TITO LIVIO (Ab Urbe Condita - Libro I)

TRIONFO DI ROMOLO


Tito Livio, fu un grande storico latino autore della Ab Urbe condita, dalla fondazione della città alla morte di Druso (9 a.c.). A noi sono giunti solo i libri I-X (dal 754-53 al 293 a.c.) e XXI-XLV (dal 218 al 167 a.c.) oltre a numerosi frammenti del libro XCI, su Sertorio, del libro CXX, sulla morte e la figura di Cicerone, e cioè circa un quarto dell'opera che, come ci informano i sommarî (periochae) compilati nei sec. III-IV d.c., era costituita di 142 libri.


LIBRO I 

cap. I

Un primo punto che trova quasi tutti dello stesso avviso è questo: dopo la caduta di Troia, ai superstiti troiani fu riservato un trattamento molto duro; gli Achei si astennero dall'applicare rigorosamente il codice militare di guerra solo nei confronti di due di essi, Enea e Antenore, sia per l'antica legge dell'ospitalità, sia perché essi erano sempre stati sostenitori della pace e della restituzione di Elena. 

Successivamente, per circostanze di varia natura, Antenore e un nutrito gruppo di Eneti, i quali, costretti ad abbandonare la Paflagonia a séguito di una sommossa interna ed essendo alla ricerca di un luogo dove stabilirsi e di qualcuno che li guidasse dopo aver perso a Troia il loro capo Pilemene, arrivarono nel golfo più profondo del mare Adriatico, scacciarono gli Euganei che abitavano tra mare e Alpi e, Troiani ed Eneti, si impossessarono di quelle terre. 

Il primo punto in cui sbarcarono lo chiamarono Troia e di lì deriva il nome di Troiano per il villaggio: l'intero popolo assunse la denominazione di Veneti. Di Enea, invece, si sa che, esule dalla patria a séguito dello stesso disastro, ma destinato per volontà del fato a dare il via a eventi di ben altra portata, arrivò in un primo tempo in Macedonia, quindi fu spinto verso la Sicilia sempre alla ricerca di una sede definitiva e dalla Sicilia approdò con la flotta nel territorio di Laurento. 

Anche a questo luogo viene dato il nome di Troia. I Troiani sbarcarono in quel punto. Privi com'erano, dopo il loro interminabile peregrinare, di tutto tranne che di armi e di navi, si misero a fare razzie nelle campagne e per questo motivo il re Latino e gli Aborigeni che allora regnavano su quelle terre accorsero armati dalle città e dai campi per respingere l'attacco degli stranieri. 

Del fatto si tramandano due versioni. Alcuni sostengono che Latino, vinto in battaglia, fece pace con Enea e strinse con lui legami di parentela. Altri, invece, raccontano che, una volta schieratisi gli eserciti in ordine di battaglia, prima che fosse dato il segnale di inizio, Latino avanzò tra i soldati delle prime file e invitò a un colloquio il comandante degli stranieri. 

Quindi si informò sulla loro provenienza, chiese da dove o a séguito di quale evento fossero partiti dal loro paese e cosa stessero cercando nel territorio di Laurento. Venne così a sapere che tutti quegli uomini erano Troiani, con a capo Enea figlio di Anchise e di Venere, esuli da una città finita nelle fiamme, e alla ricerca di una sede stabile per fondarvi la loro città. 

Quindi, pieno di ammirazione per la nobiltà d'animo di quel popolo e dell'uomo di fronte a lui e per la loro disposizione tanto alla guerra che alla pace, gli tese la mano destra e si impegnò per un'amicizia futura tra i due popoli. I due comandanti stipularono allora un trattato di alleanza, mentre i due eserciti si scambiarono un saluto. Enea fu ospitato presso Latino. Lì questi aggiunse un patto privato a quello pubblico dando in moglie a Enea sua figlia. 

Questo accordo rinforzò la speranza dei Troiani di vedere finite una volta per tutte le loro infinite peregrinazioni grazie a una sede stabile e definitiva. Fondano una città. Enea la chiama Lavinio dal nome della moglie. Dopo poco tempo, dal nuovo matrimonio nacque anche un figlio maschio cui i genitori diedero il nome di Ascanio.



cap. II

In séguito, Aborigeni e Troiani dovettero affrontare insieme una guerra. Il re dei Rutuli Turno, cui era stata promessa in sposa Lavinia prima dell'arrivo di Enea, poiché non accettava di buon grado che lo straniero gli fosse stato preferito, entrò in guerra contemporaneamente con Enea e con Latino. Nessuna delle due parti poté rallegrarsi dell'esito di quello scontro: i Rutuli furono vinti, ma Troiani e Aborigeni, benché vincitori, persero Latino, il loro comandante. 

Allora Turno e i Rutuli, sfiduciati per lo stato presente delle cose, ricorsero alle floride risorse degli Etruschi e del loro re Mesenzio, signore dell'allora ricca città di Cere. Questi, poiché già sin dagli inizi non aveva gioito della fondazione della nuova città e in quel momento pensava che la crescita della potenza troiana fosse una minaccia eccessiva per la sicurezza dei popoli vicini, non esitò ad allearsi militarmente con i Rutuli. 

Enea, terrorizzato di fronte a una simile guerra, per accattivarsi il favore degli Aborigeni e perché tutti risultassero uniti non solo sotto la stessa autorità ma anche sotto lo stesso nome, chiamò Latini l'uno e l'altro popolo; né d'allora in poi gli Aborigeni si dimostrarono inferiori ai Troiani quanto a devozione e lealtà. 

Ed Enea, forte di questi sentimenti e dell'affiatamento che sempre di più cresceva tra i due popoli col passare dei giorni, nonostante l'Etruria avesse una tale disponibilità di mezzi da raggiungere con la sua fama non solo la terra ma anche il mare per tutta l'estensione dell'Italia, dalle Alpi allo stretto di Sicilia, fece scendere ugualmente in campo le sue truppe pur potendo respingere l'attacco dalle mura. Lo scontro fu il secondo per i Latini. Per Enea, invece, rappresentò l'ultima impresa da mortale. Comunque lo si voglia considerare, uomo o dio, è sepolto sulle rive del fiume Numico e la gente lo chiama Giove Indigete.



cap. III

Ascanio, il figlio di Enea, non era ancora maturo per comandare; tuttavia il potere rimase intatto finché egli non ebbe raggiunto la pubertà. Nell'intervallo di tempo, lo Stato latino e il regno che il ragazzo aveva ereditato dal padre e dagli avi gli vennero conservati sotto la tutela della madre (tali erano in Lavinia le qualità caratteriali). 

Non mi metterò a discutere - e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa così antica? - se sia stato proprio questo Ascanio o uno più vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga di là, quello stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome. Questo Ascanio, quali che fossero la madre e la patria d'origine, in ogni caso era figlio di Enea. 

Dal momento che la popolazione di Lavinio era in eccesso, lasciò alla madre, o alla matrigna, la città ricca e fiorente, e per conto suo ne fondò sotto il monte Albano una nuova che, dalla sua posizione allungata nel senso della dorsale montana, fu chiamata Alba Longa. Tra la fondazione di Lavinio e la deduzione della colonia di Alba Longa intercorsero press'a poco trent'anni. 

Ciò nonostante, specie dopo la sconfitta subita dagli Etruschi, la sua potenza era a tal punto in crescita che, neppure dopo la morte di Enea e in séguito sotto la reggenza di una donna e i primi passi del regno di un ragazzo, tanto Mesenzio e gli Etruschi quanto nessun'altra popolazione limitrofa osarono intraprendere iniziative militari. 

Il trattato di pace stabilì che per Etruschi e Latini il confine sarebbe stato rappresentato dal fiume Albula, il Tevere dei giorni nostri. Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli genera Enea Silvio che a sua volta mette al mondo Latino Silvio. Da quest'ultimo vennero fondate alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi. In séguito il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa. 

Da Latino nacque Alba, da Alba Atys, da Atys Capys, da Capys Capeto e da Capeto Tiberino il quale, essendo annegato durante l'attraversamento del fiume Albula, diede a esso il celebre nome passato ai posteri. Quindi regnò il figlio di Tiberino, Agrippa, il quale trasmise il potere al figlio Romolo Silvio. Questi, colpito da un fulmine, tramandò di mano in mano il regno ad Aventino il quale fu sepolto sul colle che oggi è parte di Roma e che porta il suo nome. 

Quindi regna Proca. Egli genera Numitore e Amulio. A Numitore, che era il più grande, lascia in eredità l'antico regno della dinastia Silvia. Ma la violenza poté più che la volontà del padre o la deferenza nei confronti della primogenitura: dopo aver estromesso il fratello, sale al trono Amulio. Questi commise un crimine dietro l'altro: i figli maschi del fratello li fece uccidere, mentre a Rea Silvia, la femmina, avendola nominata Vestale (cosa che egli fece passare come un'onorificenza), tolse la speranza di diventare madre condannandola a una verginità perpetua.



cap. IV

Credo comunque che rientrassero in un disegno del destino tanto la nascita di una simile città quanto l'inizio della più grande potenza del mondo dopo quella degli Dei. La Vestale, vittima di uno stupro, diede alla luce due gemelli. Sia che fosse in buona fede, sia che intendesse rendere meno turpe la propria colpa attribuendone la responsabilità a un Dio, dichiarò Marte padre della prole sospetta. 

Ma né gli Dei né gli uomini riescono a sottrarre lei e i figli alla crudeltà del re: questi dà ordine di arrestare e incatenare la sacerdotessa e di buttare i due neonati nella corrente del fiume. Per una qualche fortuita volontà divina, il Tevere, straripato in masse d'acqua stagnante, non era praticabile in nessun punto del suo letto normale, ma a chi li portava faceva sperare che i due neonati venissero ugualmente sommersi dall'acqua nonostante questa fosse poco impetuosa. 

Così, nella convinzione di aver eseguito l'ordine del re, espongono i bambini nel punto più vicino dello straripamento, là dove ora c'è il fico Ruminale (che, stando alla leggenda, un tempo si chiamava Romulare). Quei luoghi erano allora completamente deserti. 

Tutt'ora è viva la tradizione orale secondo la quale, quando l'acqua bassa lasciò in secco la cesta galleggiante nella quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa assetata proveniente dai monti dei dintorni deviò la sua corsa in direzione del loro vagito e, accucciatasi, offrì loro il suo latte con una tale dolcezza che il pastore-capo del gregge reale - pare si chiamasse Faustolo - la trovò intenta a leccare i due neonati. 

Faustolo poi, tornato alle stalle, li diede alla moglie Larenzia affinché li allevasse. C'è anche chi crede che questa Larenzia i pastori la chiamassero lupa perché si prostituiva: da ciò lo spunto di questo racconto prodigioso. Così nati e cresciuti, non appena divennero grandi, cominciarono ad andare a caccia in giro per i boschi senza rammollirsi nelle stalle e dietro il gregge. 

Irrobustitisi così nel corpo e nello spirito, non affrontavano soltanto più le bestie feroci, ma assalivano i banditi carichi di bottino: dividevano tra i pastori il frutto delle rapine e condividevano con loro svaghi e lavoro, mentre il numero dei giovani aumentava giorno dopo giorno.



cap. V

Si dice che già allora sul Palatino si celebrasse il nostro Lupercale e che il monte fosse chiamato Pallanzio (in séguito Palatino) da Pallanteo, città dell'Arcadia. Là Evandro, il quale, originario di quella stirpe di Arcadi, aveva occupato la zona molto tempo prima, pare avesse introdotto importandola dall'Arcadia l'usanza che dei giovani corressero nudi celebrando con giochi licenziosi Pan Liceo, che i Romani in séguito chiamarono Inuo. 

Mentre erano intenti a questo spettacolo, dato che la ricorrenza era ben nota, si dice che i banditi, per la rabbia di aver perso il bottino, organizzarono un'imboscata. Romolo si difese energicamente. Remo, invece, lo catturarono e lo consegnarono al re Amulio, accusandolo per giunta del furto. Soprattutto gli imputavano di aver compiuto delle incursioni nelle terre di Numitore e di aver raccolto un gruppo di giovinastri per darsi alle razzie come in tempo di guerra. 

Per questi motivi Remo viene consegnato a Numitore perché lo punisca. Già sin dall'inizio Faustolo aveva supposto che i bambini allevati in casa sua fossero di sangue reale: infatti sapeva che dei neonati erano stati abbandonati per volere del re e anche che il periodo in cui li aveva presi con sé coincideva con quel fatto. Però non aveva voluto che la cosa si venisse a sapere quando ancora non era il momento giusto (a meno che non si fossero presentate l'occasione propizia o una necessità urgente). 

Fu quest'ultima ipotesi a verificarsi per prima: spinto dalla paura, rivelò la cosa a Romolo. Per caso anche Numitore, mentre teneva prigioniero Remo e aveva saputo che erano fratelli gemelli, considerando la loro età e il carattere per niente servile, era stato toccato nell'intimo dal ricordo dei nipoti; e a forza di fare domande, arrivò a un punto tale che poco ci mancò riconoscesse Remo. 

Così venne architettato un doppio complotto ai danni del re. Romolo lo assale, però non col suo gruppo di ragazzi, infatti non sarebbe stato all'altezza di un vero proprio colpo di forza, ma con altri pastori cui era stato ordinato di arrivare alla reggia in un momento prestabilito e secondo un altro percorso. Dalla casa di Numitore, invece, Remo accorre in aiuto con un'altra schiera di uomini che era riuscito a procurarsi. Così trucidano il re.



cap. VI

Numitore, durante le prime fasi della sommossa, spargendo la voce che i nemici avevano invaso la città e stavano assaltando la reggia, aveva così attirato la gioventù albana a presidiare la rocca e a tenerla con le armi. Quando vide venire verso di sé i giovani esultanti, reduci dalla strage appena compiuta, convocata sùbito l'assemblea, rivelò i delitti commessi dal fratello nei suoi confronti, la nobile origine dei nipoti, la loro nascita, il modo in cui erano stati allevati, il sistema con cui erano stati riconosciuti, e infine l'uccisione del tiranno, della quale dichiarò di assumersi la piena responsabilità. 

Dopo che i due giovani, entrati con le loro truppe nel mezzo dell'assemblea, ebbero acclamato re il nonno, l'intera folla, con un grido unanime, confermò al re il titolo legittimo e l'autorità. Così, affidata Alba a Numitore, Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Inoltre la popolazione di Albani e Latini era in eccesso. A questo si erano anche aggiunti i pastori. 

Tutti insieme certamente nutrivano la speranza che Alba Longa e Lavinio sarebbero state piccole nei confronti della città che stava per essere fondata. Su questi progetti si innestò poi un tarlo ereditato dagli avi, cioè la sete di potere, e di lì nacque una contesa fatale dopo un inizio abbastanza tranquillo. 

Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli Dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino.



cap. VII

Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. 

È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. 

In primo luogo fortifica il Palatino, sul quale lui stesso era stato allevato. Offre sacrifici in onore degli altri Dei secondo il rito albano, e secondo quello greco in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro. Stando alla leggenda, proprio in questi luoghi Ercole uccise Gerione e gli portò via gli splendidi buoi. 

Perché questi riprendessero fiato e pascolassero nella quiete del verde e per riposarsi anche lui stremato dal cammino, si coricò in un prato vicino al Tevere, nel punto in cui aveva attraversato a nuoto il fiume spingendo il bestiame davanti a sé. Lì, appesantito dal vino e dal cibo, si addormentò profondamente. Un pastore della zona, un certo Caco, contando sulle proprie forze e colpito dalla bellezza dei buoi, pensò di portarsi via quella preda. 

Ma, dato che spingendo l'armento nella sua grotta le orme vi avrebbero condotto il padrone quando si fosse messo a cercarle, prese i buoi più belli per la coda e li trascinò all'indietro nella sua grotta. Al sorgere del sole, Ercole, emerso dal sonno, dopo aver esaminato attentamente il gregge ed essersi accorto che ne mancava una parte, si incamminò verso la grotta più vicina, caso mai le orme portassero in quella direzione. 

Quando vide che erano tutte rivolte verso l'esterno ed escludevano ogni altra direzione, cominciò a spingere l'armento lontano da quel luogo ostile. Ma poiché alcune tra quelle messe in movimento si misero a muggire, come succede, per rimpianto di quelle rimaste indietro, il verso proveniente dalle altre rimaste chiuse dentro la grotta fece girare Ercole. Caco cercò di impedirgli con la forza l'ingresso nella grotta. 

Ma mentre tentava invano di far intervenire gli altri pastori, stramazzò al suolo schiantato da un colpo di clava. In quel tempo governava la zona, più per prestigio personale che per un potere conferitogli, Evandro, esule dal Peloponneso, uomo degno di venerazione perché sapeva scrivere, cosa nuova e prodigiosa in mezzo a bifolchi del genere, e ancor più degno di venerazione per la supposta natura divina della madre Carmenta, che prima dell'arrivo in Italia della Sibilla aveva sbalordito quelle genti con le sue doti di profetessa. 

Evandro dunque, attirato dalla folla di pastori accorsi sbigottiti intorno allo straniero colto in flagrante omicidio, dopo aver ascoltato il racconto del delitto e delle sue cause, osservando attentamente le fattezze e la corporatura dell'individuo, più maestose e imponenti del normale, gli domandò chi fosse. 

Quando venne a sapere il nome, chi era suo padre e da dove veniva, disse: «Salute a te, Ercole, figlio di Giove. Mia madre, interprete veritiera degli Dei, mi ha vaticinato che tu andrai ad accrescere il numero degli immortali e qui ti verrà dedicato un altare che un giorno il popolo più potente della terra chiamerà Altare Massimo e venererà secondo il tuo rito.» 

Ercole, dopo aver teso la mano destra, disse che accettava l'augurio e che avrebbe portato a compimento la volontà del destino costruendo e consacrando l'altare. Lì, prendendo dal gregge un capo di straordinaria bellezza, fu per la prima volta compiuto un sacrificio in onore di Ercole. A occuparsi della cerimonia e del banchetto sacrificale furono chiamati Potizi e Pinari, in quel tempo le famiglie più illustri della zona. 

Per caso successe che i Potizi giungessero all'ora stabilita e le viscere degli animali vennero poste di fronte a loro, mentre i Pinari, quando ormai le viscere erano stae mangiate, arrivarono a banchetto cominciato. Così, finché durò in vita la stirpe dei Pinari, rimase in vigore la regola che essi non potessero cibarsi delle interiora dei sacrifici. 

I Potizi, istruiti da Evandro, furono per molte generazioni sacerdoti di questo rito sacro, fino al tempo in cui, affidato ai servi di Stato il solenne officio della famiglia, l'intera stirpe dei Potizi si estinse. Questi furono gli unici, fra tutti i riti di importazione, a essere allora accolti da Romolo, già in quel periodo conscio dell'immortalità che avrebbe ottenuto col valore e verso la quale lo conduceva il suo destino.



cap. VIII

Sistemata la sfera del divino in maniera conforme alle usanze religiose e convocata in assemblea la massa, che nulla, salvo il vincolo giuridico, poteva unire nel complesso di un solo popolo, diede loro un sistema di leggi. Pensando che esso sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici solo a patto di rendere se stesso degno di venerazione per i segni distintivi dell'autorità, diventò più maestoso sia nel resto della persona sia soprattutto grazie ai dodici littori di cui si circondò. 

Alcuni ritengono che egli adottò il numero in base a quello degli uccelli che, col loro augurio, gli avevano pronosticato il regno. A me non dispiace la tesi di quelli che sostengono importati dalla confinante Etruria (donde furono introdotte la sedia curule e la toga pretesta) tanto questo tipo di subalterni quanto il loro stesso numero. 

Essi ritengono che la cosa fosse così presso gli Etruschi dal momento che, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici popoli, ciascuno di essi forniva un littore a testa. Nel frattempo la città cresceva in fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi spazi: si costruiva più nella speranza di un incremento demografico negli anni a venire che per le proporzioni presenti della popolazione. 

In séguito, perché l'ampliamento della città non fosse fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno a sé genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di essere autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due boschi. 

Lì, dalle popolazioni confinanti, andò a riparare una massa eterogenea di individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto di ampliamento. Ormai soddisfatto di tali forze, provvede a dotarli di un'assemblea. 

Elegge cento senatori, sia perché questo numero era sufficiente, sia perché erano soltanto cento quelli che potevano ambire a una carica del genere. In ogni caso, quest'onore gli valse il titolo di padri, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi.



cap. IX

Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. 

Essi dissero che anche le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in séguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli Dei, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati propizi gli Dei e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. 

All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). 

La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi disponibili all'epoca. 

Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. 

Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito. 

Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale. 

Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. 

Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. 

Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile.



cap. X

Ormai l'ira delle ragazze rapite si era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini, perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. 

Quell'affronto riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò questi tre popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così i Ceninensi invadono da soli il territorio romano. 

Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica, la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si scontra in duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. 

Dopo aver eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città al primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una barella costruita all'occorrenza, salì sul Campidoglio. 

Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del Dio: «Io, Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la mia volontà, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie opime che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia.» 

Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così, da quel giorno in poi, piacque agli Dei che fosse legge la parola del fondatore del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse svilita dal nume ro elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute. Ciò nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così rara fu la fortuna di quell'onore.



cap. XI

Mentre i Romani si stavano occupando di queste cose, gli Antemnati, cogliendo al volo l'occasione offerta dalla loro assenza, compiono un'incursione armata nel nostro territorio. Ma le truppe romane, spinte a marce forzate anche in quella direzione, piombano loro addosso trovandoli sparpagliati nei campi. Fu così che bastò il primo urto accompagnato dall'urlo di guerra per sbaragliarli e conquistarne la città. 

Mentre Romolo era nel pieno dell'ovazione per il doppio trionfo, la moglie Ersilia, cedendo alle preghiere incessanti delle donne rapite, lo prega di perdonarne i genitori e di ammetterli all'interno della città (la cui potenza sarebbe così aumentata proprio grazie alla concordia interna). Egli acconsente facilmente. Quindi marcia contro i Crustumini che erano in procinto di attaccare. Ma la loro resistenza durò ancora meno di quella degli alleati: di fronte a disfatte del genere, non era rimasto troppo coraggio. 

In entrambi i paesi sottomessi furono inviati coloni. La maggior parte di essi, però, si iscrissero per Crustumino a causa della fertilità della terra. Dall'altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori e parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L'ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti, non agirono sotto l'impulso del risentimento e dell'ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla guerra. 

Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene corrotta con dell'oro da Tazio e costretta a fare entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data. 

La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro braccialetti d'oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al posto dell'oro promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi. 

Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse tradire, l'uccisero proprio col compenso che aveva richiesto. 


cap. XII

Comunque sia, i Sabini si impossessarono della cittadella. Il giorno dopo, quando l'esercito romano aveva gremito, col suo schieramento al completo, lo spazio compreso tra il Palatino e il Campidoglio, i Sabini non calarono subito in pianura ma rimasero ad aspettare che l'indignazione e il desiderio di recuperare la rocca spingessero i Romani a risalire la china e ad affrontarli su in alto. I capi di entrambi gli schieramenti incitavano alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. 

Quest'ultimo, nonostante la posizione svantaggiosa, teneva alto il morale con dimostrazioni di coraggio e di audacia nelle prime file. Ma, caduto lui, subito i Romani registrarono un netto cedimento e andarono a rifugiarsi presso la vecchia porta del Palatino. Romolo stesso, trascinato dalla massa dei soldati in ritirata, sollevando le armi al cielo, gridò: «O Giove, è per obbedire al tuo volere che ho gettato le prime fondamenta di Roma proprio qui sul Palatino. Ormai la cittadella è in mano ai Sabini che l'hanno conquistata nella più turpe delle maniere. Di lì, attraverso la vallata, stanno avanzando armati verso di noi. Ma tu, padre degli Dei e degli uomini, tieni lontani almeno da qui i nemici, libera i Romani dal terrore e frena questa loro vergognosa ritirata! Prometto che qui, o Giove Statore, io innalzerò un tempio per ricordare ai posteri che è stato il tuo aiuto inesauribile a salvare la città». 

Al termine della preghiera, come se avesse avuto la sensazione di essere stato esaudito, disse: «Qui, o Romani, Giove ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di ricominciare a combattere». E i Romani si fermarono, proprio come se stessero obbedendo a un ordine piovuto dal cielo. Romolo in persona si lancia nelle prime file. Mezio Curzio, intanto, a capo dei Sabini, aveva guidato la carica dall'alto della cittadella e fatto il vuoto in mezzo alle fila romane, gettando lo scompiglio per tutto lo spazio occupato dal foro. 

E, ormai non lontano dalla porta del Palatino, gridava: «Li abbiamo battuti, ospiti malvagi e nemici codardi che non sono altro! Ora lo sanno che differenza passa tra rapire delle ragazze inermi e combattere contro degli uomini veri.» Mentre così si gloria, gli si avventa addosso, guidato da Romolo, un gruppo di giovani pronti a tutto. Per caso in quel momento Mezio stava combattendo a cavallo e fu così più facile respingerlo. 

Dopo averlo messo in fuga, i Romani proseguono sullo slancio e il resto dell'esercito, infiammato dall'audacia del re, riesce a sbaragliare i Sabini. Mezio fu trascinato in una palude dal suo cavallo, divenuto ingovernabile per lo strepito degli inseguitori e la cosa attirò l'attenzione anche dei Sabini che temevano di perdere una figura così carismatica: urlando e facendogli ampi gesti, gli dimostrarono il loro attaccamento ed egli riuscì a tirarsi fuori dalla melma. Romani e Sabini riprendono così a combattere nella valle che si estende tra le due colline. Ma i Romani continuavano ad avere la meglio.


Cap. XIII

Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti e dall'altra i padri. 

Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri. «Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od orfane.» 

L'episodio non tocca soltanto la massa dei soldati ma anche i comandanti, e su tutti cala improvvisa una quiete silenziosa. Poi vengono avanti i generali per stipulare un trattato e non si accordano esclusivamente sulla pace, ma varano anche l'unione dei due popoli. Associano i due regni, trasferendo però l'intero potere decisionale a Roma che vede così raddoppiata la sua popolazione. 

Tuttavia, per venire in qualche modo incontro ai Sabini, i cittadini romani presero il nome di Quiriti dalla città di Cures. E in memoria di quella battaglia chiamarono lago Curzio lo specchio d'acqua dove il cavallo di Curzio emerse dal profondo della melma e portò in salvo il suo cavaliere. A una guerra così catastrofica seguì improvvisamente un felice periodo di pace che rese le donne sabine più gradite ai loro mariti e ai loro genitori, ma, sopra tutti, a Romolo stesso. 

Così, quando questi divise la popolazione in trenta curie, diede a esse il nome delle donne. Senza dubbio il loro numero era in qualche modo superiore: la tradizione non ci informa se fu l'età, la loro classe sociale o quella dei mariti, oppure un'estrazione a sorte il criterio utilizzato per stabilire quali dovessero dare il nome alle curie. Nello stesso periodo vennero formate tre centurie di cavalieri. Ramnensi e Tiziensi devono i loro nomi a Romolo e a Tito Tazio. Quanto invece ai Luceri, nome e origine sono poco chiari. Di lì in poi, i due sovrani regnarono non solo in comune, ma anche in perfetto accordo. 


cap. XIV

Alcuni anni dopo, certi parenti di Tito Tazio maltrattano gli ambasciatori dei Laurenti e, nonostante il loro appellarsi al diritto delle genti, Tito mostra di avere orecchie soltanto per le preghiere dei suoi. Così facendo, assume su di sé la responsabilità della loro mancanza. E infatti, un giorno che era andato a Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza. 

Si narra che la cosa addolorò Romolo meno del dovuto, sia per la dubbia affidabilità di una simile divisione del potere, sia perché credeva che quella morte non fosse del tutto immeritata. Per questo evitò di far ricorso alla guerra. Tuttavia, per garantire l'espiazione della morte del re e dell'offesa ai danni degli ambasciatori, fece rinnovare il trattato tra Roma e Lavinio. Questa pace, a dir la verità, fu un evento al di sopra di ogni aspettativa. 

Invece scoppiò un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi alle porte di Roma. Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse forte come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a devastare le campagne tra Roma e Fidene. Di lì piegano verso sinistra (a destra niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono atti di vandalismo terrorizzando i contadini. 

L'improvviso trambusto creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente alla testa dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene. Dopo avervi lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle truppe. Una parte di queste ordinò che si piazzasse, pronta a lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno criparata da fitti cespugli. 

Poi, con il blocco più consistente dell'esercito e con tutta la cavalleria, si mise in marcia e, proprio come si era prefissato, riuscì ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di tattica spericolata e minacciosa, con i cavalieri che scorrazzavano fin quasi sotto le porte. D'altra parte, per la fuga che doveva esser simulata, questo assalto a cavallo forniva un pretesto più verisimile. 

E quando non solo la cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire, ma anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si spalancarono le porte e le linee romane furono travolte dallo straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento, furono trascinati nel punto dell'imboscata. Lì i Romani saltano fuori a sorpresa e attaccano sul fianco la schiera dei nemici. Allo stupore si aggiunge la paura: dall'accampamento si vedono avanzare gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione. 

Così i Fidenati, in preda al panico più totale, fanno dietrofront quasi prima ancora che Romolo e i suoi uomini riuscissero a girare i loro cavalli. E visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnavano la città in maniera di gran lunga più disordinata di quelli che, poco prima, essi avevano inseguito ingannati dalla loro simulazione di fuga. Però non riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li incalzavano da dietro e, prima che le porte della città venissero chiuse, irruppero all'interno, quando ormai i due eserciti sembravano uno solo. 


cap. XV

La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. 

Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura. 

Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia. 

E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. 

Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. 

Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace.Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sé, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri. 


cap. XVI

Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra. 

I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. 

Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romo lo proclamandolo Dio figlio di un Dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. 

Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi, un certo Giulio Proculo, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: 

«Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo,» egli concluse, «è scomparso in cielo.» 

È incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo l'assicurazione della sua immortalità. 


cap. XVII

Nel frattempo, tra i senatori, era in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione del potere. Non si era però ancora giunti a candidature individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse fazioni all'interno delle classi. I cittadini di origine sabina, dopo la morte di Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re. 

Così, nel timore di dover rinunciare alla spartizione del potere pur continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che venisse eletto un re della loro etnia. Ma i Romani di vecchia data rifiutavano l'idea di avere un re forestiero. Pur nella pluralità di vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità di un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere della libertà. 

Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi seriamente, pensando che la città priva di un governo e l'esercito privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco da fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini particolarmente maldisposti nei loro confronti. Erano quindi tutti d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in animo di rinunciare a favore dell'altro. 

Così i cento senatori decidono di governare collegialmente: creano dieci decurie e da ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a gestire l'amministrazione dello stato. Governavano, quindi, in dieci, anche se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori. Il potere di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a tutti gli altri. 

Si trattò di un intervallo di un anno. Siccome intercorse tra due regni, fu chiamato interregno, termine ancor oggi in uso. Ma allora la plebe cominciò a lamentare l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano cento. Era chiaro che avrebbero al massimo sopportato un re e questo eletto secondo le loro preferenze. 

Quando i senatori si resero conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso. E così si guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo, senza però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sé. Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica. 

Ancor oggi, quando si votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato questo diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i senatori anno la loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e quando non si conosce ancora l'esito del voto. 

In quell'occasione, il sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: «La fortuna, la prosperità e la felicità possano assisterci! Quiriti, sceglietevi un re, questo è il volere dei senatori. E se chi eleggerete sarà degno di esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano confermare la vostra scelta.» La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma. 


cap. XVIII

In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano. C'è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo. 

La tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine. 

E da quei lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? 

Per tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro dell'antichità. 

Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. 

Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli Dei. Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. 

L'augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli Dei e divise la volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. 

Poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: «O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.» Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale. 


cap. XIX

Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva). Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all'uso delle armi. 

Per questo motivo fece costruire ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni. Dal regno di Numa in poi fu chiuso soltanto due volte: la prima al termine della prima guerra punica, durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli Dei hanno concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo la battaglia di Azio, quando cioè l'imperatore Cesare Augusto ristabilì la pace per mare e per terra. 

Numa lo chiuse dopo essersi assicurato con trattati di alleanza la buona disposizione di tutte le popolazioni limitrofe ed eliminando le preoccupazioni di pericoli provenienti dall'esterno. Così facendo, però, si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. 

Per evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli Dei, espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la Dea Egeria e riferì che quest'ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli Dei, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici. 

Prima di tutto, basandosi sul corso della luna, divide l'anno in dodici mesi. Ma dato che i singoli mesi lunari non si compongono di trenta giorni e che ce ne sono «undici» di differenza rispetto a un intero anno calcolato in base alla rivoluzione del sole, egli aggiunse dei mesi intercalari in maniera tale che il ventesimo anno si trovassero rispetto al sole nella stessa posizione dalla quale erano partiti e che così la durata di tutti gli anni tornasse perfettamente. Stabilì anche i giorni fasti e quelli nefasti, poiché sarebbe stato utile, di quando in quando, sospendere ogni attività pubblica. 


cap. XX

Quindi rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. 

Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore. 

Per permettere loro di dedicarsi esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno stipendio dallo stato e, a causa della verginità e di altre cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche dodici Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca di bronzo sul petto. 

Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti dal cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città cantando inni accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi. Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese. 

Subordinò all'autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o all'adozione di culti di importazione. 

Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell'interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei numi, innalzò sull'Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece consultare il Dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi si dovesse tener conto. 


cap. XXI

L'attenzione per questi fenomeni celesti e la loro continua ricerca avevano distolto il popolo intero dalla violenza delle armi, fornendogli sempre qualcosa con cui tenere occupata la mente: il pensiero incessante della presenza divina e l'impressione che le potenze ultraterrene partecipassero dei casi umani avevano permeato di pietà religiosa gli animi così profondamente che la città era governata più dal rispetto per la solennità della fede che dalla paura suscitata dalle leggi e dalle pene. 

E come in città i sudditi uniformavano il proprio comportamento a quello del re, in qualità di unico esempio a loro disposizione, allo stesso modo anche i popoli vicini, che in passato avevano sempre visto Roma non come una città ma come un accampamento situato in mezzo a loro e destinato a destabilizzare la pace di tutti, cominciarono a nutrire per Roma una venerazione tale da considerare una violazione sacrilega attaccare un centro urbano così integralmente votato al culto degli Dei. 

C'era un bosco con al centro una grotta buia dalla quale sprigionava una fonte di acqua perenne. Poiché Numa vi si recava spessissimo senza testimoni e diceva di avere là i suoi appuntamenti con la Dea, consacrò il bosco alle Camene sostenendo che queste ultime si vedevano in quella radura con la sua consorte Egeria. 

Istituì anche un culto solenne in onore della Fides e prescrisse che i Flamini si recassero a questo santuario con un carro coperto trainato da due cavalli e che celebrassero la cerimonia con le mani coperte fino alle dita, per indicare che la Fides non deve essere violata e che ha il suo santuario anche nella mano destra. Stabilì inoltre molti altri culti sacrificali e i luoghi a essi demandati, luoghi cui i pontefici diedero il nome di Argei. 

Tuttavia, tra tutti i servizi resi allo Stato, il più significativo fu questo: per l'intera durata del suo regno, consacrò ogni attenzione non meno a mantenere la pace che a tutelare il paese. Così, due re di séguito, anche se ciascuno per strade diverse, l'uno infatti con la pace, l'altro con la guerra, contribuirono ala grandezza di Roma. Romolo regnò trentasette anni, Numa quarantatré. E Roma, tanto in caso di guerra quanto nella normalità della pace, non aveva più problemi di organizzazione interna e di esperienza. 


cap. XXII

Alla morte di Numa si tornò a un interregno. Poi il popolo elesse re - e il senato ratificò l'elezione - Tullo Ostilio, nipote di quell'Ostilio che si era distinto nella battaglia contro i Sabini ai piedi della cittadella. Il nuovo re non solo fu diversissimo rispetto al suo predecessore, ma fu anche più bellicoso di Romolo. La giovane età e la forza, unite all'aspirazione alla gloria ereditata dal nonno, erano un incentivo al suo ardore. 

Così, pensando che l'inattività prolungata avrebbe irreparabilmente sfiancato Roma, cercava dovunque pretesti per scatenare la guerra. Per puro caso successe che dei contadini romani andarono a fare razzia di bestiame in territorio albano e quelli della campagna di Alba gli restituirono subito il favore compiendo la stessa prodezza. In quell'epoca Alba era governata da Gaio Cluilio. Entrambe le parti in causa mandarono contemporaneamente degli inviati per riavere il maltolto. 

Tullo aveva ordinato ai suoi di compiere prima di tutto la loro missione. Era convinto che avrebbe ottenuto un rifiuto. In tal caso sarebbe stato suo diritto dichiarare guerra. I rappresentanti di Alba agirono invece con maggiore flemma. Ricevuti con amabile cortesia da Tullo, onorano con simpatia il banchetto offerto dal re. Nel frattempo quelli di parte romana li avevano presi sul tempo: la richiesta di risarcimento era già stata presentata. Di fronte a un secco rifiuto da parte albana avevano quindi avanzato una dichiarazione di guerra con decorrenza di lì a trenta giorni. 

Di ritorno a Roma ne riferiscono a Tullo. Questi allora invita i delegati albani a chiarire il motivo della loro missione. Ed essi, non essendo al corrente di nulla, cominciano perdendo tempo in formalità. Si scusarono di dover pronunciare parole probabilmente spiacevoli alle orecchie di Tullo, ma dissero che gli ordini erano ordini. Sostennero di esser venuti a rivendicare il maltolto e che gli era stato ingiunto di dichiarare guerra in caso di rifiuto. 

A queste parole Tullo replicò: «Andate dal vostro re e ditegli che il re di Roma chiama in causa gli Dei a testimoniare quale dei due popoli abbia per primo sdegnosamente congedato gli ambasciatori inviati a rivendicare quanto razziato, in modo tale che facciano ricadere su di lui tutti i disastri di questa guerra


cap. XXIII

 I rappresentanti di Alba se ne tornano indietro a riferire questa risposta. Entrambi i popoli si preparano con grandissimo ardore alla guerra, che si presentava come una vera e propria guerra civile, addirittura quasi uno scontro tra padri e figli: gli uni e gli altri erano di origine troiana in quanto Lavinio era stata fondata da Troia, Alba da Lavinio e i Romani discendevano dai re albani. Tuttavia l'esito della guerra rese lo scontro meno deplorevole: infatti non si combatterono battaglie e, quando le abitazioni di una sola delle due città furono distrutte, i due popoli si fusero in uno. 

Gli Albani scesero in campo per primi e invasero il territorio romano con un massiccio schieramento di forze. Pongono l'accampamento a non più di cinque miglia da Roma e lo circondano con un fossato (cui, per alcuni secoli, rimase il nome di fossa di Cluilio da quello del comandante, finché, col passare del tempo, scomparvero fossato e nome). 

In questo accampamento muore il re albano Cluilio e i suoi soldati eleggono dittatore Mezio Fufezio. Nel frattempo, il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla morte del re, sostenendo che l'onnipotenza divina si sarebbe vendicata del nome albano (e il re stesso era solo l'inizio) per la guerra criminale da lui scatenata, evitato nottetempo l'accampamento nemico, andò a riversarsi in territorio albano. Questa manovra costrinse Mezio a uscire dalle sue posizioni. 

Guidando l'esercito il più velocemente possibile in direzione del nemico, manda avanti un inviato a dire a Tullo che prima dello scontro egli ritiene necessario un colloquio tra i due comandanti in capo. Nel caso l'altro avesse accettato, era sicuro di poter avanzare delle proposte non meno interessanti per i Romani che per gli Albani. Tullo non rifiutò, anche se fece schierare le sue truppe in ordine di battaglia nel caso in cui le proposte si fossero dimostrate prive di interesse. 

Gli Albani vanno a disporsi dall'altra parte. Finite le manovre di schieramento dei due eserciti, i rispetivi comandanti, scortati da pochi maggiorenti, avanzano verso il centro del campo di battaglia. Il primo a parlare è l'albano: 

«Le razzie e il bottino non restituito nonostante le esplicite richieste in base al trattato mi sembra siano i pretesti che il nostro re Cluilio indicava come cause di questa guerra, né dubito Tullo che i tuoi siano tanto diversi. Ma se vogliamo dire la verità e non fare tanti giri di parole, è la sete di potere che spinge alle armi due popoli vicini e provenienti dalla stessa stirpe. Non sto a sbilanciarmi se con ragione o torto: la questione riguarda chi ha suscitato la guerra. Io sono soltanto un generale scelto dagli Albani per portare avanti le operazioni. 

Ma ecco, o Tullo, quello su cui vorrei attirare la tua attenzione: le proporzioni della potenza etrusca, che circonda noi ma soprattutto voi, le conosci meglio tu perché vivi più vicino a loro. Per terra dominano, ma per mare non hanno avversari. Quindi, nel momento in cui darai il segnale di battaglia, ricordati che gli Etruschi staranno a guardare i nostri due eserciti e, non appena saremo allo stremo delle forze, ne approfitteranno per assalire vincitori e vinti. 

Per questo, agli dei piacendo, visto che non ci basta la sicurezza della libertà ma preferiamo abbandonarci all'incertezza tra il potere e la schiavitù, vediamo di stabilire quale dei due popoli governerà sull'altro senza grandi disastri e inutili spargimenti di sangue.» 

La proposta non dispiacque a Tullo, nonostante fosse più incline allo scontro sia per motivi di carattere che per la speranza di vittoria. Mentre entrambe le parti stavano cercando di risolvere la questione, la sorte stessa fornì loro una soluzione. 


cap. XXIII

Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi. Pur essendo però un fatto così celebre, permangono ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di Orazi e Curiazi. Gli storici sono divisi, anche se vedo che la maggior parte di essi chiama romani gli Orazi e anch'io propendo per questa tesi. 

I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Nessuna obiezione. Si stabiliscono tempo e luogo. Prima però di dare il via allo scontro, Albani e Romani stipulano un trattato secondo il quale il popolo i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato un potere incondizionato sull'altro. 

Ogni trattato ha le sue clausole particolari, ma le procedure sono sempre le stesse. Nella circostanza presente sappiamo che fu strutturato in questi termini (ed è il più antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale rivolse a Tullo questa domanda: 

«Mi ordini, o re, di stipulare un trattato col pater patratus del popolo albano?» Poiché il re rispose affermativamente, egli proseguì: «Io ti chiedo l'erba sacra.» Il re rispose: «Prendi dell'erba pura.» Allora il feziale andò a raccogliere l'erba pura sulla cittadella. Quindi rivolse al re questa domanda: «Re, mi nomini tu plenipotenziario reale del popolo romano dei Quiriti ed estendi questo carattere sacrale ai miei paramenti e ai miei assistenti?» Il re risponde: «Te lo concedo, purché non debba danneggiare né me né il popolo romano dei Quiriti.» 

Il feziale, Marco Valerio, nominò pater patratus Spurio Fusio toccandogli la testa e i capelli con un ramoscello sacro. Il compito del pater patratus è quello di pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il trattato. A questo fine egli pronuncia una specie di ampollosa formula liturgica che non vale la pena riportare. 

Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: «Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpisci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.» 

Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano. 


cap. XXV

Concluso il trattato, i gemelli, come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni. Gli ricordavano che gli dèi nazionali, la patria e i genitori, nonché tutti i concittadini rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i fratelli, pronti allo scontro non già solo per il tipo di carattere che avevano ma esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzano nello spazio in mezzo alle due schiere. 

Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non tanto per qualche pericolo imminente, quanto perché era in ballo la supremazia legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro. Così, sul chi vive e col fiato sospeso, si concentrano sullo spettacolo non certo rilassante. Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. 

Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future della patria che loro soli 12 possono condizionare. Al primo contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. 

Ma quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria ma cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. 

Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare battaglia contro uno per volta. Quindi, per separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. 

Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato di voci, quello dei sostenitori per una vittoria insperata, i Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. 

Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento. 

Il Romano gridò esultando: «Ho già offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su Alba.» L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. 

I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro. 


cap. XXVI

Prima di allontanarsi, Mezio, in base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e Tullo gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi. 

Appena riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del fidanzato che lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli e in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto. Il suo pianto, proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria, irrita l'animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafigge la ragazza rivolgendole nel contempo queste parole di biasimo: 

«Vattene con la tua bambinesca infatuazione, vattene dal tuo fidanzato, tu che riesci a dimenticare i tuoi fratelli morti e quello vivo e addirittura la patria. Possa così morire ogni romana che piangerà il nemico.» L'atroce delitto sembrò orribile ai senatori e alla plebe, ma a ciò si contrapponeva la prodezza di poche ore prima. Fu comunque preso e portato di fronte al re per essere processato. 

Questi, non volendosi assumere l'intera responsabilità di una sentenza così penosa e impopolare nonché della condanna a morte che ne sarebbe seguita, convocò l'assemblea del popolo e disse: «Secondo quanto è prescritto dalla legge, nomino una commissione di duumviri e gli affido il compito di processare Orazio per lesa maestà.» 

Il testo della legge era spaventoso: «I delitti di lesa maestà siano giudicati dai duumviri. Se l'imputato ricorre in appello che l'appello dia luogo a una discussione. Nel caso prevalgano i duumviri, si proceda a coprirne il capo; quindi se ne leghi il corpo a un albero stecchito e lo si fustighi sia dentro sia fuori il pomerio.» In virtù di questa disposizione, vengono nominati i duumviri. Con una legge del genere sembrava loro impossibile assolvere anche un innocente. 

Così, dopo averlo giudicato colpevole, uno di essi disse: «Publio Orazio, ti condanno per lesa maestà. Vai littore, legagli le mani.» Il littore gli si era avvicinato e stava per mettergli il laccio, quando Orazio, su consiglio di Tullo, più clemente nell'interpretare la legge, disse: «Ricorro in appello.» Il dibattito si tenne così di fronte al popolo e la gente fu particolarmente influenzata dalla testimonianza del padre di Orazio il quale sostenne che la morte della figlia era stata giusta e aggiunse che in caso contrario egli avrebbe fatto ricorso alla sua autorità di padre e punito il figlio Orazio con le sue stesse mani. 

Poi implorò il popolo di non orbare anche dell'ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima la gente aveva visto circondato da una notevole prole. Dicendo questo, il vecchio andò ad abbracciare il giovane e, indicando le spoglie dei Curiazi appese nel punto che ancor oggi si chiama Trofeo di Orazio, esclamò: 

«Quest'uomo che poco fa avete ammirato incedere nell'ovazione trionfale della vittoria, o Quiriti, ce la farete a vederlo legato e fustigato sotto una forca? Uno spettacolo così ingrato che a malapena gli Albani riuscirebbero a tollerarne la vista. Vai littore, incatena queste mani che poco fa hanno dato al popolo romano la supremazia. Vai, incappuccia la testa al liberatore di questa città e legalo a un albero stecchito. Fustigalo sia dentro il pomerio - e quindi tra i trofei e le spoglie nemiche -, sia fuori di esso - e quindi tra le tombe dei Curiazi. Dove potreste portarlo questo giovane senza che la sua gloria gridi vendetta per l'onta di un simile verdetto?» 

Il popolo, incapace di resistere alle lacrime del padre e alla fermezza incrollabile del figlio di fronte a ogni pericolo, assolse Orazio più per l'ammirazione suscitata dalla sua prodezza che per la bontà della sua causa. E così, per purificare malgrado tutto il delitto flagrante con una qualche espiazione, al padre venne ordinato di compiere l'espiazione per il figlio a pubbliche spese. Per questo motivo egli offrì dei sacrifici espiatori che da quel momento divennero una tradizione peculiare della famiglia Orazia. 

Quindi eresse nella pubblica via una struttura di travi e, come se si fosse trattato di un giogo vero e proprio, vi fece passare sotto il figlio a capo coperto. La cosa esiste ncora e di tanto in tanto viene rimessa in sesto a spese dello stato: si chiama trave sororia. Quanto all'Orazia, le fu innalzato un sepolcro di pietre squadrate nel punto in cui era caduta sotto i colpi del fratello. 


cap. XXII

Ma la pace con Alba non durò a lungo. La gente era scontenta perché le sorti del paese erano state affidate a tre soli soldati. Questo influenzò l'indole volubile del dittatore. Così, visto che la saggezza non aveva avuto troppo successo, per riconquistare la popolarità perduta, egli adottò il metodo della malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva cercato la pace, così adesso in tempo di pace si mise a cercare la guerra. 

Rendendosi però conto che la sua gente aveva sì coraggio ma ben poca forza, spinse altri popoli a dichiarare guerra apertamente e con tutti i crismi, e riservò ai suoi uomini la possibilità di tradire i Romani mostrando invece di voler essere al loro fianco. 

Gli abitanti di Fidene, colonia romana, e quelli di Veio (che erano stati messi a parte dei loro piani) vengono spinti a dare il via alle ostilità con la promessa di poter contare sull'appoggio di Alba durante il conflitto. Quando Fidene si ribellò senza mezzi termini, Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e mosse contro il nemico. 

Attraversato l'Aniene, si accampa alla confluenza dei due fiumi. Invece l'esercito dei Veienti aveva guadato il Tevere in un punto tra quella zona e Fidene. Lo schieramento per la battaglia era questo: all'ala destra, lungo il fiume, i Veienti, mentre alla sinistra, verso le montagne, i Fidenati. Tullo dirige i suoi contro quelli di Veio e piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il coraggio e la lealtà non erano il punto forte del generale albano. 

Non osando quindi né tenere la posizione né disertare apertamente, prese ad avvicinarsi a poco a poco alla montagna. Quando ritenne di esservisi avvicinato a sufficienza, ancora incerto sul da farsi, fece spiegare le sue forze per guadagnare un po' di tempo. Il suo piano era questo: scendere in campo dalla parte di chi stava avendo la meglio. 

I Romani che si trovavano più vicini, quando si resero conto di avere i fianchi scoperti per la ritirata degli alleati, rimasero annichiliti. Allora un cavaliere partì al galoppo e andò a riferire al re della ritirata albana in corso. Tullo, nel pieno della crisi, fa voto di creare dodici Salii e di innalzare dei santuari al Pallore e al Panico. Interpellando il cavaliere ad alta voce, in maniera da poter essere sentito dal nemico, gli ingiunge di tornare in prima linea. 

Non c'era motivo di panico. Lui stesso aveva ordinato alle truppe di Alba quella manovra di accerchiamento per prendere da dietro i fianchi scoperti dei Fidenati. Fa inoltre ordinare alla cavalleria di alzare le lance. Con questa mossa riuscì a nascondere a parte della fanteria romana la manovra di ripiegamento delle truppe albane. 

Chi se n'era reso conto si fidò di quel che aveva sentito dal re e si buttò con più foga nella mischia. Il terrore passò così dalla parte dei nemici, sia perché avevano sentito la frase pronunciata ad alta voce dal re, sia perché gran parte dei Fidenati, avendo avuto tra di loro dei Romani come coloni, sapevano il latino. 

Quindi, per evitare che un'improvvisa calata degli Albani dal fianco del monte chiudesse loro la strada in direzione della città, tornarono indietro. Tullo li insegue e, sbaragliata l'ala dei Fidenati, rinviene con più impeto su quella dei Veienti, demoralizzati dal panico degli alleati. Anch'essi evitarono lo scontro ma non riuscirono a fuggire alla spicciolata perché si trovarono l'ostacolo del fiume alle spalle. 

Quando arrivarono lì, alcuni, gettando ignominiosamente le armi, si buttavano in acqua alla cieca, altri, attardatisi sulla riva, nell'indecisione tra il fuggire e il combattere, si facevano uccidere. In nessuna battaglia precedente i Romani versarono così tanto sangue. 


cap. XXVIII

Fu allora che l'esercito albano, spettatore dello scontro, riguadagnò la piana. Mezio si congratula con Tullo della vittoria sui nemici e Tullo gli risponde cortesemente. Quindi ordina agli Albani (e possa la cosa avere buon fine!) di unire il loro accampamento a quello dei Romani e poi prepara un sacrificio di purificazione per il giorno successivo. Quando all'alba tutto era pronto, convoca in assemblea i due eserciti. 

Gli araldi, avendo iniziato dal fondo del campo, chiamarono per primi gli Albani che, colpiti dall'assoluta novità della cosa, si andarono a piazzare vicino al re per non perderne il discorso. La legione romana, armata secondo quanto convenuto, li circonda. I centurioni avevano l'ordine tassativo di portare a termine senza indugi quello che gli era stato comandato. Allora Tullo prese la parola e disse:

 «O Romani, se mai prima di questa volta, in tutte le guerre da voi combattute, avete avuto ragione di rendere grazie prima agli dei immortali e poi al vostro stesso valore, questo è successo nella battaglia di ieri. Infatti non avete combattuto solo col nemico, ma - e in questo sta la maggiore pericolosità della cosa - avete anche dovuto affrontare il subdolo tradimento degli alleati. Sia dunque chiaro: non è su mio ordine che gli Albani si sono spostati verso la montagna. 

Quello che avete sentito da me non è stato un mio comando ma una calcolata simulazione: volevo evitare che, rendendovi conto di essere stati abbandonati, vi distraeste dalla battaglia e nel contempo volevo scatenare panico e fuga tra i nemici facendo credere loro di essere stati aggirati. E non tutti gli Albani sono responsabili del crimine in questione: hanno seguito il loro comandante, come avreste fatto anche voi se vi avessi ordinato una qualche manovra sul campo. 

È Mezio che ha guidato quella diversione. Lo stesso Mezio che ha architettato questa guerra, lo stesso Mezio che ha infranto il trattato tra Romani e Albani. Che qualcun altro possa di qui in poi ripetere una simile prodezza, se io di costui non farò un clamoroso esempio per l'intero genere umano.» 

Quindi i centurioni, armi alla mano, circondano Mezio, mentre il re, con lo stesso tono con cui aveva iniziato, riprese: «Che la prosperità e la buona sorte siano col popolo romano, con me e anche con voi, o Albani. È mia intenzione trasferire tutta la gente di Alba a Roma, concedere la cittadinanza alle classi subalterne, eleggere senatori i nobili e avere una sola città e un solo stato. Come un tempo la civiltà albana fu divisa in due popoli, possa oggi riacquistare la sua unità.» 

A queste parole, i giovani albani, disarmati e circondati da armati, benché divisi nelle reazioni individuali al discorso, erano tuttavia uniti nel silenzio dovuto alla paura unanime. Allora Tullo disse: «Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispeto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.» 

Quindi chiede due quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel mezzo. Poi incita i cavalli in direzioni diverse: ciascun carro si trascinò via pezzi del corpo maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo vincolavano da ambo le parti. Tutti distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quella fu la prima e ultima volta che i Romani ricorsero a un tipo di pena contraria a ogni umana legge. Per il resto possiamo infatti vantarci di non essere secondi a nessun popolo nella clemenza delle pene inflitte. 


cap. XXIX

 Frattanto, vennero mandati ad Alba dei cavalieri per trasferire a Roma la popolazione. A essi seguirono poi le legioni per distruggere la città. Quando ne superarono le porte, non ci fu, a dire il vero, quel fuggi fuggi terrorizzato che è classico delle città conquistate, quando il nemico fa breccia negli ingressi, abbatte le mura a colpi d'ariete, assalta la cittadella e poi dilaga per le strade mettendo ogni cosa a ferro e fuoco in un boato di urla e di armi. 

Niente di tutto questo: solo un lugubre silenzio e un dolore senza voce. Tutti erano così depressi che, in balia della paura, non avevano più la lucidità di decidere cosa abbandonare lì e cosa portarsi dietro e si interpellavano a vicenda ora immobili di fronte alle porte, ora in un abulico vagare dentro le case che avrebbero visto per l'ultima volta. 

Poi, quando ormai i cavalieri gli urlavano di sbrigarsi a uscire, quando già si iniziava a sentire il fragore delle prime case demolite nei sobborghi e il polverone dei crolli nei quartieri lontani aveva coperto ogni cosa come una nuvola bassa e diffusa, allora ciascuno cercava di afferrare ciò che poteva uscendo dalla casa in cui era nato e cresciuto e in cui doveva lasciare lari e penati. 

Subito le strade si riempirono di una fila interminabile di sfollati i quali, specchiandosi nello stato miserando dei propri consanguinei, ricominciarono a piangere e urla strazianti di dolore (erano soprattutto donne) si levarono quando passarono davanti ai templi piantonati dai soldati armati in quanto sembrò loro di lasciare le divinità in mano al nemico. 

I Romani fanno uscire gli Albani dalla città e poi radono al suolo tutti gli edifici, pubblici e privati, e in un'ora soltanto azzerano i quattrocento anni di storia che Alba aveva alle spalle. L'unica cosa risparmiata, secondo le disposizioni del re, furono i templi. 


cap. XXX

Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. 

E come sede consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate. 

Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. 

Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono anch'essi a cercare aiuti dall'estero. Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i Veienti. 

Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall'opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo. 

Mentre l'una e l'altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d'urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella cavalleria. 

Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce. 


cap. XXXI

Dopo la disfatta inflitta ai Sabini, e quando ormai il regno di Tullo e la potenza romana avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, ecco che venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre. Siccome la cosa non era molto verisimile, furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Essi riferirono di aver visto coi loro occhi una spessa pioggia di pietre che cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra. 

Nel bosco che c'é in cima alla vetta era sembrato loro anche di sentire una voce possente la quale ordinava agli Albani di celebrare, secondo il rito tradizionale, i sacrifici che essi avevano lasciato cadere nell'oblio quando, con la città, avevano abbandonato anche i loro Dei e adottato culti romani o, come spesso succede, rinnegato i propri per un risentimento nei confronti del destino. 

Anche i Romani, a séguito di questo prodigio, proclamarono una novena ufficiale, sia per la voce celeste emessa dal monte Albano (così vuole la tradizione), sia su consiglio degli aruspici. In ogni modo, rimase un'usanza abituale: ogni qual volta si fosse ripetuto un fenomeno analogo, sarebbero seguiti nove giorni di festa. Non molto tempo dopo Roma fu colpita da un'epidemia cui fece séguito una riluttanza alle prestazioni militari. Ciò nonostante, il bellicoso re Tullo non dava tregua ai suoi sudditi, persuaso com'era che le esercitazioni militari fossero più salutari ai fisici dei giovani che l'aria di casa. 

Finché lui stesso non fu colpito da una malattia dal lungo decorso. E allora l'infermità ne minò simultaneamente il corpo e l'indole bellicosa a tal punto che uno come lui, in passato convintissimo che nulla fosse più indegno per un re che occuparsi della sfera religiosa, improvvisamente divenne vittima di ogni forma di piccola e grande superstizione e prese a imbottire la sua gente di scrupoli religiosi. Tutti ormai reclamavano un ritorno allo stato delle cose ai tempi di Numa, pensando che l'unico rimedio alla deperibilità dei loro corpi consistesse nella benevolenza e nel perdono degli Dei. 

Il re stesso, così vuole la tradizione, poiché consultando le memorie di Numa aveva trovato menzione di certi sacrifici occulti praticati in onore di Giove Elicio, vi si dedicò in segreto. Il fatto è che commise qualche errore nel preparare o nel celebrare il rito e quindi, non solo non ebbe alcuna visione divina, ma suscitò anche l'ira di Giove il quale, irritato dalla profanazione del culto, incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo. Comunque, il glorioso regno di questo re guerriero durò trentadue anni. 


cap. XXXII

Alla morte di Tullo, il potere, in conformità alla regola stabilita sin dall'inizio, era tornato ai senatori i quali nominarono un interré. Questi convocò l'assemblea e il popolo elesse re Anco Marzio, con la ratifica del senato. Anco Marzio era nipote per parte di madre del re Numa Pompilio. Quando salì al trono, ricordandosi della gloria dell'avo, aveva la ferma convinzione che il regno precedente, tra le tante cose positive, avesse mostrato un'unica debolezza: i riti religiosi erano stati trascurati o praticati male. 

Perciò ritenne che la prima cosa da farsi fosse ristabilire le pubbliche cerimonie secondo il rituale fissato da Numa e a questo proposito ordinò al pontefice massimo di copiare tutte le prescrizioni cultuali dai taccuini del re su una tavoletta bianca da esporre poi in pubblico. Questo primo passo fece sperare ai Romani avidi di pace e ai popoli confinanti che il re avrebbe seguito le orme dell'avo tanto nel carattere quanto nel tipo di politica. 

Così i Latini, coi quali era stato firmato un trattato durante il regno di Tullo, ripresero coraggio e fecero un'incursione nel territorio romano. Quando i Romani gliene chiesero riparazione, essi risposero in maniera sprezzante, convinti che un re del genere avrebbe trascorso l'intera durata del suo regno dietro altari e santuari. Ma il carattere di Anco era perfettamente equilibrato, una via di mezzo tra Numa e Romolo. 

Inoltre pensava che durante il regno dell'avo ci fosse maggiore bisogno di pace perché il popolo era nuovo e indisciplinato, ma anche che gli sarebbe stato difficile ottenere quella tranquillità che l'avo era riuscito a ottenere senza eccessivi travagli. Adesso che mettevano alla prova la sua pazienza e poi la disprezzavano, per i tempi in corso, sul trono era meglio un Tullo che un Numa. 

Ma come Numa in tempo di pace aveva fornito un regolamento per le pratiche religiose, allo stesso modo egli adesso voleva istituire un cerimoniale di guerra, così che non ci si limitasse soltanto a fare le guerre ma le si dichiarasse anche secondo un qualche formulario fisso. E per approntarlo ricorse a una regola dell'antica tribù degli Equicoli, cui ancor oggi i feziali si attengono per presentare un reclamo. 

Quando l'inviato arriva alle frontiere del paese cui viene rivolto il reclamo, con il capo coperto da un berretto (dotato di un velo di lana), dice: «Ascolta, Giove; ascoltate, o frontiere,» e qui specifica del tale e del talaltro paese, «e mi ascolti anche il sacro diritto. Io sono il rappresentante ufficiale del popolo romano. Vengo per una missione giusta e santa: abbiate per questo fiducia nelle mie parole.» 

Quindi elenca i reclami e chiama a testimone Giove: «Se io non mi attengo a ciò che è santo e giusto nel reclamare che mi vengano consegnati questi uomini e queste cose, possa non ritrovare pù la mia terra.» Ripete questa formula quando attraversa il confine; la ripete al primo uomo che incontra, la ripete quando entra in città, la ripete facendo ingresso nel foro, con solo qualche piccola modifica nella forma e nell'invocazione del giuramento. 

Se l'oggetto del suo reclamo non viene restituito entro il trentatreesimo giorno (si tratta del termine convenzionale), dichiara guerra con questa formula: «Ascolta, Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino, e voi tutte divinità del cielo, della terra e degli inferi, ascoltatemi. Io vi chiamo a testimoni che questo popolo,» e ne fa il nome, «è ingiusto e non ripara quanto deve. A questo proposito, chiederemo consiglio in patria, ai più anziani tra i nostri concittadini, su come ottenere quanto ci spetta di diritto.» 

Poi il messaggero torna a Roma per la decisione definitiva. E subito il re si consulta coi senatori grosso modo in questi termini: «A proposito degli oggetti, delle controversie e delle cause di cui il pater patratus del popolo romano ha discusso con il pater patratus dei Latini Prischi e con alcuni dei Latini Prischi, a proposito di ciò che non è stato consegnato, restituito e fatto di quello che doveva essere consegnato, restituito e fatto, dimmi,» rivolgendosi al primo che lo aveva consultato, «che cosa ne pensi?» 

E l'altro replica: «Penso sia giusto e sacrosanto riottenere il dovuto con la guerra: questi sono il mio pensiero e il mio voto.» Poi a turno vengono consultati gli altri. E una volta ottenuto il consenso della maggioranza, tutti si trovano d'accordo sulla guerra. Di solito il feziale porta ai confini con l'altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco e, di fronte ad almeno tre adulti, dice:

 «Poiché i popoli dei Latini Prischi e alcuni dei Latini Prischi si sono resi responsabili di atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prischi e il senato del popolo romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il suo consenso a questa guerra coi Latini Prischi, per i suddetti motivi, io - e quindi il popolo romano dei Quiriti - dichiaro guerra ai popoli dei Latini Prischi e ai cittadini dei Latini Prschi e la metto in pratica.» 

Detto ciò, scaglia la lancia nel loro territorio. Ecco dunque in che termini fu esposto il reclamo ai Latini e come fu loro dichiarata guerra: l'usanza è passata ai posteri. 


cap. XXXIII

Anco, dopo aver lasciato ai Flamini e ad altri sacerdoti l'incarico di provvedere ai sacrifici, si mise in marcia con un esercito di recente formazione e conquistò di forza Politorio, città dei Latini. Quindi, seguendo l'usanza dei suoi predecessori sul trono, i quali avevano ingrandito Roma integrandovi i nemici fatti prigionieri, vi trasferì l'intera popolazione. 

E visto che i primi Romani avevano occupato il Palatino, i Sabini il Campidoglio e la cittadella, e gli Albani il monte Celio, al nuovo nucleo di stranieri fu assegnato l'Aventino, sul quale, non molto tempo dopo, vennero trasferiti gli abitanti anche di altre due città conquistate, Tellene e Ficana. In séguito Politorio fu attaccata una seconda volta perché i Latini Prischi l'avevano rioccupata dopo l'evacuazione. 

Ciò fornì ai Romani il pretesto per raderla al suolo: non avrebbe così più offerto rifugio ai nemici. Alla fine la guerra coi Latini si concentrò integralmente su Medullia, dove, per un po' di tempo, si combatté con un certo equilibrio e non era facile prevedere chi avrebbe avuto la meglio. Infatti la città era dotata di solide fortificazioni e difesa da una guarnigione piuttosto tenace. Inoltre, l'armata latina, accampata in aperta pianura, non perdeva occasione di venirsi a scontrare coi Romani. 

Alla fine, impegnando tutti gli uomini a disposizione, Anco ottenne la sua prima vittoria in battaglia e rientrò a Roma con un immenso bottino. Migliaia di Latini li integrò in città e, per unire Aventino e Palatino, diede loro come sede la zona intorno al tempio di Murcia. Integrò nella cerchia urbana anche il Gianicolo, non tanto per bisogno di spazio, quanto piuttosto per evitare che quella roccaforte potesse un giorno cadere in mano al nemico. 

Si decise non solo di munirlo di fortificazioni, ma anche di metterlo in comunicazione con il resto della città mediante un ponte di legno che ne avrebbe facilitato l'accesso e che fu il primo costruito sul Tevere. Anche la fossa dei Quiriti, difesa no trascurabile sul versante più esposto a incursioni dalle pianure, è opera di Anco. Con questi possenti incrementi umani, all'interno di una popolazione così numerosa era divenuto difficile distinguere il bene dal male e di conseguenza il crimine proliferava nell'ombra. 

Quindi, per scoraggiare la crescente illegalità, venne costruito un carcere in pieno centro, a due passi dal foro. Il regno di Anco non significò espansione soltanto per la città, ma anche per la campagna e i dintorni. Il bosco di Mesia, tolto ai Veienti, estese il dominio di Roma fino al mare, e alle foci del Tevere venne fondata Ostia, intorno alla quale furono create delle saline. Per celebrare invece i successi militari fece ingrandire il tempio di Giove Feretrio. 


cap. XXXIV

Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall'ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). 

Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a séguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. 

Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. 

Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest'onta, mise da parte l'attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. 

A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un'aquila planò su di loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi sparì nell'alto del cielo. 

Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell'uccello, della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un Dio. 

Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. 

E il re non lo apprezzò per quel che era finché la generosità e l'efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli. 


cap. XXXV

Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile. I suoi figli erano ormai quasi degli uomini fatti e per questo Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo dell'assemblea popolare per l'elezione del re. 

Quando ne fu indetta la convocazione, egli mandò i ragazzi a una battuta di caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a impegnarsi in una campagna per il trono e che pronunciò un discorso puntato a conquistare il favore popolare. Disse che il suo caso non era privo di precedenti e, per evitare che qualcuno potesse stupirsi e indignarsi, che lui non sarebbe stato il primo bensì il terzo straniero a puntare al trono di Roma. 

Tazio, addirittura, non solo era un re forestiero, ma proveniva da un paese nemico e Numa, pur non conoscendo affatto Roma e non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. Quanto a se stesso, dal giorno in cui era diventato padrone della propria persona, era venuto a stabilirsi a Roma con la moglie e tutto quello che possedeva. 

E la parte di vita che di solito si dedica all'adempimento dei propri doveri di cittadini, lui l'aveva trascorsa a Roma e non nella sua città natale; quanto alla sfera civile e a quella militare, aveva appreso il diritto e i culti religiosi romani da un maestro assolutamente fuori del comune, cioè il re Anco in persona. Il suo ossequio e il suo rispetto per la persona del re non erano inferiori a quelli di nessuno; quanto poi a generosità verso il prossimo, solo il re stesso lo era stato più di lui. 

Il popolo romano, sentendo che non mentiva elencando questi aspetti, lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono, non tradì tutti i sani principi morali che aveva pubblicizzato quando si era autocandidato. Impegnandosi non meno a rinforzare il proprio regno che a consolidare la potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori, noti di lì in poi come di secondo ordine, i quali divennero incrollabili sostenitori del re al cui favore dovevano la loro nomina in senato. 

La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d'assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Divise tra senatori e cavalieri dei lotti di terra perché si costruissero dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli. Detti palchi ebbero il nome di fori e poggiavano su sostegni sollevati di dodici piedi dal livello del terreno. 

La manifestazione ruotò intorno a gare di equitazione e a incontri di pugilato con atleti per la maggior parte etruschi. Da quell'occasione i giochi rimasero uno spettacolo regolarmente allestito ogni anno e a seconda dei casi vennero chiamati Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre Tarquinio a dividere tra i privati cittadini appezzamenti di terreno edificabile intorno al foro, i quali vennero utilizzati per la costruzione di portici e negozi. 


cap. XXXVI

Stava anche preparandosi a dotare Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra coi Sabini si sovrappose ai suoi progetti. La cosa fu così improvvisa che i nemici attraversarono l'Aniene prima che l'esercito romano potesse mettersi in marcia e andargli a chiudere il passaggio. A Roma fu subito il panico. Sulle prime l'esito dello scontro fu incerto ed entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico rientrò nell'accampamento, dando così ai Romani la possibilità di riorganizzarsi da capo per la guerra. 

Tarquinio pensava che le sue truppe avessero particolari carenze nei reparti di cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il suo nome. Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna consultazione augurale e Atto Navio, famoso augure di quegli anni, disse che non si potevano apportare modifiche o introdurre innovazioni nella struttura dell'esercito senza l'approvazione degli uccelli. 

Il re reagì stizzito e, per ridicolizzarne la presunta scienza, disse: «Avanti, visto che sei un veggente, chiedi un po' ai tuoi uccelli se si può mettere in pratica quello a cui sto pensando in questo momento!» E quando Atto, dopo aver consultato il volo degli uccelli, disse che la cosa si sarebbe avverata di sicuro, il re ribatté: «Ben fatto! Il problema è che io stavo pensando che tu riuscissi a tagliare in due una pietra con un rasoio. Prendi i due oggetti e vedi di fare quello che secondo i tuoi uccelli è possibile.» 

Pare che a quel punto l'augure, senza un attimo di esitazione, tagliò in due la pietra. C'era una statua di Atto in piedi a capo velato nel luogo del miracolo, in pieno comizio e proprio sulle scale che portano alla parte sinistra della curia. Dicono che anche la pietra fu collocata nello stesso punto per ricordare il prodigio ai posteri. 

Sta di fatto che gli auguri e la loro professione acquistarono in séguito un tale prestigio, che tanto in pace quanto in guerra non si prese più nessuna iniziativa senza prima aver tratto gli auspici: assemblee popolari, chiamate alle armi, pratiche di estrema importanza, tutto veniva rimandato se non si aveva l'approvazione degli uccelli. 

Così nemmeno Tarquinio apportò delle modifiche alla procedura nel caso presente delle centurie di cavalleria: raddoppiò il loro numero di effettivi in maniera tale da avere milleottocento cavalieri distribuiti in tre centurie. Mantennero lo stesso nome delle centurie dove erano stati arruolati, salvo assumere la denominazione di Posteriori. Oggi, visto che ne sono state aggiunte altre tre, si chiamano le sei centurie. 


cap. XXXVII

Una volta rinforzata questa parte dell'esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini. Ma, oltre che dall'incremento di effettivi, l'esercito romano fu aiutato anche da un astuto espediente: alcuni uomini vennero inviati a raccogliere una gran massa di fascine lungo la riva dell'Aniene e a gettarle nel fiume dopo avervi dato fuoco. La legna incendiata, spinta dal vento a favore, andò a finire per lo più sulle barche e sui supporti in legno del ponte che prese fuoco. 

Lo stesso espediente seminò il panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la ritirata quando poi cominciò il fuggi fuggi. Molti riuscirono a evitare il nemico ma morirono nel fiume. Parte delle loro armi, galleggiando sull'acqua, furono riconosciute nel Tevere e diedero a Roma la notizia della grande vittoria ancora prima che arrivassero i messaggeri ad annunciarla. 

I protagonisti assoluti di questa battaglia furono i cavalieri: collocati ai due fianchi dei reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga. 

I Sabini si sparpagliarono disordinatamente verso le montagne, ma solo pochi di essi le raggiunsero. La maggior parte, come già detto prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri. Tarquinio, pensando fosse opportuno insistere mentre gli avversari erano in preda al panico, inviò a Roma bottino e prigionieri; quindi, per realizzare un voto fatto a Vulcano, diede ordine di accatastare la grande quantità di armi sottratte al nemico e di darvi fuoco. 

Poi, alla testa dell'esercito, invase il territorio sabino. Nonostante la brutta batosta e le poche speranze di ribaltare le sorti ormai compromesse della battaglia, i Sabini, non avendo tempo a sufficienza per ponderare una decisione, scesero in campo con i resti raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti però una seconda volta e allo stremo delle forze, chiesero la pace. 


cap. XXXVIII

Ai Sabini furono tolti Collazia e il territorio oltre Collazia. A governarla con una guarnigione rimase Egerio, nipote di Tarquinio. A quanto ne so, ecco in che termini e come avvenne la resa dei Collatini. Il re chiese: «Siete voi i 18 legati e i portavoce mandati dai Collatini con l'incarico di consegnare voi stessi e il popolo collatino?» «Sì.» «Il popolo collatino è padrone di se stesso?» «Sì.» «Consegnate dunque voi stessi e il popolo collatino, la città, le campagne, l'acqua, i confini, i templi, la mobilia, e tutti gli oggetti sacri e profani all'autorità mia e del popolo romano?» «.» «E io accetto.» 

Conclusa così la guerra coi Sabini, Tarquinio rientra a Roma in trionfo. In séguito combatté coi Latini Prischi. Ma durante questa guerra non si arrivò mai a uno scontro veramente decisivo: accerchiando, invece, di volta in volta le singole città, sottomise tutti i Latini. Furono conquistate: Cornicolo, Ficulea Vecchia, Cameria, Crustumeria, Ameriola, Medullia, Nomento, tutte città dei Latini Prischi o passate dalla loro parte durante la guerra. Poi fu conclusa la pace. 

In seguito il re si dedicò a massicce opere di pace con maggiore impegno di quanto ne avesse profuso nell'organizzare le guerre. Lo scopo era quello di evitare che la sua gente fosse meno impegnata adesso che ai tempi delle campagne militari. Così si ricomincia la fortificazione in pietra - abortita sul nascere per lo scoppio della guerra coi Sabini - di quella parte di Roma che ne era ancora priva. 

Poi, con un sistema di condotti in discesa verso il Tevere, fa bonificare le parti basse della città, le zone intorno al foro e le valli tra i colli, perché non era possibile far defluire le acque per la natura eccessivamente pianeggiante del terreno. Infine, già anticipando l'importanza che un giorno il luogo avrebbe assunto, fa gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta di un tempio che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in onore di Giove. 


cap. XXXIX

In quel periodo il palazzo reale assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta da fiamme. Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la famiglia reale. Un servitore portò dell'acqua per spegnere le fiamme, ma la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso intimando di non toccare il bambino finché non si fosse svegliato da solo. 

Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli disse: «Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi. Quindi vediamo di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e per noi stessi.» 

Da quel momento in poi essi presero a trattarlo come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in genere portano a concepire grandi ideali. La cosa non fu difficile perché la volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero reggere al confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia. 

Questo grandissimo onore, per qualsivoglia natura conferitogli, impedisce di credere che egli fosse figlio di una schiava e schiavo lui stesso nella prima infanzia. Io sono più dalla parte di chi sostiene questa tesi: caduta Cornicolo, la moglie incinta di Servio Tullio, ucciso durante l'assedio e massima autorità cittadina, finì a Roma con le altre prigioniere. 

Qui la regina ne riconobbe i segni inconfondibili della nobiltà e non solo impedì che andasse a fare la schiava, ma le permise anche di mettere al mondo il suo bambino nel palazzo di Tarquinio Prisco. In séguito un simile gesto fece germogliare l'amicizia tra le due donne, e il bambino, come se fosse nato e cresciuto nella reggia, fu trattato con stima e affetto. È probabile che la tesi della sua origine servile fu costruita sulla sorte della madre, fatta prigioniera dal nemico dopo la rotta della città d'origine. 


cap. XL

Dopo quasi trentotto anni dall'inizio del regno di Tarquinio, Servio Tullio aveva conquistato la stima totale non solo del re ma anche dei senatori e del popolo. I due figli di Anco avevano sempre considerato il colmo dell'infamia il tiro mancino con cui il loro tutore li aveva privati del regno paterno e il fatto che a Roma regnasse uno straniero le cui origini non erano nemmeno italiche. In quel tempo erano più indignati ancora dalla prospettiva che nemmeno dopo Tarquinio il regno sarebbe toccato a loro, ma, subendo un ulteriore degrado, sarebbe finito in mano a un ex-servo. 

E in quella stessa Roma, dove quasi cent'anni prima Romolo, figlio di un Dio e Dio lui stesso, aveva regnato durante la sua permanenza in terra, ora sarebbe salito al trono un servo figlio di una serva. Sarebbe stata un'onta tremenda per tutti i Romani in generale e per il loro casato in particolare se, nonostante l'esistenza di discendenti maschi del re Anco, non solo degli stranieri, ma addirittura degli schiavi potessero arrivare a regnare su Roma. 

Decidono pertanto di evitare con le armi un simile affronto. Il risentimento per i torti subiti li spingeva più contro Tarquinio che contro Servio: in primo luogo perché se avessero risparmiato il re la sua vendetta sarebbe stata più implacabile di quella di un suo subalterno, e in secondo luogo, uccidendo Servio, Tarquinio era probabile lo avrebbe rimpiazzato con un genero qualunque destinato a ereditare il trono al suo posto. 

Per tutti questi motivi il complotto viene ordito ai danni del re. Come esecutori diretti vennero scelti due pastori senza scrupoli che, armati degli attrezzi di lavoro di tutti i giorni, organizzarono una finta rissa nel vestibolo della reggia e, facendo il maggior rumore possibile, cercarono di attirare i domestici del re. Poi, dato che entrambi volevano appellarsi al sovrano e il frastuono del loro litigio era arrivato fin dentro la reggia, Tarquinio li fece convocare. 

Sulle prime si misero a urlare cercando di prevaricare l'uno la voce dell'altro e la smisero soltanto dopo l'intervento di un littore che ordinò loro di esporre a turno le rispettive ragioni. Allora uno di essi comincia a mettere insieme quanto precedentemente convenuto. Mentre il re lo stava ascoltando con grande attenzione, l'altro solleva la scure e lo colpisce alla testa. Quindi, lasciata l'arma nella ferita, i due si precipitano di corsa fuori dalle porte. 


cap. XLI

Mentre quelli del séguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe. Poi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos'era successo. Tanaquil, nel pieno della calca, ordina di chiudere la reggia e fa uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procura il necessario per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente però, nel caso la speranza fosse venuta meno, prende altre precauzioni. 

Fa subito chiamare Servio, gli mostra il corpo quasi esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implora di non lasciare impunita la morte del suocero né di permettere che la suocera diventi lo zimbello dei nemici. «Se sei un uomo, Servio,» gli dice, «è a te che tocca il regno e non ai mandanti di questo atroce delitto. Animo, quindi, e affidati agli dèi che con quel fuoco intorno alla tua testa hanno già voluto preannunciare la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di trarre forza da quella fiamma! Adesso è ora di svegliarsi sul serio. Eravamo degli stranieri anche noi, eppure siamo arrivati a regnare: pensa a quello che sei, non a dove sei nato. Se per gli avvenimenti improvvisi non sai che decisione prendere, allora dai retta ai miei consigli.» 

Quando il frastuono e la ressa della gente toccarono il limite estremo della tollerabilità, Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in profondità. 

Inoltre la ferita era stata esaminata, l'emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto. Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re. Servio avanza con tanto di trabea e di littori, occupa la sedia del re ed emana verdetti a proposito di alcuni casi, fingendo invece di dover consultare il sovrano per altri. 

In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo già Tarquinio passato a miglior vita, egli ne nascose la morte facendosi passare per un mero sostituto, quando invece stava consolidando il suo potere. Dopo un po' di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu il primo a regnare senza il consenso popolare ma solo con l'autorizzazione del senato. 

I figli di Anco, quando dopo l'arresto dei sicari da loro prezzolati vennero a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto favore, si erano già ritirati in volontario esilio a Suessa Pomezia. 


cap. XLII

Servio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alla sua abilità nel muoversi all'interno della sfera privata. Così, onde evitare che l'odio nutrito dai figli di Anco nei confronti di Tarquinio divenisse lo stesso sentimento nei suoi rapporti con la prole di Tarquinio stesso, diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte Tarquinio. 

Ciò nonostante, con la sua dimostrazione di assennatezza, non riuscì a infrangere l'ineluttabilità del destino: l'invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri della casa reale. Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti (la tregua era ormai scaduta) e con altre popolazioni etrusche. 

In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritorna a Roma, conscio di essere ora in una posizione che non si prestava più a critiche né da parte dei senatori né da parte del popolo. 

Quindi si occupa di ciò che aveva la precedenza assoluta in campo civile: come Numa aveva codificato i regolamenti in materia di religione, così Servio è passato ai posteri per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. 

Stabilì, cioè, il censo, cosa utilissima per un regno destinato a enormi ampliamenti, col quale i carichi fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito. Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra. 


cap. XLIII

Coloro i quali possedevano dai centomila assi in su formavano ottanta centurie, quaranta di anziani e quaranta di giovani, e andarono sotto il nome di prima classe. Gli anziani avevano il compito di proteggere militarmente la città, i giovani di combattere nelle guerre esterne. Il loro armamento di difesa doveva consistere in elmo, scudo rotondo, gambali, corazza, il tutto in bronzo; quello di offesa in lancia e spada. A questa classe ne vennero aggiunte due di genieri, esclusi dal servizio armato ma destinati al trasporto di macchine da guerra. 

La seconda classe era composta da quanti possedevano dai centomila ai settantacinquemila assi e contava, tra giovani e anziani, venti centurie. Il loro armamento di base consisteva in uno scudo oblungo al posto di quello rotondo e, salvo la corazza, era uguale in tutto il resto. 

La terza classe fu stabilito che avesse un censo di cinquantamila assi. Come la seconda, venne organizzata in venti centurie ed ebbe la stessa suddivisione per età. Quanto invece alle armi, la sola differenza era l'assenza dei gambali. 

Per appartenere alla quarta classe bisognava avere un censo di venticinquemila assi. Stesso numero di centurie ma armi diverse: nient'altro che asta e giavellotto. La quinta classe era quantitativamente più numerosa: formava infatti trenta centurie e prevedeva come armi fionde con proiettili di pietra. A essa facevano capo anche due centurie di suonatori di corno e di trombettieri. Il censo di questa classe doveva ammontare a undicimila assi. 

Chi era al di sotto di questa cifra - cioè il resto del popolo - venne organizzato in una sola centuria dispensata dall'assolvere agli obblighi militari. Dopo aver così organizzato e armato la fanteria, Servio Tullio reclutò dodici centurie di cavalieri dal fiore dell'aristocrazia cittadina. Ne formò altre sei al posto delle tre organizzate da Romolo, mantenendo però a esse gli stessi nomi assegnati al tempo delle consultazioni augurali. 

Per l'acquisto di cavalli l'erario di Stato stanziò diecimila assi annui per ogni centuria, mentre al mantenimento degli stessi designò le donne non sposate le quali dovevano provvedere con duemila assi annui ciascuna. Così tutti gli oneri fiscali venivano spostati dai poveri ai ricchi. 

In séguito però venne inserita una forma di compensazione: il suffragio universale, basato non più sull'uguaglianza di poteri e diritti, non fu ulteriormente concesso - secondo l'uso sancito da Romolo e poi mantenuto dai suoi successori - in maniera indistinta a tutti, ma vennero stabilite delle priorità che, pur non privando nessuno del diritto di voto, ciò nonostante mettevano la totalità del potere nelle mani dei cittadini più abbienti. 

Per primi votavano i cavalieri, seguiti dalle ottanta centurie della rima classe. Se c'era qualche disaccordo tra i due gruppi (cosa assai rara), fu stabilito che in quel caso avrebbe votato la seconda classe. Non si arrivò mai così in basso da coinvolgere le classi subalterne. 

Né ci si deve stupire se il nostro attuale sistema, strutturato dopo l'aumento del numero delle tribù a trentacinque e dopo il raddoppio delle centurie di giovani e anziani, non corrisponde più quantitativamente a quello varato da Servio Tullio. 

Egli infatti divise Roma in quattro parti, con i quartieri e i colli allora abitati, e le chiamò tribù facendo - secondo me - risalire il nome a tributo. Non a caso la contribuzione proporzionale al reddito è uno dei suoi provvedimenti ancora in vigore. E queste tribù non avevano niente a che vedere con la divisione in centurie e col loro numero. 


cap. XLIV

Dopo aver completato le pratiche del censo, facilitate da una legge che minacciava l'incarcerazione e la pena capitale per chi si fosse mostrato recalcitrante all'iscrizione, Servio convocò un'adunata per centurie di tutti i cittadini romani, da tenersi all'alba in Campo Marzio. Lì, di fronte all'intero esercito schierato, offrì in sacrificio di purificazione un maiale, una pecora e un toro, e la cerimonia prese il nome di lustro della chiusura perché era l'ultimo atto del censimento. 

Si dice che in quel lustro i cittadini censiti ammontassero a ottantamila. Fabio Pittore, uno degli storici più antichi, aggiunge che questo era il numero degli uomini potenzialmente mobilitabili. Con una popolazione simile, un ampliamento di Roma era inevitabile. Così Servio aggiunge altri due colli, il Quirinale e il Viminale, amplia l'Esquilino e, per dargli lustro, vi si trasferisce lui stesso. 

Dota Roma di un terrapieno, un fossato e una cerchia muraria, estendendo così i limiti del pomerio. Quanto poi a questa parola, chi non va più in là dell'etimologia, la interpreta come "il tratto oltre le mura". Il senso è invece un altro: significa "il tratto intorno alle mura", cioè quello spazio che anticamente gli Etruschi, all'atto di fondare una città, delimitavano in modo rigoroso per poi costruirvi le mura e quindi consacravano con cerimonie augurali. 

E questo perché all'interno di esso non ci fossero contatti tra edifici e mura (cosa che oggi è invece d'uso comune), e all'esterno rimanesse una striscia di terra non utilizzabile dall'uomo. Questo spazio, caratterizzato dal divieto assoluto di costruire e di coltivare, fu chiamato pomerio dai Romani sia perché si trova al di là del muro sia perché il muro si trova al di là di esso. E ogni qual volta Roma conosceva degli ampliamenti urbanistici, questi limiti consacrati subivano sempre le stesse modifiche delle mura. 


cap. XLV

Dopo aver incrementato il prestigio di Roma aumentandone la superficie, dopo aver dotato i suoi sudditi di un'organizzazione ugualmente funzionale nella sfera civile e in quella militare, Servio, non volendo sempre ricorrere alle armi per accrescere la propria potenza, decise di farlo seguendo la strada della diplomazia, in maniera tale da conferire ancora più lustro alla città. 

Il tempio di Diana a Efeso era già allora parecchio rinomato e la tradizione voleva fosse stato costruito con la cooperazione delle città dell'Asia. Servio, parlando di fronte ai nobili latini, coi quali aveva in progetto di stringere relazioni di amicizia e ospitalità tanto sul piano ufficioso che su quello ufficiale, disse mirabilia di una simile intesa e di una simile condivisione di culto. 

Tornò così spesso sull'argomento che, alla fine, Romani e Latini edificarono insieme a Roma un tempio in onore di Diana. La questione se Roma fosse o meno la capitale dei dintorni - problema questo che così tante volte era stato motivo di scontri armati - ebbe quindi una soluzione di tacito consenso. 

Anche se i Latini avevano ormai smesso di occuparsi del contenzioso per i ripetuti scacchi subiti in guerra, tuttavia a uno dei Sabini sembrò offrirsi un'opportunità fortuita per riottenere, grazie a un'iniziativa individuale, la supremazia perduta. Pare che in una fattoria in terra sabina fosse nata una giovenca di bellezza e dimensioni assolutamente fuori del comune. 

Un tale spettacolo della natura che le corna furono appese nell'atrio del tempio di Diana dove sono rimaste per intere generazioni a testimonianza dell'evento. Si gridò al miracolo (in quanto era un miracolo!). Gli indovini vaticinarono che chi l'avesse immolata a Diana avrebbe automaticamente garantito la supremazia alla sua città di appartenenza e la profezia arrivò alle orecchie del sacerdote preposto al tempio di Diana. 

Il primo giorno che parve propizio per il sacrificio, il sabino portò a Roma l'animale e lo piazzò davanti all'altare. Lì, il sacerdote romano, colpito dalle dimensioni di quella vittima che tanto aveva fatto parlare, ricordandosi della profezia, disse al sabino: «Straniero, cosa credi di fare? Vorrai mica tu, impuro come sei, fare un sacrificio a Diana? Perché non cominci con un bagno di purificazione nell'acqua corrente? Qui in fondo alla valle scorre il Tevere.» 

Lo straniero, preso dallo scrupolo e volendo seguire il rituale canonico per mandare a effetto il prodigio, scese di corsa al Tevere. Nel frattempo il romano immola a Diana la giovenca, conquistandosi la gratitudine del re e del popolo tutto. 


cap. XLVI

Servio, col tempo e con l'uso, era ormai incontestabilmente padrone del potere. Ciò nonostante, sentendo che il giovane Tarquinio continuava a mettere in circolazione la voce che il suo regno non aveva avuto il beneplacito del popolo, si conciliò prima il favore della plebe distribuendo a ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei suoi confronti. 

Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era stato eletto con una simile unanimità di consensi. Nemmeno questo episodio ridusse in Tarquinio la speranza di impadronirsi del regno. Al contrario, essendosi reso conto che la distribuzione di terre alla plebe aveva incontrato l'opposizione dei senatori, capì di avere la possibilità di diffamare Servio presso di loro e di acquistare credito in senato (lui era un giovane impetuoso e di carattere inquieto e per di più, in casa, era incitato dalla moglie Tullia). 

Così anche il palazzo reale di Roma fu teatro di un tragico fatto di sangue che accelerò, più della noia per la monarchia, l'avvento della libertà e fece sì che l'ultimo regno fosse il prodotto di un delitto. Questo Lucio Tarquinio - è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli storici propende per la prima tesi - aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal carattere piuttosto mite. 

Essi avevano sposato, come ho già detto, le due Tullie, figlie del re, ugualmente diversissime per temperamento. Caso volle che i due caratteri violenti non fossero finiti insieme (immagino perché la buona stella del popolo romano volle prolungare il regno di Servio e permettere che si consolidassero i fondamenti morali della società). 

La più arrogante delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non avesse un briciolo di ambizione e intraprendenza. Di qui il suo essere tutta occhi e parole di ammirazione per l'altro Tarquinio, da lei definito un vero uomo e un autentico rampollo di re. Di qui pure il suo disprezzo per la sorella, a sua detta responsabile di appiattire il marito con una totale assenza di iniziativa femminile. 

Presto, come sempre succede, l'affinità reciproca li avvicinò, dato che il male può solo attirare il male, anche se però fu la donna la responsabile prima di tutto l'intrigo. Quest'ultima cominciò a vedersi in segreto col cognato e, durante questi incontri, non si esimeva dall'insultare il proprio marito (con il fratello di lui) e la propria sorella (con il marito di lei). 

Il punto su cui batteva di più era questo: per lei sarebbe stato meglio essere senza marito e per il cognato sarebbe stato meglio essere celibe piuttosto che stare con persone di livello inferiore e vedersi costretti a languire per loro ignavia. Se gli Dei le avessero fatto sposare l'uomo che meritava, non ci avrebbe messo molto a vedere nella sua casa il potere reale che ora vedeva in quella del padre. 

Si affretta così a instillare nel cuore del giovane l'audacia del suo progetto. Grazie a due decessi a catena ebbero via libera in casa per celebrare un nuovo matrimonio. Servio non si oppose alle nozze, ma non diede neppure il suo consenso. 


cap. XLVII

Da quel momento in poi la vecchiaia e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in pericolo. Infatti, quella donna, dopo il primo delitto, non vedeva l'ora di commetterne un secondo e toglieva il fiato al marito giorno e notte perché non voleva che i suoi precedenti crimini rimanessero fini a se stessi. Non le era certo mancato l'uomo di cui si potesse dire che lei era la moglie e la rassegnata compagna di sottomissione. Le era mancato un uomo che si ritenesse degno del trono, che si ricordasse di esser figlio di Tarquinio Prisco e che preferisse avere il potere piuttosto che sperare di averlo. 

«Se sei tu l'uomo che io credo di aver sposato, allora ti chiamo marito e re. Se non lo sei, allora vuol dire che mi è andata di male in peggio perché in te oltre all'ignavia c'è anche la delinquenza. Perché non ti muovi? Non vieni mica da Tarquinia o da Corinto, come tuo padre, né devi andarti a conquistare un trono in terra straniera. Gli Dei di casa e della patria, il ritratto di tuo padre, il palazzo reale e il trono che vi si trova all'interno, il nome Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti chiama re. E se poi non hai abbastanza fegato, perché mai inganni la gente? Perché lasci che guardino a te come a un erede al trono? Tornatene a Tarquinia o a Corinto, risali i rami del tuo albero genealogico, visto che sei più della pasta di tuo fratello che non di quella di tuo padre.» 

Questo più o meno il sarcasmo con cui istigava il giovane. Una cosa invece non le dava pace: com'era possibile che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a brigare tanto da far salire al trono, uno dopo l'altro, prima il marito e poi il genero, e invece lei che era figlia di un re contava meno di zero negli stessi giochi di potere? 

Tarquinio, istigato dai furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di appoggio, specialmente presso i senatori del secondo ordine, ai quali, ricordando il gesto generoso del padre, faceva presente che era venuto il momento di ricambiarlo. Riempiva di regali i giovani. Così, sia grazie alle grandi promesse, sia grazie alla pessima pubblicità che faceva al re, la sua posizione acquistava credibilità a tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di agire, fece irruzione nel foro scortato da un drappello di armati. 

Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si presentassero in senato al cospetto del re Tarquini. Essi arrivarono subito: alcuni già preparati alla cosa, altri temendo di incappare in spiacevoli conseguenze mancando all'appuntamento, tutti però sconcertati dalla novità senza precedenti e convinti che Servio fosse finito. 

Tarquinio allora, andando molto indietro nel tempo, accusò Servio di essere uno schiavo figlio di una schiava il quale, dopo la morte indegna di suo padre, era salito al trono grazie al regalo di una donna e non aveva rispettato la tradizione (e cioè l'interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la ratifica dei senatori). 

Con un simile albero genealogico e con una simile carriera politica alle spalle, aveva favorito le classi più abiette della società - cioè quelle dalle quali proveniva -, e per l'odio nei confronti di una classe alla quale non apparteneva, aveva tolto le proprietà terriere ai notabili per darle alla plebaglia. Gli oneri fiscali prima equamente distribuiti li aveva addossati nella loro totalità sulle spalle dei più abbienti. Aveva istituito il censo per convogliare l'invidia sulle fortune dei ricchi e per averle a portata di mano quando decideva di fare generose elargizioni ai nullatenenti. 


cap. IIL

Servio, svegliato di soprassalto da un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa tirata e, dall'ingresso della curia, gridò fortissimo: «Che razza di storia è questa, Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di convocare i senatori e di sederti sul mio trono?» La risposta di Tarquinio fu estremamente insolente. Disse che stava occupando il trono di suo padre, trono che era di gran lunga preferibile finisse in mano all'erede legittimo (cioè lui in persona) piuttosto che a uno schiavo e che Servio aveva già insultato e preso in giro abbastanza i suoi padroni. Seguirono urla di consenso e di approvazione. 

Intanto la gente stava affluendo in massa sul posto ed era chiaro che il potere sarebbe andato al vincitore di quel giorno. Allora Tarquinio, costretto dalla situazione a giocarsi il tutto per tutto, favorito dall'età e dalla maggiore vigoria fisica, afferrò Servio all'altezza della vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori, lo scaraventò giù dalle scale. 

Quindi rientrò nella curia per evitare che i senatori si sparpagliassero. La scorta e il séguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo séguito abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali lo avevano pedinato. Sembra (e non stride poi troppo coi suoi precedenti delinquenziali) che la cosa porti la firma di Tullia. 

Su questo, invece, non ci sono dubbi: ella, arrivata in senato col suo cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone, chiamò fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo di re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto pericoloso. Allora Tullia, quando sulla via di casa arrivò in cima alla via Cipria (dove non molto tempo fa c'era il santuario di Diana), ordinò di piegare verso il Clivo Urbio e di portarla all'Esquilino. 

In quel momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il cadavere di Servio abbandonato per terra. Tradizione vuole che in quel luogo fu consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba memoria nel nome (si chiama infatti via del Crimine): pare che Tullia, invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito, calpestò col cocchio il corpo del padre. 

Quindi, piena di schizzi lei stessa, ripartì sulla vettura che grondava sangue dopo quell'orrore commesso sul cadavere del padre, e si diresse a casa dove i penati suoi e del marito, adirati per il tragico esordio del regno, fecero sì che esso avesse una conclusione analoga. Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne la rettitudine. 

E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c'era anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto e legittimo. Inoltre, per quanto moderato e mite il suo regno potesse essere stato, era pur sempre il governo di un singolo. Per questo alcuni autori affermano che egli avrebbe avuto intenzione di rinunciarvi, se la delinquenza di un parente non si fosse sovrapposta al progetto di concedere la libertà al suo popolo. 


cap. IL

Da allora ebbe inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il genero, non concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non l'aveva avuta, e fece eliminare i senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio. Poi, rendendosi conto che l'indebita ascesa al trono avrebbe potuto diventare un precedente sfruttabile da altri nei suoi stessi confronti, si circondò di guardie del corpo. 

In effetti, l'unico diritto al trono che aveva era la forza, dato che stava regnando non solo senza il consenso del popolo ma anche senza ratifica del senato. In più si aggiungeva che, non potendo contare in alcun modo sull'aiuto dei cittadini, era costretto a salvaguardare il proprio potere col terrore. E per renderlo un sentimento diffuso, cominciò a istruire da solo, senza l'aiuto di consiglieri legali, le cause per delitti capitali: ne approfittava così per condannare a morte, per mandare in esilio, e per confiscare i beni non solo di chi era sospettato o malvisto, ma anche di chi poteva rappresentare una qualche opportunità di bottino. 

Soprattutto per questo, dopo aver decimato il numero dei senatori, stabilì che non se ne eleggessero altri, in modo tale da screditare l'ordine per l'inconsistenza degli effettivi e ridurne al massimo le eventuali rimostranze per la totale esclusione dalla gestione del potere. Tutti i suoi predecessori si erano sempre attenuti alla regola tradizionale di consultare il senato in ogni occasione: Tarquinio il Superbo fu il primo a rompere con questa consuetudine e resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il popolo e i senatori. 

Cercava soprattutto di procurarsi l'amicizia dei Latini, perché l'appoggio straniero gli desse maggiore sicurezza in patria. Con la loro aristocrazia non stabiliva soltanto rapporti di ospitalità, ma organizzava anche matrimoni. Al tuscolano Ottavio Mamilio - di gran lunga il più rappresentativo tra i Latini e, se si presta fede alla leggenda, discendente di Ulisse e della dea Circe - diede in moglie la figlia e, grazie a questo matrimonio, si legò con molti amici e parenti di lui. 


cap. L

Tarquinio vantava già una posizione di grande influenza presso i nobili latini, quando decise di convocarli un giorno preciso presso il bosco di Ferentina, sostenendo di voler discutere alcuni problemi di comune interesse. Alle prime luci dell'alba i Latini affluiscono in massa. Da parte sua Tarquinio, pur rispettando la data, si presentò solo poco prima del tramonto. Per tutta la durata del giorno, i partecipanti all'assemblea avevano parlato a lungo di vari argomenti. 

Turno Erdonio di Aricia aveva inveito violentemente contro Tarquinio, dicendo che non era poi tanto strano che a Roma lo avessero soprannominato il Superbo (nome questo ormai sulla bocca di tutti, anche se ancora circoscritto alla sfera clandestina del sussurro). Oppure c'era qualcosa di più superbo che prendere in giro il popolo latino in quella maniera ? Farne venire i capi così lontano dai loro paesi e poi disertare la riunione da lui stesso convocata? 

Era chiaro che voleva mettere alla prova la loro pazienza e poi, una volta constatato che si lasciavano mettere facilmente i piedi in testa, avrebbe abusato della loro sottomissione. A chi poteva infatti sfuggire che il piano di Tarquinio era ridurre i Latini in suo potere? Se i suoi sudditi avevan fatto bene ad affidarglielo, o se gli era stato affidato e non era il prodotto di un orrendo delitto, stessa cosa avrebbero dovuto fare i Latini, e neppure in questo caso si sarebbe trattato di uno straniero. 

Ma se i Romani non ne potevano più di lui, delle esecuzioni a catena, degli esili, delle confische di beni, i Latini potevano forse sperare in qualcosa di meglio una volta nella stessa situazione? Se volevano dare retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe dovuto tornarsene a casa rispettando la data della riunione con la stessa precisione di chi l'aveva organizzata. 

Mentre il turbolento e facinoroso Turno, che doveva proprio a tali caratteristiche la posizione di grande rilievo occupata tra le genti latine, dissertava su questi argomenti, ecco che arrivò Tarquinio. Tutti si voltarono a salutarlo. Venne fatto silenzio e il re, invitato dai più vicini a fornire spiegazioni circa il ritardo con cui si era presentato, disse di esser stato scelto come arbitro in una disputa tra padre e figlio e di aver fatto trdi per il desiderio di riconciliare i due litiganti. Quindi, dato che il giorno se ne era andato in quella bega, rimandò la riunione al mattino successivo. 

Pare che Turno non accettò nemmeno questo senza replicare e sentenziò che non c'era niente di più facile da sistemare che un litigio tra padre e figlio; bastavano infatti due parole: o il figlio obbedisce al padre, o peggio per lui. 


cap. LI

Con questo sarcasmo diretto al re di Roma, il cittadino di Aricia abbandona l'assemblea. Tarquinio, incassando l'affronto peggio di quanto desse a vedere, inizia subito a cercare il modo per togliere di mezzo Turno, in maniera tale da ispirare nei Latini lo stesso terrore col quale in patria aveva oppresso gli animi dei suoi sudditi. E poiché non era nella posizione di eliminare il suo uomo di fronte agli occhi di tutti, lo schiacciò escogitando una falsa accusa che in realtà non aveva nulla a che vedere con lui. 

Grazie ad alcuni rappresentanti del partito all'opposizione di Aricia, riuscì a corrompere uno schiavo di Turno affinché lasciasse introdurre di nascosto una grande quantità di armi nella casa del padrone. Dato che bastò una notte per sistemare la cosa, Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò in sua presenza i capi latini e, fingendo di aver ricevuto qualche notizia allarmante, disse loro che il ritardo del giorno prima era stato provvidenziale e aveva salvato loro e lui stesso. Infatti c'era stata una denuncia: Turno voleva eliminare lui e i capi più in vista del popolo latino per impadronirsi del potere assoluto.

 L'attentato avrebbe dovuto essere messo in pratica il giorno precedente durante l'assemblea, ma poi era stato rimandato per l'assenza del bersaglio principale, cioè l'ideatore del raduno. Di lì la violenta invettiva di Turno contro l'assente, il cui ritardo ne aveva deluso le speranze. Tarquinio aggiunse di esser sicuro che, se l'informazione ricevuta corrispondeva a verità, Turno, quando alle prime luci dell'alba essi si fossero radunati per l'assemblea, si sarebbe presentato con una banda di cospiratori armati fino ai denti. 

Gli avevano anche riferito, aggiunse, che a casa di Turno era stata trasportata una grande quantità di spade. E la fondatezza di quell'informazione si poteva verificare subito: bastava andassero con lui a casa di Turno. L'accusa sembrava veramente plausibile: vuoi l'aggressività di Turno nell'invettiva del giorno prima, vuoi il ritardo di Tarquinio che dava veramente l'impressione di aver fatto saltare l'attentato. Sta di fatto che si avviano disposti a credere alla storia, ma nel contempo pronti a considerarla tutta una montatura nel caso non ci fosse stata traccia delle spade. 

Arrivati a destinazione, svegliano di soprassalto Turno e lo fanno guardare a vista. Quando poi, immobilizzati gli schiavi che si preparavano a fare resistenza per attaccamento al padrone, cominciarono a tirar fuori spade su spade da ogni angolo della casa, non ci fu più nessun dubbio: Turno fu incatenato e nel gran trambusto venne subito convocata un'assemblea di tutti i Latini. 

Lì, le spade piazzate nel bel mezzo suscitarono un tale risentimento che Turno, senza nemmeno poter perorare la propria causa, fu sottoposto a un supplizio senza precedenti: lo fecero annegare immergendolo nella sorgente Ferentina con sopra la testa un graticcio coperto di sassi. 


cap. LII

Tarquinio quindi riconvocò i Latini in assemblea e si complimentò con loro per la fermezza con cui avevano inflitto a Turno, autore di un progettato colpo di stato, la giusta pena per il suo evidente reato. Poi affermò di potersi basare su un diritto molto antico per sostenere che tutti i Latini, essendo originari di Alba, rientravano nelle clausole di quel trattato dei tempi di Tullo col quale l'intera nazione albana e le sue colonie erano state annesse a Roma. 

Rinnovare quel trattato sarebbe stato un grosso vantaggio: più che altro - questo il suo pensiero - i Latini avrebbero partecipato dei successi del popolo romano, senza dover sempre rischiare o subire distruzioni e devastazioni di campagne com'era successo durante il regno di Anco e durante quello di suo padre Tarquinio Prisco. 

Non fu difficile persuadere i Latini anche se il trattato favoriva nettamente Roma. Inoltre, non solo i capi latini erano dalla parte del re e ne condividevano i punti di vista, ma proprio poco prima Turno aveva fornito loro una dimostrazione di cosa poteva toccare a chiunque avesse avuto in mente di opporsi. Il trattato venne così rinnovato e una delle clausole prevedeva che i giovani latini si presentassero il tal giorno armati di tutto punto nel bosco di Ferentina. 

Seguendo le disposizioni del re di Roma, essi si concentrarono dai diversi paesi di provenienza. Tarquinio, allora, per evitare che ogni gruppo avesse un proprio capo, un comando separato e insegne diverse dagli altri, creò manipoli misti di Latini e Romani con questo criterio: ne organizzò uno sommandone due e due dividendone uno. A capo dei manipoli così sdoppiati nominò dei centurioni.


cap. LIII

Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione in tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e tolse loro con la forza Suessa Pomezia. 

Ne vendette il bottino e coi quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un tempio di Giove le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli Dei e degli uomini, nonché della potenza romana e della sua stessa posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu messo da parte per la costruzione del tempio. 

In séguito si impegnò in una guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi. Infatti tentò prima una fallimentare soluzione di forza; poi, respinto anche da sotto le mura dopo averne cercato l'assedio, alla fine ricorse a un espediente poco in sintonia con lo spirito romano, cioè l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre dava a vedere di aver perso interesse nella guerra per concentrarsi sulla fondazione del tempio e su altre opere di natura urbanistica, Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò a Gabi lamentandosi del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal padre. 

Lì raccontò che quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva adesso iniziato a tormentare i figli, che a sua detta erano fastidiosamente numerosi, e a cercare di riprodurre in casa il deserto che aveva fatto in senato, in modo tale da non lasciare né discendenti né un qualche erede al trono. Quanto a lui, sfuggito alle spade e ai pugnali del padre, era convinto che in nessun posto sarebbe stato così al sicuro come presso i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la guerra che sembrava esser stata abbandonata, avevano poco da illudersi: era tutta una finta e, da un momento all'altro, lui li avrebbe attaccati quando meno se lo aspettavano. 

Se poi presso di loro non c'era posto per un supplice, allora avrebbe attraversato tutto il Lazio e quindi si sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e agli Ernici, finché non avesse trovato gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e dalle crudeltà inflittegli dal padre. Può darsi anche che avrebbe trovato gli stimoli per andare a combattere il più tirannico dei re e il più insolente dei popoli. 

Poiché era chiaro che, se avessero titubato, il giovane, infuriato com'era, se ne sarebbe andato, i Gabini gli diedero il benvenuto. Gli dissero di non meravigliarsi se il padre si era comportato coi figli nello stesso modo che coi sudditi e con gli alleati: avrebbe finito col rivolgere la propria crudeltà contro se stesso, una volta esaurito ogni bersaglio. Da parte loro, erano comunque contenti della sua venuta e confidavano, anche col suo aiuto, di spostare in breve tempo il teatro delle operazioni di guerra dalle porte di Gabi alle mura di Roma. 


cap. LIV

In séguito Sesto fu ammesso alle riunioni di governo, durante le quali, sul resto delle questioni, si professava dello stesso avviso degli anziani di Gabi per la loro maggiore esperienza. Da parte sua, invece, non faceva che parlare di guerra e sosteneva di esserne un grande esperto in quanto conosceva le forze dei due popoli e sapeva che Tarquinio aveva raggiunto un punto tale di arroganza che non solo i cittadini ma i figli stessi non riuscivano più a tollerarlo. 

Così, con questa tecnica, riuscì piano piano a convincere i capi di Gabi a riaprire le ostilità. Avrebbe guidato lui in persona delle azioni di guerriglia con un gruppo di giovani particolarmente coraggiosi. Calcolando perfettamente ogni cosa che faceva e diceva, riuscì a incrementare a tal punto la malriposta fiducia nella sua persona, che alla fine gli affidarono il comando in capo delle operazioni. 

Siccome il popolo ignorava quel che stava realmente succedendo e le prime scaramucce tra Romani e Gabini vedevano quasi sempre prevalere questi ultimi, allora tutti, senza distinzioni di classe, cominciarono a credere che Sesto Tarquinio fosse l'uomo mandato dal cielo per guidare le loro truppe. E i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella spartizione del bottino, gli si affezionarono a tal punto che non era meno potente lui a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo fosse a Roma. 

E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi gli Dei gli avevano concesso di esser padrone incontrastato della situazione politica. Al messaggero - suppongo per la scarsa fiducia che ispirava - non venne affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l'inviato del figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in silenzio, pare che il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di bacchetta. 

Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere risposte, ritornò a Gabi convinto di non aver compiuto la missione. Lì riferì ciò che aveva detto e ciò che aveva visto: il re, fosse per ira, per insolenza o per naturale disposizione all'arroganza, non aveva aperto bocca. 

Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della città, accusandone alcuni davanti al popolo, e con altri facendo leva sull'impopolarità che si erano acquistati da soli. Per molti ci fu l'esecuzione sotto gli occhi di tutti. Certi invece, più difficili da mettere sotto accusa, vennero assassinati di nascosto. Altri ebbero il permesso di lasciare il paese o vennero esiliati. 

Le proprietà di tutti, morti o esiliati, subirono la stessa sorte: vennero confiscate e quindi distribuite in una corsa sfrenata all'accaparramento. Badando quindi solo all'interesse particolare, la gente perse il senso del disastro in cui la città era franata. Finché un bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse, Gabi si consegnò nelle mani del re di Roma senza opporre resistenza. 


cap. LV

Dopo essersi impadronito di Gabi, Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana. Il primo era il tempio di Giove sul monte Tarpeio: sarebbe stato un monumento immortale al suo regno e al suo nome, e avrebbe ricordato che dei due Tarquini - entrambi re -, prima il padre aveva fatto il voto di costruirlo e poi il figlio lo aveva portato a compimento. 

E perché la zona venisse liberata da ogni precedente traccia di culto e dedicata esclusivamente a Giove e al suo tempio, ordinò di sconsacrare quelle cappelle e quei santuari che erano stati in un primo tempo dedicati agli Dei da Tazio nei momenti decisivi della battaglia contro Romolo e che in séguito erano stati consacrati e inaugurati. Proprio all'inizio dei lavori, tradizione vuole che gli Dei inviassero un segno per indicare la grandezza di quel potente regno. 

Infatti, mentre gli uccelli diedero il via libera alla sconsacrazione di tutti gli altri santuari, la stessa cosa non successe per quello di Termine. Il presagio augurale fu interpretato in questo modo: visto che il tempio di Termine rimaneva al suo posto ed era l'unica tra tutte le divinità a non essere allontanata dallo spazio a essa consacrato, ciò significava stabilità e solidità per lo Stato. 

Una volta ricevuto questo presagio di durata, ne seguì un altro che annunciava la grandezza dell'impero. Pare che durante gli scavi delle fondamenta del tempio venisse portata alla luce una testa di uomo con i lineamenti della faccia intatti. Il ritrovamento parlava chiaro: quel punto sarebbe diventato la cittadella dell'impero e la capitale del mondo. Questa fu l'interpretazione degli indovini, sia dei locali, sia di quelli fatti arrivare dall'Etruria per pronunciarsi sulla cosa. 

Nella mente del re c'era ormai spazio solo per le spese pubbliche: così, il ricavato del bottino di Pomezia, destinato a coprire la costruzione dell'intero edificio, bastò appena a pagare le fondamenta. Questo perché la mia fonte è nel caso presente Fabio, che è più antico, e secondo il quale il bottino fu soltanto di quaranta talenti, e non Pisone che invece parla di quarantamila libbre di pesante argento stanziate per l'opera. Una simile somma non è pensabile la si potesse all'epoca ricavare dal bottino di una sola città e non esiste edificio, neppure oggi come oggi, le cui fondamenta arrivino a costare così care. 


cap. LVI

Nel desiderio di portare a termine la costruzione del tempio, Tarquinio, dopo aver fatto venire operai da tutta l'Etruria, attinse non solo ai fondi di Stato stanziati per questo progetto, ma ricorse anche alla mano d'opera della plebe. Non era certo un lavoro da poco e in più c'era il servizio militare. 

Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli Dei con le proprie mani che essere impiegati, come poi in séguito successe, in lavori meno spettacolari ma molto più sfibranti (come la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni nostri ha ben poco da contrapporre). 

Dopo aver impegnato la plebe in queste grandi costruzioni, Tarquinio, pensando che una popolazione numerosa se disoccupata sarebbe stata per Roma un peso morto, e volendo nel contempo ampliare i confini del suo regno con la deduzione di colonie, inviò coloni a Signa e Circei per farne un giorno dei bastioni di Roma sulla terra e sul mare. 

Nel bel mezzo di queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo: da una colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso terrore ma di ansia e preoccupazione. Per i prodigi di carattere pubblico Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi. Ma in questo caso, spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa, stabilì che fosse interrogato l'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo. 

Non osando però affidarne a nessun altro il responso, mandò due dei suoi figli in Grecia attraverso terre a quel tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti. Tito e Arrunte partirono. Al loro séguito si imbarcò anche Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia, sorella del re, giovane dal carattere completamente diverso da quello che dava a vedere. 

Quando era venuto a sapere che i personaggi più in vista della città, e tra questi suo fratello, erano stati eliminati dallo zio, aveva deciso di rinunciare a ogni atteggiamento e a ogni successo economico che avrebbero potuto innervosire il re o suscitarne l'invidia, e si era risolto a cercare la sicurezza nel disprezzo, visto che la giustizia offriva ormai ben poca protezione. 

Così, facendo apposta l'imbecille e lasciando che il re disponesse liberamente della sua persona e delle sue sostanze, non aveva rifiutato nemmeno il soprannome di Bruto, per mascherare il grande coraggio che, una volta scoccata l'ora fatale, lo avrebbe spinto a liberare il popolo romano. 

Era lui che i Tarquini si portavano a Delfi, più come una spassosa macchietta che come un compagno di viaggio: pare che il suo dono ad Apollo consistesse in un bastone d'oro racchiuso in un altro di corno che era stato scavato proprio con quell'intento, a rappresentazione simbolica del suo carattere. Una volta arrivati a Delfi e compiuta la missione per conto del padre, i giovani furono presi dal desiderio insopprimibile di sapere a chi di loro sarebbe toccato il regno di Roma. 

Pare che dal profondo dell'antro si sentì una voce pronunciare le seguenti parole: «A Roma regnerà, o giovani, il primo di voi che darà un bacio a sua madre.» I Tarquini, per far sì che Sesto, rimasto a Roma, non venisse a sapere del responso e restasse così tagliato fuori dal potere, impongono il segreto più assoluto sull'episodio. Di comune accordo lasciano che la sorte decida chi, una volta a Roma, bacerà per primo la madre. 

Bruto pensò invece che il responso della Pizia avesse un altro significato: per questo, facendo finta di scivolare, cadde a terra e vi appoggiò le labbra, considerando la terra madre comune di tutti i mortali. Quindi rientrarono a Roma, dove fervevano i preparativi per una guerra contro i Rutuli. 


cap. LVII

Ardea apparteneva ai Rutuli, popolo che in quella regione e in quell'epoca spiccava per le sue ricchezze. La vera causa della guerra fu questa: il re di Roma, dopo essersi svenato con la sontuosità dei suoi progetti urbanistici, contava di riassestare il proprio bilancio e, nel contempo, facendo del bottino sperava di placare gli animi della gente, esacerbati non soltanto dalla sua ferocia, ma incapaci di perdonargli di essere stati così a lungo impegnati in lavori faticosi e servili. 

Si tentò di prendere Ardea al primo assalto. Visto il fallimento del tentativo, i Romani scelsero la via dell'assedio e scavarono una trincea intorno alla città nemica. In questa guerra di posizione, come sempre accade quando si tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano all'ordine del giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la truppa. 

I figli del re, tanto per fare un esempio, ammazzavano il tempo spassandosela in festini e bevute. Un giorno, mentre stavano gozzovigliando nella tenda di Sesto Tarquinio e c'era anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio, il discorso cadde per caso sulle mogli e ciascuno prese a dire mirabilia della propria. La discussione si animò e Collatino affermò che era inutile starne a parlare perché di lì a poche ore si sarebbero resi conto che nessuna poteva tener testa alla sua Lucrezia. 

«Giovani e forti come siamo, perché non saltiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona la condotta delle nostre spose? La prova più sicura sarà ciò che ciascuno di noi vedrà all'arrivo inaspettato del marito». Infiammati dal vino, urlarono tutti: «D'accordo, andiamo!» 

Un colpo di speroni al cavallo e volano a Roma. Arrivarono alle prime luci della sera e di lì proseguirono alla volta di Collazia, dove trovarono Lucrezia in uno stato completamente diverso da quello delle nuore del re (sorprese a ingannare l'attesa nel pieno di un festino e in compagnia di coetanei): nonostante fosse notte fonda, Lucrezia invece era seduta nel centro dell'atrio e stava trafficando intorno alle sue lane insieme alle serve anche loro indaffarate. 

Si aggiudicò così la gara delle mogli. All'arrivo di Collatino e dei Tarquini, li accoglie con estrema gentilezza e il marito vincitore invita a cena i giovani principi. Fu allora che Sesto Tarquinio, provocato non solo dalla bellezza ma dalla provata castità di Lucrezia, fu preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Poi, dopo una notte passata a godersi le gioie della giovinezza, rientrarono alla base. 


cap,. LVIII

Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collazia con un solo compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente dei suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare nella camera degli ospiti. Invasato dalla passione, quando capì che c'era via libera e tutti erano nel primo sonno, sguainata la spada andò nella stanza di Lucrezia che stava dormendo: la immobilizzò con la mano puntata sul petto e disse: 

«Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta!» La povera donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un passo dalla morte. Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di donna. 

Ma vedendo che Lucrezia era irremovibile e non cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte, allora aggiunse il disonore all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso dell'adulterio. Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio sull'ostinata castità di Lucrezia. 

Quindi, fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia, affranta dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa spaventosa. 

Arrivarono così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto (questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia). La trovano seduta nella sua stanza e immersa in una profonda tristezza. 

Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: «Tutto bene?» Lei gli risponde: «Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l'adutlero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui.» 

Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: 

«Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre. 


cap. LIX

Bruto, mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse: «Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dei, che di qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma.» 

Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio, tutti sbalorditi dall'incredibile evento e incapaci di stabilire da dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com'era stato loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non esitano a seguirlo come loro capo. 

Quindi trascinano fuori di casa il cadavere di Lucrezia e lo adagiano in pieno foro dove piano piano si accalca la gente, attratta, come di consueto, dalla stranezza della cosa e in più dalla sua nefandezza. Tutti si scagliano indignati contro la violenza criminale del principe. La loro commozione nasceva dalla tristezza del padre ma anche da Bruto che li invitava a smetterla con tutti quei pianti e li esortava a esser degni del proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi aveva osato trattarli come nemici. 

I giovani più coraggiosi si armano e si offrono volontari, seguiti subito da tutto il resto della gioventù. Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a guardia di Collazia e piazzate delle sentinelle per evitare che qualcuno andasse a riferire dell'insurrezione alla famiglia reale, il resto delle truppe fa rotta su Roma agli ordini di Bruto. 

Una volta lì, questa moltitudine armata semina dovunque il panico e lo sconcerto al suo passaggio. Ancora una volta, però, vedendo che alla testa c'erano i personaggi più in vista della città, l'opinione generale fu che, qualunque cosa stessero facendo, non poteva trattarsi di un'iniziativa sconsiderata. 

L'atroce episodio suscita a Roma non meno commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da ogni parte della città la gente si riversa nel foro. Una volta lì, un messo convocò il popolo di fronte al tribuno dei Celeri, magistratura tenuta casualmente in quel periodo proprio da Bruto. Egli allora pronunciò un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere e gli atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere. 

Parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro infamante subito da Lucrezia, del suo commovente suicidio e del lutto solitario di Tricipitino che era più affranto e indignato per la causa che non per la morte stessa della figlia. Ricordò loro anche l'arroganza tirannica del re e lo stato miserando della plebe, costretta a schiantare di fatica a forza di scavi e di fogne da ripulire. 

A questo proposito aggiunse che i Romani, capaci di sottomettere ogni altro popolo dei dintorni, erano stati trasformati in manovali e tagliapietre da guerrieri che erano. Dopo aver citato l'indegna fine di Servio Tullio e l'episodio orrendo della figlia che ne calpestava il cadavere col cocchio, invocò gli Dei vendicatori dei crimini contro i genitori. 

Con questi argomenti e, credo, con altri ancora più atroci dettati dall'immediatezza dello sdegno, ma quasi mai facilmente ricostruibili da parte degli storici, infiammò il popolo e lo trascinò ad abbattere l'autorità del re e a esiliare Lucio Tarquinio con tanto di moglie e figli. Poi Bruto in persona arruolò i giovani che si offrivano volontari e, dopo averli dotati di armi, partì alla volta di Ardea per sollevare contro il re l'esercito là accampato. 

Lasciò il comando di Roma a Lucrezio, che poco tempo prima era già stato nominato prefetto della città dal re. Nel pieno di questo trambusto, Tullia scappò dal palazzo e, dovunque passava, la gente la subissò di maledizioni e di invocazioni alle furie vendicatrici dei crimini contro i genitori. 


cap. LX

Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò all'accampamento, il re, allarmato dal pericolo inatteso, partì alla volta di Roma per reprimere l'insurrezione. Bruto, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro fece una manovra di diversione. Anche se per strade diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono quasi nello stesso momento ad Ardea e a Roma. 

A Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e comunicata la notizia dell'esilio. Il liberatore di Roma fu invece accolto con entusiasmo dagli uomini nell'accampamento, i quali poi ne espulsero i figli del re. Due di essi seguirono il padre nell'esilio a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi, come se fosse stato un suo dominio, ma lì fu assassinato da quanti ne vendicarono le stragi e le razzie di un tempo. 

Lucio Tarquinio Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro anni. In séguito, attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio, i comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino. 

(Tito Livio - Ab Urbe Condita - Libro I)

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