I FABII IN MARCIA |
« I nemici veienti, assillanti più che pericolosi, tenevano in allarme i romani, più con le loro provocazioni che per via di un effettivo pericolo, perché mai li si poteva trascurare del tutto indirizzando altrove lo sforzo bellico »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II)
Fidenae, città alleata di Veio. Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato e il console parlò a nome della propria famiglia:
La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private.
Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia.
Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici, gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi, e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa; e una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento.
Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti.
più che una battaglia fu un agguato teso dai Veienti alle forze romane che stavano saccheggiando il loro territorio. Il popolo di Veio si era già trovato nella necessità di vedersela coi Fabi, combattendo in campo aperto e a ranghi serrati, e la famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio sulla potentissima città etrusca.
Allora i Veienti decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, scoprendo inoltre che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. Così, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più simulato che reale.
Ormai i Fabi si ritenevano inattaccabili dai veienti, per cui uscirono allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera. Così si dispersero per catturare il bestiame che correva all'impazzata e d'improvviso emersero di fronte a loro i nemici saltati fuori dai loro nascondigli.
Gli Etruschi li circondarono e allora i Fabii si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo guadagnando infine una modesta altura, dove per un certo tempo riuscirono a respingere i nemici. Ma altri Veienti furono spediti ad aggirare l'altura e li colsero alle spalle.
I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, Quinto, figlio di Marco. Livio riporta che era stato lasciato a Roma perché troppo giovane ma l'informazione sembrerebbe errata dato che solo dieci anni dopo Quinto Fabio Vibulano divenne console e ancora per due volte venne rieletto alla prestigiosa carica. Al momento di questo disastro, erano consoli Gaio Orazio e Tito Menenio.
IL SEGUITO
I Veienti galvanizzati dalla vittoria arrivarono ad occupare il Gianicolo, appena fuori dalle mura di Roma da dove per un certo tempo restituirono all'Urbe gli attacchi e i saccheggi che avevano subito dai Fabii. Ma essi stessi fermati, sconfitti e massacrati dai romani che utilizzarono nei loro confronti l'identico tranello in cui caddero i Fabii. Un gregge di pecore fu fatto sparpagliare e i veienti si misero all'inseguimento finendo per disperdersi inermi.«quo plures erant, maior clades fuit»
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I - Newton Compton - Roma - 1975 -
- Polibio - Storie - Milano - Rizzoli - 2001 -
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