L'inizio della letteratura a Roma deve essere data dalla riduzione degli Stati greci, quando i conquistatori importati nel proprio paese le produzioni di valore della lingua greca, e il primo saggio del genio romano era in composizione drammatica. Livio Andronico, che visse circa 240 anni prima aera cristiana, ha costituito la Fescennine versi in una sorta di dramma regolare, sul modello dei Greci.
Egli è stato seguito qualche tempo dopo da Ennio, che, oltre a composizioni drammatiche e altri, ha scritto negli annali della Repubblica Romana in versi eroici. Il suo stile, come quella di Andronico, era ruvido e grezzo, in conformità al linguaggio di quei tempi, ma per la grandezza del sentimento e l'energia di espressione, fu ammirato dai più grandi poeti nelle epoche successive. Altri scrittori di fama illustri nel reparto drammatici sono stati Nevio, Pacuvio, Plauto, Afranio, Cecilio, Terenzio, Accio, ecc
Accio e Pacuvio sono citati da Quintiliano come scrittori di straordinario pregio. Di 25 commedie scritte da Plauto, il numero trasmesso ai posteri è diciannove, e di cento e otto che si dice Terenzio aver tradotto da Menandro, ora ci rimangono solo sei. Salvo pochi frammenti trascurabile, gli scritti di tutti gli altri autori sono morti.
Il primo periodo della letteratura romana si distinse per l'introduzione di satira da Lucilio, un autore celebre per aver scritto con notevole facilità, ma le cui composizioni, a parere di Orazio, Quintiliano se la pensa diversamente, sono stati degradati con una miscela di acezie. Qualunque sia stato il loro merito, hanno anche periti, con le opere di un certo numero di oratori, che adorna lo stato di avanzamento delle lettere nella Repubblica romana.
E 'osservabile, che durante tutto questo periodo, di quasi due secoli e mezzo, non ci è apparso uno storico eminente sufficiente a preservare il suo nome dall'oblio. Giulio Cesare è uno degli scrittori più eminenti dell'epoca in cui visse. I suoi commenti sulla Guerra gallica e civile sono scritti con una, purezza, precisione e chiarezza, che l'approvazione di comando.
E 'osservabile, che durante tutto questo periodo, di quasi due secoli e mezzo, non ci è apparso uno storico eminente sufficiente a preservare il suo nome dall'oblio. Giulio Cesare è uno degli scrittori più eminenti dell'epoca in cui visse. I suoi commenti sulla Guerra gallica e civile sono scritti con una, purezza, precisione e chiarezza, che l'approvazione di comando.
Sono eleganti senza affettazione, e bella senza ornamento. Dei due libri che ha composto per Analogia, e quelli sotto il titolo di anti-Catone, appena qualche frammento è conservato, ma possiamo essere certi della giustezza delle osservazioni sul linguaggio, che sono state fatte da un autore tanto distingue per l'eccellenza delle sue composizioni. Il suo poema intitolato Il Viaggio, che probabilmente era un racconto divertente, è anche totalmente persa.
CICERONE
CICERONE
Il più illustre prosatore di questa o di qualsiasi altra epoca è Marcus Tullius Cicerone; e siccome la sua vita è copiosamente raccontata in opere biografiche, basterà citare i suoi scritti. Fin dai primi anni si dedicò con assiduità incessante alla coltivazione della letteratura e, quando era ancora un ragazzo, scrisse una poesia, chiamata "Glauco Ponzio", che esisteva al tempo di Plutarco.
Tra le sue produzioni giovanili c'era una traduzione in versi latini, di Arato sui "Fenomeni dei Cieli"; di cui esistono ancora molti frammenti. Pubblicò anche un poema di genere eroico, in onore del suo compatriota Caio Mario, nato ad Arpinum, città natale di Cicerone. Questa produzione fu molto ammirata da Atticus; e tanto se ne compiacque il vecchio Scevola, che in un epigramma scritto sull'argomento dichiara che vivrebbe finché sussistessero il nome romano e l'erudizione.
Richiedeva, tuttavia, che lo scrittore esercitasse la sua comprensione con uguale imparzialità e acutezza sui diversi lati della questione; altrimenti potrebbe tradire una causa sotto l'apparenza di difenderla. In tutti i dialoghi di Cicerone egli gestisce gli argomenti dei vari disputanti in maniera non solo la più giusta e interessante, ma anche tale da condurre alla conclusione più probabile e razionale.
MORTE DI CICERONE
La morte di Cicerone, che oramai all’età di 63 anni si teneva abbastanza lontano dalla vita politica di Roma, avvenne un anno dopo la morte di Giulio Cesare. Proprio all’assassinio da parte di Bruto e degli altri congiurati è collegata l’uccisione del grande oratore ciociaro. Saliti al potere Marco Antonio e Ottaviano, che si sentivano entrambi eredi politici (Ottaviano anche familiare) del grande dittatore romano, cercarono subito di vendicare la morte di Giulio Cesare.
Tra le sue produzioni giovanili c'era una traduzione in versi latini, di Arato sui "Fenomeni dei Cieli"; di cui esistono ancora molti frammenti. Pubblicò anche un poema di genere eroico, in onore del suo compatriota Caio Mario, nato ad Arpinum, città natale di Cicerone. Questa produzione fu molto ammirata da Atticus; e tanto se ne compiacque il vecchio Scevola, che in un epigramma scritto sull'argomento dichiara che vivrebbe finché sussistessero il nome romano e l'erudizione.
Da un piccolo esemplare che ne resta, che descrive un memorabile presagio dato a Mario da una quercia ad Arpinum, c'è ragione di credere che il suo genio poetico non sarebbe stato inferiore al suo oratorio, se fosse stato coltivato con uguale operosità. Pubblicò un altro poema chiamato "Limone", di cui Donato ha conservato quattro versi nella vita di Terenzio, in lode dell'eleganza e della purezza dello stile di quel poeta.
Compose in lingua Greca, e nello stile e nel modo di Isocrate, un Commento o Memorie delle Operazioni del suo Consolato. Lo mandò ad Attico, con il desiderio, se lo approvava, di pubblicarlo in Atene e nelle città della Grecia. Ne mandò una copia similmente a Posidonio di Rodi, e gli chiese di intraprendere lo stesso soggetto in modo più elegante e magistrale. Ma quest'ultimo tornò per rispondere che, invece di essere incoraggiato a scrivere dalla lettura del suo trattato, fu del tutto dissuaso dal tentarlo.
In mezzo a tutta l'ansia per gli interessi della Repubblica, che occupava i pensieri di questo celebre personaggio, trovò ancora agio di scrivere parecchi trattati filosofici, che ancora sussistono, con gratificazione del mondo letterario. Compose un trattato sulla natura degli Dei, in tre libri, contenente una visione completa di religione, fede, giuramenti, cerimonie, ecc.
Compose in lingua Greca, e nello stile e nel modo di Isocrate, un Commento o Memorie delle Operazioni del suo Consolato. Lo mandò ad Attico, con il desiderio, se lo approvava, di pubblicarlo in Atene e nelle città della Grecia. Ne mandò una copia similmente a Posidonio di Rodi, e gli chiese di intraprendere lo stesso soggetto in modo più elegante e magistrale. Ma quest'ultimo tornò per rispondere che, invece di essere incoraggiato a scrivere dalla lettura del suo trattato, fu del tutto dissuaso dal tentarlo.
Sul disegno di quelle Memorie compose poi un poema latino in tre libri, nei quali trasmise la storia fino alla fine del suo esilio, ma non lo pubblicò per molti anni, per motivi di delicatezza. I tre libri furono inscritti separatamente alle tre Muse; ma di quest'opera rimangono ora solo pochi frammenti, sparsi in diverse parti degli altri suoi scritti.
Pubblicò, più o meno nello stesso tempo, una raccolta dei principali discorsi che aveva fatto nel suo consolato, sotto il titolo delle sue Orazioni consolari. In origine erano dodici; ma quattro sono del tutto perdute, e alcune delle altre sono imperfette.
Ora pubblicò anche, in versi latini, una traduzione dei "Prognostici di Arato", della cui opera non rimangono più di due o tre piccoli frammenti. Pochi anni dopo, diede l'ultima mano ai suoi "Dialoghi" sul carattere e l'idea del perfetto Oratore. Quest'opera ammirevole resta intera; un monumento sia alla capacità di stupire che alle capacità trascendenti del suo autore. Nella sua villa cumana iniziò poi un "Trattato sulla politica", o sul miglior stato di una città, e sui doveri di un cittadino.
La chiama opera grande e laboriosa, ma degna delle sue pene, se è ben riuscito. Anche questo fu scritto sotto forma di un dialogo, in cui gli oratori erano Scipione, Lelio, Filo, Manilio e altri grandi personaggi nei tempi antichi della Repubblica.
Era composto da sei libri e gli è sopravvissuto per diverse epoche, anche se ora purtroppo è andato perduto. Dai frammenti che rimangono, sembra essere stata una produzione magistrale, in cui tutte le questioni importanti della politica e della morale sono state discusse con eleganza e precisione.
In mezzo a tutta l'ansia per gli interessi della Repubblica, che occupava i pensieri di questo celebre personaggio, trovò ancora agio di scrivere parecchi trattati filosofici, che ancora sussistono, con gratificazione del mondo letterario. Compose un trattato sulla natura degli Dei, in tre libri, contenente una visione completa di religione, fede, giuramenti, cerimonie, ecc.
Nel chiarire questo importante argomento, non solo fornisce le opinioni di tutti i filosofi che avevano scritto qualsiasi cosa a riguardo, ma soppesa e confronta attentamente tutti gli argomenti tra loro; formando nel complesso un tale sistema razionale e perfetto di religione naturale, come mai prima era stato presentato alla considerazione dell'umanità, e si avvicinava quasi alla rivelazione.
Tali sono le produzioni letterarie di quest'uomo straordinario, la cui capacità di comprensione gli ha permesso di condurre con superiore abilità le più astruse disquisizioni nella scienza morale e metafisica. Nato in età posteriore a Socrate e Platone, non poteva anticipare i princìpi inculcati da quei divini filosofi, ma ha giustamente diritto alla lode, non solo di aver perseguito con infallibile giudizio i passi che essi avevano calpestato prima di lui, ma di portare le sue ricerche in misura maggiore nelle regioni più difficili della filosofia.
Ora compose anche in due libri un discorso sulla Divinazione, in cui discute ampiamente tutti gli argomenti che possono essere avanzati a favore e contro l'effettiva esistenza di una tale specie di conoscenza. Come le opere precedenti, è scritto in forma di dialogo e in cui l'oratore principale è Lelio. Nello stesso periodo nacque il suo trattato sulla Vecchiaia, chiamato Catone Maggiore; e quello sull'Amicizia, scritto anche in dialogo, e in cui l'oratore principale è Lelio.
Questo libro, considerato solo come un saggio, è una delle produzioni più divertenti dell'antichità; ma, visto come un quadro tratto dal vero che mostra i veri caratteri e sentimenti di uomini della prima distinzione per virtù e saggezza nella Repubblica Romana, diventa doppiamente interessante per ogni lettore di osservazione e di gusto.
Cicerone scrisse ora anche il suo discorso sul Fato, che fu oggetto di conversazione con Irtio, nella sua villa vicino a Puteoli; ed eseguì più o meno nello stesso tempo una traduzione del celebre "Dialogo di Platone", chiamato "Timeo", sulla natura e l'origine dell'universo.
Si occupava anche di una storia dei suoi tempi, o meglio della propria condotta; pieno di libere e severe riflessioni su coloro che avevano abusato del loro potere per l'oppressione della Repubblica. Dione Cassio dice di aver consegnato questo libro sigillato a suo figlio, con l'ordine severo di non leggerlo o pubblicarlo fino a dopo la sua morte; ma da questo momento non vide mai suo figlio, ed è probabile che abbia lasciato l'opera incompiuta.
In seguito, però, ne furono fatte circolare alcune copie; dal quale il suo commentatore, Asconius, ha citato diversi particolari. Durante un viaggio che intraprese in Sicilia, scrisse il suo trattato sugli argomenti, o l'arte di trovare argomenti su qualsiasi questione. Questo era un estratto dal trattato di Aristotele sullo stesso argomento; e quantunque non avesse nè Aristotele nè altro libro che l'assistesse, lo trasse dalla sua memoria, e lo finì navigando lungo la costa della Calabria.
L'ultima opera composta da Cicerone sembra essere stata i suoi Uffici, scritti ad uso del figlio, al quale è indirizzata. Questo trattato contiene un sistema di condotta morale, fondato sui più nobili principi dell'azione umana, e raccomandato da argomenti tratti dalle fonti più pure della filosofia.
Tali sono le produzioni letterarie di quest'uomo straordinario, la cui capacità di comprensione gli ha permesso di condurre con superiore abilità le più astruse disquisizioni nella scienza morale e metafisica. Nato in età posteriore a Socrate e Platone, non poteva anticipare i princìpi inculcati da quei divini filosofi, ma ha giustamente diritto alla lode, non solo di aver perseguito con infallibile giudizio i passi che essi avevano calpestato prima di lui, ma di portare le sue ricerche in misura maggiore nelle regioni più difficili della filosofia.
Anche questo ebbe il merito di svolgere, né nella carica di privato cittadino, né nell'ozio del pensionamento accademico, ma nel trambusto della vita pubblica, tra gli sforzi quasi costanti del foro, l'impiego del magistrato, il dovere del senatore, e le incessanti cure dello statista; per un periodo parimenti nella Repubblica a scacchi di afflizioni domestiche e di fatali tumulti.
Come filosofo, la sua mente sembra essere stata chiara, capiente, penetrante e insaziabile di conoscenza. Come scrittore, era dotato di ogni talento che potesse affascinare sia il giudizio che il gusto. Le sue ricerche furono continuamente impiegate su argomenti di massima utilità per l'umanità, e quelli che spesso si estendevano oltre i limiti angusti dell'esistenza temporale.
L'essere di un Dio, l'immortalità dell'anima, uno stato futuro di ricompense e punizioni e l'eterna distinzione del bene e del male; questi erano in generale i grandi oggetti delle sue ricerche filosofiche, e li ha posti in un punto di vista più convincente di quanto non fossero mai stati esibiti prima al mondo pagano.
La varietà e la forza degli argomenti che avanza, lo splendore della sua dizione e lo zelo con cui si sforza di suscitare l'amore e l'ammirazione della virtù, concorrono a porre il suo carattere di scrittore filosofico, compresa la sua incomparabile eloquenza , al vertice della celebrità umana. La forma del dialogo, tanto usata da Cicerone, adottò senza dubbio a imitazione di Platone, che probabilmente ne trasse spunto dal metodo colloquiale di insegnamento praticato da Socrate.
Nella prima fase dell'indagine filosofica, questo modo di composizione era ben adattato, se non alla scoperta, almeno alla conferma della verità morale; tanto più che allora la pratica non era rara, per uomini speculativi di conversare insieme su argomenti importanti, per reciproca informazione.
Trattando di qualsiasi argomento rispetto al quale le diverse sette di filosofi differivano tra loro in termini di sentimenti, nessun tipo di composizione potrebbe essere più felicemente adatto del dialogo, poiché dava alternativamente pieno spazio agli argomenti dei vari disputanti.
Richiedeva, tuttavia, che lo scrittore esercitasse la sua comprensione con uguale imparzialità e acutezza sui diversi lati della questione; altrimenti potrebbe tradire una causa sotto l'apparenza di difenderla. In tutti i dialoghi di Cicerone egli gestisce gli argomenti dei vari disputanti in maniera non solo la più giusta e interessante, ma anche tale da condurre alla conclusione più probabile e razionale.
CICERONE VISITA LA TOMBA DI ARCHIMEDE |
Dopo aver enumerato i vari trattati composti e pubblicati da Cicerone, dobbiamo ora menzionare le sue "Lettere", che, sebbene non scritte per la pubblicazione, meritano di essere annoverate tra i resti più interessanti della letteratura romana.
Il numero di quelli che sono indirizzati a diversi corrispondenti è considerevole, ma quelli al solo Atticus, suo amico confidenziale, ammontano a più di quattrocento; tra cui molti di grande lunghezza. Sono tutte scritte nello spirito genuino della più approvata composizione epistolare; unendo la familiarità con l'elevazione e la facilità con l'eleganza.
Mostrano in bella luce il carattere dell'autore nelle relazioni sociali della vita; come un caro amico, un mecenate zelante, un tenero marito, un fratello affettuoso, un padre indulgente e un padrone gentile. Vedendoli in una visione più ampia, mostrano un ardente amore per la libertà e la costituzione del suo paese: scoprono uno spirito fortemente mosso dai principi della virtù e della ragione; e mentre abbondano nei sentimenti più giudiziosi e filosofici, sono occasionalmente mescolati con gli incanti dell'arguzia, e con piacevoli effusioni di allegria.
Ciò che non è del pari un'aggiunta non da poco al loro merito, contengono descrizioni molto interessanti della vita privata, con una varietà di informazioni relative alle transazioni pubbliche e ai personaggi di quell'epoca. Dalla corrispondenza di Cicerone risulta che in quel tempo vi fosse un numero di illustri romani, come mai prima d'ora esisteva in nessun periodo della Repubblica.
Mostrano in bella luce il carattere dell'autore nelle relazioni sociali della vita; come un caro amico, un mecenate zelante, un tenero marito, un fratello affettuoso, un padre indulgente e un padrone gentile. Vedendoli in una visione più ampia, mostrano un ardente amore per la libertà e la costituzione del suo paese: scoprono uno spirito fortemente mosso dai principi della virtù e della ragione; e mentre abbondano nei sentimenti più giudiziosi e filosofici, sono occasionalmente mescolati con gli incanti dell'arguzia, e con piacevoli effusioni di allegria.
Ciò che non è del pari un'aggiunta non da poco al loro merito, contengono descrizioni molto interessanti della vita privata, con una varietà di informazioni relative alle transazioni pubbliche e ai personaggi di quell'epoca. Dalla corrispondenza di Cicerone risulta che in quel tempo vi fosse un numero di illustri romani, come mai prima d'ora esisteva in nessun periodo della Repubblica.
Se mai, dunque, l'autorità degli uomini più rispettabili per virtù, grado e capacità, avrebbe potuto valere a sgomentare i primi tentativi di violazione della pubblica libertà, doveva essere in questo periodo; poiché la dignità del senato romano era ormai all'apice del suo splendore. Cicerone è stato accusato di eccessiva vanità, e di arrogarsi una odiosa superiorità, per i suoi straordinari talenti, ma chi legge le sue lettere ad Attico deve prontamente riconoscere, che questa imputazione sembra priva di verità.
In quelle eccellenti produzioni, sebbene adduca gli argomenti più forti a favore e contro qualsiasi oggetto di considerazione, che l'intelletto più penetrante può suggerire, li soppesa l'uno con l'altro e ne trae le conclusioni più razionali, tuttavia scopre una tale diffidenza nel suo propria opinione, che si rassegni implicitamente al giudizio e alla direzione dell'amico; un pudore poco compatibile con l'indole degli arroganti, che sono comunemente tenaci della propria opinione, particolarmente in ciò che si riferisce a qualsiasi decisione dell'intelletto.
È difficile dire se Cicerone appaia nelle sue lettere più grande o amabile: ma che fu considerato dai suoi contemporanei in ambedue queste luci, e ciò anche nel più alto grado, è sufficientemente evidente.
Possiamo quindi dedurre che i grandi poeti dell'età successiva dovessero aver fatto violenza alla propria liberalità e discernimento, quando, in complimento ad Augusto, la cui sensibilità sarebbe stata ferita dalle lodi di Cicerone, e anche dalla menzione della sua nome, hanno così diligentemente evitato l'argomento, da non concedere la più lontana indicazione che questo oratore e filosofo immortale fosse mai esistito.
Livio però, c'è da pensare, rese giustizia alla sua memoria: ma fu solo quando la stirpe dei Cesari si estinse, che ricevette il libero e unanime applauso della posterità imparziale. Tale era l'ammirazione che Quintiliano nutriva de' suoi scritti, che considerava la circostanza o se ne compiaceva, come una prova indubitabile di giudizio e di gusto in letteratura. "Ille se profecisse sciat, cui Cicerone valde placebit."
(SVETONIO)
La morte di Cicerone, che oramai all’età di 63 anni si teneva abbastanza lontano dalla vita politica di Roma, avvenne un anno dopo la morte di Giulio Cesare. Proprio all’assassinio da parte di Bruto e degli altri congiurati è collegata l’uccisione del grande oratore ciociaro. Saliti al potere Marco Antonio e Ottaviano, che si sentivano entrambi eredi politici (Ottaviano anche familiare) del grande dittatore romano, cercarono subito di vendicare la morte di Giulio Cesare.
Dopo aver inseguito per mare e per terra i congiurati Bruto e Cassio ed averli battuti nell’ottobre del 43 nella famosa battaglia di Filippi, i due condottieri cercarono di portare giustizia anche all’interno della classe dirigente romana. Si riempirono liste di nomi di persone non gradite e venne condotta una vera e propria caccia alle streghe. Tra le persone che risultarono non gradite a Marco Antonio, c’era anche lui, il famoso oratore Marco Tullio Cicerone.
Purtroppo le Filippiche, altra opera capitale dell’oratore, che però andavano contro proprio Marco Antonio, gli furono fatali e a nulla gli valse in quel momento il titolo di Padre della Patria di cui si fregiava di essere insignito per aver smantellato la Congiura di Catilina. A Cicerone vennero tagliate testa e mani, che poi vennero esposte in senato come monito per gli oppositori. Ecco il racconto di Plutarco:
«Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»
«Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»
(Plutarco)
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