PUBLIO VALERIO PUBLICOLA (Console: 475 a.c.)

GENS VALERIA

Nome: Publius Valerius Publicola
Nascita: ...
Morte: Campidoglio di Roma, 460 a.c.
Professione: politico e militare romano, per due volte fu console della Repubblica romana.


I CONSOLATO

Publio Valerio Publicola fu eletto console nel 475 a.c. con il collega Gaio Nauzio Rutilo.
Mentre Gaio Nauzio guidava le forze romane in soccorso dei Latini attaccati da Volsci ed Equi, che ne razziavano i territori, Publio Valerio condusse le forze romane alla volta di Veio, dove si stavano radunando forze sabine per attaccare i romani a loro volta. Nauzio partì senza aver preventivamente informato i romani. 

Secondo Tito Livio attaccò i Volsci più per ribadire la predominanza romana nella lega, che per reale pericolo per i Latini, oppure nella speranza di un trionfo Publicola mosse le armi contro i Volsci, il che spiegherebbe perchè non avesse avvertito il senato, temendo gli negasse l'autorizzazione visto che non c'era pericolo per Roma. La campagna contro i Volsci si risolse però in una serie di razzie e devastazioni, perché il nemico rifiutò il combattimento in campo aperto.

Invece Publio Valerio con il suo esercito, mediante abili manovre di marcia per non farsi scorgere, riuscì a sorprendere, e a sconfiggere, i nemici sia Sabini che Veienti, nella Battaglia di Veio; pertanto, tornato a Roma per questa vittoria il senato gli concesse, e solo a lui dei due consoli, l'onore del trionfo.

IL TRIONFO


BATTAGLIA DI VEIO

Negli ultimi anni i Veienti avevano tenuto seriamente in scacco i romani, vincendo la Battaglia del Cremera che sterminò la generosa gens Fabia, e attaccando Roma nella Battaglia del Gianicolo, nel 476 a.c. che si svolse tra l'esercito romano, guidato dai consoli Aulo Verginio Tricosto Rutilo e Spurio Servilio Prisco ed i Veienti. 

Pur con notevolissime perdite, tanto che il console Spurio Servilio Prisco, dovette difendersi dall'accusa di imperizia nel comando dell'esercito, i romani riuscirono a vincere. Ciò convinse i Sabini a scendere in campo, alleandosi con i Veienti. I due eserciti, aspettando ulteriori rinforzi dagli Etruschi, si radunarono sotto le mura di Veio, dove posero due campi distinti.

Allora il senato nominò nuovamente console Valerio che, giunto sul posto, fece uscire di notte il suo esercito dalla città, accampandosi oltre il Tevere e alle prime luci dell'alba fece strage del campo sabino colto d'improvviso. Cercarono di prendere di sorpresa anche il campo dei Veienti, ma questi ormai svegliati dai clamori resistettero per tutto il giorno e tutta la notte. Solo verso l'alba fuggirono fuggire entro le mura cittadine.

Non potendo attaccare le mura fortificate di Veio, invero inattaccabili, dopo aver ottenuto la vittoria campale, i Romani razziarono le campagne dei Sabini, ottenendo Publio Valerio nuovamente il trionfo, quando fece ritorno a Roma.

"Ecco dunque resistere con ardore sommo i Tirreni avanti gli alloggiamenti, e farvisi aspra tenzone e strage vicendevole; stando lungo tempo incerta, e pendendo or quinci or quindi la sorte della guerra. Alfine dan volta i Tirreni, sospinti dalla cavalleria Romana, e ricacciansi tra le trincee. 

Segueli il console, ed approssimatosi alle triuciere né ben formate, né in luogo, come ho detto, abbastanza sicuro, le assali da più parti; travagliandovi tutto il resto del giorno, nè desistendone pur nella notte appresso. I Tirreni, vinti da' mali incessanti, abbandonano su l'alba il campo; altri in città fuggendosi, altri dispergendosi pei boschi vicini. 

Il console, invaso pur questo campo, diè riposo in quel giorno all'esercito: e nel seguente comparti la preda copiosa de' due alloggiamenti tra le sue milizie, coronando co' premi usati chiunque s'era più segnalato nel combattere. Servilio, il console dell'anno precedente, quegli che sfuggì le pene popolari, mandato ora luogotenente di Valerio, parse aver più che tutti risplenduto fra le arme, e sospinto i Veienti alla fuga; e per tale suo merito ne ebbe il primo i premi, riputati più grandi tra' Romani. 

Fatti quindi spogliare i cadaveri nemici, e seppellire quelli de' suoi, marciando, e venendo il console coll'esercito ne' campi prossimi a Vejo; sfidò quelli d'entro per la battaglia. Ma non presentandovisi alcuno, e conoscendo altronde esser cosa ben ardua pigliarli di assalto, come chiusi in città fortissima, scorse in gran parte il lor territorio, e si gittò su quello de' Sabini. 

E saccheggiato per più giorni, pur questo, che era ancora intatto; ricondusse l'esercito carico di prede amplissima in patria. Uscì di città molto a dilungo per incontrarlo il popolo cinto di ghirlande: ed accolse lui, dove passava con profumi d'incenso, e l' armata con crateri di vino con mele. Il Senato in fine decretò loro la pompa trionfale."



II CONSOLATO

Publio Valerio Publicola fu eletto al secondo consolato nel 460 a.c. con il collega Gaio Claudio Crasso Inregillense Sabino. Durante il consolato continuarono le controversie tra Patrizi e Plebei, con i tribuni della plebe, per bocca di Aulo Verginio, che accusarono parte del Senato di aver ordito un complotto per uccidere gli stessi tribuni. Publio Valerio però dichiarò che l'accusa era falsa.

Mentre Equi e Volsci preparavano le ostilità, il Campidoglio e la rocca furono occupati da un esercito di duemilacinquecento fra esuli e schiavi, comandati da Appio Erdonio, asserragliati fra i templi della Triade Capitolina. Quelli che non vollero aderire alla lotta vennero uccisi; ma qualcuno fuggì e corse nel Foro annunciando il pericolo ai cittadini. Immediatamente vi furono paura e confusione

«I consoli erano in apprensione dovendo sceglier se armare la plebe o lasciarla disarmata e non sapendo cosa fosse quell'improvvisa calamità che si era abbattuta sulla città. Forse un assalto nemico, forse una rivolta interna causata dall'odio dei plebei o un tranello teso dagli schiavi

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III)

QUADRIGA VEIENTE
Due anni prima il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa aveva proposto la Lex Terentilia che voleva migliorare le condizioni politiche della plebe. I patrizi resistevano non intendendo perdere potere, per giunta c'era stato il processo al patrizio Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, condannato l'anno precedente e fuggito in Etruria che si pensava fosse alla guida di un gruppo armato che si muovesse per ottenere il suo rientro.

«Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un'arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. 
Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. 
Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c'era speranza

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III)

Da parte loro i tribuni della plebe si agitavano a favore della legge e minacciavano di non combattere per la Patria se la plebe non avesse ottenuto qualche vantaggio politico ed economico da tanti sacrifici e tanto sangue:

«La luce del giorno rivelò che guerra fosse e chi la comandasse. Appio Erdonio incitava dal Campidoglio gli schiavi a liberarsi: lui si era assunto la difesa di tutti i disperati per riportare in patria chi era stato cacciato ingiustamente in esilio e per liberare gli schiavi dal loro pesante giogo
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III)

Appio Erdonio dichiarò che avrebbe preferito che l'iniziativa fosse partita dal popolo romano ma che, visto che non c'era speranza, avrebbe rivolto la richiesta di aiuto anche ad Volsci ed Equi, e così maturò il tradimento.

Si sospettava che la manovra fosse stata organizzata da Sabini e Veienti e si cominciò a temere la rivolta degli schiavi che i patrizi avevano soprattutto in casa propria. Così i tribuni della plebe, consci delle soperchierie del patriziato, si opponevano ora alle leve militari asserendo che la guerra era una scusa per bloccare la votazione della Lex Terentilia. I patrizi del resto ritenevano i tribuni fossero un pericolo maggiore di una sommossa di schiavi.

Il console Publio Valerio, alla notizia che la plebe stava deponendo le armi, lasciò la seduta del senato e si precipitò dai tribuni, egli era uno dei pochissimi che tribuni e popolo avrebbero ascoltato, conoscendone l'onestà e la lealtà:

« Cosa sta accadendo, tribuni? Volete proprio rovesciare lo Stato sotto gli ordini e gli auspici di Appio Erdonio? È stato così abile a corrompere voi, lui che non è riuscito a sollevare gli schiavi? »

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 17., Newton Compton, Roma)

Evidentemente Appio Erdonio aveva già presentato le sue richieste precedentemente ed erano state ignorate. Publio Valerio prima implorò poi dichiarò che era deciso a intraprendere l'attacco anche da solo considerando nemico chiunque si fosse interposto fra lui ed Appio Erdonio. 

La notte che trascorse però non fu favorevole, perchè il giorno dopo la legge non venne approvata e i rivoltosi non desistettero, ma intanto la notizia giunse a Tusculum, città alleata di Roma e il dittatore tuscolano Lucio Mamilio credette bene di correre in aiuto dei romani senza attendere una richiesta da parte loro: "Gli Dei non ci daranno mai una situazione del genere per meritare con una buona azione la gratitudine di una città così potente e vicina" disse ai suoi.

RUDERI DI VEIO

Così armò il suo esercito e marciò verso Roma giungendovi al mattino. Dapprima vennero scambiati per Volsci ed Equi, poi, scoperto l'errore furono fatti entrare e si unirono all'esercito di Publio Valerio. In seguito Roma ringrazierà Tuscolo concedendole la cittadinanza romana. I nemici compresero il grave pericolo:

«furono presi da scoramento perché ormai potevano contare solo sulla posizione favorevole e su di loro si abbatté l'assalto dei Romani e degli alleati
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III)

I malcapitati furono costretti ad arretrare all'interno dei templi per difendersi. Nell'atrio del tempio (probabilmente il tempio di Giove Capitolino) Publio Valerio Publicola rimase ucciso, ma questo non fermò i cittadini ormai giunti a concludere l'attacco guidati da Publio Volumnio Amintino Gallo che era stato console l'anno precedente.
« Molti esuli profanarono col loro sangue il tempio: molti furono presi vivi; Erdonio rimase ucciso. »

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III)

Così morì il generoso Valerio Publicola, perchè "dulce et decorum est pro patria mori" (è dolce e decoroso morire per la patria), come scrisse nelle sue "Odi" il grande Orazio che però la guerra non l'aveva mai fatta. La punizione dei ribelli fu comminata a seconda della loro condizione. Gli uomini liberi furono decapitati; gli schiavi, crocefissi.


BIBLIO

- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - Libro X IX -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - II III - Newton Compton - Roma -
- Eutropio - Storia di Roma - Santarcangelo di Romagna - Rusconi Libri - 2014 -
- Amanda Claridge - Roma - (Oxford Guide Archeologico) - Oxford University Press - 1998 -
- P. A. Brunt - Classi e conflitti sociali nella Roma repubblicana - Bari - Laterza - 1972 -

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