La fortuna delle legioni romane nel mondo ebbe diverse cause:
1) Il fatto che dovendo combattere fin dall'inizio contro le popolazioni vicine, già in epoca monarchica i maschi si abituarono alla guerra continua.
2) Roma fu molto abile nell'assorbire il meglio delle differenti tattiche, degli armamenti e dell'organizzazione militare, dei suoi nemici, con i quali si scontrò nei secoli (dall'VIII secolo a.c. al V secolo d.c.).
3) La strenua disciplina. Essa si adattò in modo estremamente flessibile e rapido, grazie al forte senso di disciplina che la società romana imponeva al proprio miles ed alla ferrea volontà di cercare di perseguire ad ogni costo la vittoria completa, a volte senza mediazioni o senza farsi grossi scrupoli.
4) L'amor di patria, fonte di estremo rispetto verso chi lo perseguiva ed estremo disprezzo verso chi lo tradiva. Ogni romano veniva amato ed elogiato anche se soldato semplice, dalla sua famiglia e da tutti, ma esecrato se la sua legione era stata carente nel combattimento.
5) la particolare apertura mentale per essere stati i romani sempre a contatto, fin da subito, con popoli di diversa estrazione e provenienza. La pluri-informazione sviluppa fortemente il senso critico e pertanto razionale.
PERIODO REGIO (VIII-VI secolo a.c.)
IL DUELLO
Le tecniche di questo periodo erano molto simili a quelle di altri popoli italici, in particolare ai Latini, simili a quelle utilizzate nella vicina Magna Grecia. Si trattava di un combattimento semplice ma violento, non molto ordinato, tra poche centinaia di uomini dei vicini villaggi, che poteva durare anche pochi minuti, difficilmente alcune ore.
Vi era poi la consuetudine di lanciare un potente grido di guerra per intimorire l'avversario, prima dello scontro, come del resto in tutto il mondo antico. Solo più tardi subentrerà il silenzio minaccioso delle legioni.
Spesso invece, sempre per scoraggiare il nemico, venivano battute le aste o le spade contro gli scudi generando grande fragore.
Dai recenti ritrovamenti archeologici si sa che il primo esercito romano, quello di epoca romulea, era costituito da fanti che avevano preso il modo di combattere e l'armamento dalla civiltà villanoviana della vicina Etruria.
I guerrieri combattevano prevalentemente a piedi con lance, giavellotti, spade (pesanti lame in bronzo, in rari casi in ferro, lunghe tra i 33 ed i 56 cm), pugnali (con lame lunghe tra i 25 ed i 41 cm) ed asce.
Solo i più ricchi potevano permettersi elmo e corazza, gli altri una piccola protezione rettangolare sul petto, davanti al cuore, di bronzo o di cuoio, di 15 x 22 cm.
Gli scudi andavano tra i 50 ed i 97 cm, di forma prevalentemente rotonda, i clipeus, abbandonati secondo Tito Livio attorno alla fine del V secolo a.c., più maneggevoli. Plutarco racconta che una volta uniti Romani e Sabini, Romolo introdusse gli scudi di tipo sabino, abbandonando il precedente di tipo argivo e modificando le precedenti armature.
Il combattimento prevedeva una serie di duelli tra i "campioni" dei rispettivi schieramenti, in genere tra i guerrieri più nobili, dotati di maggior coraggio e abilità (vedi Orazi e Curiazi), equipaggiati con il miglior armamento. I patrizi ed i loro clienti più ricchi, combattevano in prima linea, i soli a potersi permettere armature, scudi, spade, elmi di qualità, oltre ad una cavalcatura (da cui smontavano, prima dello scontro).
I più indigenti, non potendo permettersi un'armatura completa, a volte solo una piastra di cuoio o bronzo, davanti al petto, ma solo scudi in legno, venivano schierati nelle file più arretrate. I più poveri, dotati di sole armi da lancio, come giavellotti e fionde, o scuri da lancio, erano invece utilizzati all'inizio dello scontro, per disturbare il nemico schierato con lanci di proiettili da lontano, oppure all'inseguimento del nemico in fuga, dopo uno scontro vittorioso.
ROMOLO (771-716 a.c.)
CREAZIONE DELLA LEGIONE ROMANA
Secondo Tito Livio, infatti, sarebbe stato Romolo a creare, sull'esempio della falange greca, la legione romana, formata da 3.000 fanti e 300 cavalieri, disposta su tre file, con la cavalleria ai lati. Ogni fila di 1.000 armati era comandata da un tribunus militum, mentre gli squadroni di cavalleria erano alle dipendenze dei tribunis celerum.
TULLO OSTILIO (673-642 a.c.)
La guerra con Albalonga viene decisa da un duello tra Orazi e Curiazi.
SERVIO TULLIO (580 a.c. circa)
FALANGE OPLITICA
Servio introdusse nell'esercito l'ordinamento centuriato, che si occupava dell'esercito e della leva militare, togliendo il reclutamento alle Curie che fino ad allora funzionavano da distretti di leva, cui restarono quindi solo compiti politici e religiosi.
La "spina dorsale" dell'esercito romano, rimase così la fanteria, di cui l'unita base era la Legione. L'esercito serviano era formato da due Legioni (una a difesa dell'Urbe e l'altra utilizzata per campagne militari esterne), in totale pari a 193 centurie.
Tito Livio racconta di una particolare di ordine di marcia dell'esercito romano in territorio nemico, l' Agmen Quadratum:
- in testa ed in coda c'erano le due legioni consolari (fanteria pesante),
- ai lati le ali dei socii,
- al centro i bagagli di tutte le quattro unità menzionate (ovvero gli impedimenta delle legio I e II oltre a quelli delle due ali).
Tale ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica, menzionato anche durante le guerre sannitiche, la guerra annibalica, la guerra giugurtina, e la battaglia di Carre.
RIFORMA ETRUSCA
Con l'occupazione di Roma da parte degli Etruschi il nuovo esercito, di stile etrusco-greco, fu reclutato tra i cittadini romani secondo le cinque differenti "classi" sociali. «Dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa.»
Le formazioni armate comprendevano sia corpi di opliti (fanteria pesante), sia di truppe leggere (velites) e di cavalleria.
Gli opliti della prima fila formavano un "muro di enormi scudi rotondi" parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino commilitone. Sostenevano un addestramento costante ed il maggior peso del combattimento, che effettuavano in modo estremamente compatto, armati di lancia e spada, difesi da scudo, elmo e corazza (o comunque con una protezione pettorale).
«Quel giorno, tra la terza ed ottava ora, l'esito del combattimento era così incerto, che il grido di guerra lanciato al primo assalto, non fu più ripetuto, né le insegne avanzarono o ripiegarono, e neppure entrambe le parti indietreggiarono per prendere una nuova rincorsa.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 38.)
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dare dimostrazione del proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una loro alta mortalità a causa dell'elevato rischio a cui erano esposti.
Tito Livio racconta che lo stesso Tarquinio il Superbo, nel tentativo di riottenere il potere a Roma, mosse guerra contro il dittatore romano Aulo Postumio Albo Regillense, dopo essersi portato nelle prime fila del suo schieramento:
«Spronò con furia il suo cavallo contro Postumio, che stava incitando e dando ordini ai suoi nelle prime file e, ferito ad un fianco, fu salvato dai suoi soldati.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 19.)
L'obiettivo era di far cedere lo schieramento opposto, cercando di incunearsi dove l'avversario era più debole, spezzando le file nemiche. La spinta delle formazioni più arretrate che si accalcavano, premevano spingendo la prima fila contro il "muro" umano nemico. Due "muri umani" in tensione finché una delle due parti subiva l'inevitabile sfondamento e travolgimento, fino alla sconfitta finale.
Da qui l'importanza che i comandanti delle retroguardie assumevano per dirigere la spinta da tergo. «Fermi ognuno al proprio posto, premendo con gli scudi, combattevano senza prendere il respiro e senza guardarsi indietro; [...] avevano come obiettivo l'estrema stanchezza o la notte.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 38.)
L'avanzamento del singolo combattente era inutile e dannoso nella ferrea disciplina romana, e poteva portare alla rottura dello schieramento in piena battaglia, con conseguenze disastrose. La fuoriuscita dalle linee del proprio schieramento, era pertanto considerata una colpa punita anche con la morte.
Nel 340 a.c. il console Tito Manlio Torquato punì il proprio figlio con la decapitazione, per aver disobbedito agli ordini, spingendosi oltre le file romane e mettendo a rischio l'integrità del proprio schieramento, come ci racconta Livio:
«Dal momento che tu, Tito Manlio, senza alcun riguardo per il comando dei due consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto contro il nemico, contrariamente alla nostra disciplina, oltre le file dello schieramento e, per quanto è dipeso da te, hai allentato la disciplina militare, che fino ad oggi è stata alla base della potenza romana, [...], costituiremo un esempio doloroso, ma salutare per l'avvenire della gioventù romana.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 7.)
Lo scudo di grandi dimensioni dava maggior protezione al corpo: poteva essere rotondo in bronzo con due maniglie (di tipo argivo) o rettangolare con bordi arrotondati e rinforzo verticale centrale (a modello celtico o italico).
L'elmo di bronzo poteva avere o meno la cresta ed era inizialmente di tipo villanoviano, con la famosa cresta metallica, o di tipo Negau.
Poi si usarono elmi a campana e, a seguito dei contatti con le città greche, di tipo calcidese (con paraguance e paranuca e le orecchie scoperte), corinzio (a copertura quasi totale, con paranaso ed una sola fessura centrale per gli occhi e parte della bocca) ed etrusco-corinzio (senza paranaso e con apertura leggermente più aperta).
La protezione alle gambe prevedeva schinieri di bronzo, solo per gli opliti armati più pesantemente. Le truppe leggere erano fanti leggeri e tiratori che dovevano disturbare e disorganizzare il nemico, prima dell'urto degli opliti. I fanti leggeri erano armati di giavellotti, con uno scudo rotondo e un elmo ma senza corazza né piastre pettorali.
I tiratori potevano essere arcieri o frombolieri e portavano al fianco una piccola spada, pugnale o coltello, ma senza protezione. Gli arcieri operavano insieme agli opliti per tagliare le lance dei nemici. Usavano un'ascia ad una mano nel periodo villanoviano, per poi passare a quelle a due mani ad un taglio o bipenni, per protezione un elmo e un pettorale.
La cavalleria si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia, o per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e soccorrere i reparti di fanteria in difficoltà.
I cavalieri usavano briglie e morsi, ma staffe e sella erano sconosciuti: non esisteva una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano probabilmente una fanteria oplitica mobile.
LA TESTUGGINE
Un primo esempio di formazione "a testuggine" (testudo) utilizzato dalla fanteria romana, fu menzionato da Tito Livio nell'assedio di Veio agli inizi del IV secolo. I soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, come tegole di un tetto che ripara dalla "pioggia di dardi e frecce", sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste, come un carro armato vivente, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici.
Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, o in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.
Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina. E perché fosse efficace, necessitava di grande affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche. Spesso però tale formazione fu impiegata in Oriente, di fronte alla terribile cavalleria dei catafratti partici o degli arcieri orientali, come accadde durante le campagne di Marco Antonio:
«Descriverò ora la formazione a testuggine e come si forma. I bagagli, la fanteria leggera ed i cavalieri sono collocati al centro dello schieramento. Una parte della fanteria pesante, armata con gli scudi concavi semicircolari, si dispone a forma di quadrato (agmen quadratum) ai margini dello schieramento, con gli scudi rivolti verso l'esterno a protezione della massa.
Gli altri che hanno gli scudi piatti, si raccolgono nel mezzo e stringendosi alzano gli scudi in aria a difesa di tutti. Per questo motivo, in tutto lo schieramento si vedono solo gli scudi e tutti sono al riparo dalle frecce nemiche, grazie alla compattezza della formazione.
I Romani ricorrono a questa formazione in due casi: quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla o quando, circondati da ogni parte da arcieri nemici, si mettono in ginocchio in contemporanea, compresi i cavalli che sono addestrati a mettersi sulle ginocchia o a sdraiarsi a terra. così fanno credere al nemico di essere sfiniti e quando i nemici si avvicinano, si alzano all'improvviso e li annientano.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storie, XLIX, 30.)
TECNICHE D'ASSEDIO
I primi assedi li subì Roma ad opera degli Etruschi di Porsenna e dei Galli di Brenno, da cui i Romani appresero nuove tecniche per occupare le città etrusche e latine.
Nel 396 a.c. i Romani guidati da Camillo assediarono Veio, costruendo alcuni fortini ed una galleria che doveva arrivare fino alla rocca, passando sotto le mura nemiche. Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore.
Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima.
I romani uscirono dal cunicolo, attaccarono e portarono le viscere dell'animale sacrificato al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale contro le mura:
«Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 2)
In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio.
GUERRE TRA GALLI E ROMANI
Sacco di Roma (IV secolo a.c.).
Roma, al principio del IV secolo a.c., aveva raggiunto una notevole disciplina e organizzazione militare, uscendo vittoriosa nel 396 a.c. dalle guerre con Veio. La caduta di Veio non era piaciuta alle altre capitali etrusche gravitanti intorno al Fanum Voltumnae: e questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri).
Inoltre i Senoni invasero la provincia etrusca di Siena dal nord e attaccarono la città di Clusium, non distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello.
I Romani fronteggiarono i Senoni in una battaglia campale presso il fiume Allia (390/ 386 a.c.) I Galli, guidati da Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati e incalzarono i fuggitivi fin dentro la città, con una parziale occupazione e un umiliante sacco, prima che gli occupanti fossero scacciati o, secondo altri, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.
Fu allora che i Romani potrebbero aver adottato un nuovo tipo di elmo (chiamato di Montefortino, utilizzato fino al I secolo a.c.), uno scudo protetto da bordi in ferro ed un giavellotto (pilum) tale, da conficcarsi e piegarsi negli scudi avversari, rendendoli inutilizzabili per il prosieguo della battaglia.
Plutarco racconta, infatti, che 13 anni dopo la battaglia del fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli (databile al 377-374 a.c.), i Romani riuscirono a battere le armate celtiche, e ne fermarono una nuova invasione:
« Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, e ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi.
Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco.
Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi [dei Galli] sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti [romani].
I Galli allora abbandonarono le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo.
Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galliche credevano ciò fosse accaduto per una straordinaria disgrazia, piuttosto che per il valore dei loro conquistatori.»
(Plutarco, Vita di Camillo, 41, 3-6.)
Nel 225 a.c., ancora i Celti furono affrontati e vinti dai Romani.
«I Celti si erano preparati proteggendo le loro retroguardie, da cui si aspettavano un attacco di Emilio, provenendo i Gesati dalle Alpi e dietro di loro gli Insubri; di fronte a loro in direzione opposta, pronti a respingere l'attacco delle legioni di Gaio, misero i Taurisci ed i Boi sulla riva destra del Po.
I loro carri stazionavano all'estremità di una delle ali, mentre raccolsero il bottino su una delle colline circostanti con una forza tutta intorno a protezione. Queste forze dei Celti, poste su due fronti, si adeguava alla situazione.
Gli Insubri ed i Boi indossavano pantaloni e mantelli, mentre i Gesati erano nudi di fronte all'esercito [romano], con indosso nient'altro che le armi, visto che il terreno era coperto di rovi che potevano impigliarsi nei vestiti e impedire l'uso delle loro armi.
In un primo momento la battaglia fu limitata alla sola zona collinare, e il console Caio cadde, combattendo con estremo coraggio, e la sua testa fu portata al capo dei Celti, ma la cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina.
Le fanterie [dei due schieramenti] erano vicine, le une alle altre, e la battaglia si sviluppò fra tre eserciti.
I Celti, con il nemico che avanzava da entrambi i lati, erano in posizione pericolosa non avendo possibilità per una ritirata o fuga in caso di sconfitta, a causa della formazione su due fronti adottata.
I Romani avevano stretto il nemico tra i due eserciti [consolari], ma dall'altra erano terrorizzati per la fine del loro comandante, oltreché dal terribile frastuono dei Celti, che avevano numerosi suonatori di corno e trombettieri. Terrificanti erano anche i guerrieri celti, nudi davanti ai Romani, con i capi ornati con torques e bracciali d'oro. La loro vista lasciò davvero sgomenti i Romani, ma al tempo stesso la prospettiva di ottenere questi oggetti come bottino, li rese due volte più forti nella lotta.»
(Polibio, Storie, II, 28-29.)
E ancora Livio e Cesare, riferendosi ai Celti, raccontano che, durante la battaglia di Sentino del 295 a.c. e la conquista della Gallia del 58-50 a.c., essi conoscevano già la tattica della testuggine, da cui forse i Romani l'avrebbero appresa:
« distava otto miglia una città dei Remi di nome Bibrax. I Belgi appena giunti, cominciarono ad assaltarla con grande impeto. Per quel giorno a stento si poté resistere. Questa è la tecnica d'assalto usata in modo similare da Galli e Belgi: una volta circondate tutte le mura, con un gran numero di armati da ogni parte, cominciano a tirare pietre sul muro ed il muro viene liberato dai difensori; fatta poi la testuggine, danno fuoco alle porte e scavano il muro. E ciò facilmente gli riusciva, poiché essendo così numerosi nel tirare pietre e proiettili, nessuno poteva rimanere sulle mura.»
(Cesare, De bello Gallico II.6.1-3.)
Molti resti di accampamenti fortificati romani vennero rinvenuti attorno alla cittå iberica di Numantia (guerra numantina, de 155 al 133 a.c.), come gli accampamenti di Renieblas, databili al periodo 195 - 7! a.c., il cui castrum Ill sembra possa risalire al 153 a.c., anno della campagna militare del console Quinto Fulvio Nobiliore; il campo di Castillejo, occupato nel 137 a.c. da Gaio Ostilio Mancino e, piü tardi da Scipione Emiliano nel 134-133 a.c.; il campo di Peöa Redonda, non meno importante degli altri due.
MEDIO PERIODO REPUBBLICANO (350 a.c. circa):
Agmen pilatum
È Polibio ad informarci dell'ordine di marcia "base" di un esercito romano consolare, formato quindi da due legioni romane e due di alleati (socii).
- In testa alla "colonna" si trovava un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), - poi seguiva l'ala dextra sociorum, a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae),
- la legio I consolare, - i bagagli legionari (impedimenta legionis I),
- la legio II consolare,
- i bagagli legionari (impedimenta legionis II),
- a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae)
- e a chiudere l'ala sinistra sociorum.
Ordine di marcia di un esercito consolare descritto da Polibio, detto Agmen pilatum:
" Quando vi era poi il timore di qualche attacco alla retroguardia, l'ordine rimaneva invariato ad eccezione dei soli alleati extraordinarii, i quali erano posti in coda alla colonna. Le due legioni e le due ali marciano, inoltre, alternativamente un giorno in testa e un giorno in coda alla colonna, in modo che tutti potessero, a turno, usufruire di acqua pura e campi di foraggio ancora integri."
Agmen tripartitum o Acie triplici instituita
Sempre Polibio, poi Floro ed ancora Gaio Giulio Cesare, ci informano di un ordine di marcia particolare dell'esercito romano, databile per il primo alla guerra annibalica e per il secondo alle guerre cimbriche, per il terzo alla conquista della Gallia e chiamato agmen tripartitum.
Questo ordine prevedeva tre differenti "colonne" o "linee", ciascuna costituita rispettivamente da - manipoli di hastati (1º colonna, la più esposta ad eventuali attacchi nemici),
- principes (2º colonna)
- triarii (3º colonna),
intervallati con i rispettivi bagagli (impedimenta).
In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato in modo adeguato (triplex agmen).
«In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l'ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono a trovarsi alle spalle dalla linea di truppe e occupano la posizione ideale contro rischi di qualsiasi genere.»
(Polibio, Storie, VI, 40.11-14.)
Altra e fondamentale novità di questo periodo fu che il nuovo esercito, dovendo condurre campagne militari sempre più lontane dalla città di Roma, fu costretto a trovare delle soluzioni difensive adatte al pernottamento in territori spesso ostili. Ciò indusse i Romani a creare, sembra a partire dalle guerre pirriche, un primo esempio di accampamento militare da marcia fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno.
«Pirro re dell'Epiro, istituì per primo l'utilizzo di raccogliere l'intero esercito all'interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»
(Sesto Giulio Frontino, Strategemata, IX, 1.14.)
Il primo castra romano da marcia o da campagne militare (castra aestiva), ce lo descrive Polibio. Esso presentava una pianta rettangolare e una struttura interna adoperata anche nella pianificazione delle città: strade perpendicolari tra loro (chiamate cardo e decumano) che formavano un reticolato di quadrilateri.
Schieramento base ed inizio del combattimento Panoplia del V secolo a.c. della latina Lanuvio, conservata presso il Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano a Roma.
Manipolo e Guerre sannitiche.
Il vecchio schieramento falangitico presentava alcuni punti deboli, che con la nuova formazione manipolare i Romani cercarono di migliorare. La falange, infatti, richiedeva una notevole compattezza e terreni assai pianeggianti. Quando i Romani si trovarono, quindi, attorno alla metà del IV secolo a.c., a dover combattere contro i Sanniti nelle regioni montuose dell'Italia Meridionale, furono costretti ad adottare non solo una nuova struttura (la legione fu divisa in 30 manipoli) e nuove armi (come il pilum e lo scutum ovale), ma anche una nuova tattica, certamente più elastica di quella adottata con la riforma di Servio Tullio.
La vera novità della formazione manipolare era che, non solo si dava maggior autonomia ai 30 sub-reparti (manipuli), ma che i soldati non erano più inquadrati secondo il loro censo, al contrario in base alla loro età, esperienza e capacità di combattimento. Solo i velites, che erano i cittadini meno abbienti, continuavano a svolgere il ruolo originario di fanteria leggera, davanti ai manipoli, ora formati da hastati-principes-triarii. Lo schieramento base di questo medio periodo repubblicano era l'acies triplex, ovvero la disposizione degli uomini su tre linee distinte. La prima linea era composta dagli hastati, la seconda dai principes e la terza dai triarii.
La fanteria al centro era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria, un'avanguardia di tiratori o schermagliatori che davano inizio alla battaglia scagliando dardi o giavellotti sul nemico per poi ritirarsi. La cavalleria si assicurava che i lati rimanessero difesi, e tentavano di aggirare il nemico, mentre la prima linea romana lo impegnava, per colpire alle spalle.
Gli eserciti erano schierati in base al loro livello di preparazione (ed in parte al loro censo): davanti a tutti c'erano i velites, dotati di fionde, giavellotti e piccolo scudo, ed avevano il compito di distrarre, innervosire il nemico con costanti lanci di dardi, coprendo inoltre le manovre della fanteria pesante romana alle loro spalle.
Dopo aver compiuto sufficienti azioni di disturbo, si ritiravano dal campo di battaglia, sfilando alle spalle degli hastati, dei principes e dei triarii, ultimi della formazione, i veri veterani.
«Quando l'esercito aveva assunto questo schieramento, gli Hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli Hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i Principes li accoglievano negli intervalli tra loro. [...] i Triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l'alto, quasi fossero una palizzata... Qualora anche i Principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai Triarii. Da qui l'espressione latino "Res ad Triarios rediit" ("essere ridotti ai Triarii"), quando si è in difficoltà.»
(Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 8, 9-12.)
I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera si gettavano sul nemico.
Schieramento in battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.c., con al centro le legioni e sui fianchi le Alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata.
VELOCITA' DI MARCIA
Molto del successo dei romani fu basato sulla velocità di marcia, per soccorrere un esercito amico o per sorprenderne uno nemico. Restò famosa la marcia di Caio Claudio Nerone avvenuta nella II guerra punica, quando per raggiungere il Metauro in aiuto all'altro Console, Marco Livio Salinatore, contro Asdrubale, Nerone con la sua Legione, partendo da Canosa, percorse 500 chilometri, praticamente correndo, in soli 7 giorni e 8 notti, percorrendo 63 chilometri al giorno! Lo stesso fece al ritorno, tanto che Annibale trincerato a Canosa non si accorse di nulla, nè fu informato della partenza di Nerone.
Tito Livio racconta di una particolare di ordine di marcia dell'esercito romano in territorio nemico, l' Agmen Quadratum:
- in testa ed in coda c'erano le due legioni consolari (fanteria pesante),
- ai lati le ali dei socii,
- al centro i bagagli di tutte le quattro unità menzionate (ovvero gli impedimenta delle legio I e II oltre a quelli delle due ali).
Tale ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica, menzionato anche durante le guerre sannitiche, la guerra annibalica, la guerra giugurtina, e la battaglia di Carre.
RIFORMA ETRUSCA
Con l'occupazione di Roma da parte degli Etruschi il nuovo esercito, di stile etrusco-greco, fu reclutato tra i cittadini romani secondo le cinque differenti "classi" sociali. «Dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa.»
Le formazioni armate comprendevano sia corpi di opliti (fanteria pesante), sia di truppe leggere (velites) e di cavalleria.
Gli opliti della prima fila formavano un "muro di enormi scudi rotondi" parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino commilitone. Sostenevano un addestramento costante ed il maggior peso del combattimento, che effettuavano in modo estremamente compatto, armati di lancia e spada, difesi da scudo, elmo e corazza (o comunque con una protezione pettorale).
«Quel giorno, tra la terza ed ottava ora, l'esito del combattimento era così incerto, che il grido di guerra lanciato al primo assalto, non fu più ripetuto, né le insegne avanzarono o ripiegarono, e neppure entrambe le parti indietreggiarono per prendere una nuova rincorsa.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 38.)
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dare dimostrazione del proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una loro alta mortalità a causa dell'elevato rischio a cui erano esposti.
Tito Livio racconta che lo stesso Tarquinio il Superbo, nel tentativo di riottenere il potere a Roma, mosse guerra contro il dittatore romano Aulo Postumio Albo Regillense, dopo essersi portato nelle prime fila del suo schieramento:
«Spronò con furia il suo cavallo contro Postumio, che stava incitando e dando ordini ai suoi nelle prime file e, ferito ad un fianco, fu salvato dai suoi soldati.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 19.)
L'obiettivo era di far cedere lo schieramento opposto, cercando di incunearsi dove l'avversario era più debole, spezzando le file nemiche. La spinta delle formazioni più arretrate che si accalcavano, premevano spingendo la prima fila contro il "muro" umano nemico. Due "muri umani" in tensione finché una delle due parti subiva l'inevitabile sfondamento e travolgimento, fino alla sconfitta finale.
Da qui l'importanza che i comandanti delle retroguardie assumevano per dirigere la spinta da tergo. «Fermi ognuno al proprio posto, premendo con gli scudi, combattevano senza prendere il respiro e senza guardarsi indietro; [...] avevano come obiettivo l'estrema stanchezza o la notte.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 38.)
L'avanzamento del singolo combattente era inutile e dannoso nella ferrea disciplina romana, e poteva portare alla rottura dello schieramento in piena battaglia, con conseguenze disastrose. La fuoriuscita dalle linee del proprio schieramento, era pertanto considerata una colpa punita anche con la morte.
Nel 340 a.c. il console Tito Manlio Torquato punì il proprio figlio con la decapitazione, per aver disobbedito agli ordini, spingendosi oltre le file romane e mettendo a rischio l'integrità del proprio schieramento, come ci racconta Livio:
«Dal momento che tu, Tito Manlio, senza alcun riguardo per il comando dei due consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto contro il nemico, contrariamente alla nostra disciplina, oltre le file dello schieramento e, per quanto è dipeso da te, hai allentato la disciplina militare, che fino ad oggi è stata alla base della potenza romana, [...], costituiremo un esempio doloroso, ma salutare per l'avvenire della gioventù romana.»
Lo scudo di grandi dimensioni dava maggior protezione al corpo: poteva essere rotondo in bronzo con due maniglie (di tipo argivo) o rettangolare con bordi arrotondati e rinforzo verticale centrale (a modello celtico o italico).
L'elmo di bronzo poteva avere o meno la cresta ed era inizialmente di tipo villanoviano, con la famosa cresta metallica, o di tipo Negau.
Poi si usarono elmi a campana e, a seguito dei contatti con le città greche, di tipo calcidese (con paraguance e paranuca e le orecchie scoperte), corinzio (a copertura quasi totale, con paranaso ed una sola fessura centrale per gli occhi e parte della bocca) ed etrusco-corinzio (senza paranaso e con apertura leggermente più aperta).
La protezione alle gambe prevedeva schinieri di bronzo, solo per gli opliti armati più pesantemente. Le truppe leggere erano fanti leggeri e tiratori che dovevano disturbare e disorganizzare il nemico, prima dell'urto degli opliti. I fanti leggeri erano armati di giavellotti, con uno scudo rotondo e un elmo ma senza corazza né piastre pettorali.
I tiratori potevano essere arcieri o frombolieri e portavano al fianco una piccola spada, pugnale o coltello, ma senza protezione. Gli arcieri operavano insieme agli opliti per tagliare le lance dei nemici. Usavano un'ascia ad una mano nel periodo villanoviano, per poi passare a quelle a due mani ad un taglio o bipenni, per protezione un elmo e un pettorale.
La cavalleria si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia, o per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e soccorrere i reparti di fanteria in difficoltà.
I cavalieri usavano briglie e morsi, ma staffe e sella erano sconosciuti: non esisteva una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano probabilmente una fanteria oplitica mobile.
LA TESTUGGINE |
LA TESTUGGINE
Un primo esempio di formazione "a testuggine" (testudo) utilizzato dalla fanteria romana, fu menzionato da Tito Livio nell'assedio di Veio agli inizi del IV secolo. I soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, come tegole di un tetto che ripara dalla "pioggia di dardi e frecce", sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste, come un carro armato vivente, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici.
Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, o in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.
Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina. E perché fosse efficace, necessitava di grande affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche. Spesso però tale formazione fu impiegata in Oriente, di fronte alla terribile cavalleria dei catafratti partici o degli arcieri orientali, come accadde durante le campagne di Marco Antonio:
«Descriverò ora la formazione a testuggine e come si forma. I bagagli, la fanteria leggera ed i cavalieri sono collocati al centro dello schieramento. Una parte della fanteria pesante, armata con gli scudi concavi semicircolari, si dispone a forma di quadrato (agmen quadratum) ai margini dello schieramento, con gli scudi rivolti verso l'esterno a protezione della massa.
Gli altri che hanno gli scudi piatti, si raccolgono nel mezzo e stringendosi alzano gli scudi in aria a difesa di tutti. Per questo motivo, in tutto lo schieramento si vedono solo gli scudi e tutti sono al riparo dalle frecce nemiche, grazie alla compattezza della formazione.
I Romani ricorrono a questa formazione in due casi: quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla o quando, circondati da ogni parte da arcieri nemici, si mettono in ginocchio in contemporanea, compresi i cavalli che sono addestrati a mettersi sulle ginocchia o a sdraiarsi a terra. così fanno credere al nemico di essere sfiniti e quando i nemici si avvicinano, si alzano all'improvviso e li annientano.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storie, XLIX, 30.)
LA TESTUGGINE |
TECNICHE D'ASSEDIO
I primi assedi li subì Roma ad opera degli Etruschi di Porsenna e dei Galli di Brenno, da cui i Romani appresero nuove tecniche per occupare le città etrusche e latine.
Nel 396 a.c. i Romani guidati da Camillo assediarono Veio, costruendo alcuni fortini ed una galleria che doveva arrivare fino alla rocca, passando sotto le mura nemiche. Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore.
Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima.
I romani uscirono dal cunicolo, attaccarono e portarono le viscere dell'animale sacrificato al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale contro le mura:
«Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 2)
In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio.
GUERRE TRA GALLI E ROMANI
Sacco di Roma (IV secolo a.c.).
Roma, al principio del IV secolo a.c., aveva raggiunto una notevole disciplina e organizzazione militare, uscendo vittoriosa nel 396 a.c. dalle guerre con Veio. La caduta di Veio non era piaciuta alle altre capitali etrusche gravitanti intorno al Fanum Voltumnae: e questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri).
Inoltre i Senoni invasero la provincia etrusca di Siena dal nord e attaccarono la città di Clusium, non distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello.
I Romani fronteggiarono i Senoni in una battaglia campale presso il fiume Allia (390/ 386 a.c.) I Galli, guidati da Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati e incalzarono i fuggitivi fin dentro la città, con una parziale occupazione e un umiliante sacco, prima che gli occupanti fossero scacciati o, secondo altri, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.
Fu allora che i Romani potrebbero aver adottato un nuovo tipo di elmo (chiamato di Montefortino, utilizzato fino al I secolo a.c.), uno scudo protetto da bordi in ferro ed un giavellotto (pilum) tale, da conficcarsi e piegarsi negli scudi avversari, rendendoli inutilizzabili per il prosieguo della battaglia.
Plutarco racconta, infatti, che 13 anni dopo la battaglia del fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli (databile al 377-374 a.c.), i Romani riuscirono a battere le armate celtiche, e ne fermarono una nuova invasione:
« Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, e ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi.
Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco.
Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi [dei Galli] sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti [romani].
I Galli allora abbandonarono le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo.
Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galliche credevano ciò fosse accaduto per una straordinaria disgrazia, piuttosto che per il valore dei loro conquistatori.»
(Plutarco, Vita di Camillo, 41, 3-6.)
Nel 225 a.c., ancora i Celti furono affrontati e vinti dai Romani.
«I Celti si erano preparati proteggendo le loro retroguardie, da cui si aspettavano un attacco di Emilio, provenendo i Gesati dalle Alpi e dietro di loro gli Insubri; di fronte a loro in direzione opposta, pronti a respingere l'attacco delle legioni di Gaio, misero i Taurisci ed i Boi sulla riva destra del Po.
I loro carri stazionavano all'estremità di una delle ali, mentre raccolsero il bottino su una delle colline circostanti con una forza tutta intorno a protezione. Queste forze dei Celti, poste su due fronti, si adeguava alla situazione.
Gli Insubri ed i Boi indossavano pantaloni e mantelli, mentre i Gesati erano nudi di fronte all'esercito [romano], con indosso nient'altro che le armi, visto che il terreno era coperto di rovi che potevano impigliarsi nei vestiti e impedire l'uso delle loro armi.
In un primo momento la battaglia fu limitata alla sola zona collinare, e il console Caio cadde, combattendo con estremo coraggio, e la sua testa fu portata al capo dei Celti, ma la cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina.
Le fanterie [dei due schieramenti] erano vicine, le une alle altre, e la battaglia si sviluppò fra tre eserciti.
I Celti, con il nemico che avanzava da entrambi i lati, erano in posizione pericolosa non avendo possibilità per una ritirata o fuga in caso di sconfitta, a causa della formazione su due fronti adottata.
I Romani avevano stretto il nemico tra i due eserciti [consolari], ma dall'altra erano terrorizzati per la fine del loro comandante, oltreché dal terribile frastuono dei Celti, che avevano numerosi suonatori di corno e trombettieri. Terrificanti erano anche i guerrieri celti, nudi davanti ai Romani, con i capi ornati con torques e bracciali d'oro. La loro vista lasciò davvero sgomenti i Romani, ma al tempo stesso la prospettiva di ottenere questi oggetti come bottino, li rese due volte più forti nella lotta.»
(Polibio, Storie, II, 28-29.)
E ancora Livio e Cesare, riferendosi ai Celti, raccontano che, durante la battaglia di Sentino del 295 a.c. e la conquista della Gallia del 58-50 a.c., essi conoscevano già la tattica della testuggine, da cui forse i Romani l'avrebbero appresa:
« distava otto miglia una città dei Remi di nome Bibrax. I Belgi appena giunti, cominciarono ad assaltarla con grande impeto. Per quel giorno a stento si poté resistere. Questa è la tecnica d'assalto usata in modo similare da Galli e Belgi: una volta circondate tutte le mura, con un gran numero di armati da ogni parte, cominciano a tirare pietre sul muro ed il muro viene liberato dai difensori; fatta poi la testuggine, danno fuoco alle porte e scavano il muro. E ciò facilmente gli riusciva, poiché essendo così numerosi nel tirare pietre e proiettili, nessuno poteva rimanere sulle mura.»
(Cesare, De bello Gallico II.6.1-3.)
Molti resti di accampamenti fortificati romani vennero rinvenuti attorno alla cittå iberica di Numantia (guerra numantina, de 155 al 133 a.c.), come gli accampamenti di Renieblas, databili al periodo 195 - 7! a.c., il cui castrum Ill sembra possa risalire al 153 a.c., anno della campagna militare del console Quinto Fulvio Nobiliore; il campo di Castillejo, occupato nel 137 a.c. da Gaio Ostilio Mancino e, piü tardi da Scipione Emiliano nel 134-133 a.c.; il campo di Peöa Redonda, non meno importante degli altri due.
MEDIO PERIODO REPUBBLICANO (350 a.c. circa):
Agmen pilatum
È Polibio ad informarci dell'ordine di marcia "base" di un esercito romano consolare, formato quindi da due legioni romane e due di alleati (socii).
- In testa alla "colonna" si trovava un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), - poi seguiva l'ala dextra sociorum, a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae),
- la legio I consolare, - i bagagli legionari (impedimenta legionis I),
- la legio II consolare,
- i bagagli legionari (impedimenta legionis II),
- a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae)
- e a chiudere l'ala sinistra sociorum.
Ordine di marcia di un esercito consolare descritto da Polibio, detto Agmen pilatum:
" Quando vi era poi il timore di qualche attacco alla retroguardia, l'ordine rimaneva invariato ad eccezione dei soli alleati extraordinarii, i quali erano posti in coda alla colonna. Le due legioni e le due ali marciano, inoltre, alternativamente un giorno in testa e un giorno in coda alla colonna, in modo che tutti potessero, a turno, usufruire di acqua pura e campi di foraggio ancora integri."
AGMEN TRIPARTITUM |
Agmen tripartitum o Acie triplici instituita
Sempre Polibio, poi Floro ed ancora Gaio Giulio Cesare, ci informano di un ordine di marcia particolare dell'esercito romano, databile per il primo alla guerra annibalica e per il secondo alle guerre cimbriche, per il terzo alla conquista della Gallia e chiamato agmen tripartitum.
Questo ordine prevedeva tre differenti "colonne" o "linee", ciascuna costituita rispettivamente da - manipoli di hastati (1º colonna, la più esposta ad eventuali attacchi nemici),
- principes (2º colonna)
- triarii (3º colonna),
intervallati con i rispettivi bagagli (impedimenta).
In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato in modo adeguato (triplex agmen).
«In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l'ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono a trovarsi alle spalle dalla linea di truppe e occupano la posizione ideale contro rischi di qualsiasi genere.»
(Polibio, Storie, VI, 40.11-14.)
Altra e fondamentale novità di questo periodo fu che il nuovo esercito, dovendo condurre campagne militari sempre più lontane dalla città di Roma, fu costretto a trovare delle soluzioni difensive adatte al pernottamento in territori spesso ostili. Ciò indusse i Romani a creare, sembra a partire dalle guerre pirriche, un primo esempio di accampamento militare da marcia fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno.
«Pirro re dell'Epiro, istituì per primo l'utilizzo di raccogliere l'intero esercito all'interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»
(Sesto Giulio Frontino, Strategemata, IX, 1.14.)
Il primo castra romano da marcia o da campagne militare (castra aestiva), ce lo descrive Polibio. Esso presentava una pianta rettangolare e una struttura interna adoperata anche nella pianificazione delle città: strade perpendicolari tra loro (chiamate cardo e decumano) che formavano un reticolato di quadrilateri.
Schieramento base ed inizio del combattimento Panoplia del V secolo a.c. della latina Lanuvio, conservata presso il Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano a Roma.
IL MANIPOLO |
Manipolo e Guerre sannitiche.
Il vecchio schieramento falangitico presentava alcuni punti deboli, che con la nuova formazione manipolare i Romani cercarono di migliorare. La falange, infatti, richiedeva una notevole compattezza e terreni assai pianeggianti. Quando i Romani si trovarono, quindi, attorno alla metà del IV secolo a.c., a dover combattere contro i Sanniti nelle regioni montuose dell'Italia Meridionale, furono costretti ad adottare non solo una nuova struttura (la legione fu divisa in 30 manipoli) e nuove armi (come il pilum e lo scutum ovale), ma anche una nuova tattica, certamente più elastica di quella adottata con la riforma di Servio Tullio.
La vera novità della formazione manipolare era che, non solo si dava maggior autonomia ai 30 sub-reparti (manipuli), ma che i soldati non erano più inquadrati secondo il loro censo, al contrario in base alla loro età, esperienza e capacità di combattimento. Solo i velites, che erano i cittadini meno abbienti, continuavano a svolgere il ruolo originario di fanteria leggera, davanti ai manipoli, ora formati da hastati-principes-triarii. Lo schieramento base di questo medio periodo repubblicano era l'acies triplex, ovvero la disposizione degli uomini su tre linee distinte. La prima linea era composta dagli hastati, la seconda dai principes e la terza dai triarii.
La fanteria al centro era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria, un'avanguardia di tiratori o schermagliatori che davano inizio alla battaglia scagliando dardi o giavellotti sul nemico per poi ritirarsi. La cavalleria si assicurava che i lati rimanessero difesi, e tentavano di aggirare il nemico, mentre la prima linea romana lo impegnava, per colpire alle spalle.
Gli eserciti erano schierati in base al loro livello di preparazione (ed in parte al loro censo): davanti a tutti c'erano i velites, dotati di fionde, giavellotti e piccolo scudo, ed avevano il compito di distrarre, innervosire il nemico con costanti lanci di dardi, coprendo inoltre le manovre della fanteria pesante romana alle loro spalle.
Dopo aver compiuto sufficienti azioni di disturbo, si ritiravano dal campo di battaglia, sfilando alle spalle degli hastati, dei principes e dei triarii, ultimi della formazione, i veri veterani.
«Quando l'esercito aveva assunto questo schieramento, gli Hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli Hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i Principes li accoglievano negli intervalli tra loro. [...] i Triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l'alto, quasi fossero una palizzata... Qualora anche i Principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai Triarii. Da qui l'espressione latino "Res ad Triarios rediit" ("essere ridotti ai Triarii"), quando si è in difficoltà.»
(Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 8, 9-12.)
I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera si gettavano sul nemico.
Schieramento in battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.c., con al centro le legioni e sui fianchi le Alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata.
ASSEDIO ROMANO |
VELOCITA' DI MARCIA
I legionari viaggiavano percorrendo in media 30 km al giorno con degli zaini sulla schiena del peso di 20 o 30 kg, che con l'aggiunta di armi e armatura potevano giungere a un peso di 50 kg. Gaio Mario per primo fece fare allenamenti pesantissimi e continui ai propri legionari che si autodefinirono così "i muli di Mario" e Giulio Cesare non fu da meno, li abituò a svegliarsi d'improvviso di notte per iniziare velocemente una marcia, e giunse a far percorrere ai suoi legionari fino a 75 km in un solo giorno.
ASSEDIO
armi d'assedio (storia romana).
Appartengono a questo periodo i primi importanti assedi ad opera dei Romani. Nel 250 a.c. l'assedio di Lilibeo comportò per la prima volta l'attuazione di tutte le tecniche d'assedio apprese durante le guerre pirriche degli anni 280-275 a.c., tra cui torri d'assedio, arieti e vinea.
Un primo utilizzo di macchine da lancio da parte dell'esercito romano sembra sia stato introdotto nella I guerra punica, contro le città cartaginesi, difese da imponenti mura e dotate di una sofisticata artiglieria.
Nel 214-212 a.c. i Romani dovettero affrontare uno dei più difficili assedi della loro storia: quello di Siracusa, ad opera del console Marco Claudio Marcello. I Romani, che avevano maturato un sufficiente bagaglio di esperienze negli assedi sia di mare che di terra, si scontrarono però con le tecniche innovative difensive adottate dal famoso matematico Archimede.
Si racconta infatti che, quando: «i Siracusani, quando videro i Romani investire la città dai due fronti, di terra e di mare, rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l'impeto di un attacco in forze di tali proporzioni.»
(Plutarco, Vita di Marcello, 14.)
Ma Archimede preparò la difesa della città, lungo i 27 km di mura difensive, con nuovi mezzi d'artiglieria. Si trattava di baliste, catapulte e scorpioni, oltre ad altri mezzi come la manus ferrea e gli specchi ustori, con cui mise in seria difficoltà gli attacchi romani per mare e per terra.
«I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta.
Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati imbarcati. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo.
Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.»
(Polibio, Le Storie, VIII, 5.)
Marcello decise allora di mantenere l'assedio per fame, per ben 18 mesi, tanto che la parte filoromana architettò il tradimento, permettendo ai Romani di fare irruzione in piena notte, quando furono aperti i cancelli della zona nord della città. Siracusa cadde e fu saccheggiata, non però la vicina isola di Ortigia, ben protetta da altre mura, che resistette ancora per poco. In quell'occasione trovò la morte anche il grande scienziato siracusano Archimede, che fu ucciso per errore da un soldato.
Altri e memorabili assedi del periodo furono quello degli anni 212-211 a.c., nel corso della II guerra punica, quando Annibale, se riuscì una prima volta a rompere l'assedio alla città di Capua (nel 212 a.c.), la seconda volta i Romani mantennero saldo le loro posizioni in Campania. E seppure Annibale avesse minacciato di assediare la stessa Roma:
«I Romani che erano assediati da Annibale e a loro volta assediavano Capua, disposero con decreto che l'esercito mantenesse quella posizione, fin quando la città non fosse stata espugnata.»
(Frontino, Strategemata, III, 18, 3.)
E così Annibale, constatato che le difese di Roma erano assai forti e gli assedianti romani di Capua non "rompevano l'assedio", abbandonò la città campana, che cadde poco dopo in mano romana.
Nel 209 a.c., nel mezzo della II guerra punica, Publio Cornelio Scipione riuscì ad espugnare la città ibero-cartaginese di Cartagena (poi ribattezzata Nova Carthago), dove al suo interno fu trovato un arsenale di macchine da lancio pari a 120 catapulte grandi, 281 piccole, 23 baliste grandi e 52 piccole, oltre ad un notevole numero di scorpioni.
Ultimi e sempre più "raffinati" assedi messi in atto dai romani furono quello del 146 a.c., durante la III guerra punica, a Cartagine, dove Appiano di Alessandria ci racconta che i Romani di Publio Cornelio Scipione Emiliano, catturarono più di 2.000 macchine da lancio (tra catapulte, baliste e scorpioni) nella sola capitale cartaginese.
Ed infine quello degli anni 134-133 a.c., di Numanzia, quando il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, eroe della III guerra punica, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio la città. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta.
Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una circonvallazione (un muro di 10 km tutto intorno) atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno.
Dopo quasi un anno di assedio, i Numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione, ma, saputo che questi avrebbe accettato solo una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo assalto contro le fortificazioni romane per poi bruciare la città e gettarsi fra le fiamme. I resti dell'oppidum furono rasi al suolo come Cartagine pochi anni prima.
GUERRE SANNITICHE
organizzazione militare dei Sanniti.
Un esercito sannita era organizzato in coorti – secondo Livio composte da 400 uomini – e combatteva in manipoli. La cavalleria sannita, inoltre, godeva di ottima fama.
I successi iniziali dei Sanniti contro i Romani sul terreno montuoso, confermano come essi usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto che schierare una falange serrata. Una tradizione, sostenuta dal frammento in greco detto "Ineditum Vaticanum" e da Diodoro Siculo, vuole che i Sanniti usassero sia il giavellotto (pilum), sia un lungo scudo ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con una borchia al centro (lo scutum), e che i Romani appresero da essi l'uso di tali armi, oltre alla tattica manipolare ed un miglior utilizzo della cavalleria.
« lo scudo sannitico oblungo non faceva parte del nostro equipaggiamento nazionale, né avevamo ancora i giavellotti, ma si combatteva con scudi rotondi e lance. Ma quando ci siamo trovati in guerra con i Sanniti, ci siamo armati come loro con gli scudi oblunghi e i giavellotti e copiando le armi nemiche siamo diventati padroni di tutti quelli che avevano una così alta opinione di se stessi.»
(Ineditum Vaticanum, H. Von Arnim (1892), Hermes 27: 118.)
GUERRE PIRRICHE
Re Pirro usava uno schieramento falangitico, difficile da affrontare per i Romani (inizi III sec. a.c.).
Nonostante le iniziali sconfitte subite dalla Repubblica romana, il re epirota subì anch'egli perdite considerevoli nel corso dei cinque anni di guerra (dal 280 al 275 a.c.), tanto da definirle "vittoria di Pirro".
Un comandante abile ed esperto come Pirro, schierava la sua falange attraverso un sistema misto, comprendente unità miste di elefanti da guerra, oltre a formazioni di fanteria leggera (peltasti), unità di élite e la cavalleria, tutte a sostegno del corpo principale di fanteria.
Così sconfisse i Romani due volte, mentre nella terza battaglia ma i romani impararono dai loro stessi errori, battendo la falange ellenica un secolo più tardi (nel 168 a.c.).
ANNIBALE E CARTAGINE
(l'importanza della cavalleria e degli "elefanti da guerra")
La battaglia di Zama, punto di svolta della tattica romana, al termine della devastante guerra annibalica.
A partire dalla guerra annibalica, in seguito alla cocente sconfitta di Canne del 216 a.c., l'esercito romano non poteva più basarsi sulla sola fanteria pesante al centro dello schieramento, era necessario rafforzare i reparti di cavalleria alle sue ali, per evitare di essere circondati dal nemico ai lati e subire una sconfitta tanto devastante.
Annibale era infatti riuscito ad annientare un esercito romano tre volte superiore, usando egregiamente la sua cavalleria. Durante la battaglia il centro cartaginese, che aveva assorbito la carica romana indietreggiando, aveva consentito che i suoi lati si allungassero.
I Romani, avanzando centralmente, avevano creduto di poter sfondare la formazione avversaria. Frattanto la cavalleria punica, nettamente superiore in numero e per qualità tattiche quella romana, la annientava.
E mentre la fanteria romana si incuneava pericolosamente al centro dello schieramento cartaginese, la cavalleria punica circondava la fanteria romana e la caricava da dietro. 80.000 soldati romani persero così la vita nello scontro, la peggior sconfitta della storia romana.
Nella battaglia di Zama, Publio Cornelio Scipione si trovò, per la prima volta dall'inizio della guerra annibalica, in netta superiorità numerica come forza di cavalleria, 4.000 dei quali forniti dall'alleato numida, Massinissa. La battaglia ebbe inizio con una carica da parte dei Cartaginesi di ben 80 elefanti da guerra, per sfondare al centro lo schieramento romano.
Scipione pose i triarii come riserva tattica, nelle retrovie, pronti ad un utilizzo in qualunque zona del campo di battaglia. Lasciò invece, i velites schierati, perchè Annibale non si accorgesse che principes ed hastati erano disposti "in colonna", in modo da lasciare tra i vari manipoli dei corridoi, nei quali sfogare la carica degli elefanti, limitando al minimo i danni.
Esaurito l'impeto della carica cartaginese, i legionari si trovavano a fronteggiare i veterani di Annibale, schierati dietro le prime file. Scipione diede così l'ordine di serrare i ranghi, e di predisporsi a sopportare l'urto della fanteria pesante cartaginese, mentre la cavalleria romana-numidica procedeva a sconfiggere le ali avversarie.
Questa prima disposizione tattica, simile a quella successiva per coorti, mise in atto una tattica sempre più flessibile, pronta ad adeguarsi alle circostanze e contribuendo alla vittoria sul campo di Annibale. La cavalleria non risultò mai l'arma principale nello schieramento romano, ma crebbe di importanza nella tattica utilizzata durante le successive battaglie, visto l'esito di Zama.
I cavalieri romani, spesso ausiliari alleati, si rivelarono di fondamentale importanza ad esempio nel corso della conquista della Gallia di Cesare. Si racconta che durante l'assedio di Alesia, quando sembrò che le sorti della battaglia erano in pareggio tra le parti, Cesare, a sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di Vercingetorige fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.
LA FALANGE MACEDONE
I Romani vinsero la falange macedone a Cinocefale nel 197 a.c. e a Pidna nel 168 a.c.
Nel primo scontro i Romani ottennero la vittoria grazie a migliori forze di cavalleria, che prima sconfissero la cavalleria nemica e poi aggredirono i fianchi ed il retro della falange nemica. A Pidna, i Macedoni, compreso gli errori tattici della precedente battaglia, raccolsero anch'essi un ingente corpo di cavalleria, pari in numero a quella romana (circa 4.000 armati) fortificando i loro fianchi.
Il fatto poi che i due schieramenti si affrontassero inizialmente, su un terreno relativamente pianeggiante, fece sì che la falange macedone, forte di 21.000 fanti pesanti, riuscì in un primo momento a respingere l'attacco delle legioni romane, tanto da costringerle ad indietreggiare.
Ma il terreno su cui i Romani erano indietreggiati, era sconnesso ed inadatto alla formazione falangitica, che avanzando perse la necessaria coesione. I Romani ottennero la vittoria grazie alla maggiore mobilità delle legioni manipolari rispetto alla "rigidezza" della falange macedone, e grazie ad armi più adeguate (scudo oblungo e la spada corta, importata dalla Spagna) nel combattimento "corpo a corpo".
Il comandante macedone, Perseo, vista la tragica situazione in cui versavano le sue truppe, fuggì senza provare a condurre la cavalleria alla carica, per proteggere la ritirata della sua fanteria ormai in difficoltà. La battaglia si racconta, si risolse in meno di due ore, con una sconfitta completa delle forze macedoni.
TARDO PERIODO REPUBBLICANO (107 a.c.)
Coorte e riforma mariana dell'esercito romano.
In seguito alle invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, dove le armate romane erano state sconfitte a causa del cuneus, una formazione compatta e profonda che devastava il centro dello schieramento avversario. Caio Mario adottò allora uno schieramento più compatto per fronteggiare il cuneus germanico), ma allo stesso tempio più flessibile, per aggirare i fianchi del nemico, unico loro punto debole.
Il manipolo (due centurie) venne sostituito, come unità di base della legione, da 10 coorti (come da Scipione l'Africano un secolo prima), numerate da I a X. Furono eliminate le divisioni tra Hastati, Principes e Triarii, ora tutti con il pilum (arma da lancio, che sostituiva l'hasta).
Soldati romani (hastati e/o principes) rappresentati sull'ara di Domizio Enobarbo, databile al 113 a.c. circa.
Gaio Giulio Cesare narra l'ordine di marcia delle legioni e delle truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria davanti al nemico nella conquista della Gallia, nel 57 a.c.:
«Cesare mandata avanti la cavalleria, seguiva subito dopo con il resto delle truppe: ma il criterio e l'ordine di marcia era diverso da quello che i Belgi avevano annunciato ai Nervi. Infatti poiché si avvicinava al nemico, Cesare conduceva sei legioni senza bagagli, secondo la sua consuetudine. Dopo queste aveva collocato i bagagli di tutto l'esercito. Poi c'erano le due legioni da poco arruolate, che chiudevano l'intera colonna e costituivano il presidio ai bagagli.»
(Cesare, De bello Gallico, II, 19.1-3.)
DUPLEX ACIES
Le nuove unità militari di base delle legioni, le coorti, venivano schierate normalmente su due linee (duplex acies), per avere un fronte lungo ma anche flessibile.
UNUM ACIES
Lo schieramento avvenne invece su una sola linea, per coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo.
TRIPLEX ACIES
Oppure su tre linee, formazione spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4 coorti, e le restanti due, formate da tre coorti ciascuna.
Le coorti schierate lungo la terza linea costituivano spesso una "riserva tattica", come avvenne contro Ariovisto in Alsazia.
QUATER ACIES
Sempre Cesare ci parla di un ordine coortale su quattro linee nella battaglia di Farsalo a protezione dalla cavalleria di Pompeo. Tale schieramento risultava così molto più compatto e "profondo" da sfondare, rispetto al precedente ordinamento manipolare.
FORMAZIONE A CUNEUS
Guerre cimbriche e Conquista della Gallia.
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata inizialmente dai Germani, che i Romani copiarono perfezionandola (dai tempi di Gaio Mario e Giulio Cesare) durante l'occupazione romana della Germania sotto Augusto, e durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio, come riferiscono Aulo Gellio, Ammiano Marcellino e Flavio Vegezio Renato.
I legionari si disponevano a cuneo in una formazione d'attacco compatta, larga alla base e molto stretta al vertice, detta anche "testa di porco", "caput porcinum", ponendo al vertice il proprio centurione, onde dividere lo schieramento avversario in due tronconi, rendendolo più vulnerabile.
Una volta sfondato il fronte nemico, si procedeva a circondarlo, grazie alla cavalleria, che premeva i lati impedendone la fuga. Un utilizzo di questo tipo si ricorda nel IV secolo, quando Costantino I la adottò contro le truppe di Massenzio nella battaglia di Torino del 312.
FORMAZIONE IN CERCHIO (ORBIS)
Conquista della Gallia.
Un altro tipo di tattica adottato in questo periodo sembra sia stato quello "a circolo" (orbis), come descritto da Cesare durante la conquista della Gallia, che sembra sia stato praticato però da piccole formazioni (in antitesi all' agmen quadratum di diverse legioni-truppe alleate).
«[Di ritorno dalla Britannia] da queste navi sbarcarono circa 300 soldati e si diressero verso il campo. I Morini, che Cesare partendo per la Britannia, aveva lasciato pacificati, attratti dalla speranza di bottino, li circondarono. E poiché i nostri si disposero "in cerchio" per difendersi, rapidamente si radunarono al grido di combattimento 6.000 Morini.
A questa notizia, Cesare inviò in aiuto tutta la cavalleria che aveva a disposizione. Frattanto i nostri soldati sostennero l'impeto dei Galli e combatterono con grande valore per più di 4 ore, ricevendo poche ferite ed uccidendo molti nemici.»
(Cesare, De bello Gallico IV.37.1-3.)
In un episodio la formazione "in cerchio", si rivelò poco adatta, nel V anno di campagna militare in Gallia, quando le truppe in marcia di Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono attaccate a sorpresa e massacrate da quelle galliche di Ambiorige. Sabino e Cotta furono uccisi, e solo pochi soldati riuscirono a raggiungere le truppe comandate da un altro legato di Cesare, Tito Labieno.
«Dal momento che, a causa della lunghezza della colonna di marcia, i legati Sabino e Cotta non potevano provvedere a tutto personalmente e decidere cosa si doveva fare in ogni punto della colonna, comandarono che si abbandonassero i bagagli e ci si disponesse "in cerchio". Questa decisione sebbene in casi come questo non sarebbe riprovevole, ebbe tuttavia delle conseguenze negative: diminuì infatti la fiducia dei nostri soldati e rese più spietati i nemici nel combattimento, poiché un tale ordine sembrava fosse stato preso per paura e disperazione.»
(Cesare, De bello Gallico V.33.3-5.)
Il comandante nelle prime file
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dimostrare il proprio coraggio e fiducia ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una alta mortalità per l'elevato rischio a cui si esponevano. Altri ebbero oltre al coraggio la fortuna di non aver mai subito ferite mortali, come Lucio Cornelio Silla Felix (il fortunato) e lo stesso Gaio Giulio Cesare, come dimostrano alcuni brani tratti qui sotto dal De bello Gallico:
«[Cesare] riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d'impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch'egli, dopo aver perduto l'insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti [...] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani.
Cesare vide che la situazione era critica e tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l'arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d'animo desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l'attacco nemico fu in parte respinto.»
(Cesare, De bello Gallico 2.25-26.)
Così i Romani ebbero la meglio, e sebbene i Nervi combattessero con coraggio e ostinazione, furono completamente massacrati. Cesare narra che al termine della battaglia dei 60.000 Nervi, ne rimasero in vita solo 500.
Ad Alesia, nello scontro finale, dove i Galli premevano contro le fortificazioni sia interne che esterne, ed i Romani erano prossimi al tracollo, Cesare, saputo che malgrado avesse inviato numerose coorti la situazione al campo settentrionale era assai grave, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il percorso.
Così non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani, ma con mossa inaspettata e repentina ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di seguirlo: aveva in mente di aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle. Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto trentanove coorti, si apprestò a muovere anch'egli contro il nemico.
«Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti... i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano.
I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari.
Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi... Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga...
Se i legionari non fossero stati sfiniti... tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 88.)
Cesare aveva vinto nuovamente. Questa volta aveva, però, sconfitto l'intera coalizione della Gallia, la vittoria finale contro l'impero dei Celti. Tale ruolo di apparire spesso nelle prime linee era, almeno dai tempi delle guerre puniche, assunto dai centurioni, posizionati sulla destra dello schieramento manipolare e poi coortale. Non a caso spesso al termine di aspri scontri, numerosi erano i centurioni caduti al termine della battaglia.
Cesare racconta che durante l'assedio di Gergovia:
«Lucio Fabio, un centurione dell'VIII legione, che, com'era noto ai suoi soldati, aveva detto quel giorno che era attratto dalle ricompense promesse ad Avarico, e che non avrebbe permesso a nessuno di salire sulle mura [dell'oppidum gallico] prima di lui, trovò tre soldati del suo manipolo, che lo sollevarono al punto che poté salire sul muro. Egli poi afferrandoli, uno ad uno, li tirò sulle mura.»
(Cesare, De bello Gallico VII.47.7.)
«In quello stesso momento, il centurione Lucio Fabio, e quelli che con lui erano saliti sulle mura della città, furono circondati, uccisi e gettati sotto dalle mura.»
(Cesare, De bello Gallico VII.50.3.)
LA RISERVA TATTICA
La battaglia di Farsalo dove le truppe di "riserva" di Cesare si rivelarono determinanti per la vittoria finale (48 a.c.).
Sappiamo da diverse fonti che in alcuni casi i comandanti romani utilizzavano parte del loro esercito quale "riserva tattica", da utilizzare poi nel corso della battaglia. Sembra sia stato Lucio Cornelio Silla che per primo portò questa innovazione tattica utilizzata poi nei secoli successivi. L'unità in questione, utilizzabile in caso di estrema necessità, fu creata per la prima volta nel corso della battaglia di Cheronea dell'86 a.c. dove l'ala sinistra dello schieramento romano, comandato da Lucio Licinio Murena, fu salvato grazie all'intervento di questa "riserva" tattica comandata dai legati Quinto Ortensio Ortalo e Galba.
Un altro esempio lo apprendiamo da Cesare nella conquista della Gallia, contro i Germani di Ariovisto in Alsazia o a Bibracte contro gli Elvezi nel 58 a.c.:
«Cesare schierò a metà del colle le quattro legioni di veterani [la VII, VIII, IX e X)] in tre file mentre ordinò di collocare sulla cima le due legioni appena arruolate [la XI e XII] insieme alle truppe ausiliarie, oltre a radunare i bagagli in un sol luogo, e che questo luogo fosse fortificato dai soldati schierati nella parte più alta della collina. Gli Elvezi che avevano seguito i romani con tutti i loro carri, radunarono in un sol luogo i bagagli, poi in file serrate, rigettata la cavalleria romana, si fecero sotto alla prima schiera dopo aver formato una falange.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 24.)
o anche in quella successiva del 57 a.c. nei pressi del fiume Axona:
«Cesare lasciate nel campo due legioni che aveva da poco arruolate, affinché, se in qualche parte dello schieramento vi fosse stato bisogno, potessero essere impiegate come riserva, schierò in ordine davanti al campo le altre sei legioni.»
(Cesare, De bello Gallico, II 8, 5-10.)
Le modalità di combattimento di Cesare, durante la battaglia in Alsazia contro i Germani di Ariovisto:
«Con tale violenza i Romani andarono all'assalto dei Germani, ma altrettanto improvvisamente e rapidamente i Germani corsero all'attacco, che non vi fu spazio per lanciare i pila contro il nemico. Lasciati da parte i pila si combatté, corpo a corpo, con le spade. Ma i Germani velocemente secondo il loro costume, si schierarono in falange e sostennero l'assalto delle spade. Si trovarono parecchi Romani che furono capaci di saltare sopra le falangi e strappare con le loro mani gli scudi e colpire da sopra.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 52.3-5.)
GLI ASSEDI
Appartengono certamente a questo periodo i più "famosi" assedi dell'intera storia romana, per le migliori tecniche militari adottate, con cui i Romani riuscirono ad assaltare ed occupare città nemiche considerate inespugnabili come:
- l'assedio di Numanzia da parte di Scipione Emiliano,
- di Atene per merito di Lucio Cornelio Silla,
- di Avarico
- del più conosciuto e studiato dai moderni di Alesia, ad opera di Gaio Giulio Cesare.
I Romani utilizzavano tre principali metodi per impadronirsi delle città nemiche:
- per fame (occorreva più tempo, ma minor perdite di vite umane da parte degli assalitori), creando tutto intorno alla città assediata una serie di fortificazioni (una controvallazione interna e, a volte, una circonvallazione esterna, come nel caso di Alesia) che impedissero al nemico di approvvigionarsi (di viveri ed anche di acqua, deviando gli stessi corsi dei fiumi)
- impedendo ai nemici di scappare, sottraendosi all'assedio, nella speranza di condurre gli assediati alla resa. Il sito attaccato veniva circondato da numerose postazioni, dove la principale ospitava il quartier generale, oltre ad una serie di altri fortini collegati.
- con un massiccio attacco frontale, impiegando una grande quantità di armati, artiglieria, rampe e torri d'assedio. L'esito finale era normalmente più veloce ma con un alto prezzo in perdite di armati da parte dell'assalitore romano. In questo caso si effettuava un'azione preparatoria all'assalto, di artiglieria, per provocare danni alle mura, produrre perdite di vite umane tra gli assediati ed indebolire il morale dei sopravvissuti.
Subito dopo i legionari si avvicinavano alle mura della città in formazione a testuggine, mentre arcieri e frombolieri lanciavano una "pioggia" di dardi (anche infuocati) contro gli assediati, a "copertura" dei fanti romani.
Scale, torri mobili e arieti si avvicinavano anch'essi, fino a quando legioni e auxilia, raggiunta la sommità delle mura, ingaggiano una serie di duelli "corpo a corpo". Seguiva il saccheggio della città, con un attacco improvviso, inatteso e devastante.
ASSEDIO DI AVARICO
Nell'assedio di Avarico, i Romani ottennero la vittoria a caro prezzo, dopo quasi un mese di estenuante assedio, che apparentemente non aveva portato a Cesare alcun vantaggio:
«Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli. Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 22.)
Comunque i legionari, pur ostacolati dal freddo e dalle frequenti piogge, riuscirono a costruire nei primi 25 giorni di assedio, un terrapieno largo quasi 100 metri ed alto quasi 24 metri, di fronte alle due porte della cittadella. Cesare, era così riuscito a raggiungere il livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa degli assediati.
Il 28mo giorno dall'inizio dell'assedio di Avarico, scoppiato un grande temporale, Cesare ritenne giunto il momento opportuno di attaccare, per la difficoltà dei nemici di appiccare nuovi fuochi al terrapieno sotto una pioggia battente, e per la minor cura del servizio di guardia delle mura. I Romani, pertanto, si nascosero all'interno delle vineae ed al segnale convenuto irruppero con grande velocità sugli spalti delle mura.
Dopo aspri combattimenti sulle mura e poi all'interno della città, dove i Galli si erano disposti a cuneo per battersi fino alla morte, i soldati romani esasperati, bruciarono l'intera città e trucidarono l'intera popolazione, comprese le donne, i vecchi ed i bambini. Dei 40.000 abitanti solo 800 salvarono la vita.
ASSEDIO DI ALESIA
(52 a.c.). Ad Alesia le opere messe in atto da Cesare furono mastodontiche, come mai prima di allora e dopo, nell'intera storia romana si erano mai viste. La città dei Galli era su una posizione fortificata in cima ad una collina circondata a valle da tre fiumi. Per tali ragioni Cesare ritenne che un attacco frontale non avrebbe avuto buon esito ed optò per un assedio, per costringere i Galli alla resa per fame.
Considerato che circa 80.000 soldati si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi, sarebbe stata solo questione di tempo: la fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o costretti alla resa. Per garantire il blocco, Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni, una "controvallazione" (interna) e una "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia.
I dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati dagli scavi archeologici nel sito. Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad occidente della città di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda 20 piedi (6 metri), con le pareti dritte in modo che il fondo fosse tanto largo quanto distavano i margini superiori.
Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a 400 passi da quella fossa ad occidente (600 metri). A questo punto, fu costruito, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di 15 km tutto intorno all'oppidum nemico (10 miglia romane) e, all'esterno di questo, per altri quasi 21 km (14 miglia), la "controvallazione".
Le fortificazioni costruite da Cesare ad Alesia, nell'ipotesi della locazione della battaglia presso Alise-sainte-Reine (52 a.c.). Le opere comprendevano:
- due valli (uno esterno e uno interno) sormontati da una palizzata, la cui altezza complessiva era di 3,5 metri (dodici piedi);
- due fosse larghe 4,5 metri e profonde circa 1,5 metri lungo il lato interno, dove la fossa più vicina alla fortificazione fu riempita con l'acqua dei fiumi circostanti;
- oltre i fossati si trovavano trappole e profonde buche (dal "cervus" sul fronte del vallo sotto la palizzata, a cinque ordini di "cippi", otto di "gigli" e numerosi "stimoli") per limitare le sortite dei Galli, che spesso attaccavano i cantieri dei Romani con grande violenza da più porte della città di Alesia;
- quasi 1.000 torri di guardia equidistanti a tre piani (a 25 metri circa, l'una dall'altra), presidiate dall'artiglieria romana;
- 23 fortini ("castella"), nei quali di giorno erano posti dei corpi di guardia affinché i nemici non facessero improvvise sortite (ciascuno con una coorte legionaria), di notte erano tenuti da sentinelle e da solidi presidi 4 grandi campi per le legioni (2 per ogni castrum) e 4 campi per la cavalleria, legionaria, ausiliaria e germanica.
Erano necessarie enormi capacità ingegneristiche per realizzare una tale opera, ma non nuove per uomini come gli edili, gli ufficiali di Roma, che solo pochi anni prima, in 10 giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno con somma meraviglia dei Germani. Ed infine, per non trovarsi poi costretto ad uscire dal campo con pericolo per l'incolumità delle sue armate, Cesare ordinò di avere un deposito di foraggio e di frumento per 30 giorni.
I GERMANI (CAVALLERIA MISTA E FALANGE)
Assalto dei Germani alle legioni romane.
Cesare, durante la conquista della Gallia nel 58 a.c., dovendosi scontrare con le armate germaniche, racconta dei guerrieri germani, abili sia con la cavalleria che utilizzavano per compiere rapide ed improvvise sortite, sia con la fanteria, forte di uno schieramento falangitico. Nel primo scontro Cesare racconta della loro cavalleria:
«I cavalieri avevano scelto i fanti da ogni reparto uno ad uno, per la propria personale difesa. Partecipavano alle battaglie in loro compagnia. I cavalieri si ritiravano presso di loro e se il combattimento diventava più difficile andavano insieme all'assalto. Se qualcuno era ferito in modo grave, ed era caduto da cavallo, lo circondavano per difenderlo. E se dovevano avanzare o ritirarsi rapidamente, tanto erano esercitati, che risultavano tanto veloci sostenendosi alle criniere dei cavalli, eguagliandone la corsa.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 48, 4-7.)
Successivamente, giunto in Alsazia, Cesare schierò le sue truppe in modo che le sue forze ausiliarie fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere (triplex acies). Avanzò, quindi, verso il campo dei Germani di Ariovisto e lo costrinse a disporre le sue truppe fuori dal campo.
Quest'ultimo ordinò l'esercito per tribù: prima quella degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine gli Svevi. Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani.
Cesare così racconta lo svolgimento della battaglia:
«Cesare mise i legati ed il questore a capo ciascuno di una legione, egli in persona diede inizio al combattimento dall'ala destra, poiché aveva notato che quella era la parte dei nemici più debole. I nostri andarono all'attacco con tanta violenza che non ci fu neppure il tempo per lanciare i giavellotti contro i Germani. Ed i Germani con rapidità formarono una falange e sostennero l'assalto delle spade romane, e molti dei nostri riuscirono a saltare sopra la falange ed a strappare loro gli scudi ed a colpire dall'alto. Una volta respinta l'ala sinistra nemica e messa in fuga, all'ala destra i nemici in grande numero esercitavano una forte pressione sulla nostra schiera. Essendosi accorto di ciò, il giovane Publio Licinio Crasso che comandava la cavalleria, poiché era meno impegnato mandò ai nostri in difficoltà la terza schiera. Così fu ristabilita la situazione e tutti i nemici furono messi in fuga e non smisero di scappare prima di aver raggiunto il fiume Reno distante dal luogo della battaglia circa 5.000 passi (7,5 km).»
(Cesare, De bello Gallico, I, 52-53.)
GLI ORIENTALI: DALLE TRUPPE MITRIDATICHE AI PARTI
(tra cavalleria catafratta ed arcieri)
Esercito mitridatico, Esercito partico, guerre mitridatiche e guerre romano-partiche.
L'esercito mitridatico poteva contare su:
- una fanteria falangitica di stampo ellenistico,
- una cavalleria "leggera" di arcieri armeniaco-partico,
- una cavalleria "pesante" catafratta,
- carri falcati, sempre di tipo orientale,
- flotte (anche di pirati) composte per lo più da pentecontere e biremi.
Roma ebbe così modo di adattare le proprie tattiche al nuovo nemico orientale nel corso di trent'anni di guerre. Quando le legioni romane si scontrarono per la prima volta con le armate partiche nel 53 a.c. a Carre nella Mesopotamia settentrionale, subendo una delle più tremende sconfitte dell'intera storia romana, i successivi generali furono costretti a rivedere nuove tattiche per difendersi dalla cavalleria catafratta.
Nelle successive campagne militari i legionari formarono una specie di "muro umano" su due linee. La prima linea s'inginocchiava ponendo lo scutum ovale di fronte ed i pila sollevati, che uscivano dallo spazio tra uno scudo e l'altro con una inclinazione di 30º. La seconda linea copriva la prima con gli scudi creando una tettoia, e da dietro si preparavano a scagliare i pila. Questa formazione era utile per difendersi, ma lenta da applicare, praticamente immobile e debole sui fianchi e sul retro, da usarsi solo in caso di carica diretta.
RIFORMA AUGUSTEA DELL'ESERCITO
Alto periodo imperiale: legioni e auxilia (30 a.c. - 284 d.c.)
«Tanto grande ed assoluta è la loro ubbidienza ai comandanti, da costituire un vanto in tempo di pace; in battaglia, da rendere l'intero esercito compatto, quasi fosse un blocco unico.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.7.104.)
L'ordine di marcia delle singole unità che componevano un'armata:
- la fanteria ausiliaria era mandata in avanscoperta;
- seguiva l'avanguardia composta da truppe legionarie, appoggiate da un corpo di cavalleria;
- dietro loro alcuni legionari muniti di attrezzi per la costruzione dell'accampamento al termine della giornata di marcia;
- seguivano gli ufficiali ed il generale con scorta armata e guardia del corpo nel caso dell'imperatore (guardia pretoriana);
- ancora un gruppo di legionari e cavalieri;
- poi muli carichi di armi da assedio smontate, oltre a bagagli ed alimenti;
- seguivano altre legioni, eventuali forze mercenarie o di popoli clienti;
- chiudeva la retroguardia composta da un grosso contingente di cavalleria.
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio dell'armamento che utilizzava l'esercito romano, durante la I guerra giudaica (66-74):
«Si mettono marcia tutti in silenzio e ordinatamente, restando ciascuno al proprio posto come fossero in battaglia. I fanti indossano corazze ed elmi, una spada appesa su ciascun fianco, dove quella di sinistra è più lunga di quella di destra, quest'ultima non più lunga di un palmo. I soldati "scelti", che fanno da scorta al comandante, portano una lancia e uno scudo rotondo (parma); il resto dei legionari un giavellotto e uno scudo oblungo, oltre ad una serie di attrezzi come, una sega, un cesto, una piccozza, una scure, una cinghia, un trincetto, una catena e cibo per tre giorni; tanto che i fanti sono carichi come bestie da soma (i muli di Mario).
I cavalieri portano una grande spada sul fianco destro, impugnano una lunga lancia, uno scudo viene quindi posto obliquamente sul fianco del cavallo, in una faretra sono messi anche tre o più dardi dalla punta larga e grande non meno di quella delle lance; l'elmo e la corazza sono simili a quelli della fanteria. L'armamento dei cavalieri scelti, quelli che fanno da scorta al comandante, non differiscono in nulla a quello delle ali di cavalleria. A sorte, infine, si stabilisce quale delle legioni debba iniziare la colonna di marcia.»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 5.5.93-97.)
Giuseppe Flavio, descrizione dell'ordine di marcia:
«Vespasiano, muovendosi per invadere la Galilea, fece uscire da Tolemaide l'esercito disponendolo nell'ordine di marcia consueto ai Romani:
- in testa allo schieramento le truppe ausiliarie armate alla leggera e gli arcieri (sagittarii), pronti a respingere improvvisi attacchi nemici ed esplorare (exploratores) i boschi adatti alle imboscate.
- Insieme a loro un contingente armato "pesantemente", in parte a piedi e in parte a cavallo.
- Dietro a questi dieci uomini per ogni centuria, che portavano il bagaglio personale e gli attrezzi per misurare l'accampamento (mensores),
- subito dopo i genieri delle strade, per rendere diritti i percorsi, per livellare il terreno, per abbattere gli alberi lungo il cammino, facilitando la marcia all'esercito.
- Dietro a questi mise i bagagli suoi e degli ufficiali (impedimenta), proteggendoli con un numeroso reparto di cavalleria.
- Dietro cavalcava lui stesso (Vespasiano), circondato da fanti e cavalieri scelti (speculatores) e di lancieri (equites cataphractarii e lanciarii).
- Veniva, quindi, la cavalleria legionaria, formata da 120 cavalieri per ogni legione.
- Seguivano i muli che trainavano le elepoli e le altre macchine da guerra.
- Dietro a questi i legati (legati legionis) e i prefetti delle coorti (praefecti cohortis) con i tribuni (tribuni militum), scortati da soldati scelti (speculatores);
- poi le insegne (signa) che circondano l'aquila, portata in testa ad ogni legione romana. L'aquila rappresenta, per i Romani, il simbolo del loro impero oltre ad essere auspicio di vittoria contro qualunque nemico.
- Dietro alle sacre insegne c'erano i trombettieri (tubicines, cornicines e bucinatores) e quindi il grosso della fanteria legionaria disposta lungo sei file. E sempre secondo consuetudine, li accompagnava un centurione per fare in modo che marciassero in buon ordine nei ranghi.
- Dietro alla fanteria legionaria venivano i servi di ciascuna legione, i quali portavano i bagagli dei soldati sui muli e sulle bestie da soma (impedimenta);
- subito dopo le legioni, c'erano le truppe alleate, protette da una retroguardia composta da fanti leggeri e pesanti e da numerose ali di cavalleria (auxilia).»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 6.2.116-126.)
Giuseppe Flavio, sempre ai tempi della I guerra giudaica, ricorda Tito, figlio di Vespasiano, quando marciò da Cesarea Marittima a Gerusalemme per assediarla:
- La marcia di Tito in territorio nemico iniziava con gli alleati regi e tutte le forze ausiliarie,
- dietro le quali si trovava il genio per la costruzione di strade e la misurazione degli accampamenti.
- Seguivano poi le salmerie dei comandanti con la dovuta scorta,
- dietro a questa procedeva Tito con i fanti scelti, i lancieri e le turmae della cavalleria legionaria.
- Dietro si trovavano le macchine da guerra, poi i tribuni, i prefetti di coorte insieme ai reparti scelti, quindi intorno all'aquila le insegne precedute dai rispettivi trombettieri.
- Seguiva la fanteria legionaria, che marciava su sei file,
- seguita da salmerie, servi di ogni legione.
- Dietro a tutti, i mercenari e la retroguardia di scorta ad essi.»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, V, 2, 1.47-49.)
Al tempo di Massimino Trace (nel 238), Erodiano racconta che l'Imperatore romano era deciso a marciare su Roma per reprimere la rivolta di Pupieno e Balbino, con un ordine di marcia a forma di grande rettangolo, ponendo il bagaglio pesante, gli approvvigionamenti ed i carri al centro della formazione, ed infine prendendo lui stesso il comando della retroguardia. Su ogni fianco marciavano gli squadroni di cavalleria, truppe di Mauri armati di giavellotto e di arcieri orientali.
L'imperatore condusse con sé anche un consistente numero di ausiliari germani, posti all'avanguardia, primi a sopportare gli assalti di un eventuale nemico. Questi uomini estremamente selvaggi e audaci, risultavano molto abili nelle fasi iniziali della battaglia e, comunque, sacrificabili. Certamente meglio loro che le legioni di cittadini romani.
Al termine della giornata era costruito un accampamento da campagna, per poter soggiornare la notte, protetti da eventuali attacchi notturni dei nemici della zona.
«Mi sembra che i Romani, i quali cercano di essere molto pratici in questa disciplina, seguano una strada del tutto opposta a quella dei Greci. Questi ultimi infatti, quando piantano l'accampamento, ritengono sia di somma importanza adattarsi alle difese naturali del luogo stesso, sia perché così evitano di faticare con la costruzione di fossati, sia perché credono che le difese artificiali non possano eguagliare quelle naturali, che il terreno può loro offrire. E così, nel predisporre il piano generale dell'accampamento, sono costretti a cambiare continuamente il suo assetto [...] per cui nessuno sa mai con precisione quale sia il suo posto e della propria unità. I Romani, al contrario, preferiscono fare la fatica di scavare i fossati e di costruire le altre opere di fortificazione per avere sempre avere un unico tipo di accampamento, sempre uguale e ben conosciuto a tutti.»
(Polibio, VI, 42.1-2.)
Accampamento "da campagna" Tipico castrum romano da campagna militare:
1: Principia;
2: Via Praetoria;
3: Via Principalis;
4: Porta Principalis Dextra;
5: Porta Praetoria (porta principle);
6: Porta Principalis Sinistra;
7: Porta Decumana.
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio di un tipico accampamento di marcia, durante la prima guerra giudaica (66-74):
«I nemici non possono coglierli di sorpresa. [I Romani], infatti, quando entrano in territorio nemico non vengono a battaglia prima di aver costruito un accampamento fortificato. L'accampamento non lo costruiscono dove capita, né su terreno non pianeggiante, né tutti vi lavorano, né senza un'organizzazione prestabilita; se il terreno è disuguale viene livellato. L'accampamento viene poi costruito a forma di quadrato. L'esercito ha al seguito una grande quantità di fabbri e arnesi per la sua costruzione.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.1.76-78.)
Giuseppe Flavio aggiunge che all'interno vi sono tutta una serie di file di tende, mentre all'esterno la recinzione (vallum) assomiglia ad un muro munito di torri ad intervalli regolari. In questi intervalli vengono collocate tutta una serie di armi da lancio, come catapulte e baliste con relativi dardi, pronti per essere lanciati:
«Nelle fortificazioni si aprono quattro porte, una su ciascun lato, comode per farvi transitare sia animali da tiro, sia per l'utilizzarle in sortite esterne da parte dei soldati, in caso di emergenza, essendo le stesse molto ampie.
L'accampamento, quindi, è intersecato al centro da strade che s'incrociano ad angolo retto (via Praetoria e via Principalis). Nel mezzo vengono poste le tende degli ufficiali (quaestorium) e quella del comandante (praetorium), che assomiglia a un tempio.
Una volta costruito, appare come una città con la sua piazza (forum), le botteghe degli artigiani e i seggi destinati agli ufficiali dei vari gradi (tribunal), qualora debbano giudicare in occasione di qualche controversia.
Le fortificazioni esterne e tutto ciò che racchiudono vengono costruite molto rapidamente, tanto numerosi ed esperti sono quelli che vi lavorano. Se è necessario, all'esterno si scava anche un fossato profondo quattro cubiti (pari a quasi 1,8 metri) e largo altrettanto.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.2.81-84.)
Costruito l'accampamento, i soldati si sistemano in modo ordinato al suo interno, coorte per coorte, centuria per centuria. Vengono, quindi, avviate tutte le attività con grande disciplina e in sicurezza, dai rifornimenti di legna, di vettovaglie e d'acqua; all'occorrenza inviano apposite squadre di exploratores nel territorio circostante.
Nessuno può mangiare quando vuole, al contrario tutti lo fanno insieme. Sono poi gli squilli di buccina ad impartire l'ordine di dormire o svegliarsi, i tempi dei turni di guardia, e non vi è operazione che non si conduca a termine senza un preciso comando. All'alba, tutti i soldati si presentano ai centurioni, e poi questi a loro volta vanno a salutare i tribuni e insieme con costoro, tutti gli ufficiali, si recano dal comandante in capo.
Questi dà loro la parola d'ordine e tutte le disposizioni della giornata. Quando si deve togliere l'accampamento, le buccine danno il segnale. Nessuno resta inoperoso, tanto che, appena udito il primo squillo, tolgono le tende e si preparano per mettersi in marcia. Ancora le buccine danno un secondo segnale, che prevede che ciascuno carichi rapidamente i bagagli sui muli e sugli altri animali da soma.
Si schierano, quindi, pronti a partire. Nel caso poi di accampamenti semi-permanenti, costruiti in legno, danno fuoco alle strutture principali, perché è facile costruirne uno nuovo, e per impedire che il nemico possano utilizzarlo. Le buccine danno un terzo squillo, per spronare quelli che per qualche ragione siano in ritardo.
Un ufficiale, alla destra del comandante, per tre volte rivolge loro in latino, la domanda se siano pronti a combattere, e quelli per tre volte rispondono con un grido assordante, dicendo di esser pronti e, come invasati da una grande esaltazione guerresca accompagnano le grida, alzando le destre.
LO SCHIERAMENTO IN BATTAGLIA
«[I Romani] si comportano con uguale disciplina anche in battaglia, eseguono molto rapidamente le manovre nella dovuta direzione, e in schiera compatta avanzano o indietreggiano al comando.»
(Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 5.3.88.)
«Tanto sono compatte le loro schiere, agili nelle manovre, le orecchie tese ai comandi, gli occhi ai segnali, le mani all'azione. Sono sempre rapidi nell'agire, lenti nel sentire qualche colpo infertogli, e non vi fu situazione in cui essi dovettero essere sconfitti, non alla superiorità numerica, non a stratagemmi o a difficoltà di terreno, e neppure alla sfortuna. Per loro, infatti, essere i più forti è cosa più importante dell'avere fortuna.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.7.105-106.)
Nel combattimento in campo aperto, la cavalleria era solitamente posizionata alle "ali". Le legioni erano posizionate nella parte centrale dello schieramento in triplex acies (in rari casi in duplex acies ), poiché come fanteria pesante, dovevano reggere lo scontro frontale delle unità nemiche. Erano protette alle spalle dall'artiglieria e da quelle truppe ausiliarie di fanteria specializzata nel lancio di dardi, frecce, ecc. (come arcieri, frombolieri, lanciatori in genere).
Questa seconda linea serviva a decimare il nemico prima ancora che potesse prendere contatto con l'armata romana (ben illustrato nel film de Il Gladiatore). Alle spalle dell'esercito schierato, magari su un promontorio, la guardia pretoriana e l'Imperatore stesso. La combinazione di legioni e truppe ausiliarie (cavalleria, fanteria leggera e truppe di tiratori), conferiva ai Romani una superiorità tattica quasi su ogni tipo di terreno e contro qualunque tipo di avversari.
FORMAZIONE A FORFEX SOTTO AUGUSTO
armi d'assedio (storia romana).
Appartengono a questo periodo i primi importanti assedi ad opera dei Romani. Nel 250 a.c. l'assedio di Lilibeo comportò per la prima volta l'attuazione di tutte le tecniche d'assedio apprese durante le guerre pirriche degli anni 280-275 a.c., tra cui torri d'assedio, arieti e vinea.
Un primo utilizzo di macchine da lancio da parte dell'esercito romano sembra sia stato introdotto nella I guerra punica, contro le città cartaginesi, difese da imponenti mura e dotate di una sofisticata artiglieria.
Nel 214-212 a.c. i Romani dovettero affrontare uno dei più difficili assedi della loro storia: quello di Siracusa, ad opera del console Marco Claudio Marcello. I Romani, che avevano maturato un sufficiente bagaglio di esperienze negli assedi sia di mare che di terra, si scontrarono però con le tecniche innovative difensive adottate dal famoso matematico Archimede.
Si racconta infatti che, quando: «i Siracusani, quando videro i Romani investire la città dai due fronti, di terra e di mare, rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l'impeto di un attacco in forze di tali proporzioni.»
(Plutarco, Vita di Marcello, 14.)
Ma Archimede preparò la difesa della città, lungo i 27 km di mura difensive, con nuovi mezzi d'artiglieria. Si trattava di baliste, catapulte e scorpioni, oltre ad altri mezzi come la manus ferrea e gli specchi ustori, con cui mise in seria difficoltà gli attacchi romani per mare e per terra.
«I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta.
Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati imbarcati. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo.
Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.»
(Polibio, Le Storie, VIII, 5.)
Marcello decise allora di mantenere l'assedio per fame, per ben 18 mesi, tanto che la parte filoromana architettò il tradimento, permettendo ai Romani di fare irruzione in piena notte, quando furono aperti i cancelli della zona nord della città. Siracusa cadde e fu saccheggiata, non però la vicina isola di Ortigia, ben protetta da altre mura, che resistette ancora per poco. In quell'occasione trovò la morte anche il grande scienziato siracusano Archimede, che fu ucciso per errore da un soldato.
Altri e memorabili assedi del periodo furono quello degli anni 212-211 a.c., nel corso della II guerra punica, quando Annibale, se riuscì una prima volta a rompere l'assedio alla città di Capua (nel 212 a.c.), la seconda volta i Romani mantennero saldo le loro posizioni in Campania. E seppure Annibale avesse minacciato di assediare la stessa Roma:
«I Romani che erano assediati da Annibale e a loro volta assediavano Capua, disposero con decreto che l'esercito mantenesse quella posizione, fin quando la città non fosse stata espugnata.»
(Frontino, Strategemata, III, 18, 3.)
E così Annibale, constatato che le difese di Roma erano assai forti e gli assedianti romani di Capua non "rompevano l'assedio", abbandonò la città campana, che cadde poco dopo in mano romana.
Nel 209 a.c., nel mezzo della II guerra punica, Publio Cornelio Scipione riuscì ad espugnare la città ibero-cartaginese di Cartagena (poi ribattezzata Nova Carthago), dove al suo interno fu trovato un arsenale di macchine da lancio pari a 120 catapulte grandi, 281 piccole, 23 baliste grandi e 52 piccole, oltre ad un notevole numero di scorpioni.
Ultimi e sempre più "raffinati" assedi messi in atto dai romani furono quello del 146 a.c., durante la III guerra punica, a Cartagine, dove Appiano di Alessandria ci racconta che i Romani di Publio Cornelio Scipione Emiliano, catturarono più di 2.000 macchine da lancio (tra catapulte, baliste e scorpioni) nella sola capitale cartaginese.
Ed infine quello degli anni 134-133 a.c., di Numanzia, quando il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, eroe della III guerra punica, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio la città. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta.
Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una circonvallazione (un muro di 10 km tutto intorno) atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno.
Dopo quasi un anno di assedio, i Numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione, ma, saputo che questi avrebbe accettato solo una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo assalto contro le fortificazioni romane per poi bruciare la città e gettarsi fra le fiamme. I resti dell'oppidum furono rasi al suolo come Cartagine pochi anni prima.
GUERRE SANNITICHE
organizzazione militare dei Sanniti.
Un esercito sannita era organizzato in coorti – secondo Livio composte da 400 uomini – e combatteva in manipoli. La cavalleria sannita, inoltre, godeva di ottima fama.
I successi iniziali dei Sanniti contro i Romani sul terreno montuoso, confermano come essi usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto che schierare una falange serrata. Una tradizione, sostenuta dal frammento in greco detto "Ineditum Vaticanum" e da Diodoro Siculo, vuole che i Sanniti usassero sia il giavellotto (pilum), sia un lungo scudo ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con una borchia al centro (lo scutum), e che i Romani appresero da essi l'uso di tali armi, oltre alla tattica manipolare ed un miglior utilizzo della cavalleria.
« lo scudo sannitico oblungo non faceva parte del nostro equipaggiamento nazionale, né avevamo ancora i giavellotti, ma si combatteva con scudi rotondi e lance. Ma quando ci siamo trovati in guerra con i Sanniti, ci siamo armati come loro con gli scudi oblunghi e i giavellotti e copiando le armi nemiche siamo diventati padroni di tutti quelli che avevano una così alta opinione di se stessi.»
(Ineditum Vaticanum, H. Von Arnim (1892), Hermes 27: 118.)
GUERRE PIRRICHE
Re Pirro usava uno schieramento falangitico, difficile da affrontare per i Romani (inizi III sec. a.c.).
Nonostante le iniziali sconfitte subite dalla Repubblica romana, il re epirota subì anch'egli perdite considerevoli nel corso dei cinque anni di guerra (dal 280 al 275 a.c.), tanto da definirle "vittoria di Pirro".
Un comandante abile ed esperto come Pirro, schierava la sua falange attraverso un sistema misto, comprendente unità miste di elefanti da guerra, oltre a formazioni di fanteria leggera (peltasti), unità di élite e la cavalleria, tutte a sostegno del corpo principale di fanteria.
Così sconfisse i Romani due volte, mentre nella terza battaglia ma i romani impararono dai loro stessi errori, battendo la falange ellenica un secolo più tardi (nel 168 a.c.).
ELEFANTI CARTAGINESI |
ANNIBALE E CARTAGINE
(l'importanza della cavalleria e degli "elefanti da guerra")
La battaglia di Zama, punto di svolta della tattica romana, al termine della devastante guerra annibalica.
A partire dalla guerra annibalica, in seguito alla cocente sconfitta di Canne del 216 a.c., l'esercito romano non poteva più basarsi sulla sola fanteria pesante al centro dello schieramento, era necessario rafforzare i reparti di cavalleria alle sue ali, per evitare di essere circondati dal nemico ai lati e subire una sconfitta tanto devastante.
Annibale era infatti riuscito ad annientare un esercito romano tre volte superiore, usando egregiamente la sua cavalleria. Durante la battaglia il centro cartaginese, che aveva assorbito la carica romana indietreggiando, aveva consentito che i suoi lati si allungassero.
I Romani, avanzando centralmente, avevano creduto di poter sfondare la formazione avversaria. Frattanto la cavalleria punica, nettamente superiore in numero e per qualità tattiche quella romana, la annientava.
E mentre la fanteria romana si incuneava pericolosamente al centro dello schieramento cartaginese, la cavalleria punica circondava la fanteria romana e la caricava da dietro. 80.000 soldati romani persero così la vita nello scontro, la peggior sconfitta della storia romana.
Nella battaglia di Zama, Publio Cornelio Scipione si trovò, per la prima volta dall'inizio della guerra annibalica, in netta superiorità numerica come forza di cavalleria, 4.000 dei quali forniti dall'alleato numida, Massinissa. La battaglia ebbe inizio con una carica da parte dei Cartaginesi di ben 80 elefanti da guerra, per sfondare al centro lo schieramento romano.
Scipione pose i triarii come riserva tattica, nelle retrovie, pronti ad un utilizzo in qualunque zona del campo di battaglia. Lasciò invece, i velites schierati, perchè Annibale non si accorgesse che principes ed hastati erano disposti "in colonna", in modo da lasciare tra i vari manipoli dei corridoi, nei quali sfogare la carica degli elefanti, limitando al minimo i danni.
Esaurito l'impeto della carica cartaginese, i legionari si trovavano a fronteggiare i veterani di Annibale, schierati dietro le prime file. Scipione diede così l'ordine di serrare i ranghi, e di predisporsi a sopportare l'urto della fanteria pesante cartaginese, mentre la cavalleria romana-numidica procedeva a sconfiggere le ali avversarie.
Questa prima disposizione tattica, simile a quella successiva per coorti, mise in atto una tattica sempre più flessibile, pronta ad adeguarsi alle circostanze e contribuendo alla vittoria sul campo di Annibale. La cavalleria non risultò mai l'arma principale nello schieramento romano, ma crebbe di importanza nella tattica utilizzata durante le successive battaglie, visto l'esito di Zama.
I cavalieri romani, spesso ausiliari alleati, si rivelarono di fondamentale importanza ad esempio nel corso della conquista della Gallia di Cesare. Si racconta che durante l'assedio di Alesia, quando sembrò che le sorti della battaglia erano in pareggio tra le parti, Cesare, a sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di Vercingetorige fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.
LA FALANGE MACEDONE |
LA FALANGE MACEDONE
I Romani vinsero la falange macedone a Cinocefale nel 197 a.c. e a Pidna nel 168 a.c.
Nel primo scontro i Romani ottennero la vittoria grazie a migliori forze di cavalleria, che prima sconfissero la cavalleria nemica e poi aggredirono i fianchi ed il retro della falange nemica. A Pidna, i Macedoni, compreso gli errori tattici della precedente battaglia, raccolsero anch'essi un ingente corpo di cavalleria, pari in numero a quella romana (circa 4.000 armati) fortificando i loro fianchi.
Il fatto poi che i due schieramenti si affrontassero inizialmente, su un terreno relativamente pianeggiante, fece sì che la falange macedone, forte di 21.000 fanti pesanti, riuscì in un primo momento a respingere l'attacco delle legioni romane, tanto da costringerle ad indietreggiare.
Ma il terreno su cui i Romani erano indietreggiati, era sconnesso ed inadatto alla formazione falangitica, che avanzando perse la necessaria coesione. I Romani ottennero la vittoria grazie alla maggiore mobilità delle legioni manipolari rispetto alla "rigidezza" della falange macedone, e grazie ad armi più adeguate (scudo oblungo e la spada corta, importata dalla Spagna) nel combattimento "corpo a corpo".
Il comandante macedone, Perseo, vista la tragica situazione in cui versavano le sue truppe, fuggì senza provare a condurre la cavalleria alla carica, per proteggere la ritirata della sua fanteria ormai in difficoltà. La battaglia si racconta, si risolse in meno di due ore, con una sconfitta completa delle forze macedoni.
TARDO PERIODO REPUBBLICANO (107 a.c.)
Coorte e riforma mariana dell'esercito romano.
In seguito alle invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, dove le armate romane erano state sconfitte a causa del cuneus, una formazione compatta e profonda che devastava il centro dello schieramento avversario. Caio Mario adottò allora uno schieramento più compatto per fronteggiare il cuneus germanico), ma allo stesso tempio più flessibile, per aggirare i fianchi del nemico, unico loro punto debole.
Il manipolo (due centurie) venne sostituito, come unità di base della legione, da 10 coorti (come da Scipione l'Africano un secolo prima), numerate da I a X. Furono eliminate le divisioni tra Hastati, Principes e Triarii, ora tutti con il pilum (arma da lancio, che sostituiva l'hasta).
Soldati romani (hastati e/o principes) rappresentati sull'ara di Domizio Enobarbo, databile al 113 a.c. circa.
Gaio Giulio Cesare narra l'ordine di marcia delle legioni e delle truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria davanti al nemico nella conquista della Gallia, nel 57 a.c.:
«Cesare mandata avanti la cavalleria, seguiva subito dopo con il resto delle truppe: ma il criterio e l'ordine di marcia era diverso da quello che i Belgi avevano annunciato ai Nervi. Infatti poiché si avvicinava al nemico, Cesare conduceva sei legioni senza bagagli, secondo la sua consuetudine. Dopo queste aveva collocato i bagagli di tutto l'esercito. Poi c'erano le due legioni da poco arruolate, che chiudevano l'intera colonna e costituivano il presidio ai bagagli.»
(Cesare, De bello Gallico, II, 19.1-3.)
DUPLEX ACIES
Le nuove unità militari di base delle legioni, le coorti, venivano schierate normalmente su due linee (duplex acies), per avere un fronte lungo ma anche flessibile.
UNUM ACIES
Lo schieramento avvenne invece su una sola linea, per coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo.
TRIPLEX ACIES
Oppure su tre linee, formazione spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4 coorti, e le restanti due, formate da tre coorti ciascuna.
Le coorti schierate lungo la terza linea costituivano spesso una "riserva tattica", come avvenne contro Ariovisto in Alsazia.
QUATER ACIES
Sempre Cesare ci parla di un ordine coortale su quattro linee nella battaglia di Farsalo a protezione dalla cavalleria di Pompeo. Tale schieramento risultava così molto più compatto e "profondo" da sfondare, rispetto al precedente ordinamento manipolare.
FORMAZIONE A CUNEUS
Guerre cimbriche e Conquista della Gallia.
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata inizialmente dai Germani, che i Romani copiarono perfezionandola (dai tempi di Gaio Mario e Giulio Cesare) durante l'occupazione romana della Germania sotto Augusto, e durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio, come riferiscono Aulo Gellio, Ammiano Marcellino e Flavio Vegezio Renato.
I legionari si disponevano a cuneo in una formazione d'attacco compatta, larga alla base e molto stretta al vertice, detta anche "testa di porco", "caput porcinum", ponendo al vertice il proprio centurione, onde dividere lo schieramento avversario in due tronconi, rendendolo più vulnerabile.
Una volta sfondato il fronte nemico, si procedeva a circondarlo, grazie alla cavalleria, che premeva i lati impedendone la fuga. Un utilizzo di questo tipo si ricorda nel IV secolo, quando Costantino I la adottò contro le truppe di Massenzio nella battaglia di Torino del 312.
FORMAZIONE IN CERCHIO (ORBIS)
Conquista della Gallia.
Un altro tipo di tattica adottato in questo periodo sembra sia stato quello "a circolo" (orbis), come descritto da Cesare durante la conquista della Gallia, che sembra sia stato praticato però da piccole formazioni (in antitesi all' agmen quadratum di diverse legioni-truppe alleate).
«[Di ritorno dalla Britannia] da queste navi sbarcarono circa 300 soldati e si diressero verso il campo. I Morini, che Cesare partendo per la Britannia, aveva lasciato pacificati, attratti dalla speranza di bottino, li circondarono. E poiché i nostri si disposero "in cerchio" per difendersi, rapidamente si radunarono al grido di combattimento 6.000 Morini.
A questa notizia, Cesare inviò in aiuto tutta la cavalleria che aveva a disposizione. Frattanto i nostri soldati sostennero l'impeto dei Galli e combatterono con grande valore per più di 4 ore, ricevendo poche ferite ed uccidendo molti nemici.»
(Cesare, De bello Gallico IV.37.1-3.)
In un episodio la formazione "in cerchio", si rivelò poco adatta, nel V anno di campagna militare in Gallia, quando le truppe in marcia di Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono attaccate a sorpresa e massacrate da quelle galliche di Ambiorige. Sabino e Cotta furono uccisi, e solo pochi soldati riuscirono a raggiungere le truppe comandate da un altro legato di Cesare, Tito Labieno.
«Dal momento che, a causa della lunghezza della colonna di marcia, i legati Sabino e Cotta non potevano provvedere a tutto personalmente e decidere cosa si doveva fare in ogni punto della colonna, comandarono che si abbandonassero i bagagli e ci si disponesse "in cerchio". Questa decisione sebbene in casi come questo non sarebbe riprovevole, ebbe tuttavia delle conseguenze negative: diminuì infatti la fiducia dei nostri soldati e rese più spietati i nemici nel combattimento, poiché un tale ordine sembrava fosse stato preso per paura e disperazione.»
(Cesare, De bello Gallico V.33.3-5.)
Il comandante nelle prime file
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dimostrare il proprio coraggio e fiducia ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una alta mortalità per l'elevato rischio a cui si esponevano. Altri ebbero oltre al coraggio la fortuna di non aver mai subito ferite mortali, come Lucio Cornelio Silla Felix (il fortunato) e lo stesso Gaio Giulio Cesare, come dimostrano alcuni brani tratti qui sotto dal De bello Gallico:
«[Cesare] riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d'impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch'egli, dopo aver perduto l'insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti [...] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani.
Cesare vide che la situazione era critica e tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l'arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d'animo desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l'attacco nemico fu in parte respinto.»
(Cesare, De bello Gallico 2.25-26.)
Così i Romani ebbero la meglio, e sebbene i Nervi combattessero con coraggio e ostinazione, furono completamente massacrati. Cesare narra che al termine della battaglia dei 60.000 Nervi, ne rimasero in vita solo 500.
Ad Alesia, nello scontro finale, dove i Galli premevano contro le fortificazioni sia interne che esterne, ed i Romani erano prossimi al tracollo, Cesare, saputo che malgrado avesse inviato numerose coorti la situazione al campo settentrionale era assai grave, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il percorso.
Così non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani, ma con mossa inaspettata e repentina ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di seguirlo: aveva in mente di aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle. Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto trentanove coorti, si apprestò a muovere anch'egli contro il nemico.
«Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti... i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano.
I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari.
Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi... Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga...
Se i legionari non fossero stati sfiniti... tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 88.)
Cesare aveva vinto nuovamente. Questa volta aveva, però, sconfitto l'intera coalizione della Gallia, la vittoria finale contro l'impero dei Celti. Tale ruolo di apparire spesso nelle prime linee era, almeno dai tempi delle guerre puniche, assunto dai centurioni, posizionati sulla destra dello schieramento manipolare e poi coortale. Non a caso spesso al termine di aspri scontri, numerosi erano i centurioni caduti al termine della battaglia.
Cesare racconta che durante l'assedio di Gergovia:
«Lucio Fabio, un centurione dell'VIII legione, che, com'era noto ai suoi soldati, aveva detto quel giorno che era attratto dalle ricompense promesse ad Avarico, e che non avrebbe permesso a nessuno di salire sulle mura [dell'oppidum gallico] prima di lui, trovò tre soldati del suo manipolo, che lo sollevarono al punto che poté salire sul muro. Egli poi afferrandoli, uno ad uno, li tirò sulle mura.»
(Cesare, De bello Gallico VII.47.7.)
«In quello stesso momento, il centurione Lucio Fabio, e quelli che con lui erano saliti sulle mura della città, furono circondati, uccisi e gettati sotto dalle mura.»
(Cesare, De bello Gallico VII.50.3.)
LA RISERVA TATTICA
La battaglia di Farsalo dove le truppe di "riserva" di Cesare si rivelarono determinanti per la vittoria finale (48 a.c.).
Sappiamo da diverse fonti che in alcuni casi i comandanti romani utilizzavano parte del loro esercito quale "riserva tattica", da utilizzare poi nel corso della battaglia. Sembra sia stato Lucio Cornelio Silla che per primo portò questa innovazione tattica utilizzata poi nei secoli successivi. L'unità in questione, utilizzabile in caso di estrema necessità, fu creata per la prima volta nel corso della battaglia di Cheronea dell'86 a.c. dove l'ala sinistra dello schieramento romano, comandato da Lucio Licinio Murena, fu salvato grazie all'intervento di questa "riserva" tattica comandata dai legati Quinto Ortensio Ortalo e Galba.
Un altro esempio lo apprendiamo da Cesare nella conquista della Gallia, contro i Germani di Ariovisto in Alsazia o a Bibracte contro gli Elvezi nel 58 a.c.:
«Cesare schierò a metà del colle le quattro legioni di veterani [la VII, VIII, IX e X)] in tre file mentre ordinò di collocare sulla cima le due legioni appena arruolate [la XI e XII] insieme alle truppe ausiliarie, oltre a radunare i bagagli in un sol luogo, e che questo luogo fosse fortificato dai soldati schierati nella parte più alta della collina. Gli Elvezi che avevano seguito i romani con tutti i loro carri, radunarono in un sol luogo i bagagli, poi in file serrate, rigettata la cavalleria romana, si fecero sotto alla prima schiera dopo aver formato una falange.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 24.)
o anche in quella successiva del 57 a.c. nei pressi del fiume Axona:
«Cesare lasciate nel campo due legioni che aveva da poco arruolate, affinché, se in qualche parte dello schieramento vi fosse stato bisogno, potessero essere impiegate come riserva, schierò in ordine davanti al campo le altre sei legioni.»
(Cesare, De bello Gallico, II 8, 5-10.)
Le modalità di combattimento di Cesare, durante la battaglia in Alsazia contro i Germani di Ariovisto:
«Con tale violenza i Romani andarono all'assalto dei Germani, ma altrettanto improvvisamente e rapidamente i Germani corsero all'attacco, che non vi fu spazio per lanciare i pila contro il nemico. Lasciati da parte i pila si combatté, corpo a corpo, con le spade. Ma i Germani velocemente secondo il loro costume, si schierarono in falange e sostennero l'assalto delle spade. Si trovarono parecchi Romani che furono capaci di saltare sopra le falangi e strappare con le loro mani gli scudi e colpire da sopra.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 52.3-5.)
ASSEDIO |
GLI ASSEDI
Appartengono certamente a questo periodo i più "famosi" assedi dell'intera storia romana, per le migliori tecniche militari adottate, con cui i Romani riuscirono ad assaltare ed occupare città nemiche considerate inespugnabili come:
- l'assedio di Numanzia da parte di Scipione Emiliano,
- di Atene per merito di Lucio Cornelio Silla,
- di Avarico
- del più conosciuto e studiato dai moderni di Alesia, ad opera di Gaio Giulio Cesare.
I Romani utilizzavano tre principali metodi per impadronirsi delle città nemiche:
- per fame (occorreva più tempo, ma minor perdite di vite umane da parte degli assalitori), creando tutto intorno alla città assediata una serie di fortificazioni (una controvallazione interna e, a volte, una circonvallazione esterna, come nel caso di Alesia) che impedissero al nemico di approvvigionarsi (di viveri ed anche di acqua, deviando gli stessi corsi dei fiumi)
- impedendo ai nemici di scappare, sottraendosi all'assedio, nella speranza di condurre gli assediati alla resa. Il sito attaccato veniva circondato da numerose postazioni, dove la principale ospitava il quartier generale, oltre ad una serie di altri fortini collegati.
- con un massiccio attacco frontale, impiegando una grande quantità di armati, artiglieria, rampe e torri d'assedio. L'esito finale era normalmente più veloce ma con un alto prezzo in perdite di armati da parte dell'assalitore romano. In questo caso si effettuava un'azione preparatoria all'assalto, di artiglieria, per provocare danni alle mura, produrre perdite di vite umane tra gli assediati ed indebolire il morale dei sopravvissuti.
Subito dopo i legionari si avvicinavano alle mura della città in formazione a testuggine, mentre arcieri e frombolieri lanciavano una "pioggia" di dardi (anche infuocati) contro gli assediati, a "copertura" dei fanti romani.
Scale, torri mobili e arieti si avvicinavano anch'essi, fino a quando legioni e auxilia, raggiunta la sommità delle mura, ingaggiano una serie di duelli "corpo a corpo". Seguiva il saccheggio della città, con un attacco improvviso, inatteso e devastante.
RICOSTRUZIONE ASSEDIO DI AVARICO |
ASSEDIO DI AVARICO
Nell'assedio di Avarico, i Romani ottennero la vittoria a caro prezzo, dopo quasi un mese di estenuante assedio, che apparentemente non aveva portato a Cesare alcun vantaggio:
«Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli. Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 22.)
Comunque i legionari, pur ostacolati dal freddo e dalle frequenti piogge, riuscirono a costruire nei primi 25 giorni di assedio, un terrapieno largo quasi 100 metri ed alto quasi 24 metri, di fronte alle due porte della cittadella. Cesare, era così riuscito a raggiungere il livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa degli assediati.
Il 28mo giorno dall'inizio dell'assedio di Avarico, scoppiato un grande temporale, Cesare ritenne giunto il momento opportuno di attaccare, per la difficoltà dei nemici di appiccare nuovi fuochi al terrapieno sotto una pioggia battente, e per la minor cura del servizio di guardia delle mura. I Romani, pertanto, si nascosero all'interno delle vineae ed al segnale convenuto irruppero con grande velocità sugli spalti delle mura.
Dopo aspri combattimenti sulle mura e poi all'interno della città, dove i Galli si erano disposti a cuneo per battersi fino alla morte, i soldati romani esasperati, bruciarono l'intera città e trucidarono l'intera popolazione, comprese le donne, i vecchi ed i bambini. Dei 40.000 abitanti solo 800 salvarono la vita.
ASSEDIO DI ALESIA - LE DIFESE |
ASSEDIO DI ALESIA
(52 a.c.). Ad Alesia le opere messe in atto da Cesare furono mastodontiche, come mai prima di allora e dopo, nell'intera storia romana si erano mai viste. La città dei Galli era su una posizione fortificata in cima ad una collina circondata a valle da tre fiumi. Per tali ragioni Cesare ritenne che un attacco frontale non avrebbe avuto buon esito ed optò per un assedio, per costringere i Galli alla resa per fame.
Considerato che circa 80.000 soldati si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi, sarebbe stata solo questione di tempo: la fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o costretti alla resa. Per garantire il blocco, Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni, una "controvallazione" (interna) e una "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia.
I dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati dagli scavi archeologici nel sito. Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad occidente della città di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda 20 piedi (6 metri), con le pareti dritte in modo che il fondo fosse tanto largo quanto distavano i margini superiori.
Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a 400 passi da quella fossa ad occidente (600 metri). A questo punto, fu costruito, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di 15 km tutto intorno all'oppidum nemico (10 miglia romane) e, all'esterno di questo, per altri quasi 21 km (14 miglia), la "controvallazione".
Le fortificazioni costruite da Cesare ad Alesia, nell'ipotesi della locazione della battaglia presso Alise-sainte-Reine (52 a.c.). Le opere comprendevano:
- due valli (uno esterno e uno interno) sormontati da una palizzata, la cui altezza complessiva era di 3,5 metri (dodici piedi);
- due fosse larghe 4,5 metri e profonde circa 1,5 metri lungo il lato interno, dove la fossa più vicina alla fortificazione fu riempita con l'acqua dei fiumi circostanti;
- oltre i fossati si trovavano trappole e profonde buche (dal "cervus" sul fronte del vallo sotto la palizzata, a cinque ordini di "cippi", otto di "gigli" e numerosi "stimoli") per limitare le sortite dei Galli, che spesso attaccavano i cantieri dei Romani con grande violenza da più porte della città di Alesia;
- quasi 1.000 torri di guardia equidistanti a tre piani (a 25 metri circa, l'una dall'altra), presidiate dall'artiglieria romana;
- 23 fortini ("castella"), nei quali di giorno erano posti dei corpi di guardia affinché i nemici non facessero improvvise sortite (ciascuno con una coorte legionaria), di notte erano tenuti da sentinelle e da solidi presidi 4 grandi campi per le legioni (2 per ogni castrum) e 4 campi per la cavalleria, legionaria, ausiliaria e germanica.
Erano necessarie enormi capacità ingegneristiche per realizzare una tale opera, ma non nuove per uomini come gli edili, gli ufficiali di Roma, che solo pochi anni prima, in 10 giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno con somma meraviglia dei Germani. Ed infine, per non trovarsi poi costretto ad uscire dal campo con pericolo per l'incolumità delle sue armate, Cesare ordinò di avere un deposito di foraggio e di frumento per 30 giorni.
I GERMANI (CAVALLERIA MISTA E FALANGE)
Assalto dei Germani alle legioni romane.
Cesare, durante la conquista della Gallia nel 58 a.c., dovendosi scontrare con le armate germaniche, racconta dei guerrieri germani, abili sia con la cavalleria che utilizzavano per compiere rapide ed improvvise sortite, sia con la fanteria, forte di uno schieramento falangitico. Nel primo scontro Cesare racconta della loro cavalleria:
«I cavalieri avevano scelto i fanti da ogni reparto uno ad uno, per la propria personale difesa. Partecipavano alle battaglie in loro compagnia. I cavalieri si ritiravano presso di loro e se il combattimento diventava più difficile andavano insieme all'assalto. Se qualcuno era ferito in modo grave, ed era caduto da cavallo, lo circondavano per difenderlo. E se dovevano avanzare o ritirarsi rapidamente, tanto erano esercitati, che risultavano tanto veloci sostenendosi alle criniere dei cavalli, eguagliandone la corsa.»
(Cesare, De bello Gallico, I, 48, 4-7.)
Successivamente, giunto in Alsazia, Cesare schierò le sue truppe in modo che le sue forze ausiliarie fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere (triplex acies). Avanzò, quindi, verso il campo dei Germani di Ariovisto e lo costrinse a disporre le sue truppe fuori dal campo.
Quest'ultimo ordinò l'esercito per tribù: prima quella degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine gli Svevi. Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani.
Cesare così racconta lo svolgimento della battaglia:
«Cesare mise i legati ed il questore a capo ciascuno di una legione, egli in persona diede inizio al combattimento dall'ala destra, poiché aveva notato che quella era la parte dei nemici più debole. I nostri andarono all'attacco con tanta violenza che non ci fu neppure il tempo per lanciare i giavellotti contro i Germani. Ed i Germani con rapidità formarono una falange e sostennero l'assalto delle spade romane, e molti dei nostri riuscirono a saltare sopra la falange ed a strappare loro gli scudi ed a colpire dall'alto. Una volta respinta l'ala sinistra nemica e messa in fuga, all'ala destra i nemici in grande numero esercitavano una forte pressione sulla nostra schiera. Essendosi accorto di ciò, il giovane Publio Licinio Crasso che comandava la cavalleria, poiché era meno impegnato mandò ai nostri in difficoltà la terza schiera. Così fu ristabilita la situazione e tutti i nemici furono messi in fuga e non smisero di scappare prima di aver raggiunto il fiume Reno distante dal luogo della battaglia circa 5.000 passi (7,5 km).»
(Cesare, De bello Gallico, I, 52-53.)
CAVALLERIA CATAFRATTA |
GLI ORIENTALI: DALLE TRUPPE MITRIDATICHE AI PARTI
(tra cavalleria catafratta ed arcieri)
Esercito mitridatico, Esercito partico, guerre mitridatiche e guerre romano-partiche.
L'esercito mitridatico poteva contare su:
- una fanteria falangitica di stampo ellenistico,
- una cavalleria "leggera" di arcieri armeniaco-partico,
- una cavalleria "pesante" catafratta,
- carri falcati, sempre di tipo orientale,
- flotte (anche di pirati) composte per lo più da pentecontere e biremi.
Roma ebbe così modo di adattare le proprie tattiche al nuovo nemico orientale nel corso di trent'anni di guerre. Quando le legioni romane si scontrarono per la prima volta con le armate partiche nel 53 a.c. a Carre nella Mesopotamia settentrionale, subendo una delle più tremende sconfitte dell'intera storia romana, i successivi generali furono costretti a rivedere nuove tattiche per difendersi dalla cavalleria catafratta.
Nelle successive campagne militari i legionari formarono una specie di "muro umano" su due linee. La prima linea s'inginocchiava ponendo lo scutum ovale di fronte ed i pila sollevati, che uscivano dallo spazio tra uno scudo e l'altro con una inclinazione di 30º. La seconda linea copriva la prima con gli scudi creando una tettoia, e da dietro si preparavano a scagliare i pila. Questa formazione era utile per difendersi, ma lenta da applicare, praticamente immobile e debole sui fianchi e sul retro, da usarsi solo in caso di carica diretta.
LA VITA DEL LEGIONARIO |
RIFORMA AUGUSTEA DELL'ESERCITO
Alto periodo imperiale: legioni e auxilia (30 a.c. - 284 d.c.)
«Tanto grande ed assoluta è la loro ubbidienza ai comandanti, da costituire un vanto in tempo di pace; in battaglia, da rendere l'intero esercito compatto, quasi fosse un blocco unico.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.7.104.)
L'ordine di marcia delle singole unità che componevano un'armata:
- la fanteria ausiliaria era mandata in avanscoperta;
- seguiva l'avanguardia composta da truppe legionarie, appoggiate da un corpo di cavalleria;
- dietro loro alcuni legionari muniti di attrezzi per la costruzione dell'accampamento al termine della giornata di marcia;
- seguivano gli ufficiali ed il generale con scorta armata e guardia del corpo nel caso dell'imperatore (guardia pretoriana);
- ancora un gruppo di legionari e cavalieri;
- poi muli carichi di armi da assedio smontate, oltre a bagagli ed alimenti;
- seguivano altre legioni, eventuali forze mercenarie o di popoli clienti;
- chiudeva la retroguardia composta da un grosso contingente di cavalleria.
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio dell'armamento che utilizzava l'esercito romano, durante la I guerra giudaica (66-74):
«Si mettono marcia tutti in silenzio e ordinatamente, restando ciascuno al proprio posto come fossero in battaglia. I fanti indossano corazze ed elmi, una spada appesa su ciascun fianco, dove quella di sinistra è più lunga di quella di destra, quest'ultima non più lunga di un palmo. I soldati "scelti", che fanno da scorta al comandante, portano una lancia e uno scudo rotondo (parma); il resto dei legionari un giavellotto e uno scudo oblungo, oltre ad una serie di attrezzi come, una sega, un cesto, una piccozza, una scure, una cinghia, un trincetto, una catena e cibo per tre giorni; tanto che i fanti sono carichi come bestie da soma (i muli di Mario).
I cavalieri portano una grande spada sul fianco destro, impugnano una lunga lancia, uno scudo viene quindi posto obliquamente sul fianco del cavallo, in una faretra sono messi anche tre o più dardi dalla punta larga e grande non meno di quella delle lance; l'elmo e la corazza sono simili a quelli della fanteria. L'armamento dei cavalieri scelti, quelli che fanno da scorta al comandante, non differiscono in nulla a quello delle ali di cavalleria. A sorte, infine, si stabilisce quale delle legioni debba iniziare la colonna di marcia.»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 5.5.93-97.)
Giuseppe Flavio, descrizione dell'ordine di marcia:
«Vespasiano, muovendosi per invadere la Galilea, fece uscire da Tolemaide l'esercito disponendolo nell'ordine di marcia consueto ai Romani:
- in testa allo schieramento le truppe ausiliarie armate alla leggera e gli arcieri (sagittarii), pronti a respingere improvvisi attacchi nemici ed esplorare (exploratores) i boschi adatti alle imboscate.
- Insieme a loro un contingente armato "pesantemente", in parte a piedi e in parte a cavallo.
- Dietro a questi dieci uomini per ogni centuria, che portavano il bagaglio personale e gli attrezzi per misurare l'accampamento (mensores),
- subito dopo i genieri delle strade, per rendere diritti i percorsi, per livellare il terreno, per abbattere gli alberi lungo il cammino, facilitando la marcia all'esercito.
- Dietro a questi mise i bagagli suoi e degli ufficiali (impedimenta), proteggendoli con un numeroso reparto di cavalleria.
- Dietro cavalcava lui stesso (Vespasiano), circondato da fanti e cavalieri scelti (speculatores) e di lancieri (equites cataphractarii e lanciarii).
- Seguivano i muli che trainavano le elepoli e le altre macchine da guerra.
- Dietro a questi i legati (legati legionis) e i prefetti delle coorti (praefecti cohortis) con i tribuni (tribuni militum), scortati da soldati scelti (speculatores);
- poi le insegne (signa) che circondano l'aquila, portata in testa ad ogni legione romana. L'aquila rappresenta, per i Romani, il simbolo del loro impero oltre ad essere auspicio di vittoria contro qualunque nemico.
- Dietro alle sacre insegne c'erano i trombettieri (tubicines, cornicines e bucinatores) e quindi il grosso della fanteria legionaria disposta lungo sei file. E sempre secondo consuetudine, li accompagnava un centurione per fare in modo che marciassero in buon ordine nei ranghi.
- Dietro alla fanteria legionaria venivano i servi di ciascuna legione, i quali portavano i bagagli dei soldati sui muli e sulle bestie da soma (impedimenta);
- subito dopo le legioni, c'erano le truppe alleate, protette da una retroguardia composta da fanti leggeri e pesanti e da numerose ali di cavalleria (auxilia).»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 6.2.116-126.)
Giuseppe Flavio, sempre ai tempi della I guerra giudaica, ricorda Tito, figlio di Vespasiano, quando marciò da Cesarea Marittima a Gerusalemme per assediarla:
- La marcia di Tito in territorio nemico iniziava con gli alleati regi e tutte le forze ausiliarie,
- dietro le quali si trovava il genio per la costruzione di strade e la misurazione degli accampamenti.
- Seguivano poi le salmerie dei comandanti con la dovuta scorta,
- dietro a questa procedeva Tito con i fanti scelti, i lancieri e le turmae della cavalleria legionaria.
- Dietro si trovavano le macchine da guerra, poi i tribuni, i prefetti di coorte insieme ai reparti scelti, quindi intorno all'aquila le insegne precedute dai rispettivi trombettieri.
- Seguiva la fanteria legionaria, che marciava su sei file,
- seguita da salmerie, servi di ogni legione.
- Dietro a tutti, i mercenari e la retroguardia di scorta ad essi.»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, V, 2, 1.47-49.)
Al tempo di Massimino Trace (nel 238), Erodiano racconta che l'Imperatore romano era deciso a marciare su Roma per reprimere la rivolta di Pupieno e Balbino, con un ordine di marcia a forma di grande rettangolo, ponendo il bagaglio pesante, gli approvvigionamenti ed i carri al centro della formazione, ed infine prendendo lui stesso il comando della retroguardia. Su ogni fianco marciavano gli squadroni di cavalleria, truppe di Mauri armati di giavellotto e di arcieri orientali.
L'imperatore condusse con sé anche un consistente numero di ausiliari germani, posti all'avanguardia, primi a sopportare gli assalti di un eventuale nemico. Questi uomini estremamente selvaggi e audaci, risultavano molto abili nelle fasi iniziali della battaglia e, comunque, sacrificabili. Certamente meglio loro che le legioni di cittadini romani.
Al termine della giornata era costruito un accampamento da campagna, per poter soggiornare la notte, protetti da eventuali attacchi notturni dei nemici della zona.
«Mi sembra che i Romani, i quali cercano di essere molto pratici in questa disciplina, seguano una strada del tutto opposta a quella dei Greci. Questi ultimi infatti, quando piantano l'accampamento, ritengono sia di somma importanza adattarsi alle difese naturali del luogo stesso, sia perché così evitano di faticare con la costruzione di fossati, sia perché credono che le difese artificiali non possano eguagliare quelle naturali, che il terreno può loro offrire. E così, nel predisporre il piano generale dell'accampamento, sono costretti a cambiare continuamente il suo assetto [...] per cui nessuno sa mai con precisione quale sia il suo posto e della propria unità. I Romani, al contrario, preferiscono fare la fatica di scavare i fossati e di costruire le altre opere di fortificazione per avere sempre avere un unico tipo di accampamento, sempre uguale e ben conosciuto a tutti.»
(Polibio, VI, 42.1-2.)
Accampamento "da campagna" Tipico castrum romano da campagna militare:
1: Principia;
2: Via Praetoria;
3: Via Principalis;
4: Porta Principalis Dextra;
5: Porta Praetoria (porta principle);
6: Porta Principalis Sinistra;
7: Porta Decumana.
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio di un tipico accampamento di marcia, durante la prima guerra giudaica (66-74):
«I nemici non possono coglierli di sorpresa. [I Romani], infatti, quando entrano in territorio nemico non vengono a battaglia prima di aver costruito un accampamento fortificato. L'accampamento non lo costruiscono dove capita, né su terreno non pianeggiante, né tutti vi lavorano, né senza un'organizzazione prestabilita; se il terreno è disuguale viene livellato. L'accampamento viene poi costruito a forma di quadrato. L'esercito ha al seguito una grande quantità di fabbri e arnesi per la sua costruzione.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.1.76-78.)
Giuseppe Flavio aggiunge che all'interno vi sono tutta una serie di file di tende, mentre all'esterno la recinzione (vallum) assomiglia ad un muro munito di torri ad intervalli regolari. In questi intervalli vengono collocate tutta una serie di armi da lancio, come catapulte e baliste con relativi dardi, pronti per essere lanciati:
«Nelle fortificazioni si aprono quattro porte, una su ciascun lato, comode per farvi transitare sia animali da tiro, sia per l'utilizzarle in sortite esterne da parte dei soldati, in caso di emergenza, essendo le stesse molto ampie.
L'accampamento, quindi, è intersecato al centro da strade che s'incrociano ad angolo retto (via Praetoria e via Principalis). Nel mezzo vengono poste le tende degli ufficiali (quaestorium) e quella del comandante (praetorium), che assomiglia a un tempio.
Una volta costruito, appare come una città con la sua piazza (forum), le botteghe degli artigiani e i seggi destinati agli ufficiali dei vari gradi (tribunal), qualora debbano giudicare in occasione di qualche controversia.
Le fortificazioni esterne e tutto ciò che racchiudono vengono costruite molto rapidamente, tanto numerosi ed esperti sono quelli che vi lavorano. Se è necessario, all'esterno si scava anche un fossato profondo quattro cubiti (pari a quasi 1,8 metri) e largo altrettanto.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.2.81-84.)
Costruito l'accampamento, i soldati si sistemano in modo ordinato al suo interno, coorte per coorte, centuria per centuria. Vengono, quindi, avviate tutte le attività con grande disciplina e in sicurezza, dai rifornimenti di legna, di vettovaglie e d'acqua; all'occorrenza inviano apposite squadre di exploratores nel territorio circostante.
Nessuno può mangiare quando vuole, al contrario tutti lo fanno insieme. Sono poi gli squilli di buccina ad impartire l'ordine di dormire o svegliarsi, i tempi dei turni di guardia, e non vi è operazione che non si conduca a termine senza un preciso comando. All'alba, tutti i soldati si presentano ai centurioni, e poi questi a loro volta vanno a salutare i tribuni e insieme con costoro, tutti gli ufficiali, si recano dal comandante in capo.
Questi dà loro la parola d'ordine e tutte le disposizioni della giornata. Quando si deve togliere l'accampamento, le buccine danno il segnale. Nessuno resta inoperoso, tanto che, appena udito il primo squillo, tolgono le tende e si preparano per mettersi in marcia. Ancora le buccine danno un secondo segnale, che prevede che ciascuno carichi rapidamente i bagagli sui muli e sugli altri animali da soma.
Si schierano, quindi, pronti a partire. Nel caso poi di accampamenti semi-permanenti, costruiti in legno, danno fuoco alle strutture principali, perché è facile costruirne uno nuovo, e per impedire che il nemico possano utilizzarlo. Le buccine danno un terzo squillo, per spronare quelli che per qualche ragione siano in ritardo.
Un ufficiale, alla destra del comandante, per tre volte rivolge loro in latino, la domanda se siano pronti a combattere, e quelli per tre volte rispondono con un grido assordante, dicendo di esser pronti e, come invasati da una grande esaltazione guerresca accompagnano le grida, alzando le destre.
I ROMANI |
LO SCHIERAMENTO IN BATTAGLIA
«[I Romani] si comportano con uguale disciplina anche in battaglia, eseguono molto rapidamente le manovre nella dovuta direzione, e in schiera compatta avanzano o indietreggiano al comando.»
(Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 5.3.88.)
«Tanto sono compatte le loro schiere, agili nelle manovre, le orecchie tese ai comandi, gli occhi ai segnali, le mani all'azione. Sono sempre rapidi nell'agire, lenti nel sentire qualche colpo infertogli, e non vi fu situazione in cui essi dovettero essere sconfitti, non alla superiorità numerica, non a stratagemmi o a difficoltà di terreno, e neppure alla sfortuna. Per loro, infatti, essere i più forti è cosa più importante dell'avere fortuna.»
(Giuseppe Flavio, guerra giudaica, III, 5.7.105-106.)
Nel combattimento in campo aperto, la cavalleria era solitamente posizionata alle "ali". Le legioni erano posizionate nella parte centrale dello schieramento in triplex acies (in rari casi in duplex acies ), poiché come fanteria pesante, dovevano reggere lo scontro frontale delle unità nemiche. Erano protette alle spalle dall'artiglieria e da quelle truppe ausiliarie di fanteria specializzata nel lancio di dardi, frecce, ecc. (come arcieri, frombolieri, lanciatori in genere).
Questa seconda linea serviva a decimare il nemico prima ancora che potesse prendere contatto con l'armata romana (ben illustrato nel film de Il Gladiatore). Alle spalle dell'esercito schierato, magari su un promontorio, la guardia pretoriana e l'Imperatore stesso. La combinazione di legioni e truppe ausiliarie (cavalleria, fanteria leggera e truppe di tiratori), conferiva ai Romani una superiorità tattica quasi su ogni tipo di terreno e contro qualunque tipo di avversari.
FORMAZIONE A FORFEX SOTTO AUGUSTO
Occupazione romana della Germania, spedizione germanica di Germanico e Guerre marcomanniche.
Questa tattica venne adottata per far fronte alla formazione a cuneus delle popolazioni germaniche del nord Europa. Probabilmente iniziò durante le prime campagne in Germania sotto Augusto e Tiberio, o dopo la grande invasione della metà-fine del II secolo (al tempo degli Antonini), come ci tramanda Aulo Gellio, scrittore di quest'ultimo periodo.
Tale formazione prevedeva una disposizione "a tenaglia", a forma di "V" ad angolo acuto, con le estremità avanzate, pronte ad avvolgere la formazione "a cuneo" che all'interno vi si infilava. Questo genere di schieramento è menzionata anche da Ammiano Marcellino durante la guerra condotta da Giuliano contro gli Alamanni, poco prima dello scontro decisivo di Argentoratae del 357.
ASSEDIO
Anche in questo periodo furono utilizzate macchine, scale, torri per la scalata o la demolizione delle mura nemiche, sia unità di artiglieria pesante come baliste (affidate ai cosiddetti ballistarii), ecc. per colpire gli assediati da lontano.
Spesso prima di cominciare un assedio, era eretto lungo l'intero percorso un Agger, ovvero un fossato ed un terrapieno a volte sormontato da una palizzata, per bloccare il nemico internamente, ed uno esternamente per difendersi da eventuali attacchi di nemici accorrenti in aiuto degli assediati.
Era inoltre usata comunemente, una volta sfondata una porta della cittadella, o per avvicinarsi a strutture fortificate evitando frecce e proiettili dei difensori, la formazione a Testuggine, dove i legionari posizionavano gli scudi affiancati l'uno all'altro, anche lateralmente e sopra la testa. Tra i principali assedi di questo periodo ricordiamo quello di Iotapata del 67, Gerusalemme del 70 e di Masada del 73.
GUERRIGLIA
Guerre cantabriche e Conquista di Rezia ed arco alpino sotto Augusto.
Nel caso di guerriglia con popolazioni che tendevano ad evitare lo scontro diretto (come le tribù spagnole o alpine dei primi anni del principato di Augusto), le cui risorse e beni risultavano non fissi, o per lo meno non concentrati in un solo punto, era preferibile l'impiego, non tanto delle legioni, quanto quello delle più agili e maggiormente adatte, unità ausiliarie.
BIBLIO
- Carcopino - Si vis pacem, para bellum, in Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva, a cura di Mario Pani - Bari - Edipuglia - 2005 -
- Emilio Gabba - Esercito e società nella tarda repubblica romana - Firenze - La Nuova Italia, 1973 -
- Adrian Goldsworthy - Storia completa dell'esercito romano - Ed. Logos - 2008 -
- Gaetano De Sanctis - I - Roma dalle origini alla monarchia - Milano-Torino - 1907 -
- Gaetano De Sanctis - II - La conquista del primato in Italia - Milano-Torino - 1907 -
- Gaetano De Sanctis - IV.1 - La fondazione dell'Impero: dalla battaglia di Naraggara alla battaglia di Pidna - Milano-Torino - 1923 -
- Stephen Dando-Collins - Legions of Rome: The Definitive History of Every Imperial Roman Legion - Quercus - London - 2010 -
- Stephen Dando-Collins - Legions of Rome -
Questa tattica venne adottata per far fronte alla formazione a cuneus delle popolazioni germaniche del nord Europa. Probabilmente iniziò durante le prime campagne in Germania sotto Augusto e Tiberio, o dopo la grande invasione della metà-fine del II secolo (al tempo degli Antonini), come ci tramanda Aulo Gellio, scrittore di quest'ultimo periodo.
Tale formazione prevedeva una disposizione "a tenaglia", a forma di "V" ad angolo acuto, con le estremità avanzate, pronte ad avvolgere la formazione "a cuneo" che all'interno vi si infilava. Questo genere di schieramento è menzionata anche da Ammiano Marcellino durante la guerra condotta da Giuliano contro gli Alamanni, poco prima dello scontro decisivo di Argentoratae del 357.
ASSEDIO
Anche in questo periodo furono utilizzate macchine, scale, torri per la scalata o la demolizione delle mura nemiche, sia unità di artiglieria pesante come baliste (affidate ai cosiddetti ballistarii), ecc. per colpire gli assediati da lontano.
Spesso prima di cominciare un assedio, era eretto lungo l'intero percorso un Agger, ovvero un fossato ed un terrapieno a volte sormontato da una palizzata, per bloccare il nemico internamente, ed uno esternamente per difendersi da eventuali attacchi di nemici accorrenti in aiuto degli assediati.
Era inoltre usata comunemente, una volta sfondata una porta della cittadella, o per avvicinarsi a strutture fortificate evitando frecce e proiettili dei difensori, la formazione a Testuggine, dove i legionari posizionavano gli scudi affiancati l'uno all'altro, anche lateralmente e sopra la testa. Tra i principali assedi di questo periodo ricordiamo quello di Iotapata del 67, Gerusalemme del 70 e di Masada del 73.
GUERRIGLIA
Guerre cantabriche e Conquista di Rezia ed arco alpino sotto Augusto.
Nel caso di guerriglia con popolazioni che tendevano ad evitare lo scontro diretto (come le tribù spagnole o alpine dei primi anni del principato di Augusto), le cui risorse e beni risultavano non fissi, o per lo meno non concentrati in un solo punto, era preferibile l'impiego, non tanto delle legioni, quanto quello delle più agili e maggiormente adatte, unità ausiliarie.
BIBLIO
- Carcopino - Si vis pacem, para bellum, in Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva, a cura di Mario Pani - Bari - Edipuglia - 2005 -
- Emilio Gabba - Esercito e società nella tarda repubblica romana - Firenze - La Nuova Italia, 1973 -
- Adrian Goldsworthy - Storia completa dell'esercito romano - Ed. Logos - 2008 -
- Gaetano De Sanctis - I - Roma dalle origini alla monarchia - Milano-Torino - 1907 -
- Gaetano De Sanctis - II - La conquista del primato in Italia - Milano-Torino - 1907 -
- Gaetano De Sanctis - IV.1 - La fondazione dell'Impero: dalla battaglia di Naraggara alla battaglia di Pidna - Milano-Torino - 1923 -
- Stephen Dando-Collins - Legions of Rome: The Definitive History of Every Imperial Roman Legion - Quercus - London - 2010 -
- Stephen Dando-Collins - Legions of Rome -
1 comment:
Ottima descrizione di battaglie con usi e costumi
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