. Conducendola con sé, su una nave dotata di camera da letto, avrebbe attraversato tutto l'Egitto se l'esercito non si fosse rifiutato di seguirlo.
Infine la fece venire a Roma e poi la rimandò in Egitto, dopo averla colmata di onori e di magnifici regali, permettendole di dare il proprio nome al figlio nato dal loro amore. Alcuni scrittori greci hanno affermato che questo figlio assomigliasse moltissimo a Cesare sia nell'aspetto, sia nel modo di camminare.
M. Antonio dichiarò in Senato che lo aveva riconosciuto per questo e che la stessa cosa sapevano Caio Marzio e Caio Oppio e tutti gli altri amici di Cesare. Ma uno di costoro, e precisamente Oppio, pensando fosse opportuno difenderlo e giustificarlo su questo punto, pubblicò un libro nel quale sosteneva che non era figlio di Cesare quello di cui Cleopatra gli attribuiva la paternità.
Elvio Cinna, tribuno della plebe, confidò a molti di aver già scritto e pronto un progetto di legge che Cesare gli aveva ordinato di proporre durante la sua assenza. La legge gli concedeva di poter sposare tutte le donne che volesse per assicurarsi la discendenza.
Perché poi non vi sia più nessun dubbio che Cesare abbia avuto la più triste reputazione di sodomita e di adultero, basterà dire che Curione padre, in una sua orazione lo definisce: «il marito di tutte le donne e la moglie di tutti gli uomini».
LA MORIGERATEZZA
( 53 ) Anche i suoi nemici dicono che fu assai parco nell'uso del vino. È di Marco Catone il detto: «Fra tutti coloro che si apprestarono a rovesciare lo Stato, solo Cesare era sobrio.» Nei riguardi del vitto Gaio Oppio lo mostra tanto indifferente che una volta, essendogli stato servito da un ospite olio rancido al posto di olio fresco, mentre tutti gli altri convitati si risentivano, lui solo se ne mostrò entusiasta, per non aver l'aria di rimproverare l'ospite stesso della sua negligenza o della sua mancanza di buon gusto. Conservò la moderazione sia durante i periodi di comando, sia durante le sue magistrature.
( 54 ) Secondo quanto affermano alcuni autori nei loro scritti, quando era proconsole in Spagna, non si fece riguardo di prendere denaro dai suoi alleati, dopo averlo mendicato, per pagare i suoi debiti, e distrusse, come nemiche, alcune città dei Lusitani, sebbene non si fossero rifiutate di versare i contributi imposti e gli avessero aperto le porte al suo arrivo.
In Gallia spogliò le cappelle e i templi degli Dei, piene di offerte votive e distrusse città più spesso per far bottino che per rappresaglia. In tal modo arrivò ad essere così pieno d'oro da farlo vendere in Italia e nelle province a tremila sesterzi la libbra.
Durante il suo primo consolato sottrasse dal Campidoglio tremila libbre d'oro e le rimpiazzò con un peso uguale di bronzo dorato. Concesse alleanze e regni, dietro versamento di denaro, e al solo Tolomeo estorse, a nome suo e di Pompeo, circa seimila talenti.
È chiaro quindi che grazie a queste evidenti rapine e a questi sacrilegi poté sostenere sia gli oneri delle guerre civili, sia le spese dei trionfi e degli spettacoli.
CESARE |
GRANDE ORATORE
( 55 ) Nell'eloquenza e nell'arte militare o eguagliò o superò la gloria dei personaggi più insigni. Dopo la sua requisitoria contro Dolabella fu senza dubbio annoverato tra i migliori avvocati. Ad ogni modo Cicerone, elencando nel suo «Bruto» gli oratori, dice di «non vedere proprio a chi Cesare debba essere considerato inferiore» e aggiunge che «è elegante e che ha un modo di parlare splendido, magnifico e in un certo senso generoso».
Scrivendo poi a Cornelio Nepote si esprime così nei confronti di Cesare: «Come? Quale oratore gli preferisci tra quelli che si sono dedicati esclusivamente all'eloquenza? Chi è più acuto e ricco nelle battute? Chi più elegante e raffinato nella terminologia?»
Sembra che solo durante la sua giovinezza abbia seguito il genere di eloquenza di Cesare Strabone, dal cui discorso che si intitola: «A favore dei Sardi» riportò, parola per parola, alcuni passaggi nella sua «Divinazione». Parlava, almeno così dicono, con voce penetrante, con movimenti e gesti pieni di foga e non senza signorilità. Lasciò qualche orazione e tra queste alcune gli sono attribuite a torto.
Giustamente Augusto pensa che il testo dell'orazione «In favore di Quinto Metello» sia stato redatto da stenografi che avevano seguito male le parole di Cesare mentre parlava, e non pubblicato da lui stesso.
Infatti in alcuni esemplari trovo scritto non già «Discorso in favore di Metello» ma «Discorso che ha scritto per Metello»; e pertanto è Cesare in persona che parla per difendere sia se stesso, sia Metello dalle accuse dei loro comuni denigratori.
Anche le «Allocuzioni rivolte ai soldati in Spagna» Augusto, con molta riluttanza, le considera di Cesare, e tuttavia due gli vengono attribuite: una sarebbe stata pronunciata prima del primo combattimento, l'altra dopo il secondo; ma Asinio Pollione ci dice che non ebbe nemmeno il tempo di rivolgere un'esortazione ai soldati a causa di un improvviso attacco dei nemici.
DE BELLO GALLICO
( 56 ) Lasciò anche i Commentari delle sue imprese nella guerra gallica e nella guerra civile contro Pompeo, mentre non si è d'accordo sull'autore dei resoconti sulla guerra di Alessandria, d'Africa e di Spagna. Alcuni dicono che sia Oppio, altri Irzio, il quale avrebbe anche completato l'ultimo libro della guerra gallica, rimasto incompiuto.
A proposito dei Commentari di Cesare, sempre nel a Bruto» Cicerone dice:
«Scrisse i Commentari che bisogna proprio lodare: essi sono scarni, precisi e pieni di eleganza, spogliati di ogni ornamento oratorio, come un corpo del suo vestito; ma volendo offrire materiale a chi avesse intenzione di attingere dai suoi Commentari per scrivere una storia, fece forse cosa gradita agli stolti che vorranno impiastricciare quelle limpide annotazioni, ma ha fatto desistere gli uomini di buon senso dal raccontarla.»
Sugli stessi Commentari Irzio così si esprime: «Tutti ne hanno tessuto così alti elogi che Cesare sembra non tanto aver offerto, ma addirittura tolto agli storici la possibilità di scrivere. Di questa opera la nostra ammirazione è maggiore di quella degli altri lettori: essi sanno come l'abbia scritta bene e in stile perfetto, noi invece sappiamo come l'abbia composta con facilità e rapidamente»
Asinio Pollione pensa che i Commentari siano stati scritti con poca diligenza e con scarso rispetto della verità, perché Cesare, nella maggior parte dei casi ha accettato, senza nessun controllo, tutto quello che gli altri hanno fatto, mentre vuoi deliberatamente, vuoi per un inganno della memoria, ha presentato in modo inesatto le proprie azioni.
Lasciò anche due libri a «Sull'Analogia» e altrettanti dell'«Anticatone» e inoltre un poema intitolato a «Il viaggio». Di queste opere compose la prima mentre attraversava le Alpi, quando dalla Gallia Citeriore ritornava presso l'esercito, dopo aver tenuto le sue assemblee, la seconda la scrisse al tempo della battaglia di Munda e l'ultima mentre si portava da Roma nella Spagna ulteriore con un viaggio di ventitré giorni.
Abbiamo anche alcune sue lettere inviate al Senato: sembra sia stato il primo a dividerle in pagine e a dar loro la forma di un memoriale, mentre i consoli e i generali avevano sempre fatto i loro rapporti su tutta la larghezza del foglio.
Rimangono anche le sue lettere a Cicerone e quelle ai familiari; quando doveva fare qualche comunicazione segreta, si serviva di segni convenzionali, vale a dire accostava le lettere in un ordine tale da non significare niente: se si voleva scoprire il senso e decifrare lo scritto bisognava sostituire ogni lettera con la terza che la seguiva nell'alfabeto, ad esempio la A con la D, e così via.
Si ricordano anche alcuni scritti giovanili, come «Le lodi di ErcoIe», una tragedia «Edipo» e una raccolta di detti famosi. Augusto però proibì che questi libretti venissero pubblicati: lo ordinò con una lettera breve e tuttavia incisiva che inviò a Pompeo Macro, al quale aveva affidato l'incarico di amministrare le biblioteche.
CESARE E VERCINGETORIGE |
ABILITA' E CORAGGIO
( 57 ) Fu abilissimo nell'uso delle armi e nell'equitazione e sopportava le fatiche in modo incredibile. In marcia precedeva i suoi uomini qualche volta a cavallo, ma più spesso a piedi, con il capo scoperto, sia che picchiasse il sole, sia che piovesse.
Con straordinaria rapidità coprì lunghissime tappe, senza bagaglio, con un carro da nolo, percorrendo in un giorno la distanza di centomila passi. Se i fiumi gli sbarravano la strada, li attraversava a nuoto o galleggiando su otri gonfiati: così spesso arrivava prima di coloro che dovevano annunciare il suo arrivo.
( 58 ) Durante le spedizioni non si può dire se fosse più prudente o ardito: non condusse mai il suo esercito per strade insidiose, se prima non aveva ispezionato la natura del terreno; non lo trasportò in Britannia senza aver prima esplorato personalmente i porti, la rotta e i possibili approdi sull'isola.
Al contrario però, quando venne a sapere che alcuni suoi accampamenti erano assediati in Germania, passò attraverso le postazioni nemiche, travestito da Gallo, e raggiunse i soldati.
In pieno inverno fece la traversata da Brindisi a Durazzo, eludendo le flotte nemiche; poiché le truppe, cui aveva ordinato di seguirlo, non si decidevano a partire e più volte aveva inviato solleciti per farle arrivare, alla fine lui stesso, di notte, in gran segreto, salì su una piccola imbarcazione, con il capo coperto, e non si fece riconoscere e non permise al pilota di arrendersi alla tempesta se non quando i flutti minacciarono di travolgerlo.
POCO RELIGIOSO
( 59 ) Nessuno scrupolo religioso gli fece mai abbandonare o differire una sola delle imprese cominciate. Una volta che la vittima gli scappò di mano proprio mentre stava per sacrificarla, non rimandò per niente la sua spedizione contro Scipione e Giuba. Per di più, scivolato mentre saliva sulla nave, volse il presagio in senso favorevole e gridò: «Africa, io ti tengo.»
Però, allo scopo di eludere le predizioni, secondo le quali si diceva che in quella terra, quasi per volontà del destino, il nome degli Scipioni era fortunato e invincibile, tenne presso di sé, nell'accampamento un membro degenere della famiglia dei Cornelii che, per l'infamia della sua condotta, era stato soprannominato «Salvitone».
IMPREVEDIBILE
( 60 ) Attaccava battaglia non tanto ad un'ora stabilita, ma secondo l'occasione e spesso durante la marcia, talvolta nelle peggiori condizioni di tempo, quando nessuno credeva che si sarebbe mosso.
Soltanto negli ultimi tempi si fece più esitante a combattere: pensava infatti che quanto più spesso aveva vinto, tanto meno doveva esporsi al caso e che un'eventuale vittoria non gli avrebbe reso più di quanto avrebbe potuto togliergli una sconfitta.
Non mise mai in fuga il nemico, senza poi aver conquistato il suo accampamento: in tal modo non dava scampo a quelli che già erano in preda al terrore. Quando la battaglia era incerta, faceva allontanare i cavalli, il suo per primo: così costringeva tutti a resistere ad ogni costo, dal momento che aveva sottratto le risorse della fuga.
( 61 ) Aveva un cavallo straordinario, dai piedi simili a quelli di un uomo e con le unghie tagliate a forma di dita: era nato nella sua casa e quando gli aruspici dichiararono che presagiva al suo padrone il dominio del mondo, lo allevò con grande cura e fu il primo a montarlo, perché la bestia non sopportava nessun altro cavaliere. Gli fece anche erigere una statua davanti al tempio di Venere Genitrice.
( 62 ) Spesso da solo riordinò le file sbandate, opponendosi a quelli che fuggivano, trattenendoli uno per uno e afferrandoli alla gola per volgerli verso il nemico. Questo avveniva magari nei confronti di uomini così atterriti che un portatore di insegne lo minacciò con la punta, mentre tentava di fermarlo e un altro, per sfuggirgli, gli lasciò l'insegna tra le mani.
( 63 ) Non certo inferiore fu la sua temerarietà e numerose ne sarebbero le prove. Dopo la battaglia di Farsalo, mandate avanti verso l'Asia le truppe, attraversò lo stretto dell'Ellesponto su una piccola nave da trasporto. Quando incontrò Lucio Cassio, che era del partito avversario, con dieci navi rostrate, si guardò bene dal fuggire, ma, avvicinandosi, lo esortò ad arrendersi spontaneamente e lo accolse a bordo come supplice.
( 64 ) Ad Alessandria, durante l'attacco ad un ponte, una improvvisa sortita del nemico lo obbligò a saltare su una barca, ma poiché un gran numero di soldati ci si buttò contro, si tuffò in mare e, nuotando per duecento passi, si mise in salvo presso la nave più vicina, tenendo alzata la mano sinistra per non bagnare i libri che portava con sé e stringendo fra i denti il suo mantello di generale per non lasciare al nemico una simile spoglia.
( 65 ) Non giudicò mai il soldato né per la sua moralità, né per la sua fortuna, ma soltanto per il suo valore, e lo trattava sia con severità, sia con indulgenza. Non era però esigente sempre e dappertutto, ma solo quando il nemico era vicino: allora, soprattutto, pretendeva la massima disciplina. Non faceva conoscere né l'ora della marcia, né quella del combattimento, ma tenendo l'esercito pronto e all'erta in ogni momento, poteva condurlo subito dove voleva.
A volte lo faceva senza motivo, specialmente nei giorni di pioggia o di festa. Raccomandava alle sue truppe di tenerlo d'occhio, poi improvvisamente spariva, di giorno o di notte, e forzava la marcia per affaticare la colonna che lo seguiva.
( 66 ) Se i suoi soldati erano spaventati per ciò che si diceva a proposito delle truppe nemiche, li rassicurava non certo negando la realtà e minimizzandola, ma, al contrario, esagerandola e aggiungendo menzogne.
Così, quando si accorse che stavano aspettando Giuba in preda allo spavento, radunò tutti i soldati e disse: «Sappiate che nel breve giro di soli tre giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila soldati armati alla leggera e trecento elefanti. Di conseguenza alcuni la smettano di volerne sapere di più o di fare congetture e credano a me che sono bene informato; in caso contrario li farò imbarcare sulla più vecchia delle mie navi ed essi andranno, in balia del vento, verso le terre che potranno raggiungere.»
( 67 ) Non faceva caso a tutti i loro difetti, ai quali non proporzionava mai le punizioni, ma quando scopriva disertori e sediziosi e doveva punirli, allora prendeva in considerazione anche il resto. Non di rado, dopo una grande battaglia, conclusasi con la vittoria, condonato ogni incarico di servizio, concedeva a tutti la possibilità di divertirsi, perché era solito vantarsi che «i suoi soldati potevano combattere valorosamente anche se erano impomatati». Durante le arringhe che rivolgeva loro non li chiamava «soldati», ma con il termine più simpatico di «compagni d'armi».
Li voleva così bene equipaggiati che li dotava di armi rifinite con oro e con argento, sia per salvare l'apparenza, sia perché in battaglia fossero più valorosi, preoccupati dal timore di perderle. In un certo senso li amava a tal punto che quando venne a sapere della strage di Titurio si lasciò crescere la barba e i capelli e se li tagliò soltanto dopo averlo vendicato.
( 68 ) Per tutte queste ragioni li rese fedelissimi alla sua persona, ma anche molto coraggiosi. All'inizio della guerra civile i centurioni di ciascuna legione gli offrirono, di tasca propria, l'equipaggiamento di un cavaliere, mentre tutti i soldati si dichiararono disposti a prestare i propri servizi gratuitamente, senza paga e senza rancio: i più ricchi, poi, si impegnarono al mantenimento dei più poveri.
Durante la guerra così lunga nessuno di loro lo abbandonò mai e quelli che furono fatti prigionieri, quando si videro risparmiata la vita se avessero voluto continuare a combattere contro di lui, per lo più rifiutarono.
Quanto alla fame e alle altre privazioni, non solo quando erano assediati, ma anche quando assediavano, sopportavano tutto con tale coraggio che Pompeo, dopo aver visto nelle trincee di Durazzo un tipo di pane fatto con erba, che serviva loro di nutrimento, disse di avere a che fare con bestie, e lo fece subito sparire senza mostrarlo a nessuno.
Temeva che la tenacia e l'ostinazione del nemico scoraggiasse l'animo dei suoi soldati. Con quanto valore combattessero i soldati di Cesare è dimostrato dal fatto che, dopo essere stati battuti una volta presso Durazzo, essi stessi, spontaneamente, chiesero di essere puniti, tanto che il loro generale dovette impegnarsi più a consolarli che a rimproverarli.
In tutte le altre battaglie vinsero facilmente le forze innumerevoli del nemico, anche se erano inferiori per numero. Infine una sola coorte della sesta legione, posta a difesa di un forte, tenne impegnate per alcune ore quattro legioni di Pompeo, benché quasi tutti gli uomini fossero trafitti dalla quantità delle frecce nemiche, delle quali 130000 furono trovate dentro il vallo.
La cosa non sorprende, se si fa attenzione ad alcuni esempi di eroismo individuale come quelli del centurione Cassio Sceva o del soldato semplice Gaio Acilio, per non citarne altri.
Sceva, colpito ad un occhio, trapassato il femore e l'omero, forato lo scudo da centoventi colpi, continuò a difendere la porta del forte che gli era stata affidata.
Acilio, durante la battaglia navale presso Marsiglia, si vide tagliata la mano destra con cui aveva afferrato la poppa di una nave nemica. Imitando allora il mirabile esempio del greco Cinegiro, saltò sulla nave e respinse con la sporgenza dello scudo quanti gli venivano incontro.
( 69 ) I suoi soldati non si ribellarono mai per tutti i dieci anni che durò la guerra contro i Galli; lo fecero qualche volta durante la guerra civile, ma furono richiamati prontamente all'ordine, non tanto per l'indulgenza del comandante, quanto per la sua autorità.
Infatti non indietreggiò mai davanti ai rivoltosi, ma sempre tenne loro testa. In particolare, presso Piacenza, quando Pompeo era ancora in armi, congedò ignominiosamente tutta quanta la nona legione, e ci vollero molte preghiere perché acconsentisse a ricostituirla, e non senza aver punito i colpevoli.
( 70 ) A Roma, quando i soldati della decima legione reclamarono il congedo e le ricompense con terribili minacce e mettendo la città stessa nel più grande pericolo, proprio nel momento in cui la guerra divampava in Africa, egli non esitò a presentarsi davanti a loro, nonostante il parere contrario degli amici, e a congedarli.
Gli fu sufficiente una sola parola, li chiamò «Quiriti», invece di «soldati», per calmarli e dominarli facilmente: gli risposero infatti che erano soldati e che, nonostante il suo rifiuto, spontaneamente lo avrebbero seguito in Africa. Ciò non gli impedì di togliere ai più sediziosi un terzo del bottino e della terra che era stata loro destinata.
( 71 ) Il suo attaccamento ed il suo zelo nei riguardi dei suoi clienti non erano mai venuti meno, nemmeno durante la sua giovinezza. Ci mise tanto entusiasmo a difendere contro il re Iempsale il nobile giovane Masinta che, prendendo da parte Giuba, il figlio di quel re, lo afferrò per la barba, e quando il suo protetto fu dichiarato tributario non solo lo sottrasse a quelli che volevano arrestarlo, tenendolo nascosto per molto tempo in casa sua, ma più tardi, quando, deposta la carica di questore, si accingeva a partire per la Spagna, lo fece passare tra gli amici venuti a salutarlo e tra i suoi littori, e lo condusse nella sua stessa lettiga.
( 72 ) Trattò sempre gli amici con generosità e indulgenza. Una volta, vedendo che Gaio Oppio, suo compagno di viaggio, si era improvvisamente ammalato proprio nel mezzo della foresta, gli cedette l'unico modesto alloggio trovato, e si adattò a dormire per terra, all'aria aperta.
Quando già si era impadronito del potere, elevò alle più alte cariche anche uomini di infima condizione e, poiché di questo lo rimproveravano, dichiarò pubblicamente che se «per difendere il proprio onore avesse dovuto servirsi dell'aiuto di banditi e di assassini, anche a costoro avrebbe dimostrato uguale riconoscenza».
( 73 ) Di pari passo, al contrario, non conservò mai rancori molto profondi e, quando si presentava l'occasione, volentieri li deponeva. Alle violente orazioni di Gaio Memmio contro di lui aveva risposto con non minor livore, e tuttavia più tardi giunse anche a sostenere la sua candidatura al Senato. Per primo, e spontaneamente, scrisse a Gaio Calvo che, dopo averlo diffamato con i suoi epigrammi, aveva chiesto l'aiuto di alcuni amici per riconciliarsi con lui.
Valerio Catullo, con i suoi versi su Mamurra, gli aveva impresso un indelebile marchio di infamia e Cesare ben lo sapeva, ma quando il poeta volle chiedergli scusa, lo invitò a cena il giorno stesso e non cessò, come ormai era abituato, le relazioni di ospitalità con suo padre.
( 74 ) Anche nella vendetta manifestò la bontà della sua indole. Quando fece prigionieri i pirati che lo avevano catturato, poiché in precedenza aveva loro promesso che li avrebbe impiccati, ordinò che prima fossero sgozzati e poi appesi. Una volta, malato e proscritto, con fatica era sfuggito alle insidie notturne di Cornelio Fagita, pagando una somma per non essere consegnato a Silla: tuttavia in seguito non si decise mai a fargli del male.
Lo schiavo Filemone suo segretario, aveva promesso ai suoi nemici di avvelenarlo: egli lo fece mettere a morte, ma non lo torturò. Quando fu chiamato a testimoniare contro Publio Clodio, l'amante di sua moglie Pompcia, accusato, per la stessa ragione, di sacrilegio, dichiarò di non sapere niente, benché sua madre Aurelia e sua sorella Giulia, davanti agli stessi giudici, avessero detto tutta la verità. Quando poi gli chiesero perché mai avesse ripudiato la moglie, rispose: «Perché, a mio avviso, tutti i miei parenti devono essere esenti tanto da sospetti quanto da colpe.»
( 75 ) Diede prova di moderazione e di ammirevole clemenza, sia nella conduzione della guerra civile, sia nell'uso della vittoria. Pompeo dichiarò che avrebbe considerato nemici tutti quelli che si fossero rifiutati di difendere lo Stato. Cesare proclamò che avrebbe annoverato fra i suoi amici sia gli indifferenti sia i neutrali.
Tutti coloro ai quali aveva conferito i gradi su raccomandazione di Pompeo furono lasciati liberi di passare al nemico. Presso Ilerda, Afranio e Petreio avevano avviato trattative di resa e tra le due armate si erano stabilite fitte relazioni di affari; tutto ad un tratto, presi dai rimorsi, fecero massacrare i soldati di Cesare sorpresi nel loro accampamento.
CESARE DETTA I COMMENTARII |
E pare che non siano stati uccisi per sua volontà; i primi due, ad ogni modo, avevano ripreso le armi dopo aver ottenuto il perdono e il terzo, non contento di aver selvaggiamente trucidato col ferro e col fuoco i liberti e gli schiavi di Cesare, aveva anche fatto sgozzare le bestie acquistate per uno spettacolo pubblico.
Infine, negli ultimi tempi, anche tutti coloro ai quali non aveva ancora concesso il perdono, ebbero l'autorizzazione a ritornare in Italia e a esercitare le magistrature e i comandi; fece rimettere ai loro posti le statue di Silla e di Pompeo che il popolo aveva abbattuto. In seguito preferì scoraggiare, piuttosto che punire coloro i cui pensieri e le cui parole gli erano ostili.
Così, quando scoprì congiure e riunioni notturne, si limitò a rendere noto con un editto che ne era al corrente. Nei confronti di coloro che lo criticavano aspramente si accontentò di ammonirli in pubblica assemblea a non insistere troppo. Sopportò con signorilità che la sua reputazione fosse offesa da un violentissimo libro di Aulo Cecina e dai versi particolarmente ingiuriosi di Pitolao.
( 76 ) Purtroppo altri suoi atti e altri suoi discorsi fecero pendere la bilancia a suo sfavore a tal punto da credere che abbia abusato del suo potere e che abbia meritato di essere ucciso. Infatti non solo accettò onori eccessivi, come il consolato a vita, la dittatura e la prefettura dei costumi in perpetuo, senza contare il titolo di «imperatore», il soprannome di «padre della Patria», la statua in mezzo a quelle dei re, un palco nell'orchestra, ma permise anche che gli venissero attribuite prerogative più grandi della sua condizione umana: un seggio dorato in Senato e davanti al tribunale, un carro e un vassoio nelle processioni del circo, templi, altari, statue a fianco di quelle degli Dei, un letto imperiale, un flamine Luperco, con il suo nome venne chiamato un mese e per di più non vi furono cariche che egli non abbia preso e assegnato a suo piacimento.
Del terzo e del quarto consolato tenne soltanto il titolo e si accontentò del potere dittatoriale conferitogli insieme con i consolati, ma in quei due anni designò due consoli supplenti per gli ultimi tre mesi; in tal modo nell'intervallo non indisse altre elezioni se non quelle degli edili e dei tribuni della plebe, e nominò prefetti propretori, incaricati di amministrare la città in sua assenza.
La morte improvvisa di un console, avvenuta il giorno prima delle calende di gennaio, lasciò vacante per qualche ora la carica che subito conferì a chi la chiedeva. Con la stessa disinvoltura, in spregio alla tradizione consacrata, attribuì magistrature per più anni, accordò gli ornamenti consolari a dieci pretori anziani, concesse il diritto di cittadinanza e fece entrare in Senato alcuni Galli semibarbari.
Inoltre affidò il Tesoro e i redditi pubblici ai suoi servi personali. Lasciò la cura e il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria a Rufione, figlio di un suo liberto e suo favorito.
( 77 ) Come scrive Tito Ampio, teneva pubblicamente discorsi che rivelavano non minore imprudenza:
«La Repubblica non è che un nome vano, senza consistenza e senza realtà.»
«Silla, quando rinunciò alla dittatura, fu uno sprovveduto.»
«Bisogna ormai che gli uomini mi parlino con più rispetto, che considerino legge quello che dico.»
Arrivò ad un punto tale di arroganza che quando un aruspice annunciò che i presagi erano funesti e le vittime senza cuore, disse che «sarebbero stati più lieti quando lui lo avesse voluto e che non si doveva considerare un prodigio il fatto che una bestia manchi di cuore».
( 78 ) Ma ciò che suscitò contro di lui un odio profondo e mortale fu soprattutto questo. Un giorno tutto il corpo del Senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i più alti onori: egli lo ricevette davanti al tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi.
Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno, ma che al contrario guardò con aria severa Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi.
Questo suo modo di comportarsi apparve assolutamente intollerabile e lui stesso, passando su un carro di trionfo davanti ai seggi dei tribuni e vedendo che, di tutto il collegio, solo Panzio Aquila se ne stava seduto, pieno di indignazione gridò: «Tribuno Aquila, richiedimi dunque la Repubblica.»
Per più giorni, in seguito, quando faceva qualche promessa a qualcuno, non mancò di aggiungere: «Sempre se Aquila lo permette.»
( 79 ) A così grande disprezzo per il Senato, aggiunse una arroganza ben più grave. Infatti, mentre ritornava dalle feste latine tra acclamazioni eccessive ed insolite del popolo, uno della folla impose sulla sua statua una corona di lauro legata con un nastro bianco; allora i tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavo ordinarono di togliere il nastro alla corona e di mettere in prigione l'autore del gesto.
Cesare, però, furente, sia perché l'allusione alla regalità aveva ottenuto così scarso successo, sia perché, come pretendeva, gli era stata tolta la gloria di rifiutare il regno, rimproverò severamente i tribuni e li destituì dalla carica.
Da allora non riuscì più a far cadere il sospetto infamante di aver aspirato anche al titolo di re, sebbene un giorno al popolo che lo salutava con il nome di re, avesse risposto di essere Cesare e non re e durante i Lupercali, davanti ai rostri, avesse rifiutato la corona che il console Antonio, a più riprese, aveva avvicinato alla sua testa; la fece portare, invece, in Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo.
Inoltre, secondo diverse voci correnti, si accingeva a partire per Alessandria o per Troia, portando con sé le ricchezze dell'Impero, dopo aver spogliato l'Italia a furia di leve e aver affidato agli amici l'amministrazione di Roma; per di più, alla prima seduta del Senato, il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe avanzato la proposta di conferire a Cesare il titolo di re, perché nei libri sibillini era scritto che i Parti potevano essere sconfitti solo da un re.
( 80 ) Fu questo il motivo che indusse i congiurati ad attuare il loro progetto, per non essere costretti a dare il loro assenso alla proposta. Allora fusero in un solo i piani, fino a quel momento distinti, che avevano elaborato in gruppi di due o tre persone: anche il popolo non era più contento del regime in corso, ma, di nascosto o apertamente, denigrava il tiranno e reclamava chi lo liberasse.
All'indirizzo degli stranieri ammessi in Senato, fu pubblicato questo biglietto: «Buona fortuna! Che nessuno si prenda la briga di indicare la strada della curia ad un nuovo senatore»; dappertutto, poi, si cantava così: «Cesare conduce in trionfo i Galli, li conduce in Senato; I Galli hanno abbandonato i calzoni e indossato il laticlavio.» Quando in teatro un littore ordinò di annunciare l'entrata di Quinto Massimo, nominato console supplente per tre mesi, tutti gli spettatoti in coro gridarono che quello non era console.
Durante le elezioni che seguirono alla revoca di Cesezio e Marullo si trovarono numerosi voti che li designavano come consoli. Alcuni scrissero sul basamento della statua di Lucio Bruto: «Oh, se fossi ancora vivo!», e su quella dello stesso Cesare: «Bruto fu eletto console per primo perché aveva scacciato i re. Costui, perché ha scacciato i consoli, alla fine è stato fatto re».
Più di sessanta cittadini cospirarono contro di lui, guidati da Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto. I congiurati erano indecisi, in un primo tempo, se assassinarlo al Campo di Marte, durante le elezioni, quando egli avrebbe chiamato i tribuni a votare: allora alcuni lo avrebbero fatto cadere dal ponte, e altri lo avrebbero atteso giù, per sgozzarlo; oppure se assalirlo sulla via Sacra, o ancora mentre entrava in teatro. Quando però fu fissato che il Senato si sarebbe riunito alle idi di marzo nella curia di Pompeo, non ci furono difficoltà sulla scelta di quella data e di quel luogo.
( 81 ) Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua.
La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell'Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare.
Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al Dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l'aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo».
Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d'un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole.
In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po', verso la quinta ora uscì.
Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.
L'ASSASSINIO DI CESARE |
Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con il suo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un'altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l'orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: «Anche tu, figlio?», Privo di vita, mentre tutti fuggivano, rimase lì per un po' di tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva in fuori, fu portato a casa, da tre servi.
Secondo il referto del medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in, pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell'ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del maestro dei cavalieri Lepido.
( 83 ) Su richiesta del suocero Lucio Pisone, fu aperto il suo testamento che venne letto nella casa di Antonio. Cesare lo aveva redatto alle ultime idi di settembre, nella sua proprietà di Lavico e lo aveva poi affidato alla Grande Vergine Vestale. Quinto Tuberone riferisce che egli non aveva mai cessato, dal suo primo consolato fino all'inizio della guerra civile, di designare come suo erede Cneo Pompeo e che davanti all'assemblea dei soldati aveva letto un testamento concepito in tal senso.
In questo ultimo documento, però, nominò suoi eredi i tre nipoti delle sue sorelle, Gaio Ottavio per i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per il quarto rimanente; come codicillo dichiarava di adottare Gaio Ottavio, dandogli il proprio nome; molti dei suoi assassini erano designati come tutori dei figli che potevano nascere da lui, mentre Decimo Bruto era presente fra gli eredi di seconda linea. Assegnò al popolo, collettivamente, i suoi giardini in prossimità del Tevere e trecento sesterzi a testa.
( 84 ) Quando venne stabilita la data del funerale, fu eretto il rogo nel Campo di Marte, presso la tomba di Giulia e si costruì in vicinanza dei rostri una cappella dorata sul modello del tempio di Venere Genitrice: all'interno fu collocato un letto d'avorio ricoperto di porpora e d'oro e alla sua testata fu posto un trofeo con gli abiti che indossava al momento della morte.
Poiché il giorno non sembrava abbastanza lungo per permettere la sfilata di tutti coloro che portavano i loro doni, si ordinò che ciascuno, senza osservare nessun ordine, li depositasse nel Campo di Marte, seguendo l'itinerario che preferiva. Durante i funerali furono cantati inni di commiserazione per Cesare e di odio per i suoi assassini, modellati su quelli del «Giudizio delle armi» di Pacuvio: «Li ho forse salvati perché divenissero i miei assassini», ed altri di senso analogo, tolti dall'Elettra di Atilio.
Come elogio funebre il console Antonio fece leggere da un araldo il decreto del Senato con il quale gli erano stati conferiti simultaneamente onori divini ed umani, e nello stesso tempo il giuramento con il quale tutti si erano impegnati a difendere la vita del solo Cesare. A tutto questo, di suo, aggiunse solo poche parole. Il letto funebre fu portato al foro, davanti ai rostri dai magistrati in carica e già usciti di carica.
Alcuni volevano che lo si cremasse nel santuario di Giove Capitolino, altri invece nella curia di Pompeo, ma improvvisamente due uomini con i gladi alla cintura, tenendo due giavellotti tra le mani, appiccarono il fuoco con torce ardenti; subito la folla dei presenti gettò sopra il rogo legna secca, panchetti, i sedili dei giudici e tutti i doni che poteva trovare.
In seguito sonatori di flauto e attori, spogliatisi degli abiti che, già usati in occasione dei trionfi di Cesare, avevano indossato per la presente circostanza, li strapparono e li gettarono sulle fiamme. I veterani delle sue legioni vi gettarono le armi con le quali si erano parati per il funerale. Anche molte matrone gettarono sulla pira i gioielli che portavano indosso e le bolle d'oro e le preteste dei loro figli.
Oltre a queste grandiose manifestazioni di dolore pubblico, le colonie di stranieri, ciascuna a suo modo, espressero separatamente il proprio cordoglio, soprattutto i Giudei che, anche nelle notti successive, si riunirono attorno alla sua tomba.
( 85 ) Appena ebbe termine il rito funebre, la plebe si diresse, con le torce, verso la casa di Bruto e di Cassio; respinta a fatica si imbatté in Elvio Cinna e scambiandolo, per un equivoco di nome, con Cornelio, quello che il giorno prima aveva pronunciato una violenta requisitoria contro Cesare, lo uccise e la sua testa, conficcata su una lancia, fu portata in giro.
Più tardi fece erigere nella piazza una massiccia colonna di marmo di Numidia, alta quasi venti piedi, e vi scrisse sopra: «Al padre della patria». Si conservò per lungo tempo l'abitudine di offrire sacrifici ai piedi di questa colonna, di prendere voti e di regolare certe controversie giurando in nome di Cesare.
( 86 ) Ad alcuni suoi amici Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute. Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli amici. Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell'ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio.
Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente. Dicono che fosse solito ripetere che «non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua salvezza; per quanto lo riguardava già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un'altra guerra civile».
( 87 ) Su una cosa tutti furono d'accordo, che in un certo senso aveva incontrato la morte che aveva desiderato. Infatti una volta, avendo letto in Senofonte che Ciro, durante la sua ultima malattia, aveva dato alcune disposizioni per il suo funerale, manifestò la sua ripugnanza per un genere di morte così lento e se ne augurò uno rapido. Il giorno prima di morire, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato.
( 88 ) Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli Dei, non per formalità da parte di coloro che lo decisero, ma per intima convinzione del popolo. In realtà, durante i primi giochi che Augusto, suo erede, celebrava in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo verso l'undicesima ora e si sparse la voce che fosse l'anima di Cesare accolta in cielo.
Anche per questo si aggiunse una stella alla sommità della sua statua. Si stabilì di murare la curia in cui era stato ucciso, di chiamare le idi di marzo «giorno del parricidio» e di sospendere in quella ricorrenza i lavori del Senato.
( 89 ) Quanto ai suoi assassini, nessuno gli sopravvisse più di tre anni e nessuno morì di morte naturale. Tutti, dopo essere stati condannati, per un verso o per l'altro, morirono in modo tragico, chi per naufragio, chi in battaglia. Alcuni poi si uccisero con lo stesso pugnale con il quale avevano assassinato Cesare.
VEDI ANCHE: SVETONIO
BIBLIO
- Svetonio Tranquillo - CESARE - LIBRO I ( PARAGRAFI 1-40 ) -
- Svetonio Tranquillo - CESARE - LIBRO I ( PARAGRAFI 41-89 ) -
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