Il tesoro di Boscoreale è un reperto composto di 108 pezzi d’argento trafugati illegalmente dall’Italia e acquistati da diversi collezionisti privati francesi, che poi li donarono al Museo del Louvre di Parigi. Sembra una storia di epoca napoleonica ma è un fatto accaduto molto più di recente, fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando già l’Italia era una nazione riconosciuta e sovrana da oltre 3 decenni.
IL TESORO AL COMPLETO (INGRANDIBILE) |
Il barone Edmond James de Rothschild, banchiere francese, acquistò gran parte della collezione a più riprese per oltre mezzo milione di franchi, e così fecero altri collezionisti privati che, diventando ricettatori d’arte, acquistarono a buon prezzo delle opere d’arte di valore inestimabile e che la legge destinava alla proprietà dello stato.
Vincenzo de Prisco, proprietario insieme ai fratelli del terreno, era un funzionario del Ministero delle Finanze e, anche se processato per la trafugazione illegale delle opere d’arte, se la cavò con una pena ridicola a paragone del danno causato: gli venne imposto di cedere gratuitamente tutte le opere restanti del tesoro di Boscoreale, di valore infinitamente inferiore rispetto ai 108 pezzi ormai di proprietà del Louvre.
I GIOIELLI |
Il Louvre è pieno delle nostre opere d'arte, si dice che se togliessero le opere italiane al Louvre, il museo dovrebbe chiudere i battenti. Ma si può dire anche del Metropolitan.
Sfortunatamente, il cavaliere non poté continuare l’esplorazione della villa perchè essa si estendeva nella proprietà del suo vicino, l’avvocato Angelo Andrea (o Angelandrea) De Prisco, capostipite di una nota famiglia di Boscoreale.
Dapprima i pezzi furono offerti al museo del Louvre per la somma complessiva di mezzo milione di franchi, poi, avendo il museo fatto una controfferta di 250 mila franchi, pagabili in cinque rate annue, le trattative furono interrotte e gli oggetti furono acquistati dal barone Edmond James de Rothschild, membro francese di una delle ancora oggi più potenti dinastie europee, che tenne per sè alcuni pezzi tranne 109 di argenteria e la totalità delle monete donati al celebre museo di Parigi.
Pare che lo Stato italiano non volle o non poté acquistare quegli oggetti. Forse un’Italia unita da troppi pochi anni non disponeva di una legislazione unificata ed efficace nella tutela dei beni culturali.
La Villa della Pisanella fu distrutta dell’eruzione del 79 d.c. e sepolta sotto strati di ceneri. Di quell'area tanto fertile in età romana non rimaneva, nel Medioevo, che un esteso bosco. Un bosco “reale”, da cui il nome della cittadina, in quanto preferito dai Re Angioini per la pratica della caccia.
Una vecchia diatriba, quindi, è alla base dell'”esportazione” che qualcuno definisce clandestina del magnifico tesoro boschese ma che, secondo i discendenti di De Prisco, è dovuta a qualche incauto funzionario ministeriale che non reputò degna di considerazione l’iniziale offerta di vendita del tesoro.
Comunque sia, a Vincenzo De Prisco si deve l’importanza di taluni altri scavi: carico dell’importantissimo ritrovamento e, si suppone, delle possibilità di ulteriore guadagno, De Prisco riportò alla luce pure la villa di Publio Fannio Sinistore in via Grotta a Boscoreale, caratterizzata da bellissimi affreschi megalografici (a grandezza naturale) che ripropongono la reale ambientazione dell’epoca.
Una residenza nobile, con grandi camere affrescate nel cosiddetto II stile pompeiano. Da questa villa provengono gli splendidi dipinti ora conservati al Metropolitan Museum di New York (affreschi dall’esedra, dal cubiculum e dal grande triclinio), al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (affreschi dal triclinio e dal grande triclinio), al Louvre di Parigi (affreschi dal triclinio) ed al Museo di Mariemont, in Belgio (affreschi dal triclinio e da altre stanze).
di Francesco Servino
(giornalista e attivista italiano noto per la sua difesa del Parco Nazionale del Vesuvio e dei siti archeologici dell'area vesuviana)
E non fu un'assenza di leggi perchè le leggi c'erano, ma fu una questione di corruzione, tanto per cambiare. Ancora oggi molti musei italiani, a cominciare da quello di Napoli, non hanno un catalogo delle opere che giacciono nei loro magazzini. Un metodo splendido per vendere le opere all'estero senza che nessuno lo venga a sapere.
Comunque la storia del tesoro di Boscoreale andò così, ce ne parla il giornalista Francesco Servino:
"Il 9 Novembre 1876, il cavalier Luigi Modestino Pulzella rinvenne, durante lo scavo delle fondamenta di un muro di cinta nel proprio fondo in via Settetermini alla Pisanella, a Boscoreale, delle stanze che poi si riveleranno essere il quartiere rustico della villa di Cecilio Giocondo, altrimenti detta 'Villa del Tesoro'.
Sfortunatamente, il cavaliere non poté continuare l’esplorazione della villa perchè essa si estendeva nella proprietà del suo vicino, l’avvocato Angelo Andrea (o Angelandrea) De Prisco, capostipite di una nota famiglia di Boscoreale.
Il 10 Settembre 1894, il figlio di Angelo Andrea, Vincenzo De Prisco, che aveva ereditato quel pezzo di terra dal padre, decise di effettuare per conto suo degli scavi che portarono alla luce il complesso di una grande casa di campagna con stanze di soggiorno, bagni, depositi per la fabbricazione e la conservazione del vino e dell’olio e un locale per la spremitura dell’uva.
Un edificio rimasto inalterato nel tempo per quasi due millenni: tutto era al suo posto, suppellettili, mobili e vasche da bagno in bronzo con protomi leonine. Nel cortile dei torchi vennero alla luce tre scheletri umani, fra cui quello di una donna, probabilmente la padrona di casa, che portava splendidi orecchini in oro e topazi.
Nella cucina è stato invece rinvenuto lo scheletro di un cane morto, attaccato alla catena, il cui calco è custodito nel vicino museo Antiquarium. Tutto in quella casa, la disposizione degli oggetti e la posizione dei morti, permetteva di ricostruire esattamente le ultime ore che vi erano state vissute. Ma la scoperta più sensazionale ebbe luogo a Pasqua, il 13 Aprile del 1895.
Come raccontato dall'ufficiale austriaco e storico Egon Caesar Conte Conti nel volume “Untergang und Auferstehung von Pompeji und Herculaneum” (“Caduta e Resurrezione di Pompei e Ercolano”), “alla vigilia del giorno festivo, gli operai già avevano lasciato i lavori, e sul posto erano rimasti solo alcuni uomini per ultimare lo sgombero di due cunicoli che immettevano nella cella vinaria, quando uno di essi, un certo Michele, spintosi in fondo allo stretto corridoio, ritornò dicendo che il locale era saturo di esalazioni velenose e non si poteva respirare.
Naturalmente nessuno ebbe voglia di esporsi a quel pericolo e il sorvegliante diede senz’altro ordine di sospendere per il momento il lavoro. Tutti se ne andarono, ma Michele, appartandosi dagli altri, corse invece dal proprietario del fondo.
“Signore” – gli disse – “il cellaio del vino è completamente vuoto, ma sul pavimento ho visto un morto in mezzo a dei meravigliosi vasi d’argento, bracciali, orecchini, anelli, una doppia catena d’oro e un sacco zeppo di monete pure d’oro“. Il padrone gli ordinò di non aprir bocca e lo persuase a rimanere con lui quella notte.
Appena cadute le tenebre, i due, muniti di lanterne e di ceste, scesero nel sotterraneo e rimasero col fiato mozzo dinanzi a una vera profusione di oggetti preziosi, sparpagliati intorno ad uno scheletro disteso per terra, sulla faccia e sulle mani.
Oltre a moltissimi vasi d’argento splendidamente lavorati, c’era un sacco di cuoio dall'iscrizione ancora visibile, il quale conteneva la bellezza di mille nummi d’oro che recavano l’effige di tutti gli imperatori susseguitisi da Augusto a Domiziano, fino al 76 d.c.
Alcuni erano del tempo di Galba, Otone e Vitellio, quindi rarissimi, perché questi tre monarchi non avevano regnato che pochi mesi ciascuno. I pezzi dell’epoca augustea e tiberiana erano più consumati, ma quelli dell’epoca neroniana, 575 in tutto, erano praticamente nuovi, fiori di conio.
Gli oggetti d’oro erano naturalmente inalterati, mentre i vasi d’argento si erano ricoperti di una spessa patina scura. I due fortunati inzepparono le ceste e si affrettarono a trasportare il tesoro in un nascondiglio sicuro, ripromettendosi di venderlo a un prezzo vantaggioso all'estero, in barba alle leggi italiane che vietavano l’esportazione di oggetti antichi.
Michele fu ricompensato a dovere e, dopo qualche tempo, ricevette una seconda vistosa gratificazione, come premio al suo silenzio. Ne fu così contento, che andò all'osteria e si ubriacò. Ahimè!, nei fumi del vino la lingua gli si sciolse ed egli raccontò per filo e per segno la bravata della scoperta“.
La notizia del ritrovamento in breve tempo si sparse e le autorità aprirono un’inchiesta. Ci fu pure un’interpellanza parlamentare ma il tesoro aveva già oltrepassato i confini, trasportato oltralpe da due antiquari napoletani (i fratelli Canessa): 117 pezzi di argenteria e il sacco con le preziose monete non erano più in Italia.
Nessun personaggio – a partire dagli operai incaricati dello scavo, fino al Ministro dell’Istruzione e al procuratore generale della Corte d’Appello – fu in grado o volle produrre prove concrete contro il proprietario del fondo in cui era stata fatta la scoperta: Vincenzo De Prisco.
Dapprima i pezzi furono offerti al museo del Louvre per la somma complessiva di mezzo milione di franchi, poi, avendo il museo fatto una controfferta di 250 mila franchi, pagabili in cinque rate annue, le trattative furono interrotte e gli oggetti furono acquistati dal barone Edmond James de Rothschild, membro francese di una delle ancora oggi più potenti dinastie europee, che tenne per sè alcuni pezzi tranne 109 di argenteria e la totalità delle monete donati al celebre museo di Parigi.
Fra l’argenteria ritrovata a Boscoreale di particolare interesse sono due coppe, dette “degli scheletri” per le raffigurazioni che riportano: si tratta di un “modiolus” ad una ansa, in argento parzialmente ricoperto d’oro e del peso di quasi 500 grammi l’una, fabbricate al tempo di Alessandro Magno e che richiamano al senso effimero della vita che va vissuta godendo.
Le scritte, in greco, accompagnano diverse scene che ritraggono il poeta tragico Sofocle, il poeta e filosofo platonico Mosco e l’epicureo Zenone; su una delle coppe sono presenti gli scheletri di Euripide, di Menandro e del poeta cinico Monimo.
Le incisioni riportano:
“Godi finché sei in vita, il domani è incerto”;
“La vita è un teatro”;
“Goditela finché sei vivo”;
“Il piacere è il bene supremo”.
Espressioni che rimandano alla concezione epicurea evidentemente diffusa all'epoca:
“Godi finché vivi, poiché il domani è incerto. La vita è una commedia, il godimento il bene supremo, la voluttà il tesoro più prezioso: sii lieto, finché sei in vita”.
Gli scheletri ammonivano:
“Guarda quelle lugubri ossa, bevi e godi finché puoi: un giorno anche tu sarai così”.
Secondo fonti familiari dei De Prisco, la legislazione dell’epoca in materia di ritrovamenti archeologici era decisamente lacunosa e faceva sì che chi a quei tempi possedesse un fondo era proprietario di tutto quello che si trovava al suo interno, ivi compreso il sottosuolo.
Pare che lo Stato italiano non volle o non poté acquistare quegli oggetti. Forse un’Italia unita da troppi pochi anni non disponeva di una legislazione unificata ed efficace nella tutela dei beni culturali.
La Villa della Pisanella fu distrutta dell’eruzione del 79 d.c. e sepolta sotto strati di ceneri. Di quell'area tanto fertile in età romana non rimaneva, nel Medioevo, che un esteso bosco. Un bosco “reale”, da cui il nome della cittadina, in quanto preferito dai Re Angioini per la pratica della caccia.
Una vecchia diatriba, quindi, è alla base dell'”esportazione” che qualcuno definisce clandestina del magnifico tesoro boschese ma che, secondo i discendenti di De Prisco, è dovuta a qualche incauto funzionario ministeriale che non reputò degna di considerazione l’iniziale offerta di vendita del tesoro.
Comunque sia, a Vincenzo De Prisco si deve l’importanza di taluni altri scavi: carico dell’importantissimo ritrovamento e, si suppone, delle possibilità di ulteriore guadagno, De Prisco riportò alla luce pure la villa di Publio Fannio Sinistore in via Grotta a Boscoreale, caratterizzata da bellissimi affreschi megalografici (a grandezza naturale) che ripropongono la reale ambientazione dell’epoca.
di Francesco Servino
(giornalista e attivista italiano noto per la sua difesa del Parco Nazionale del Vesuvio e dei siti archeologici dell'area vesuviana)
Ora qualcuno dice che gli alti funzionari che lo elessero nulla sapessero della fuga del tesoro al Louvre, ma è impossibile da credere, lo sapevano come si sapeva in Italia delle 70 statue italiane vendute illegalmente all'estero quando già erano esposte nei nostri musei, vedi la statua di Vibia, la Morgentina ecc. ma non solo nessun direttore di museo ne rispose, ma di quelle 70 ne sono tornate solo 40 in Italia.
Come avevano fatto a trafugarle? Solo la statua di Vibia era alta m 4,50 che pesava svariate tonnellate, come avevano fatto a rubarla, se la sono messa sotto braccio?
6 comment:
no comment, vergogna.
inqualificabili ,allora ed oggi
La corruzione è alla base del paese...ieri come oggi
Ora che conosco l'illegalità della sottrazione dei preziosi reperti, mi viene da pensare che potrebbe essere legittimo riprendersi illegalmente quanto trafugato, con piani ladreschi ad hoc su commissione, un nome Arsenio Lupin, architettati al recupero.
scherzo ovviamente ......
Alcuni pezzi li ho ritrovati in un museo a Praga !
La legge italiana fino ai primi del '900 riconosceva ai proprietari dei fondi anche ciò che si trovava nel sottosuolo compresi I suoi tesori.La legge fu modificata ai primi del'900 e da allora lo Stato italiano era proprietario dei beni,tesori,e minerali preziosi che si trovassero da allora in poi nel suo sottosuolo.
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