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Mamerco Emilio, come suoi legati, volle Tito Quinzio Capitolino Barbato, già sei volte console, e già trionfatore sui Volsci, e Marco Fabio Vibulano a cui fu affidato il compito di proteggere il campo romano, che in effetti riuscì a difendere dall'assalto della cavalleria etrusca di Tolumnio, che divenne un personaggio dell'Eneide di Virgilio.
I romani posero il proprio accampamento vicino alla confluenza dell'Aniene con il Tevere, erigendo in fretta delle fortificazioni a protezione del campo. Mentre i romani volevano battaglia immediata, sia perchè consci del proprio valore, sia per vendicare l'offesa degli ambasciatori uccisi. Tolumnio invece era più propenso a temporeggiare, ma si decise allo scontro, anche perchè spinto dai Falisci, desiderosi di dar subito battaglia perché lontani dalle propria città.
Tolumnio schierò i Veienti sull'ala destra, i Fidenati al centro, e i Falisci e i Capenati sulla sinistra. Mamerco affidò a Tito Quinzio le operazioni contro i Fidenati, a Barbato quelle contro i Veienti, riservandosi il comando dei soldati opposti ai Falisci e Capenati.
Mamerco lasciò la cavalleria sotto il comando del Magister equitum, in modo che potesse intervenire su tutto il fronte della battaglia, ma ebbe anche cura di lasciare alcune guarnigioni di soldati a protezione del campo, sotto il comando di Marco Favio Vibulano (che morirà poi come tutta la sua gens Fabia, nella Battaglia di Cremeria), mossa decisiva per contrastare un attacco a sorpresa, portato al campo da parte della cavalleria etrusca, mentre infuriava la battaglia tra i due eserciti.
«Come vide il segnale, levato il grido di guerra, (il dittatore romano) lanciò contro il nemico per primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento.»
Poi i Fidenati messi in fuga con la morte di Tolumnio, vennero inseguiti e sterminati dai romani, che arrivarono a far razzia fin nelle campagne di Veio. Per questa vittoria Roma concesse a Mamerco Emilio Mamercino il trionfo a Roma.
Aulo Cornelio venne insignito delle spoglie opime (che dovevano essere condotte nel tempio di Giove Feretrio), la più alta onorificenza romana dovuta solo ai comandanti che uccidevano in battaglia il comandante nemico. In tutta la storia di Roma, solo tre persone ebbero le spoglie opime: Romolo, Cornelio Cosso e Marco Claudio Marcello, che uccise in battaglia un re dei Galli.
«Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del Senato e per volontà del popolo, il dittatore rientrò a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu Cosso che avanzava con le spoglie opime del re ucciso. In onore di Cosso, i soldati cantavano rozzi inni, paragonandolo a Romolo. Con una solenne dedica rituale, egli appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle di Romolo, le prime, e fino a quel momento le uniche, a essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal carro del dittatore, così che quasi da solo raccolse il frutto della solennità di quel giorno. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, a parte il fatto che tradizionalmente sono considerate opime solo le spoglie prese da un comandante a un altro comandante e che il solo comandante che noi riconosciamo è quello sotto i cui auspici si fa una guerra, la stessa iscrizione posta sulle spoglie confuta gli altri e me, dimostrando che Cosso era console quando le prese. Avendo io sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i templi, raccontare di aver letto lui personalmente quest'iscrizione su un corsaletto di lino quando entrò nel santuario di Giove Feretrio, che lui aveva fatto riparare dai danni del tempo, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. Ma è giusto che ciascuno abbia un'opinione personale in merito alla questione se vi sia o meno un errore, dato che sia gli annali antichi sia i libri lintei dei magistrati, depositati nel tempio di Moneta, che Licinio Macro cita continuamente come fonte, riportano solo nove anni dopo il consolato di Aulo Cornelio Cosso, insieme a Tito Quinzio Peno. Ma un altro valido motivo per non spostare una battaglia così famosa in quell'anno è che all'epoca del consolato di Aulo Cornelio per circa un triennio non ci furono guerre a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali, quasi in segno di lutto, riportano solo i nomi dei consoli. Due anni dopo il suo consolato, Cosso compare come tribuno militare con poteri consolari e nello stesso anno anche come magister equitum. E mentre ricopriva tale carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. In merito è possibile fare molte ipotesi, che per me sono però tutte inutili, dato che il protagonista del combattimento si sottoscrisse Aulo Cornelio Cosso console, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo, testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera.»
(Livio, Ab Urbe Condita, IV 20)
- Tito Livio - Ab Urbe condita - I e IV -
Siamo nel 438 a.c. a Roma esplode la contesa tra Plebei e Patrizi, e finalmente si concluse con l'elezione dei Tribuni consolari, dove furono eletti Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato, Mamerco Emilio Mamercino (poi nominato dittatore) e Lucio Giulio Iullo, tutti e tre eletti dal popolo, in maggioranza plebeo, al posto degli ordinari consoli di nomina senatoriale.
Contemporaneamente la colonia romana di Fidene, approfittando del momento di debolezza romana, causata dai soliti dissensi tra patrizi e plebei, si alleò con la potente città etrusca di Veio. Fidenae, forse di origine etrusca, e a sole 5 miglia da Roma, era nota per la fertilità del territorio, dovuta anche alla vicinanza con il Tevere. A lungo fu il primo centro latino oltre il confine settentrionale del territorio romano e spesso fu sottoposta all'influenza dell'etrusca Veio.
Quindi non solo i Fidenati abbandonarono l'alleanza con Roma, ma Lars Tolumnio, il principe fidenate, per segnare un punto di non ritorno, fece uccidere i tre romani inviati a Fidene, per chiedere le motivazioni della decisione. Per Roma fu un affronto che andava lavato nel sangue, così si decise di affidare la guerra ai consoli dell'anno successivo appena eletti: Marco Geganio Macerino, al suo terzo consolato, e Lucio Sergio Fidenate, cui fu affidato il comando delle azioni belliche.
Lucio Sergio guidò immediatamente l'esercito romano contro l'esercito veiente, guidato da Tolumnio, in uno scontro campale lungo le sponde dell'Aniene; i romani come al solito guadagnarono la vittoria, ma lo scontro fu così violento, causando grandi perdite anche tra i romani, per cui il momento era pericoloso e si decise per la nomina di un dittatore a cui affidare la nuova Guerra Fidenate.
La coalizione nemica, che si era ritirata dalla campagna romana fino alle colline intorno a Fidene, per prudenza attese l'arrivo degli alleati Falisci e dei Capenati, prima di porre il proprio campo davanti alle mura di Fidene. Mamerco Emilio Mamercino, nominato dittatore, a sua volta nominò Magister equitum Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato e suo collega nel tribunato dell'anno precedente (che sarà eletto tribuno consolare per tre volte).
Lucio Sergio guidò immediatamente l'esercito romano contro l'esercito veiente, guidato da Tolumnio, in uno scontro campale lungo le sponde dell'Aniene; i romani come al solito guadagnarono la vittoria, ma lo scontro fu così violento, causando grandi perdite anche tra i romani, per cui il momento era pericoloso e si decise per la nomina di un dittatore a cui affidare la nuova Guerra Fidenate.
La coalizione nemica, che si era ritirata dalla campagna romana fino alle colline intorno a Fidene, per prudenza attese l'arrivo degli alleati Falisci e dei Capenati, prima di porre il proprio campo davanti alle mura di Fidene. Mamerco Emilio Mamercino, nominato dittatore, a sua volta nominò Magister equitum Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato e suo collega nel tribunato dell'anno precedente (che sarà eletto tribuno consolare per tre volte).
RESTI DI VEIO |
I romani posero il proprio accampamento vicino alla confluenza dell'Aniene con il Tevere, erigendo in fretta delle fortificazioni a protezione del campo. Mentre i romani volevano battaglia immediata, sia perchè consci del proprio valore, sia per vendicare l'offesa degli ambasciatori uccisi. Tolumnio invece era più propenso a temporeggiare, ma si decise allo scontro, anche perchè spinto dai Falisci, desiderosi di dar subito battaglia perché lontani dalle propria città.
Tolumnio schierò i Veienti sull'ala destra, i Fidenati al centro, e i Falisci e i Capenati sulla sinistra. Mamerco affidò a Tito Quinzio le operazioni contro i Fidenati, a Barbato quelle contro i Veienti, riservandosi il comando dei soldati opposti ai Falisci e Capenati.
Mamerco lasciò la cavalleria sotto il comando del Magister equitum, in modo che potesse intervenire su tutto il fronte della battaglia, ma ebbe anche cura di lasciare alcune guarnigioni di soldati a protezione del campo, sotto il comando di Marco Favio Vibulano (che morirà poi come tutta la sua gens Fabia, nella Battaglia di Cremeria), mossa decisiva per contrastare un attacco a sorpresa, portato al campo da parte della cavalleria etrusca, mentre infuriava la battaglia tra i due eserciti.
«Come vide il segnale, levato il grido di guerra, (il dittatore romano) lanciò contro il nemico per primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)
Lo scontro si risolse con il famoso gesto eroico di Aulo Cornelio Cosso che da solo affrontò Tolumnio uccidendolo:
«E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)
AULO CORNELIO COSSO |
«E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)
Poi i Fidenati messi in fuga con la morte di Tolumnio, vennero inseguiti e sterminati dai romani, che arrivarono a far razzia fin nelle campagne di Veio. Per questa vittoria Roma concesse a Mamerco Emilio Mamercino il trionfo a Roma.
«Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del Senato e per volontà del popolo, il dittatore rientrò a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu Cosso che avanzava con le spoglie opime del re ucciso. In onore di Cosso, i soldati cantavano rozzi inni, paragonandolo a Romolo. Con una solenne dedica rituale, egli appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle di Romolo, le prime, e fino a quel momento le uniche, a essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal carro del dittatore, così che quasi da solo raccolse il frutto della solennità di quel giorno. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, a parte il fatto che tradizionalmente sono considerate opime solo le spoglie prese da un comandante a un altro comandante e che il solo comandante che noi riconosciamo è quello sotto i cui auspici si fa una guerra, la stessa iscrizione posta sulle spoglie confuta gli altri e me, dimostrando che Cosso era console quando le prese. Avendo io sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i templi, raccontare di aver letto lui personalmente quest'iscrizione su un corsaletto di lino quando entrò nel santuario di Giove Feretrio, che lui aveva fatto riparare dai danni del tempo, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. Ma è giusto che ciascuno abbia un'opinione personale in merito alla questione se vi sia o meno un errore, dato che sia gli annali antichi sia i libri lintei dei magistrati, depositati nel tempio di Moneta, che Licinio Macro cita continuamente come fonte, riportano solo nove anni dopo il consolato di Aulo Cornelio Cosso, insieme a Tito Quinzio Peno. Ma un altro valido motivo per non spostare una battaglia così famosa in quell'anno è che all'epoca del consolato di Aulo Cornelio per circa un triennio non ci furono guerre a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali, quasi in segno di lutto, riportano solo i nomi dei consoli. Due anni dopo il suo consolato, Cosso compare come tribuno militare con poteri consolari e nello stesso anno anche come magister equitum. E mentre ricopriva tale carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. In merito è possibile fare molte ipotesi, che per me sono però tutte inutili, dato che il protagonista del combattimento si sottoscrisse Aulo Cornelio Cosso console, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo, testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera.»
(Livio, Ab Urbe Condita, IV 20)
BIBLIO
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VII-VIII -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -
- Plutarco - Vita di Romolo - XXIII -
- Andrea Carandini - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -
- Plutarco - Vita di Romolo - XXIII -
- Andrea Carandini - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
- Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Sansoni - Milano - 2001 -
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