TITO LIVIO (Ab Urbe Condita - libro III)

TITO LIVIO

LIBRO III

1)  Dopo la presa di Anzio, vengono eletti consoli Tito Emilio e Quinto Fabio. Quest'ultimo era quel Fabio unico superstite della famiglia andata distrutta presso il Cremera. Nel suo precedente consolato, Emilio si era già fatto promotore della donazione di terre alla plebe; e proprio per questo, anche durante il suo secondo mandato, i fautori della distribuzione agraria avevano ricominciato a sperare nella legge e i tribuni, pensando di poter ottenere con l'aiuto di un console quello che non avevano ottenuto per l'opposizione dei consoli, li sostenevano. 

Tito Emilio rimaneva della sua idea. I proprietari terrieri e gran parte dei senatori, lamentandosi che il più autorevole cittadino assumesse atteggiamenti tribunizi e si conquistasse la popolarità con elargizioni di proprietà altrui, avevano trasferito dalle persone dei tribuni a quella del console il risentimento provocato dall'intera faccenda. 

E di lì a poco lo scontro sarebbe diventato durissimo, se Fabio non avesse risolto la questione con una proposta che non scontentava nessuna delle parti in causa: sotto il comando e gli auspici di Tito Quinzio, l'anno prima era stata tolta ai Volsci una notevole porzione di terra. Ad Anzio, centro strategico sulla vicina costa, si poteva fondare una colonia. Così facendo la plebe avrebbe ottenuto la terra senza suscitare le proteste dei proprietari e per la città sarebbe stata la pace interna. 

Questa proposta fu accolta. In qualità di triumviri addetti alla distribuzione delle terre Fabio nomina Tito Quinzio, Aulo Verginio e Publio Furio. L'ordine era che gli interessati all'assegnazione di un appezzamento andassero a dare il proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a disposizione creò una sorta di ripulsa e le iscrizioni furono così limitate che si dovettero aggiungere dei coloni volsci per completare il numero. 

Il resto del popolo preferì chiedere la terra a Roma piuttosto che riceverne altrove. Gli Equi cercarono di ottenere la pace da Quinto Fabio - egli era giunto là con l'esercito -, ma poi furono loro stessi a mandare tutto in fumo con un'improvvisa incursione in terra latina. 


2)  Quinto Servilio, inviato l'anno successivo contro gli Equi - era infatti console insieme a Spurio Postumio - pose un accampamento permanente in terra latina, dove una pestilenza costrinse l'esercito a una sosta forzata. Quando diventarono consoli Quinto Fabio e Tito Quinzio la guerra entrava nel suo terzo anno. 

L' incarico di condurla venne affidato in via del tutto straordinaria a Fabio, in quanto era stato proprio lui a concedere la pace agli Equi dopo averli vinti. Partito con la precisa convinzione che la fama legata al suo nome avrebbe placato gli Equi, ordinò agli ambasciatori inviati all'assemblea di quel popolo di riferire questo messaggio: il console Quinto Fabio mandava a dire che, dopo aver portato la pace dagli Equi a Roma, ora portava la guerra da Roma agli Equi con quella stessa mano - adesso armata - che prima era stata tesa loro in segno di amicizia. 

Ciò accadeva per la loro malafede e la loro perfidia: gli dèi ne erano adesso i testimoni e presto ne sarebbero stati i vendicatori. Quanto a lui, comunque fosse andata la cosa, preferiva che gli Equi si pentissero adesso piuttosto che costringerli a subire un trattamento da nemici. Se si fossero pentiti, avrebbero potuto trovare un rifugio sicuro nella clemenza romana già precedentemente sperimentata. 

Se invece avessero continuato a compiacersi della propria malafede, si sarebbero trovati a combattere l'ira degli Dei ancor più che i nemici. Queste parole ebbero così scarsa presa sui presenti che gli ambasciatori vennero quasi malmenati e l'esercito inviato sull'Algido per affrontare i Romani. Quando queste cose furono annunciate a Roma, l'oltraggio, più che l'effettivo pericolo, fece uscire dalla città l'altro console. 

Così due eserciti consolari schierati in ordine di battaglia marciavano alla volta del nemico con lo scopo di affrontarlo sùbito. Ma dato che per caso stava già quasi per fare buio, dalla postazione dei nemici ci fu uno che gridò: «Questo, o Romani, è un'esibizione che non ha nulla a che vedere con la guerra vera e propria. Vi siete messi in ordine di battaglia con la notte alle porte: ma per uno scontro come quello che si annuncia abbiamo bisogno di più ore di luce. Tornate a schierarvi domattina all'alba. Occasioni per combattere ce ne saranno a migliaia, non temete.» 

Irritati da queste parole, i soldati vengono ricondotti al campo nell'attesa del giorno successivo, con in mente l'idea che la notte imminente - destinata a fare da preambolo alla battaglia - sarebbe stata molto lunga. Intanto si ristorarono con cibo e sonno. Quando apparve l'alba del giorno successivo, l'esercito romano si schierò in ordine di battaglia con un buon anticipo. 

Alla fine si fecero vedere anche gli Equi. Si combatté accanitamente da entrambe le parti: i Romani si buttarono nella mischia con la forza dell'odio e della rabbia; quanto agli Equi, erano costretti a tentare il tutto per tutto, sapendo di esser responsabili del pericolo in cui si trovavano ed essendo quasi certi che in futuro nessuno avrebbe prestato loro fede. Tuttavia gli Equi non riuscirono a sostenere l'attacco romano. 

E, dopo essersi ritirata nel proprio territorio in séguito alla sconfitta, la moltitudine bellicosa e per niente incline alla pace se la prese con i comandanti rinfacciando loro di aver accettato la battaglia in campo aperto nella quale i Romani eccellevano; invece gli Equi erano più portati alle scorrerie e alle razzie e molte unità sparse avrebbero condotto la guerra meglio che non la mole ingombrante di un solo esercito.


3)  Lasciato quindi un presidio armato nell'accampamento, gli Equi fecero un'incursione così profonda in territorio romano da seminare il terrore addirittura a Roma. E un gesto così inaspettato incrementò l'apprensione, perché non c'era nulla di più inquietante di un nemico che, pur essendo vinto e quasi assediato all'interno del proprio accampamento, si faceva venire in mente l'idea di un'incursione. 

La gente di campagna, spinta dalla gran paura a riversarsi attraverso le porte, non riferiva di saccheggi e di piccole bande di razziatori, ma, ingigantendo ogni cosa per il terrore, andava in giro urlando che intere armate in assetto di guerra si precipitavano sulla città. Quelli che si trovavano lì riferivano ancor più dilatate le imprecise notizie udite da costoro. La corsa disordinata e il trambusto di quelli che gridavano «Alle armi!» non erano molto diversi dal terrore che regna in una città caduta in mani nemiche. 

Il caso volle che il console Quinzio fosse rientrato a Roma dall'Algido. E fu proprio questo il rimedio contro la paura. Placato il tumulto, Quinzio disse indignato che il nemico tanto temuto era stato vinto e collocò dei presidi in prossimità delle porte. Quindi convocò il senato, e con un decreto votato dai senatori, proclamò la sospensione delle attività giudiziarie. Poi, dopo aver lasciato Quinto Servilio in qualità di prefetto della città, partì per difendere i confini, senza però trovare traccia del nemico nelle campagne attraversate. 

L'altro console condusse le cose egregiamente: prevedendo il punto dove il nemico sarebbe passato, lo assalì mentre arrancava oberato dal peso del bottino, rendendo ben funesto agli Equi il loro saccheggio. Furono in pochi i nemici che riuscirono a scampare all'imboscata. Quanto invece al bottino, esso fu tutto recuperato. Col ritorno in città del console Quinzio ebbe fine anche la sospensione delle attività giudiziarie, rimasta in vigore per quattro giorni. In séguito venne fatto il censimento e Quinzio ne celebrò il sacrificio conclusivo. 

Pare che i cittadini registrati - fatta eccezione per orfani e vedove - ammontassero a 104.714. Dopo questi avvenimenti, nel territorio degli Equi non ci fu alcuna iniziativa degna di esser menzionata: la gente si rifugiò nelle città, lasciando che la propria campagna fosse devastata e data alle fiamme. Il console, dopo aver compiuto con le sue schiere alcune sortite per saccheggiare il territorio nemico in tutta la sua estensione, ritornò a Roma coperto di gloria e di bottino. 


4)  I consoli successivi furono Aulo Postumio Albo e Spurio Furio Fuso (alcuni autori scrivono Fusio al posto di Furio: ne faccio menzione perché nessuno debba prendere per una sostituzione di uomini quella che invece è una semplice questione di nomi). Non c'erano dubbi che uno dei consoli avrebbe fatto guerra agli Equi i quali, di conseguenza, si rivolsero ai Volsci di Ecetra per ottenere appoggio militare. Siccome esso venne concesso con grande slancio - tale era infatti l'odio che i due popoli da sempre nutrivano nei confronti del nemico romano - i preparativi di guerra fervevano febbrili. 

Gli Ernici lo vennero a sapere e comunicarono preventivamente ai Romani che la gente di Ecetra era passata dalla parte degli Equi. Sospetta divenne anche la colonia di Anzio, visto che al tempo della presa della città moltissimi si erano rifugiati presso gli Equi. E infatti, durante la guerra con i Volsci, gli Anziati combatterono con estremo accanimento. Quando poi gli Equi vennero ricacciati nelle loro città fortificate, questa massa di sbandati fece ritorno ad Anzio e lì rese avversi ai Romani quei coloni che erano già di per sé infidi. 

Dato che al senato venne riferito che si stava preparando una defezione, anche se la cosa non era ancora matura, i consoli ebbero l'ordine di convocare a Roma i notabili della colonia per chiedere loro notizie sulla situazione. Questi si presentarono senza fare difficoltà, ma alle domande che vennero loro rivolte una volta introdotti dai consoli in senato, risposero in maniera tale che, all'atto della partenza, risultarono più sospetti di quanto non fossero parsi al momento dell'arrivo. 

Di lì in poi non ci furono più dubbi sulla guerra. Spurio Furio, uno dei consoli, al quale era toccato quest'incarico, partì per affrontare gli Equi. Nel territorio degli Ernici trovò i nemici intenti a saccheggiare. Ignorandone però il numero - non li si era infatti mai visti prima tutti insieme -, espose avventatamente alla battaglia l'esercito, inferiore per forze. Respinto al primo assalto, dovette riparare all'interno dell'accampamento. 

Ma questa mossa non pose fine allo stato d'allarme. Infatti, sia quella notte che il giorno successivo l'accampamento venne assediato e assalito con tanto accanimento che nemmeno un messaggero poté uscire per andare a Roma. Gli Ernici riferirono che lo scontro aveva avuto un cattivo esito e che il console e le sue truppe erano assediati. Il racconto terrorizzò i senatori a tal punto che si diede all'altro console Postumio l'incarico di provvedere perché la Repubblica non patisse alcun danno; questa forma di deliberazione del senato veniva sempre adottata in situazioni di estrema necessità. 

La migliore delle risoluzioni sembrò che il console stesso rimanesse a Roma ad arruolare tutti coloro che fossero in grado di portare le armi. In soccorso all'accampamento assediato sarebbe stato invece inviato Tito Quinzio, dotato di poteri consolari, con una formazione di alleati. Per completarne i ranghi, Latini, Ernici e la colonia di Anzio ebbero ordine di fornire a Quinzio dei contingenti d'emergenza (questo il nome dato allora agli ausiliari arruolati su due piedi). 


5)  Nei giorni che seguirono ci fu un gran numero di manovre e di assalti da una parte e dall'altra: i nemici infatti, forti della superiorità numerica, cominciarono a tormentare con continui attacchi da ogni direzione le forze romane, nella speranza che queste non sarebbero bastate a tutto. E mentre cingevano d'assedio l'accampamento, nel contempo parte delle truppe venne inviata a saccheggiare le campagne romane e ad attaccare Roma stessa, qualora se ne fosse presentata l'opportunità. 

Lucio Valerio fu lasciato a difesa della città. Il console Postumio venne invece inviato a proteggere i confini da eventuali incursioni. Vigilanza e sforzi rivolti alla difesa non furono trascurati in nessun punto: sentinelle furono disposte in città, corpi di guardia di fronte alle porte, presidi armati lungo le mura e - cosa necessaria in mezzo a una confusione di quel genere - per alcuni giorni fu sospesa l'attività giudiziaria. 

Nel frattempo il console Furio, dopo aver sulle prime subito in maniera passiva l'assedio all'interno dell'accampamento, fece una sortita improvvisa dalla porta decumana, piombando sul nemico che non si aspettava una simile manovra. Ma poi, pur potendo buttarsi all'inseguimento, si fermò per paura che il campo rimanesse esposto a un possibile attacco dalla parte opposta. La corsa trascinò troppo in là il luogotenente Furio, fratello del console: nello slancio dell'inseguimento non si accorse che i suoi si stavano ritirando e che i nemici rivenivano su di lui da tergo. 

Tagliato così fuori dalla ritirata, dopo svariati ma vani tentativi di aprirsi una breccia in direzione del campo, cadde combattendo con accanimento. Quando il console venne informato che il fratello era stato accerchiato, si buttò nella mischia con maggior temerarietà che accortezza. La vista di lui ferito, sollevato da terra e portato in salvo a fatica da quelli che gli stavano vicino, gettò nello sconforto i suoi uomini e rese più accaniti i nemici. 

Infiammati dalla morte del luogotenente e dalla ferita inflitta al console, essi da quel momento in poi divennero così incontenibili da schiacciare di nuovo i Romani nell'accampamento, con prospettive e risorse non certo equilibrate tra i due schieramenti. Addirittura l'esito finale dell'intera guerra avrebbe rischiato di essere compromesso, se non fosse sopraggiunto Tito Quinzio con dei contingenti stranieri - composti cioè di Ernici e 56 Latini. 

Avendo trovato gli Equi intenti ad assediare il campo romano e a mostrare con arroganza la testa del luogotenente, li assalì alle spalle proprio mentre quelli dell'accampamento si producevano in una sortita a un segnale da lui dato quando si trovava ancora lontano, riuscendo così a circondarne una grande quantità. 

Gli Equi che si trovavano in territorio romano subirono una disfatta di minori proporzioni ma dovettero impegnarsi in una fuga più prolungata: mentre stavano saccheggiando la zona sparpagliati in gruppi, vennero attaccati da Postumio in alcuni punti dove aveva opportunamente collocato delle guarnigioni armate. Lanciatisi quindi in una fuga disordinata e priva di meta, i saccheggiatori si imbatterono in Quinzio che tornava vincitore insieme al console ferito. 

Fu allora che con una gloriosa battaglia le truppe consolari vendicarono la ferita del loro comandante insieme al massacro del luogotenente e delle sue coorti. In quei giorni entrambe le parti inflissero e subirono gravi perdite: risulta difficile, trattandosi di un episodio così remoto, stabilire in maniera esatta il numero preciso dei combattenti e dei caduti. 

Ciononostante Valerio Anziate si avventura a fornire cifre precise: dice che nel territorio degli Ernici i Romani lasciarono 5800 uomini e che degli Equi che vagavano saccheggiando all'interno dei confini romani 2400 vennero uccisi dal console Aulo Postumio. Quanto invece al resto della spedizione andata a cozzare nelle truppe di Quinzio, Valerio sostiene che essa subì un massacro senza precedenti: dei suoi componenti - e qui si arriva a spaccare il capello - ne vennero abbattuti 4230. 

Quando l'esercito rientrò a Roma e venne ripristinato il normale corso della giustizia, si videro ovunque fuochi nel cielo, mentre altri prodigi o vennero realmente individuati da occhi umani o furono la vana illusione di osservatori suggestionati dalla paura. Per stornare il panico collettivo vennero indetti tre giorni di festa durante i quali tutti i templi furono invasi da folle di uomini e donne che imploravano la benevolenza degli Dei. 

In séguito le coorti di Latini e di Ernici vennero rinviate in patria, dopo aver ricevuto il ringraziamento del senato per l'abnegazione dimostrata durante la campagna. Mille soldati di Anzio, rei di essere corsi in aiuto quando ormai la battaglia era finita, furono invece rispediti a casa quasi con il bollo dell'infamia. 


6)  Dalle successive elezioni uscirono consoli Lucio Ebuzio e Publio Servilio. Il primo agosto - data che allora rappresentava l'inizio dell'anno - entrano in carica. Si era nella stagione malsana e il caso volle che quello fosse un anno di pestilenza tanto a Roma quanto nelle campagne, e sia per gli uomini che per il bestiame. Ad accrescere la virulenza dell'epidemia contribuì poi la gente che, terrorizzata da possibili saccheggi, cominciò a ricoverare in città mandrie e relativi pastori. 

Questo miscuglio eterogeneo di animali tormentava col suo insolito odore i cittadini, mentre la gente di campagna, stipata in dimore anguste, soffriva per il caldo e la mancanza di sonno. E poi lo scambio di servizi e il contatto stesso contribuivano a diffondere l'infezione. Proprio in quel momento - e cioè con i Romani appena in grado di sopportare il peso di queste calamità - arrivarono dagli Ernici degli ambasciatori ad annunciare che gli eserciti congiunti di Volsci ed Equi si erano accampati nel loro territorio e che da quella base saccheggiavano le campagne con un impressionante spiegamento di forze. 

Non solo lo scarso numero di senatori rimasti rendeva manifesto agli alleati che la città era prostrata dalla pestilenza, ma mesta fu anche la risposta che ebbero: gli Ernici, insieme con i Latini, difendessero da soli i loro possedimenti perché Roma, per l'improvvisa ira degli dèi, era devastata dall'epidemia. Se quel male si fosse placato, allora sarebbero intervenuti in aiuto degli alleati, come nell'anno precedente e in tutte le altre occasioni. 

Gli alleati partirono riportando in patria in cambio di un triste annuncio uno ancora più triste: il loro popolo doveva infatti affrontare da solo una guerra che avrebbe sostenuto a fatica anche col potente sostegno dei Romani. I nemici non si trattennero più a lungo nel territorio degli Ernici. Di lì avanzarono infatti con intenti bellicosi nella campagna romana che subì danni e devastazioni anche senza le violenze della guerra. 

Nessuno si fece loro incontro - nemmeno un uomo disarmato - e poterono così penetrare in un territorio privo ormai non solo di guarnigioni armate, ma anche di campi coltivati; Volsci ed Equi arrivarono fino al terzo miglio della Via Gabinia. Il console Ebuzio era morto. Per il suo collega Servilio c'erano ben poche speranze. Il contagio aveva colpito quasi tutti i maggiorenti, buona parte dei senatori e pressappoco la totalità di quanti erano in età militare. 

Così il loro numero non solo non bastava per le spedizioni rese necessarie dalla situazione allarmante, ma arrivava appena a coprire l'organico dei posti di guardia. Il servizio di vigilanza toccò allora a quei senatori che per età e condizioni di salute erano in grado di prestarlo. Le ronde armate toccarono invece agli edili della plebe, ai quali erano passati anche il potere supremo e l'autorità consolare. 


7)  Senza un capo e senza forze, la città spopolata fu protetta dai suoi numi tutelari e dalla sua buona stella, che ispirò a Volsci ed Equi un comportamento da predoni più che da nemici. Infatti il loro animo era così lontano dal nutrire una qualche speranza non solo di conquistare ma addirittura di avvicinarsi alle mura di Roma e la vista da lontano dei tetti e dei colli sovrastanti aveva fuorviato le loro menti tanto, che l'intero esercito cominciò a esser percorso da mormorii di disapprovazione: si domandavano perché dovessero sprecare il tempo inoperosi in un'area desolata e abbandonata, dove non c'erano opportunità di bottino, ma solo cadaveri di uomini e di bestie, mentre avrebbero potuto invadere una terra ricca di ogni ben di Dio e inviolata quale la zona di Tuscolo. 

Per questo si misero rapidamente in marcia e per vie traverse che passavano in mezzo alla campagna labicana si spostarono sulle colline di Tuscolo per concentrarvi tutto l'impeto e la furia della guerra. Nel frattempo Ernici e Latini, spinti non solo dalla pietà ma anche dalla vergogna che certo avrebbero provato se non si fossero opposti ai nemici comuni lanciatisi in assetto di guerra contro Roma e non fossero intervenuti a fianco degli alleati stretti d'assedio, unirono i propri eserciti e si misero in marcia verso Roma. 

Qui, non avendo trovato nemici ma fidandosi delle informazioni avute per strada e seguendo le tracce del loro passaggio, li incontrarono mentre da Tuscolo stavano scendendo nella valle di Alba. Si combatté con forze impari e la loro lealtà per il momento portò poca fortuna agli alleati. A Roma la strage dovuta all'epidemia non fu di proporzioni minori di quella patita dagli alleati a colpi di spada. 

L'unico console rimasto era nel frattempo deceduto. Così come morti erano pure altri personaggi illustri quali gli àuguri Marco Valerio e Tito Verginio Rutulo e il capo delle curie Servio Sulpicio. La malattia aveva colpito con tutta la sua violenza anche la folla anonima. E il senato, non potendo più contare sull'aiuto degli uomini, spinse il popolo a rivolgere le preghiere agli Dei, ordinando che tutti, con mogli e bambini, andassero nei templi a supplicare il cielo e a chiedere la pace. 

Così, indotti dall'autorità pubblica a fare le cose a cui già li costringevano le proprie sventure, i cittadini si affollarono in tutti i santuari. Dovunque le matrone, piegate a spazzare coi capelli sciolti i pavimenti dei templi, implorano gli Dei adirati e li supplicano di porre fine alla pestilenza. 


8)  Da quel momento in poi, a poco a poco, sia per la pace ottenuta dagli dèi sia per il progressivo esaurirsi della stagione malsana, i corpi nei quali il corso della malattia si era compiuto cominciavano a tornare in salute, mentre le menti si rivolgevano ai problemi dello Stato. Dopo alcuni interregni, Publio Valerio Publicola, il terzo giorno del suo interregno, nomina consoli Lucio Lucrezio Tricipitino e Tito Veturio Gemino (o Vetusio, se questo era il suo nome). 

Entrano in carica tre giorni prima delle idi del mese Sestile, con il paese in condizioni di salute ormai così rassicuranti da potersi permettere non solo di allestire una difesa armata ma addirittura di lanciare delle offensive. Perciò, quando gli Ernici vennero ad annunciare che i nemici avevano varcato i loro confini, senza alcuna esitazione fu loro promesso aiuto. Una volta arruolati due eserciti consolari, Veturio fu inviato a portare la guerra nel territorio dei Volsci. 

Tricipitino invece, incaricato di salvaguardare quello alleato da incursioni selvagge, non si spinge più in là della terra degli Ernici. Veturio sbaraglia e mette in fuga i nemici al primo scontro. A Lucrezio sfuggì invece un contingente di predoni nemici che dalle alture di Preneste marciava in direzione delle campagne. Dopo aver devastato i terreni coltivati intorno a Preneste e Gabi, questo gruppo di guastatori piegò dalla zona di Gabi verso i colli di Tuscolo. 

La cosa fu motivo di grande apprensione pure a Roma, anche se più per l'imprevedibilità della mossa che per l'effettiva penuria di risorse difensive. A capo della città c'era in quel frangente Quinto Fabio: armando i giovani e disponendo presidi nei punti nevralgici, rese ogni cosa tranquilla e sicura. Così i nemici, dopo aver fatto razzie negli immediati dintorni, non osarono avvicinarsi a Roma e ripresero, sia pur con diversioni, la strada di casa. 

Mentre cresceva in loro un senso di sicurezza a mano a mano che aumentava la distanza da Roma, si imbatterono nel console Lucrezio che, già al corrente della direzione di marcia scelta dai nemici, li attendeva pronto a dare battaglia. Così i Romani, pur essendo in inferiorità numerica, attaccarono con giusta disposizione d'animo i nemici in preda invece a un improvviso attacco di paura. Quindi, dopo averne sbaragliato il possente schieramento e averli messi in fuga verso certe valli poco spaziose da dove era difficile sfuggire, li accerchiarono. 

Lì poco mancò che il nome dei Volsci venisse cancellato dalla faccia della terra. In alcuni annali ho trovato che tra fuga e battaglia ci furono 13.470 morti, che 1750 vennero catturati vivi e che le insegne conquistate ammontarono a 27. Anche se tali cifre risentono di una certa tendenza all'esagerazione, ciononostante si trattò indubbiamente di un grande massacro. 

Il console vincitore tornò con un enorme bottino all'accampamento. Allora i due consoli si accamparono insieme, mentre Volsci ed Equi facevano confluire in un unico esercito i propri decimati reparti. La battaglia che seguì fu la terza nel corso dell'anno. La vittoria arrivò grazie alla stessa buona sorte: dopo aver disperso i nemici, ne conquistarono anche l'accampamento. 


9)  La potenza romana tornò così alla situazione di un tempo e l'esito favorevole della guerra suscitò all'improvviso dei contrasti interni in città. Quell'anno Gaio Terentilio Arsa era tribuno della plebe. Pensando che l'assenza dei consoli fosse per i tribuni la migliore occasione per darsi da fare, egli passò alcuni giorni a lagnarsi presso la plebe dell'arroganza patrizia, inveendo soprattutto contro l'autorità consolare, ritenuta eccessiva e intollerabile per un libero Stato. 

Tale potere era infatti a sua detta solo formalmente meno detestabile - ma di fatto più crudele - di quello dei re: al posto di un padrone adesso ne avevano due che, godendo di un'autorità priva di restrizioni e vivendo in uno stato di sfrenatezza non sottoposta a controlli, rovesciavano sulla plebe il terrore suscitato dalle leggi e dalle punizioni. Perché i consoli non dovessero godere in eterno di quella condizione privilegiata, il tribuno disse di voler far passare una legge che prevedesse la nomina di cinque magistrati con l'incarico di approntare delle leggi che regolassero l'autorità consolare. 

I consoli avrebbero così goduto del potere assegnato loro dal popolo, ma non avrebbero potuto trasformare in legge quello che invece era il loro capriccio o il loro arbitrio. In séguito alla presentazione di questa legge, siccome i senatori temevano che l'assenza dei consoli li costringesse a sottostare a un simile giogo, il prefetto della città convocò il senato e lì attaccò la proposta e il suo autore con una tale veemenza che, se entrambi i consoli fossero stati presenti e avessero circondato il tribuno in maniera ostile, non avrebbero potuto aggiungere nulla alla virulenza delle sue minacce. 

Chi davvero a sua detta rappresentava un'insidia concreta per il paese era Terentilio, reo di esser passato all'attacco sfruttando le circostanze. Se l'anno prima - quando cioè la pestilenza e la guerra infuriavano sulla città - la rabbia divina avesse imposto un tribuno simile a lui, la situazione sarebbe stata insostenibile. Coi due consoli morti e la città in preda all'infuriare del morbo e alla confusione generale, Terentilio avrebbe proposto una legge volta a privare lo Stato del potere consolare e avrebbe guidato Equi e Volsci all'assedio di Roma. 

Ma alla fin fine dove voleva arrivare? Se i consoli si erano macchiati di arroganza o di crudeltà nei confronti di qualche cittadino, non era forse lecito trascinarli in giudizio e accusarli di fronte a un corpo giudicante che annoverasse tra i suoi membri chi aveva subito l'ingiustizia? Non il potere dei consoli, ma l'autorità dei tribuni Terentilio rendeva invisa e insopportabile. Quella stessa autorità che si era pacificata e riconciliata col senato, adesso ricadeva di nuovo negli antichi mali. 

Ciononostante Fabio non lo avrebbe pregato di abbandonare quanto intrapreso. «Esorto,» gridò, «voialtri tribuni a riflettere sul fatto che questa autorità vi è stata assegnata per soccorrere i singoli individui e non per danneggiare la comunità tutta. Voi siete stati eletti tribuni della plebe, non nemici del senato. Che lo Stato privo dei suoi difensori subisca attacchi è triste per noi, ma odioso per voi. Non diminuirete le vostre prerogative, ma la vostra impopolarità, se farete in modo che il vostro collega rinvii fino al ritorno dei consoli la questione nei termini in cui oggi si trova. Quando l'anno passato l'epidemia ci privò dei consoli, anche Equi e Volsci ci risparmiarono una guerra crudele e impietosa.» I tribuni fanno pressione su Terentilio. Quindi, dopo un apparente rinvio della proposta di legge trasformatosi poi in aperto ritiro, vennero immediatamente convocati i consoli. 


10)  Lucrezio tornò con un enorme bottino e con ancora maggiore gloria. Questa subì poi un ulteriore incremento quando, una volta arrivato, egli espose per tre giorni il bottino lungo tutta l'estensione del Campo Marzio, in maniera tale che ciascuno potesse ritirare ciò che riconosceva come proprio. Gli oggetti che non furono rivendicati dai legittimi proprietari vennero messi all'incanto. Sul fatto che il console meritasse il trionfo erano d'accordo tutti: la cosa fu però rinviata per la proposta avanzata dal tribuno che, agli occhi di Lucrezio, appariva di primaria importanza. 

Del provvedimento si discusse per alcuni giorni prima in senato e poi di fronte al popolo. Alla fine il tribuno decise di sottostare all'autorità del console e lasciò perdere. Solo allora l'esercito e il comandante ricevettero gli onori dovuti: Lucrezio ottenne il trionfo su Volsci ed Equi e nel corteo trionfale venne accompagnato dalle sue legioni. All'altro console fu concesso di entrare a Roma con gli onori dell'ovazione ma privo dei soldati. 

L'anno successivo la legge terentiliana venne di nuovo presentata dall'intero collegio dei tribuni contro i consoli appena eletti Publio Volumnio e Sergio Sulpicio. Quell'anno si videro prodigi di fuoco nel cielo e la terra venne sconvolta da un terremoto di notevole intensità. Si credette che una vacca avesse parlato, cosa a cui nell'anno precedente nessuno aveva prestato fede. Tra gli altri eventi prodigiosi si assistette anche a una pioggia di carne che, a quanto pare, venne intercettata da un enorme stormo di uccelli finito in volo proprio lì nel mezzo. 

Quel che invece cadde a terra rimase sparpagliato sul suolo per alcuni giorni senza però imputridire. I duumviri addetti ai riti sacri consultarono i libri sibillini e predissero che un gruppo di stranieri sarebbe stato motivo di pericolo e avrebbe sferrato un attacco alla cittadella con conseguente spargimento di sangue. Ammonirono anche di astenersi dagli scontri tra fazioni. 

I tribuni li accusavano di averlo suggerito per ostacolare la legge e lo scontro si annunciava senza esclusione di colpi. Ma poi - ogni anno si ripetono le stesse cose - ecco arrivare gli Ernici con l'annuncio che Volsci ed Equi, pur dopo le recenti perdite, stavano rimettendo in sesto i rispettivi eserciti, che Anzio era il centro delle operazioni, che a Ecetra coloni di Anzio tenevano apertamente delle riunioni; quello era il punto di riferimento, quelle le forze della guerra. 

Una volta ascoltate queste comunicazioni in senato, si indice una leva militare. Quanto poi alla gestione della guerra, i consoli ricevono l'ordine di organizzarla in maniera tale da occuparsi uno dei Volsci e l'altro degli Equi. I tribuni si misero invece a urlare in pieno foro che la guerra contro i Volsci era solo una commedia inscenata apposta e che gli Ernici erano stati preparati per recitarvi una parte. Ormai la libertà del popolo romano non era come un tempo soffocata a séguito di uno scontro leale, ma veniva ignorata con espedienti. 

Dato che non si poteva più far credere che Volsci ed Equi - quasi totalmente annientati - decidessero spontaneamente di mettersi sul piede di guerra, si andavano a cercare nuovi nemici e una colonia vicina e leale veniva infamata. Si dichiarava guerra agli innocenti Anziati, ma in realtà si faceva guerra alla plebe romana: i consoli infatti l'avrebbero caricata di armi e condotta a marce forzate fuori della città; si sarebbero così vendicati dei tribuni mandando in esilio e relegando i cittadini. 

I plebei dovevano convincersi che l'unico scopo di tutto questo era mettere a tacere la legge e che ciò si poteva evitare - finché le cose erano agli inizi ed essi si trovavano ancora in patria in abiti civili - operando in modo da non essere esclusi dal controllo della città e da non piegarsi al giogo. Se solo avessero osato farlo, certo non sarebbe venuto loro meno l'aiuto, dato che i tribuni erano tutti dello stesso avviso. Non c'erano minacce esterne, né pericoli in vista. L'anno prima gli Dei avevano fatto in modo che la libertà potesse esser difesa senza correre rischi. Queste furono le parole dei tribuni. 


11)  Dall'altra parte i consoli, posti i loro sedili di fronte ai tribuni, facevano la leva. I tribuni arrivano di corsa trascinandosi dietro la folla. Non appena - quasi si volesse tastare il terreno - vengono fatti i nomi di alcuni cittadini, ecco che scoppiano sùbito disordini. Ogni qualvolta il littore, su ordine del console, ne prendeva uno, un tribuno ordinava di rilasciarlo. E la condotta di ognuno non era regolata da un diritto effettivo, ma dalla fiducia nei propri mezzi fisici: di conseguenza quello che si aveva in mente lo si doveva ottenere con la forza. 

All'ostruzionismo praticato dai tribuni per ostacolare la leva militare i senatori contrapposero un atteggiamento di aperta ostilità alla legge che veniva riproposta tutti i giorni dedicati alle assemblee. La rissa scoppiava quando i tribuni ordinavano alla gente di separarsi per votare e i patrizi non permettevano che li si allontanasse. I senatori più anziani quasi non prendevano parte alla cosa perché non si poteva venirne a capo con l'uso della ragione, ma tutto era affidato all'avventatezza e alla temerarietà. 

Anche i consoli cercavano di non lasciarsi coinvolgere per evitare che nel trambusto generale la solennità del ruolo rivestito potesse essere esposta all'ingiuria di qualcuno. C'era un giovane, Cesone Quinzio, imbaldanzito non solo dai nobili natali ma anche dalla sua struttura possente e dalla sua forza fisica. A questi doni piovuti dal cielo egli aveva aggiunto molte imprese gloriose in guerra e una tale dialettica forense, da non essere ritenuto inferiore a nessuno in città per prontezza tanto di mano quanto di lingua. 

Piantato in mezzo al gruppo di senatori e sovrastandoli come se stesse brandendo con la voce e con la forza tutto il potere dei dittatori e dei consoli, Cesone riusciva a sostenere da solo l'attacco dei tribuni e l'impeto disordinato della folla. Con lui alla testa degli aristocratici, i tribuni vennero più volte allontanati dal foro e la plebe addirittura sbaragliata e dispersa. Chi se lo trovava per caso faccia a faccia finiva malmenato e senza uno straccio addosso. Ed era chiaro che se le cose continuavano così, per la legge c'erano ben poche speranze. 

Allora, quando ormai gli altri tribuni avevano subito diverse forme di intimidazione, un membro del loro collegio, un certo Aulo Verginio, trascina Cesone in tribunale chiedendo per lui la pena capitale. Ma, invece di terrorizzare Cesone, questa iniziativa accese il suo animo fiero, portandolo a ostacolare la legge con maggiore accanimento, e a stuzzicare la plebe e ad attaccare i tribuni come se si fosse trattato di una guerra vera e propria. 

L'accusatore lasciava che l'accusato si rovinasse da sé, attizzando il risentimento popolare e fornendo così nuova materia alle proprie incriminazioni. Nel frattempo continuava a insistere sulla legge, non tanto nella speranza di vederla passare, quanto per spingere Cesone a commettere qualche gesto avventato. In quei frangenti, molte delle cose dette e fatte a sproposito dai giovani aristocratici ricaddero sulla sola persona di Cesone a causa dei sospetti ingenerati dalla sua indole. 

Ciononostante egli continuava a opporsi alla legge. E Aulo Verginio insisteva, rivolgendosi alla plebe in questi termini: «Immagino che vi rendiate ormai perfettamente conto, o Quiriti, di non potere avere nel contempo Cesone come concittadino e la legge che tanto desiderate. Ma perché poi parlo di legge? È alla libertà che costui cerca di opporsi, superando in arroganza l'intera genia dei Tarquini. Aspettate che quest'uomo diventi console o dittatore, lui che già ora, pur essendo un privato cittadino, ci mette i piedi in testa a colpi di soprusi e insolenze.» Molti che si lamentavano delle percosse subite erano d'accordo e incitavano il tribuno a portare la cosa fino in fondo. 


12)  Il giorno del processo si avvicinava ed era ormai chiaro che, a giudizio di tutti, la libertà dipendeva dalla condanna di Cesone. Questi allora, pur considerandola un'iniziativa spregevole, fu alla fine costretto a cercare l'appoggio dei singoli. Al suo séguito c'erano gli amici, e cioè le personalità più in vista dell'intero paese. Tito Quinzio Capitolino, che in passato era stato per tre volte console, parlando dei molti onori toccati a lui stesso e alla sua famiglia, sosteneva che, né all'interno della gens Quinzia, né nel resto della cittadinanza romana, si era mai vista una personalità così spiccata e provvista di tante assennate qualità. 

Cesone era stato il suo migliore soldato: spesso lo aveva visto lanciarsi contro il nemico proprio davanti ai suoi occhi. Spurio Furio rilasciò questa testimonianza: inviatogli da Quinzio Capitolino, Cesone era intervenuto in suo aiuto in una situazione pericolosa. A sua detta non c'era nessun altro che, al pari di Cesone, avesse contribuito a ristabilire le sorti dello scontro. Lucio Lucrezio, console l'anno precedente e nel fulgore della recente gloria, divideva i propri meriti con Cesone, ne ricordava le azioni militari, ne menzionava le non comuni imprese, tanto nel corso delle spedizioni, quanto nei combattimenti. 

Ed esortava la gente a preferire che quel giovane straordinario, provvisto d'ogni dono fornito dalla natura e dalla sorte, nonché capace di diventare il punto di forza di qualunque paese lo avesse accolto, fosse un concittadino loro piuttosto che di altri. Ciò che in lui poteva infastidire (eccesso di ardore e impulsività) col passare degli anni si sarebbe attenuato. Ciò che invece gli mancava (ossia la prudenza) sarebbe cresciuto giorno dopo giorno. 

La gente avrebbe dovuto accettare che un uomo simile - nel quale l'intensità dei difetti era destinata ad affievolirsi insieme al progressivo maturare delle virtù - invecchiasse nel pieno possesso della cittadinanza romana. Tra i suoi difensori c'era anche il padre, Lucio Quinzio, soprannominato Cincinnato. 

Questi, evitando di ribadire gli elogi rivolti al figlio per non accrescerne l'impopolarità, ma implorando clemenza per errori imputabili alla giovane età, chiedeva al popolo di assolvere il figlio come favore dovuto al padre che non aveva mai offeso nessuno, né con gli atti, né con le parole. Ma alcuni, o per imbarazzo o per paura, si rifiutavano di dare ascolto alle sue implorazioni, mentre altri, lamentandosi delle percosse subite o di quelle toccate agli amici, facevano capire con interventi durissimi il voto che avrebbero espresso. 


13)  Oltre alla diffusa impopolarità, un'accusa pesava in maniera particolare sull'imputato: un testimone oculare, Marco Volscio Fittore, che era stato tribuno della plebe alcuni anni addietro, sosteneva di essersi imbattuto - non molto tempo dopo che la pestilenza aveva colpito la città - in un gruppo di giovani che imperversava con violenza nella Suburra. Lì era scoppiata una rissa e suo fratello maggiore, non ancora pienamente guarito dalla malattia, era stramazzato al suolo colpito da un pugno di Cesone. 

Trasportato a casa in fin di vita, a detta di Volscio, era poi morto a séguito di quel colpo. Tramite i consoli degli anni precedenti non gli era stato possibile avere soddisfazione di un gesto tanto efferato. Le parole concitate di Volscio infiammarono gli animi della gente a tal punto che Cesone per poco non fu vittima della furia popolare. Verginio dà ordine di arrestarlo e di chiuderlo in prigione. I patrizi rispondono con la forza alla forza. 

Tito Quinzio urla che un uomo su cui pende un'imputazione passibile della pena capitale, e che tra breve dovrà comparire in tribunale, non può essere sottoposto a violenza prima di essere condannato, prima ancora di aver subito un regolare processo. Ma il tribuno replica di non volerlo punire senza prima averlo processato. Tuttavia sostiene che lo si debba tenere in prigione fino al giorno del processo, in maniera tale che al popolo romano venga data facoltà di punire un uomo colpevole di omicidio. 

Ma i tribuni ai quali ci si appella decidono di esercitare il proprio diritto di veto, proponendo una soluzione di compromesso: proibiscono che l'imputato sia incarcerato; esigono che questi compaia in giudizio e versi al popolo una cauzione per il caso in cui non compaia. Siccome non era chiaro quale fosse la somma giusta da concordare, la questione viene portata di fronte al senato. In attesa che i senatori decidano, Cesone viene guardato a vista. Si stabilì di nominare dei mallevadori, fissando la cauzione a 3.000 assi per ciascuno di loro. 

Ai tribuni venne lasciata la facoltà di determinare il numero dei mallevadori: decisero che fossero dieci. E tanti furono i mallevadori che diedero all'accusatore le dovute garanzie. Quello di Cesone fu il primo caso di impegno cauzionale in attesa del processo. Essendogli stato concesso di abbandonare il foro, la notte successiva partì per l'esilio in terra etrusca. Il giorno del processo, l'assenza di Cesone venne giustificata, adducendo la tesi dell'esilio volontario, ma ugualmente Verginio tentò di convocare l'assemblea, che fu invece invalidata a séguito di un appello presentato ai suoi colleghi. La cauzione venne pretesa senza alcuna pietà dal padre di Cesone che, costretto a vendere tutti i propri beni, per un certo periodo andò a vivere come un esiliato in un tugurio fuori mano al di là del Tevere. 


14)  Mentre sul fronte esterno tutto taceva, la città era in preda a continue agitazioni per il processo in corso e per la promulgazione della legge. I tribuni, visto il brutto colpo subito dai patrizi con l'esilio di Cesone, credevano di essere usciti vincitori e pensavano che il passaggio della legge fosse a quel punto quasi scontato. E se per parte loro i senatori più anziani avevano ormai abbandonato ogni pretesa di controllo del paese, i più giovani - in special modo quelli che avevano fatto parte del sodalizio di Cesone - aumentarono il proprio risentimento nei confronti della plebe, senza mai perdersi d'animo. 

Ma ottennero i risultati migliori sforzandosi di moderare in qualche maniera i loro attacchi. Quando la legge venne ripresentata per la prima volta dopo l'esilio di Cesone, si fecero trovare pronti allo scontro e con una massiccia schiera di clienti aggredirono i tribuni non appena questi ne offrirono l'occasione cercando di allontanarli: nell'assalto nessuno riuscì a primeggiare per gloria o per impopolarità, ma la plebe si lamentava che al posto di un solo Cesone adesso ce ne fossero mille. 

Nei giorni di intervallo nei quali i tribuni non si occupavano della legge, niente era più pacifico e tranquillo di loro: salutavano educatamente i plebei, si fermavano a chiacchierare, li invitavano a casa, li difendevano nel foro e addirittura permettevano, senza interferire, che i tribuni tenessero altre assemblee. Non avevano mai atteggiamenti arroganti né in pubblico né in privato, eccetto quando saltava fuori la questione della legge. 

In altre occasioni agivano in maniera apertamente democratica. I tribuni non si limitarono soltanto a portare avanti senza intralci le altre loro iniziative, ma vennero anche rieletti per l'anno successivo. I giovani senatori non alzavano neppure la voce, né tantomeno arrivavano alla violenza fisica. Così, agendo con delicatezza e tatto calcolati, riuscirono ad ammansire la plebe. Grazie a questi espedienti, la legge venne schivata per l'intera durata dell'anno. 


15)  I consoli Gaio Claudio, figlio di Appio, e Publio Valerio Publicola ricevono una città più tranquilla. L'anno nuovo non aveva portato novità. Una doppia preoccupazione regnava in Roma: da una parte l'ansia di veder passare la legge, dall'altra il terrore di doverne accettare l'approvazione. Quanto più i giovani senatori cercavano di ingraziarsi il favore della plebe, tanto più i tribuni si sforzavano di renderli sospetti agli occhi della plebe stessa, accumulando accuse a loro carico. Era stata nel frattempo ordita una congiura: Cesone si trovava a Roma, il piano era quello di eliminare i tribuni e di massacrare la plebe. 

I senatori più anziani avevano affidato ai giovani il cómpito di abolire la potestà tribunizia facendo sì che la città ritornasse alle condizioni esistenti prima della secessione sul monte Sacro. C'era poi anche la paura suscitata da Volsci ed Equi, il cui attacco si era ormai trasformato in una ricorrenza quasi puntuale e fissata. Ma una nuova inaspettata sciagura arrivò da una zona ben più vicina a Roma: un contingente di 2.500 esuli e schiavi, agli ordini del sabino Appio Erdonio, occupò nottetempo il Campidoglio e la cittadella. 

Qui fecero subito strage di quelli che si rifiutavano di prendere parte attiva alla congiura, combattendo al loro fianco. Alcuni, però, sfruttando il grande trambusto, riuscirono a sfuggire al massacro e in preda al panico si buttarono di corsa in direzione del foro. Si udivano varie voci gridare: «Alle armi!» o «Il nemico è in città!». I consoli, ignorando la provenienza di quell'attacco repentino (lo avevano lanciato degli stranieri o dei Romani?), e non potendolo quindi attribuire con certezza al risentimento della plebe o a un'insurrezione di schiavi, non sapevano se convenisse o meno armare il popolo. 

Tentavano di sedare la rivolta, anche se coi loro sforzi la fomentavano ulteriormente: l'autorità di cui erano investiti non era infatti sufficiente per controllare la folla in preda al panico e allo spavento. Ciononostante le armi vennero consegnate, anche se non proprio a tutti, ma in maniera tale che, nell'incertezza legata all'identificazione del nemico, si potesse contare su una guarnigione sufficientemente sicura e pronta a ogni evenienza. 

In preda all'ansia e all'incertezza intorno alla provenienza e alle proporzioni numeriche del nemico, questi reparti impiegarono il resto della notte ad allestire picchetti armati in tutti i punti strategici della città. La luce del giorno poi rivelò quale guerra fosse e chi la guidasse. 

Dal Campidoglio Appio Erdonio incitava gli schiavi a conquistare la libertà: si era addossato la causa di tutti i diseredati per ricondurre in patria gli esuli ingiustamente banditi e affrancare gli schiavi dal giogo opprimente della schiavitù. Certo preferiva che tutto accadesse con l'approvazione del popolo romano: se però da quella parte non c'erano speranze, allora avrebbe chiamato in causa Volsci ed Equi, deciso a non scartare le soluzioni estreme. 


16)  La situazione divenne così più chiara per i senatori e i consoli. Oltre a tutto ciò che incombeva minacciosamente sul paese, essi temevano che si trattasse di un'iniziativa dei Veienti o dei Sabini, e che, con tutti quei nemici in città, le truppe etrusche e sabine potessero arrivare da un momento all'altro, a compimento di un piano preordinato; o ancora che i nemici di sempre, Volsci ed Equi, si rifacessero vivi, non più come prima solo per saccheggiare le campagne romane, ma spingendosi fino a Roma, considerata ormai quasi conquistata. 

Molteplici e diversi erano quindi i motivi di forte apprensione. Tra tutti spiccava però per intensità quello suscitato dal problema degli schiavi: ognuno sospettava di avere un nemico in casa, di cui non era sicuro continuare a fidarsi; e d'altronde, togliendogli la fiducia, c'era il rischio di accrescerne l'ostilità. Sembrava che neppure con la concordia si sarebbe potuto rimediare alle difficoltà. Le disgrazie del momento superavano e offuscavano tutto il resto in maniera così netta che ormai nessuno temeva più i tribuni e la plebe: questo male minore, sempre pronto a saltar fuori tra una disgrazia e l'altra, ora sembrava essere stato placato dal terrore seguito all'attacco straniero. 

E invece fu proprio questo annoso problema a farsi sentire in quei momenti critici: infatti i tribuni arrivarono a un punto tale di dissennata esaltazione da sostenere che il Campidoglio non era stato oggetto di un vero e proprio attacco militare, ma di una finta guerra inscenata per distogliere gli animi della plebe dal pensiero fisso della legge. Se la legge fosse passata, gli amici e i clienti dei patrizi si sarebbero resi conto dell'inutilità di quella messinscena e se ne sarebbero ritornati a casa ancora più silenziosamente di come erano venuti. 

Perciò, dopo aver richiamato il popolo sottraendolo agli obblighi militari, convocarono un'assemblea con l'intento di far approvare la legge. Nel frattempo i consoli, certo più preoccupati dalle mosse dei tribuni che non dall'attacco notturno dei nemici, tennero una seduta del senato.


17)  Quando arrivò la notizia che gli uomini stavano abbandonando le armi e i posti di guardia, Publio Valerio, dopo aver lasciato al collega il cómpito di impedire ai senatori di abbandonare la seduta, si precipitò fuori dalla curia diretto al luogo dove i tribuni stavano tenendo la loro assemblea. E lì disse loro: «Tribuni, cosa significa tutto questo? Avete intenzione di mettervi agli ordini di Appio Erdonio e di sovvertire sotto la sua guida l'ordine costituito? È riuscito così bene a corrompere voi uno che non è stato nemmeno in grado di far sollevare degli schiavi? Possibile che col nemico sopra le teste vi venga in mente di buttare le armi e di mettervi a proporre leggi?» 

Poi, rivolgendosi alla folla, disse: «Se la situazione in cui versa la vostra città, o Quiriti, non desta in voi la benché minima preoccupazione, abbiate almeno rispetto dei vostri Dei finiti in mano al nemico! Giove Ottimo Massimo, Giunone Regina e Minerva, insieme a tutte le altre divinità, si trovano in stato d'assedio; un campo di schiavi circonda i vostri Penati. Vi sembra questa una condizione normale per una città? Abbiamo torme di nemici dappertutto: non solo all'interno delle mura, ma anche sulla cittadella e al di sopra del foro e della curia. Nel frattempo il popolo è riunito in assemblea nel foro, mentre nella curia è in corso una seduta del senato: come in pieno regime di pace, i senatori stanno esprimendo la loro opinione e gli altri Quiriti vanno al voto. Non sarebbe giusto che tutti insieme, patrizi e plebei dal primo all'ultimo, e consoli, tribuni, uomini e dèi unissero le proprie forze e, una volta armati, corressero in Campidoglio per riportare pace e libertà nella venerabile dimora di Giove Ottimo Massimo? O padre Romolo, infondi nei tuoi discendenti quell'energia inesauribile con la quale un giorno riconquistasti la cittadella finita nelle mani di questi stessi Sabini con l'inganno dell'oro! Ordina loro di seguire la via percorsa dalle tue truppe con te al comando! Ecco, io che sono il console, sarò il primo - per quel poco che un mortale può nell'emulare un dio - a seguire te e le tue orme!» 

Per finire disse che sarebbe andato ad armarsi e incitò tutti i Quiriti a fare altrettanto. Se qualcuno avesse opposto resistenza, egli non avrebbe più tenuto conto dell'autorità consolare, né della potestà tribunizia o delle leggi garantite dai vincoli della sacralità: chiunque fosse stato renitente e dovunque si fosse trovato, in Campidoglio o nel foro, avrebbe avuto il trattamento riservato ai nemici. 

I tribuni, siccome avevano proibito di attaccare Appio Erdonio, ordinassero pure alla plebe di rivolgere le armi contro il console Publio Valerio: questi non avrebbe esitato a scagliarsi contro i tribuni, così come il capostipite della sua famiglia non aveva esitato a farlo contro i re. Era chiaro che presto si sarebbe arrivati all'uso della forza e che i Romani avrebbero offerto ai nemici lo spettacolo di uno scontro intestino. Così, né fu possibile far passare la legge, né il console riuscì a salire sul Campidoglio. La notte pose fine allo scontro. Al calar delle tenebre, i tribuni si ritirarono, impauriti dallo schieramento di forze mostrato dai consoli. 

Una volta allontanatisi i veri responsabili della sommossa, i senatori si andarono a mischiare alla gente comune e, inserendosi all'interno di vari gruppi, si rivolgevano alla gente con toni e parole appropriati alla delicatezza della situazione e invitavano gli interlocutori a considerare lo stato di estremo pericolo nel quale il loro comportamento aveva trascinato l'intero paese. Cercavano di far capire loro che non si trattava di uno scontro tra patrizi e plebei, ma che patrizi e plebei insieme, la cittadella, i santuari degli dèi, i Penati dello Stato e delle case private, tutto rischiava di finire in mano ai nemici. Mentre nel foro i senatori si sforzavano di sedare la discordia con questi discorsi, i consoli, temendo che Sabini e Veienti si mettessero in movimento, erano in giro a ispezionare le porte e le mura. 


18)  Quella stessa notte anche a Tuscolo arrivò la notizia che la cittadella era stata conquistata, che il Campidoglio si trovava in stato d'assedio e che nel resto di Roma regnava il disordine. Lucio Mamilio era allora dittatore a Tuscolo. Dopo aver immediatamente convocato il senato e aver fatto entrare in sala i messaggeri, sostenne con calore che non si doveva aspettare l'arrivo da Roma di inviati con richieste d'aiuto: lo esigevano la situazione di grave pericolo, le divinità che sancivano il vincolo di alleanza e la fedeltà ai patti. Gli Dei non avrebbero più offerto un'occasione così propizia di guadagnarsi la gratitudine di una città tanto potente e vicina. 

Si decide quindi di portare aiuto e con questo scopo si organizza una leva di giovani e si danno loro delle armi. Quando alle prime luci del giorno le truppe di Tuscolo vennero avvistate da lontano in assetto di marcia, furono scambiate per contingenti nemici. Sembrò che Equi e Volsci stessero arrivando. Una volta però dissipati i falsi timori, gli uomini di Mamilio sono accolti in città e incolonnati scendono al foro. Qui Publio Valerio, affidato al collega il presidio delle porte, stava già schierando le truppe. 

Con il peso della sua autorità, il console aveva convinto il popolo con queste dichiarazioni. Una volta riconquistato il Campidoglio e ristabilita la pace in città, se solo gli fosse stato concesso di smascherare l'inganno celato nella legge proposta dai tribuni, memore dei propri antenati e del soprannome col quale essi gli avevano tramandato come in eredità il dovere di preoccuparsi del popolo, non avrebbe impedito l'assemblea della plebe. Seguendolo quindi come loro comandante, nonostante le vane proteste dei tribuni, gli uomini cominciano a salire su per il colle del Campidoglio. A loro si aggiunge la legione di Tuscolo. 

Tra alleati e Romani fu allora una vera gara di valore per vedere a chi sarebbe toccato l'onore di riconquistare la cittadella. I comandanti dei due schieramenti esortavano a gran voce le proprie truppe. In quel momento i nemici si fecero prendere dall'affanno perché non potevano contare che sulla posizione occupata. Mentre il panico serpeggiava tra le loro file, ecco arrivare l'attacco di Romani e alleati. Gli attaccanti erano già penetrati nel vestibolo del tempio, quando Publio Valerio rimase ucciso proprio mentre guidava l'assalto nelle prime file. L'exconsole Publio Volumnio lo vide cadere. 

Dopo aver ordinato ai suoi di proteggerne il corpo, si butta a occupare la posizione tenuta dal console. Nell'ardore dell'impeto i soldati non si accorsero nemmeno di un fatto così clamoroso e arrivarono a conquistare la vittoria ancor prima di essersi resi conto di combattere ormai privi del comandante. Il sangue dei molti esuli massacrati insozzò le pareti dei templi: parecchi furono catturati vivi, mentre Erdonio rimase ucciso. Fu così che il Campidoglio tornò in mani romane. 

Quanto ai prigionieri, a ciascuno di essi toccò una pena commisurata alla loro condizione, a seconda che si trattasse di uomini liberi o di schiavi. I Tuscolani vennero ringraziati e il Campidoglio fu purificato con riti espiatori. Pare che i plebei andassero a gettare un quadrante a testa nella casa del console morto, perché fosse sepolto con esequie più sontuose. 


19)  Una volta ristabilita la pace, i tribuni cominciarono a incalzare i senatori chiedendo loro di mantenere la promessa fatta da Publio Valerio. A Gaio Claudio rivolgevano invece l'invito a liberare gli Dei Mani del collega dall'ombra dell'inganno, permettendo così di riavviare la discussione sulla legge. Ma il console replicò che non avrebbe permesso di ricominciare il dibattito sulla legge fino a quando non gli fosse stato affiancato un collega regolarmente eletto. Queste schermaglie tennero banco fino alle elezioni consolari. 

A dicembre, grazie allo straordinario zelo dimostrato dai senatori, Lucio Quinzio Cincinnato, padre di Cesone, viene nominato console ed entra immediatamente in carica. La plebe era spaventata all'idea di avere un console accecato dal rancore nei suoi confronti, e oltretutto forte del favore senatoriale e del proprio valore, nonché di altri tre figli, nessuno dei quali era inferiore a Cesone per abnegazione e coraggio, ma tutti superiori a lui nella capacità di usare la moderazione e l'assennatezza nelle occasioni in cui erano necessarie. 

Appena entrato in carica, Cincinnato non perdeva occasione di arringare la gente dai banchi del tribunale, e mostrava nel reprimere la plebe un'energia pari a quella mostrata nel muovere aspre censure al senato. A sua detta, proprio a causa dell'apatia dell'ordine senatoriale i tribuni della plebe esercitavano ormai una sorta di tirannide permanente, a parole e con azioni nefaste, lecita in una casa privata ormai allo sfacelo, ma non nella gestione degli affari del popolo romano. 

Con suo figlio Cesone, il coraggio, la forza e tutte le nobili qualità della gioventù in pace e in guerra erano state cacciate da Roma e messe in fuga. E invece, dei parolai pronti solo a seminare zizzania e sedizioni erano stati eletti tribuni per una seconda e una terza volta e vivevano con magnificenza regale, grazie alle loro pessime arti. 

«Aulo Verginio,» disse, «che sul Campidoglio non c'era, meritava forse una punizione più lieve di quella toccata ad Appio Erdonio? Se si considera attentamente l'andamento dei fatti, per Ercole, ne meriterebbe una molto più dura! Erdonio, se non altro, professandosi nemico, in qualche modo vi intimò di prendere le armi. Costui invece, sostenendo che non ci fosse una guerra in atto, vi tolse di mano le armi esponendovi inermi ai vostri schiavi e agli esuli. 

E non è forse vero - sia detto questo con buona pace di Gaio Claudio e del defunto Publio Valerio - che vi buttaste all'attacco su per il Campidoglio prima di aver liberato il foro dai nemici? Una vergogna di fronte agli Dei e agli uomini. Quando sulla cittadella e sul Campidoglio c'erano i nemici e il capo degli esuli e degli schiavi si era installato, per colmo di profanazione, addirittura nei penetrali del tempio di Giove Ottimo Massimo, i Tuscolani avevano preso le armi prima dei Romani. 

Quanto poi alla liberazione della cittadella, si è arrivati a dubitare se essa vada attribuita a Lucio Mamilio comandante delle truppe di Tuscolo oppure ai consoli Publio Valerio e Gaio Claudio. E noi che prima di quell'episodio non avevamo mai permesso ai Latini di mettere le mani sulle armi, neppure in caso di autodifesa o di fronte a un'invasione nemica, in quel frangente saremmo stati catturati e distrutti se i Latini non fossero intervenuti di loro spontanea volontà. Ma è questo, o tribuni, quello che voi chiamate soccorrere la plebe, e cioè consegnare della gente inerme in pasto al nemico? 

È ovvio che se il più insignificante membro della vostra plebe - cioè di quella porzione di popolazione che voi avete trasformato in una vostra patria, in una cosa vostra, dopo averla sradicata dal resto del popolo -, se uno di questi individui fosse venuto a riferirvi di avere la casa assediata dai propri schiavi armati, voi vi sareste sentiti in dovere di intervenire in suo aiuto: ma Giove Ottimo Massimo assediato da una banda armata di esuli e schiavi non meritava forse il soccorso degli uomini? 

E costoro pretendono poi di essere considerati sacri e inviolabili, quando ai loro occhi neppure gli Dei in persona lo sono! E infatti, pur essendovi macchiati di orrende colpe nei confronti di uomini e Dei, vi ostinate a ripetere che quest'anno voi farete passare la legge. Ma, per Ercole, il giorno che sono stato eletto console diventerà una data funesta per il paese, ancor più di quella in cui morì il console Publio Valerio, se riuscirete a far passare la legge! 

Prima di ogni altra cosa,» concluse, «io e il mio collega abbiamo in mente di guidare le legioni contro Volsci ed Equi. Non so per quale destino il favore degli dèi ci arride più quando siamo sul piede di guerra che non in tempo di pace. Il pericolo che questi popoli avrebbero potuto rappresentare se fossero venuti a sapere dell'assedio del Campidoglio da parte degli esuli è meglio cercare di desumerlo dalle esperienze passate piuttosto che sperimentarlo dal vivo.» 


20)  Il discorso del console aveva impressionato la plebe. E i senatori, rinfrancati, pensavano che lo Stato fosse tornato alla stabilità di un tempo. L'altro console, che per indole era incline più a collaborare con passione ad iniziative altrui che a proporne di nuove, pur accettando di buon grado che il collega lo avesse preceduto nella presentazione di misure così importanti, ciononostante, reclamava per sé, all'atto della loro realizzazione pratica, la sua parte di potere consolare. 

I tribuni allora, facendosi beffe del discorso di Quinzio come se le sue fossero state parole prive di efficacia, cominciarono ad andare in giro a chiedere in che modo i consoli avrebbero messo insieme un esercito da portare in guerra, quando a nessuno passava per la testa di permettere loro l'effettuazione di una leva. 

«Non abbiamo bisogno di nessuna leva,» disse Quinzio, «perché quando Publio Valerio armò la plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti giurarono che si sarebbero presentati attenendosi agli ordini del console e che senza il suo ordine non se ne sarebbero andati. Pertanto le nostre disposizioni sono queste: voi tutti che avete prestato giuramento domani trovatevi armati al lago Regillo.» 

Allora i tribuni, volendo liberare il popolo dalla sacralità dell'impegno assunto, trovarono dei cavilli; dicevano che Quinzio era un privato cittadino quando essi avevano prestato giuramento. Ma allora non si era ancora imposto quel disprezzo per gli Dei che domina invece ai giorni nostri e nessuno cercava di adattare alle proprie esigenze leggi e giuramenti, ma piuttosto si sforzava di conformare a questi ultimi il proprio comportamento. 

Pertanto i tribuni, siccome non c'era nessuna speranza di riuscire a ostacolare l'iniziativa, si impegnarono nel tentativo di ritardare la partenza. Correva voce che agli àuguri fosse stato ordinato di presentarsi al lago Regillo per consacrare uno spazio dove fosse lecito convocare il popolo, dopo aver tratto i regolari auspici. Il tutto per far sì che in quel contesto potesse essere abrogato dai comizi centuriati tutto ciò che a Roma aveva ottenuto l'approvazione per la violenza dei tribuni. Tutti dichiararono che si sarebbero conformati alla volontà del console. 

E infatti, trovandosi a più di un miglio di distanza da Roma, non esisteva possibilità d'appello e anche i tribuni, qualora si fossero presentati lì, sarebbero stati soggetti all'autorità dei consoli come tutti gli altri Quiriti. Queste cose facevano paura. Ma quel che spaventava di più gli animi era che Quinzio avesse più volte dichiarato di non voler tenere le elezioni consolari. La città versava ormai in condizioni così gravi che non era possibile pensare di poterla curare ricorrendo ai rimedi consueti: la repubblica aveva bisogno di un dittatore, in modo che chiunque si fosse mosso per suscitare la rivolta nella città sapesse che la dittatura non prevedeva possibilità d'appello. 


21)  Il senato si trovava in Campidoglio. Qui viene raggiunto dai tribuni e dalla plebe in preda all'agitazione. Con un coro di voci disordinate, la moltitudine implora la protezione ora dei consoli, ora dei senatori. Ma non riuscirono a distogliere il console dal suo fermo proposito, prima che i tribuni avessero promesso di sottomettersi in futuro all'autorità dei senatori. Dopo che il console ebbe riferito le richieste dei tribuni e della plebe, il senato stabilì che i tribuni quell'anno non avrebbero ripresentato la legge, e che i consoli non avrebbero guidato un esercito fuori dalla città. 

Inoltre, per quanto concerneva i giorni a venire, il senato giudicò dannoso per lo Stato che le magistrature potessero essere prolungate nel tempo e che gli stessi tribuni venissero rieletti. I consoli si piegarono all'autorità dei senatori, ma i tribuni, nonostante le proteste dei consoli, furono rieletti. Anche i patrizi, per non fare alcuna concessione alla plebe, desideravano il rinnovo della magistratura a Lucio Quinzio, che pronunciò un discorso di una durezza mai dimostrata in nessun'altra occasione nell'intero arco dell'anno. 

«E io dovrei stupirmi,» disse Quinzio, «o senatori, se il vostro potere non ha alcuna efficacia sulla plebe? Ma se siete voi che lo screditate quando, di fronte alla plebe che viola il decreto senatoriale sul prolungamento delle magistrature, vi mettete anche voi a violarlo per tener dietro all'impudenza della folla, come se l'essere più incostanti o l'agire in maniera più arbitraria nei confronti della legge significasse gestire maggiore potere all'interno della città. Infatti è certo un comportamento più irresponsabile e stupido violare i propri decreti e le proprie risoluzioni piuttosto che quelli degli altri. Imitate pure, o senatori, la folla inconsulta e, anche se dovreste essere voi d'esempio agli altri, continuate a sbagliare adeguandovi all'esempio altrui, invece di far sì che gli altri operino rettamente seguendo il vostro. 

Io però, se non vi spiace, non ho intenzione di imitare i tribuni né di farmi rieleggere console contro la volontà del senato. Quanto a te, Gaio Claudio, ti esorto affinché tu faccia il possibile per liberare il popolo romano dal dilagare dell'arbitrio e ti prego di credere che, per quanto mi riguarda, non sei stato un ostacolo alla mia carica, ma hai contribuito a incrementare il peso del mio rifiuto e che, così facendo, l'impopolarità destinata a seguire l'eventuale rinnovo della magistratura ora non rappresenta più un rischio.» Quindi, di comune accordo, decretano che nessuno voti Lucio Quinzio come console. Se qualcuno l'avesse fatto, non avrebbero tenuto conto di quel voto. 


22)  Vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano (per la terza volta) e Lucio Cornelio Maluginense. Quell'anno venne effettuato un censimento della popolazione, ma a causa della presa del Campidoglio e della morte del console fu considerato un atto sacrilego il concluderlo con il tradizionale rito di purificazione. Il consolato di Quinto Fabio e Lucio Cornelio nacque all'insegna del disordine: i tribuni istigavano la plebe, mentre Latini ed Ernici annunciavano che Volsci ed Equi erano in procinto di lanciare un grande attacco e che ad Anzio c'erano già delle legioni di Volsci. 

Oltretutto era diffuso il timore di una defezione da parte della colonia stessa di Anzio e con enorme fatica si ottenne dai tribuni che lasciassero la precedenza alla guerra. Poi i consoli si spartirono i compiti: a Fabio venne dato l'incarico di guidare le legioni ad Anzio, mentre a Cornelio venne affidato quello di difendere Roma con le armi, per evitare che una parte dei nemici - com'era abitudine degli Equi - venisse a saccheggiare. Ad Ernici e Latini fu invece dato ordine di fornire dei contingenti armati secondo le clausole contenute nel trattato, così che alla fine l'esercito risultò formato per due terzi da alleati e per un terzo da cittadini romani. 

Quando il giorno prestabilito arrivarono gli alleati, il console decise di accamparsi fuori della porta Capena. Di lì, dopo aver purificato l'esercito con un sacrificio rituale, partì alla volta di Anzio e si appostò non lontano dalla città e dal quartier generale dei nemici. I Volsci in quel momento non osavano affrontare uno scontro perché privi dei contingenti degli Equi che non li avevano ancora raggiunti, così cercarono di proteggersi restando tranquilli al riparo di una trincea fortificata. Il giorno dopo Fabio, invece di mescolare Romani e alleati in un'unica schiera, ne piazzò intorno alla trincea nemica tre, rispettivamente formate da contingenti dei tre diversi popoli, riservando per se stesso e per le legioni romane il centro dello spiegamento. 

Quindi ordinò loro di aspettare il segnale, in maniera tale che alleati e Romani dessero inizio in sincronia all'operazione e fossero pronti a ritirarsi insieme, qualora venisse suonata la ritirata. Inoltre collocò la cavalleria dietro le prime file di ciascuna schiera. Lanciatosi così all'assalto da tre direzioni diverse, circondò l'accampamento e, incalzandoli da ogni parte, scacciò dalla trincea i Volsci incapaci di sostenere l'urto. Quindi, una volta superate le fortificazioni, allontana dall'accampamento la massa spaventata dei nemici che ripiega in un'unica direzione. 

Allora i cavalieri, che per la difficoltà di superare la trincea avevano assistito da spettatori alla battaglia, non avendo più davanti a sé alcun tipo di ostacolo, si conquistarono parte del merito della vittoria abbattendosi sui nemici terrorizzati. Il massacro dei fuggitivi fu tremendo sia all'interno dell'accampamento che oltre le fortificazioni. Ma ancora più grande fu il bottino: i nemici riuscirono a portare con sé a malapena le armi. E anche il loro esercito sarebbe stato distrutto se il bosco non avesse offerto riparo a chi fuggiva.  


23)  Mentre ciò accadeva nei pressi di Anzio, gli Equi, mandato avanti il meglio dei loro giovani, con un'improvvisa sortita notturna si impossessano della cittadella di Tuscolo. Con il resto dell'esercito si attestano non lontano dalle mura della città per impegnare su più fronti le truppe nemiche. Quando queste notizie - dopo aver velocemente raggiunto Roma - arrivarono all'accampamento nei pressi di Anzio, i Romani ne furono sconvolti come se fosse stata annunciata l'occupazione del Campidoglio. Il ricordo del recente gesto meritorio compiuto dai Tuscolani e l'analoga situazione di pericolo esigevano che si contraccambiasse l'aiuto da loro prestato. 

Fabio, mettendo in secondo piano ogni altra cosa, trasporta rapidamente il bottino dall'accampamento ad Anzio e, lasciato qui un modesto presidio armato, a marce forzate si precipita a Tuscolo. Ai soldati non permise di prendere con sé nient'altro che le armi e il cibo già pronto e a portata di mano (gli approvvigionamenti li trasportò infatti il console Cornelio da Roma). La guerra di Tuscolo durò alcuni mesi. 

Con parte dell'esercito il console assediava l'accampamento degli Equi, mentre un'altra parte l'aveva affidata ai Tuscolani per riconquistare la cittadella. Ma in questo punto non si riuscì mai a entrare con la forza: fu la fame che alla fine scacciò i nemici di là. Quando furono allo stremo, i Tuscolani li costrinsero tutti, senza armi e nudi, a passare sotto il giogo. E mentre con una fuga vergognosa cercavano di riparare in patria, il console romano li intercettò sul monte Algido uccidendoli dal primo all'ultimo. 

Il vincitore, fatto ritirare l'esercito, si accampa presso Colume (questo è il nome del luogo). L'altro console, dopo che la sconfitta nemica aveva allontanato il pericolo dalle mura di Roma, si mise in marcia anche lui dalla città. Così, entrati nei territori nemici da due direzioni, i consoli con un'aspra lotta devastarono da una parte le terre dei Volsci e dall'altra quelle degli Equi. Presso la maggior parte degli autori ho trovato che in quello stesso anno ci fu una rivolta degli Anziati; avrebbe condotto la guerra contro di loro e preso la città il console Cornelio. Ma a dir la verità non me la sento di confermare la notizia perché gli storici più antichi non menzionano l'episodio. 


24)  Appena finita questa guerra, un'altra, suscitata in patria dai tribuni, semina il panico tra i patrizi. I tribuni protestavano a gran voce che era una truffa tener lontano dalla città l'esercito: quello era un espediente per boicottare la legge. Essi si impegnavano a portare a compimento l'iniziativa. Ciononostante, il prefetto della città Lucio Lucrezio ottenne che i tribuni procrastinassero ogni loro mossa fino all'arrivo dei consoli. Era sorta una nuova ragione di discordia: i questori Aulo Cornelio e Quinto Servilio avevano citato in giudizio Marco Volscio, accusandolo di testimonianza indubbiamente falsa nel processo a carico di Cesone. 

Era emerso da numerose prove che il fratello di Volscio, da quando si era ammalato, non soltanto non era mai stato visto in giro, ma non si era mai ristabilito e si era spento consumato da un male durato molti mesi; e che nei giorni in cui il testimone aveva collocato il delitto, Cesone non era stato visto a Roma (come affermavano i suoi commilitoni, i quali sostenevano che in quel periodo egli era sempre stato con loro al fronte, senza mai beneficiare di licenze). Per provare la veridicità di queste affermazioni, molti erano disposti a proporre a Volscio un arbitro privato. 

Ma siccome egli non osava comparire in giudizio, tutti questi elementi insieme congiurarono contro di lui, rendendo la condanna di Volscio non meno dubbia di quanto lo era stata quella di Cesone dopo la testimonianza di Volscio. I tribuni prendevano tempo e dicevano che non avrebbero permesso ai questori di tenere comizi sull'accusato se prima non si tenevano quelli sulla legge. Così entrambe le questioni vennero rinviate fino all'arrivo dei consoli. Quando questi entrarono in città con l'esercito vincitore, siccome non si parlava affatto della legge, molta gente pensò che i tribuni si fossero dati per vinti. 

Ma i tribuni, visto che l'anno era ormai agli sgoccioli, puntando a essere riconfermati nella carica per la quarta volta, avevano concentrato tutti i loro sforzi sui comizi elettorali, e nonostante l'accesa opposizione dei consoli - i quali si accanivano contro la riconferma dei tribuni con non meno livore di quanto ne avrebbero dimostrato se si fosse trattato di una legge volta a diminuire la loro autorità -, nello scontro ebbero la meglio i tribuni. In quello stesso anno gli Equi chiesero e ottennero la pace. Venne portato a termine il censimento iniziato l'anno precedente. 

Pare che quello fosse il decimo sacrificio lustrale compiuto dalla fondazione di Roma. I cittadini censiti risultarono essere 117.319. Per i consoli fu un anno di grande gloria tanto in politica interna che in àmbito militare: infatti, durante il loro mandato, non soltanto si arrivò ad ottenere la pace coi popoli confinanti, ma anche in città, pur non arrivando a una perfetta armonia tra le parti, ci furono meno tensioni del solito tra le classi. 


25)  Lucio Minucio e Gaio Nauzio, eletti consoli, ricevettero in eredità le due questioni lasciate in sospeso l'anno precedente. Come già successo in passato, i consoli cercavano di insabbiare la legge e i tribuni il processo a carico di Volscio. Ma i nuovi questori erano uomini di tutt'altro temperamento e influenza. Collega del questore Marco Valerio, figlio di Manio e nipote di Voleso, era Tito Quinzio Capitolino, già tre volte console in passato. Questi, non potendo restituire Cesone alla famiglia, né un giovane così eccezionalmente dotato al paese, si era impegnato in una guerra giusta e sacrosanta contro il falso testimone che aveva impedito a un innocente di perorare la propria causa. 

Mentre fra i tribuni soprattutto Verginio si impegnava di più per quella legge, ai consoli vennero dati due mesi di tempo per esaminarla in maniera tale che, dopo aver spiegato alla gente quali insidie nascondeva, potessero dare il via alle operazioni di voto. La concessione di questo intervallo riportò la calma in città. Ma gli Equi non lasciarono che la pace durasse troppo a lungo: violando infatti il trattato stipulato coi Romani l'anno precedente, affidano il comando a Gracco Clelio, allora la personalità di gran lunga più in vista tra gli Equi. Guidati da Gracco, invadono e saccheggiano senza pietà prima la zona di Labico e quindi quella di Tuscolo, per poi andarsi ad accampare, carichi del bottino, sull'Algido. 

Da Roma giunsero in quel campo in qualità di inviati Quinto Fabio, Publio Volumnio e Aulo Postumio per chiedere ragione delle offese arrecate e per pretendere, come previsto dal trattato, la restituzione di quanto razziato. Ma il comandante degli Equi intimò loro di andare a riferire alla quercia 65 qualunque messaggio avessero ricevuto dal senato di Roma nel mentre egli si sarebbe occupato d'altro. Un'enorme quercia sovrastava il pretorio che aveva sede sotto la sua densa ombra. Allora uno dei legati, ormai sul punto di andarsene, disse: 

«Che questa quercia sacra e le presenze divine del luogo - qualunque esse siano - sentano che siete stati voi a violare il trattato. Possano essere favorevoli ora alle nostre lamentele e presto alle nostre armi, quando vendicheremo la vostra contemporanea violazione dei diritti divini e umani.» Quando gli ambasciatori rientrarono a Roma, il senato ordinò che uno dei consoli guidasse l'esercito sull'Algido, contro Gracco, mentre all'altro diede l'incarico di mettere a ferro e fuoco il territorio degli Equi. I tribuni, com'era ormai loro abitudine, si misero a ostacolare la leva. E questa volta ce l'avrebbero quasi fatta se non fosse sopraggiunto all'improvviso un nuovo e inquietante allarme. 


26)  Ingenti forze sabine si spinsero a razziare fin sotto le mura: le campagne vennero devastate e in città fu subito il terrore. Allora la plebe prese di buon grado le armi e, tra le vane proteste dei tribuni, vennero arruolati due grandi eserciti. Con uno di essi Nauzio attaccò i Sabini. Dopo aver sistemato l'accampamento a Ereto, sfruttando per lo più la tecnica delle incursioni notturne affidate a pattuglie armate, provocò tali devastazioni nella campagna sabina che, al confronto, quella romana sembrava quasi non aver risentito della guerra. 

Minucio non ebbe invece, nel corso della campagna, la stessa buona sorte, né dimostrò analogo temperamento. Infatti, dopo essersi accampato non lontano dal nemico, pur non avendo subìto alcuna grave sconfitta, continuava a rimanere pavidamente all'interno dell'accampamento. Quando i nemici se ne resero conto, la loro audacia crebbe, come sempre succede, per i timori dell'avversario e, nel cuore della notte, assalirono l'accampamento. Fallito però l'attacco diretto, il giorno successivo circondano il luogo con fortificazioni. 

Ma prima che queste, erette lungo tutto il perimetro della trincea, potessero precludere ogni via d'uscita, cinque cavalieri riuscirono a incunearsi attraverso le postazioni nemiche e portarono a Roma la notizia che il console e l'esercito eran stretti d'assedio. In quel frangente non poteva succedere nulla di più inopinato e imprevedibile. Il panico e lo smarrimento furono così grandi, come se i nemici assediassero la città e non l'accampamento. 

Fu richiamato il console Nauzio. Ma siccome la sua protezione non sembrava sufficiente e alla gente andava a genio la nomina di un dittatore capace di rimediare a una situazione più che critica, tutti si trovarono d'accordo sul nome di Lucio Quinzio Cincinnato. Quanto segue merita l'attenzione di quelli che, eccetto il denaro, disprezzano tutte le cose umane e credono che non ci sia spazio per i grandi onori e per le virtù se non dove c'è profusione di ricchezze. 

Lucio Quinzio, unica speranza rimasta al popolo romano per l'affermazione del proprio dominio, coltivava un appezzamento di quattro iugeri al di là del Tevere (zona oggi nota come Prati Quinzi), proprio di fronte al luogo dove adesso ci sono i cantieri navali. E lì fu trovato dagli inviati: se poi stesse scavando una fossa piegato sulla pala oppure stesse arando, una cosa è certa, e ben nota a tutti: era intento a un lavoro agricolo. Dopo uno scambio di saluti, gli venne chiesto di mettersi la toga e di ascoltare quello che il senato gli mandava a dire, sperando che ciò si risolvesse nel bene suo e in quello della repubblica. 

Stupito domandò: «Va tutto bene, vero?» Quindi ordinò alla moglie Racilia di andare subito a prendere la sua toga dentro la capanna. Ripulitosi dalla polvere e deterso il sudore, si fece avanti con la toga addosso. Gli inviati lo salutano dittatore, si congratulano, lo invitano a tornare in città e gli illustrano l'allarmante situazione in cui versa l'esercito. Ad attenderlo era pronta una imbarcazione allestita a spese dello Stato. Dopo aver attraversato il fiume, sulla riva opposta gli andarono incontro i tre figli, seguiti da altri parenti e amici e poi dalla maggior parte dei senatori. 

Accompagnato da quella folla e preceduto dai littori, venne quindi scortato a casa sua. Accorsero numerosi anche i plebei; ma non gioirono troppo alla vista di Quinzio, perché ritenevano eccessivo il potere dittatoriale, e troppo autoritario l'uomo a cui quel potere era stato affidato. E quella notte in città non si fece altro che vegliare. 


27) Il giorno successivo il dittatore si presentò nel foro prima dell'alba e qui nominò maestro di cavalleria Lucio Tarquinio che, pur vantando origini patrizie, a causa della sua povertà aveva militato tra i fanti, meritandosi però sul campo la palma del migliore tra la gioventù romana. Arrivato in assemblea col suo nuovo maestro di cavalleria, il dittatore sospende l'attività giudiziaria, ordina la chiusura di tutte le botteghe cittadine e vieta a chiunque di occuparsi di qualsiasi faccenda privata. Inoltre tutti coloro che erano in età militare dovevano presentarsi in Campo Marzio con viveri per cinque giorni e dodici pioli a testa. 

A quelli che per l'età troppo avanzata non erano in grado di prestare servizio militare, ordinò di preparare il rancio caldo ai vicini mobilitati, mentre questi ispezionavano le armi e cercavano i pioli. Così i giovani si buttarono alla ricerca dei pioli: ciascuno li andò a prendere nel punto più vicino, senza mai trovare resistenza nella gente. E tutti furono puntualmente a disposizione come richiesto dal dittatore. Così, una volta organizzati gli uomini in maniera tale da averli pronti tanto alla marcia quanto al combattimento, qualora ce ne fosse stata la necessità, il dittatore in persona si mise a capo delle legioni, mentre il maestro di cavalleria andò a porsi alla testa dei suoi cavalieri. 

In entrambi gli schieramenti si udivano le incitazioni che le circostanze richiedevano. L'ordine era: accelerare il passo; bisognava fare presto per arrivare a contatto col nemico entro la notte. Il console e l'esercito romano erano intanto circondati dal nemico e ormai si trattava del terzo giorno dall'inizio dell'assedio. Cosa ogni giorno e ogni notte portino è difficile prevederlo. E il semplice istante rappresenta spesso la svolta per eventi di grandissima importanza. Anche i soldati, per compiacere i rispettivi comandanti, si gridavano tra di loro frasi come: «Portabandiera, accelera!» o «Uomini, seguitemi!». A mezzanotte arrivano sull'Algido e, intuendo di essere ormai prossimi al nemico, si fermano. 


28)  Lì il dittatore andò a ispezionare a cavallo l'estensione e la conformazione dell'accampamento, per quanto si poteva vedere di notte. Quindi ingiunse ai tribuni militari di far ammassare in un unico punto i bagagli e di far ritornare poi gli uomini nei rispettivi ranghi coi paletti e le armi. Quando i comandi furono eseguiti, egli, continuando a mantenere lo stesso ordine tenuto durante la marcia, con l'intero esercito inquadrato in lunghe colonne circonda l'accampamento nemico. Quindi ordina che tutti, a un determinato segnale, gridino con quanta voce hanno in gola e, dopo aver gridato, scavino un buco di fronte alla propria posizione e infine piantino dentro un paletto. 

All'ordine seguì sùbito il segnale. I soldati mettono in atto le parole del dittatore e le loro voci risuonano tutt'intorno al nemico, arrivando fino all'accampamento del console, dopo aver attraversato quello avversario. L'urlo semina da una parte il terrore, mentre dall'altra scatena un'immensa gioia. I Romani assediati, rendendosi conto che a gridare erano dei loro concittadini e che quindi erano arrivati i soccorsi, si rallegrarono e ricominciarono a spaventare i nemici dai posti di guardia e dalle altane. 

Il console disse che non c'era un minuto da perdere: quell'urlo non indicava soltanto l'arrivo dei rinforzi, ma anche che questi ultimi avevano iniziato a combattere. Anzi sarebbe stato strano se essi non avessero già assalito alle spalle l'accampamento nemico. Perciò ordina ai suoi di prendere le armi e di seguirlo. Quando si buttarono nella mischia era notte fonda: con un urlo fecero capire alle legioni del dittatore che anche da quella parte era cominciato lo scontro. 

Gli Equi si stavano già preparando a impedire l'accerchiamento delle fortificazioni, quando si videro investiti dagli assediati. Per evitare una sortita attraverso il loro accampamento, girarono la schiena a quelli che stavano costruendo la palizzata e si concentrarono sull'attacco proveniente dall'interno, lasciando che la costruzione procedesse indisturbata per il resto della notte e combattendo contro le truppe del console fino alle prime luci dell'alba. Quando fu giorno, erano ormai chiusi dal vallo del dittatore e riuscivano a malapena a tener testa a un solo esercito. 

Allora gli uomini di Quinzio, tornati rapidamente alle armi dopo aver finito la costruzione, si buttano all'assalto della trincea nemica. Qui ci fu una nuova battaglia, mentre l'altra cominciata prima continuava a infuriare. E allora i nemici, pressati dalla doppia minaccia che incombeva su di loro e passati dall'assalto armato alle più disperate implorazioni, supplicavano ora il dittatore, ora il console di non trasformare la vittoria in un massacro, ma di lasciarli andar via di lì senza le armi. Il console ordinò loro di andare dal dittatore che, in un accesso di rabbia, aggiunse condizioni infamanti. 

Cincinnato ordina infatti di condurgli in catene il comandante Gracco Clelio e gli altri capi, e di evacuare la città di Corbione. Disse che del sangue degli Equi poteva benissimo fare a meno; avrebbe concesso loro di andarsene, ma, perché finalmente ammettessero che il loro popolo era stato sottomesso e domato, essi avrebbero dovuto passare sotto il giogo. Venne allestito un giogo con tre aste, due erano piantate nel terreno, mentre la terza era legata di traverso sopra le altre. Sotto a questo giogo il dittatore fece passare gli Equi. 


29)  Dopo essersi impossessato dell'accampamento nemico che straripava d'ogni bendidio perché i suoi occupanti ne erano stati cacciati senza nulla addosso, Cincinnato divise l'intero bottino esclusivamente tra i suoi uomini. Poi, rimproverando l'esercito del console e il console stesso, disse: «Voi, o soldati, non parteciperete alla spartizione del bottino di quel nemico che per poco non ha fatto di voi la sua preda. Quanto a te, Lucio Minucio, finché non comincerai ad avere un animo degno di un console, comanderai queste legioni col grado di luogotenente.» 

Minucio rinuncia così al consolato, pur rimanendo con l'esercito in ottemperanza all'ordine ricevuto. Ma gli animi erano così pacificamente rivolti a obbedire ai comandi del migliore che l'esercito, memore dei benefici ricevuti più che dell'umiliazione subita, decretò al dittatore una corona d'oro del peso di una libbra: il giorno della sua partenza le truppe lo salutarono come loro protettore. A Roma intanto, in una seduta convocata dal prefetto della città Quinto Fabio, il senato ordinò a Quinzio di fare un ingresso trionfale in città con le sue truppe. 

Davanti al carro vennero fatti avanzare i comandanti nemici e le insegne militari conquistate. Dietro li seguiva l'esercito carico di bottino. Stando a quanto si dice, di fronte a tutte le case furono imbandite delle tavole e i soldati, innalzando l'inno trionfale e scambiandosi le tradizionali battute mentre marciavano festosi, seguirono il carro come se fossero in piena baldoria. Quel giorno Lucio Mamilio Tuscolano ottenne la cittadinanza con l'approvazione di tutti. 

Il dittatore avrebbe immediatamente rinunciato all'incarico, se il processo per falsa testimonianza a carico di Marco Volscio non lo avesse costretto a rimandare la propria decisione. Il timore del dittatore indusse i tribuni a non interferire nella cosa. Volscio fu condannato e andò in esilio a Lanuvio. A sedici giorni di distanza dalla nomina, Quinzio rinunciò alla dittatura che aveva assunto per un semestre. 

In quel periodo il console Nauzio combatté valorosamente ad Ereto contro i Sabini, così alla devastazione dei campi si aggiunse per i Sabini questa sconfitta. Fabio venne inviato sull'Algido come successore di Minucio. Verso la fine dell'anno ci furono altre agitazioni provocate dai tribuni per la questione della legge. Ma data la contemporanea assenza dei due eserciti, i senatori ottennero che nessuna proposta venisse portata di fronte al popolo. La plebe riuscì invece a far eleggere per la quinta volta gli stessi tribuni. Pare che sul Campidoglio furono visti dei lupi inseguiti da cani e che per tale prodigio il Campidoglio stesso venne sottoposto a un rito di purificazione. Questo è quanto accadde quell'anno. 


30)  I consoli successivi furono Quinto Minucio e Marco Orazio Pulvillo. All'inizio dell'anno, mentre coi paesi stranieri regnava la pace, in patria gli stessi tribuni e la stessa legge continuavano invece a causare disordini. E si sarebbe arrivati a chissà quali estremi - tanta era l'eccitazione degli animi - se, quasi a farlo apposta, non fosse arrivata la notizia che il presidio armato di Corbione era finito in mano agli Equi a séguito di un assalto notturno. I consoli convocano il senato; fu dato loro l'ordine di arruolare un esercito in fretta e furia e di condurlo sull'Algido. 

Accantonato quindi lo scontro sulla legge, ecco saltar fuori una nuova contesa sul problema della leva. E l'autorità dei consoli stava per avere la peggio per l'intervento dei tribuni, quando si venne ad aggiungere un nuovo terrore: un esercito sabino era calato in territorio romano per compiervi razzie e di là si dirigeva verso Roma. Questa notizia suscitò uno spavento tale che i tribuni permisero l'arruolamento, non senza aver prima ottenuto - siccome per cinque anni erano stati presi in giro riuscendo così di ben poco aiuto alla plebe - la garanzia che in futuro sarebbero stati eletti dieci tribuni. 

I patrizi furono costretti ad accettare, assicurandosi però con una clausola di non rivedere più, da quel giorno in poi, gli stessi tribuni. Si passò poi sùbito alla nomina dei tribuni, per evitare che quella promessa, come tutte le altre in passato, non venisse mantenuta una volta finita la guerra. A 36 anni di distanza dai primi, furono allora nominati dieci tribuni, due per ciascuna classe, e si stabilì che in futuro l'elezione avrebbe seguito la stessa procedura. Una volta effettuata la leva, Minucio marciò contro i Sabini, ma non trovò tracce del nemico. 

Orazio, siccome gli Equi, dopo aver eliminato il presidio di Corbione, avevano conquistato anche Ortona, li affronta sull'Algido, uccidendone una gran quantità e riuscendo a cacciarli non solo dall'Algido ma anche da Corbione e da Ortona. Corbione la rase addirittura al suolo per aver consegnato il presidio al nemico. 


31)  Vennero in séguito eletti consoli Marco Valerio e Spurio Verginio. La situazione si mantenne tranquilla in città e all'estero. Ci furono però problemi di approvvigionamento alimentare dovuti all'eccesso di piogge. Venne approvata una legge sull'apertura dell'Aventino all'insediamento privato. I tribuni della plebe furono riconfermati in carica. L'anno successivo, sotto il consolato di Tito Romilio e Gaio Veturio, in tutti i comizi tenuti non perdevano occasione per riportare il discorso sul tema della legge. 

Dicevano che si sarebbero vergognati dell'aumento di effettivi assegnato alla loro magistratura, se la legge durante il biennio del mandato avesse continuato a dormire com'era successo nei cinque anni precedenti. Mentre perseguivano questo scopo con determinazione, arrivano da Tuscolo dei messaggeri che in preda all'agitazione annunciano la presenza di Equi nel territorio di Tuscolo. Per le recenti benemerenze di quel popolo si ebbe ritegno a ritardare gli aiuti. Inviati entrambi i consoli con un esercito, essi trovarono il nemico nel suo solito alloggiamento sul monte Algido. 

Lo scontro avvenne lì. Più di 7.000 nemici furono uccisi, gli altri messi in fuga. L'ingente bottino, per le pessime condizioni finanziarie del paese, fu posto all'incanto dai consoli. La cosa creò tuttavia malcontento nelle file dell'esercito, fornendo così ai tribuni materia per accusare i consoli di fronte alla plebe. Per questo, quando allo scadere del loro mandato divennero consoli Spurio Tarpeio e Aulo Aternio, Romilio e Veturio vennero trascinati in tribunale rispettivamente dal tribuno della plebe Gaio Calvio Cicerone e dall'edile della plebe Lucio Alieno. 

Con grande indignazione dei patrizi, furono entrambi condannati a pene pecuniarie: Romilio a 10.000 assi e Veturio a 15.000. La disavventura dei predecessori non aveva comunque affievolito l'energia dei nuovi consoli: sostenevano che avrebbero sì potuto subire una condanna, ma di certo i tribuni e la plebe non sarebbero riusciti a far passare la legge. I tribuni, lasciata da parte la legge che a forza di essere presentata aveva ormai perso tutto il suo potere d'urto, adottarono maggiore moderazione nei confronti dei patrizi, invitandoli a porre fine agli scontri. 

Se le leggi proposte dai plebei non andavano a genio ai patrizi, questi avrebbero dovuto almeno consentire l'elezione collegiale di legislatori provenienti sia dalla plebe sia dal patriziato, in maniera tale che le proposte risultassero vantaggiose per entrambe le parti e assicurassero una pari libertà. I patrizi non disprezzavano l'iniziativa, ma sostenevano che le leggi non le poteva presentare nessuno che non fosse patrizio. Siccome c'era accordo sulle leggi, ma non su chi doveva proporle, vennero inviati ad Atene Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Publio Sulpicio Camerino con l'ordine di trascrivere le celebri leggi di Solone e di studiare a fondo le istituzioni, i costumi e i principi giuridici delle altre città greche. 


32)  Se quell'anno non venne turbato da guerre con paesi stranieri, l'anno successivo - sotto il consolato di Publio Curiazio e Sesto Quintilio - fu ancora più povero di conflitti per il lungo silenzio dei tribuni dovuto innanzitutto all'attesa del ritorno dei legati che erano andati ad Atene e delle leggi straniere che essi avrebbero portato con sé, e in secondo luogo per due atroci calamità abbattutesi contemporaneamente, cioè la fame e una pestilenza, funesta tanto per gli uomini quanto per gli animali.

 Le campagne si spopolarono, mentre la città si svuota per i continui funerali; molte famose famiglie erano in lutto. Morì il flàmine di Quirino Servio Cornelio e l'àugure Gaio Orazio Pulvillo, al cui posto il collegio degli àuguri nominò con entusiamo Gaio Veturio perché era stato condannato per volere della plebe. Morirono il console Quintilio e quattro tribuni della plebe. L'anno fu funestato da molte sciagure ma il nemico rimase tranquillo. I consoli successivi furono Gaio Menenio e Publio Sestio Capitolino. 

Neppure quell'anno vi furono guerre con paesi stranieri, ma scoppiarono disordini interni. Nel frattempo gli inviati erano tornati con le leggi dell'Attica. E proprio per questo i tribuni insistevano con sempre maggiore accanimento affinché si arrivasse finalmente a una codificazione scritta delle leggi. Si decise di nominare dei decemviri non soggetti al diritto d'appello e di non avere quell'anno nessun altro magistrato al di fuori di loro. Se i plebei avessero dovuto o meno prendere parte alla cosa fu argomento a lungo dibattuto. Alla fine ebbero la meglio i patrizi, a patto però che non venissero abrogate la legge Icilia riguardante l'Aventino e le altre leggi sacrate. 


33)  L'anno 302 dalla fondazione segnò per Roma una nuova trasformazione dell'assetto costituzionale: il potere supremo passò dai consoli ai decemviri, così come in precedenza era passato dai re ai consoli. Non si trattò di un cambiamento particolarmente significativo perché fu di breve durata. Dopo un felice inizio tale magistratura conobbe degli eccessi e, di conseguenza, l'innovazione tramontò rapidamente, ripristinando così l'uso di affidare a due uomini il titolo e l'autorità di consoli. 

Decemviri furono eletti Appio Claudio, Tito Genucio, Publio Sestio, Tito Veturio, Gaio Giulio, Aulo Manlio, Publio Sulpicio, Publio Curiazio, Tito Romilio e Spurio Postumio. A Claudio e a Genucio, dato che erano stati eletti consoli per quell'anno, la carica venne assegnata come compensazione dell'altra. Sestio, uno dei consoli dell'anno precedente, ebbe invece la nomina per aver portato l'iniziativa di fronte al senato nonostante l'opposizione del collega. 

Accanto a essi ebbero il privilegio di questa magistratura i tre senatori inviati ad Atene: la loro nomina non era soltanto il riconoscimento per una missione in terre tanto lontane, ma anche la garanzia che l'approfondimento delle leggi straniere maturato laggiù sarebbe stato di grande utilità nell'elaborazione di un nuovo sistema giuridico. Gli altri quattro eletti servirono a completare il numero. Si dice che le ultime nomine vennero affidate a uomini piuttosto anziani perché si opponessero con meno energia alle misure proposte dagli altri. 

Grazie al favore della plebe, il collegio dei decemviri era praticamente guidato da Appio: egli aveva mutato il suo carattere così nettamente che, dopo un passato da violento e inflessibile avversatore del popolo, da un giorno all'altro divenne un fedele amico della plebe, attentissimo a captarne gli alterni umori. A turno, ogni dieci giorni, ciascun magistrato amministrava la giustizia di fronte al popolo: in quel giorno, chi presiedeva la corte aveva diritto ai dodici fasci, mentre a ciascuno dei suoi nove colleghi toccava un unico messo. 

Dalla singolare armonia tra loro - accordo che talvolta non è di alcuna utilità per i privati cittadini - derivava la loro estrema equità nei confronti degli altri. A riprova di questa moderazione, sarà sufficiente citare un unico esempio. Pur essendo stati eletti a una magistratura che non prevedeva diritto d'appello, quando venne rinvenuto e portato di fronte all'assemblea un cadavere sepolto nella casa di Lucio Sestio, un patrizio, data l'atrocità manifesta della cosa, il decemviro Gaio Giulio citò Sestio in giudizio, accusandolo di fronte al popolo di un reato di cui era giudice legittimo, e rinunciò così a un suo diritto, che egli tolse al potere del magistrato per accrescere la libertà del popolo. 


34)  Mentre tutti i cittadini - dal più autorevole al meno in vista e senza alcuna parzialità - accoglievano questa giustizia tempestiva e incontaminata come se provenisse da un oracolo, i decemviri erano nel contempo alle prese con la rifondazione di un nuovo codice. Fra la grande attesa della gente, dopo aver esposto dieci tavole, convocarono il popolo in assemblea. E, augurandosi che ciò fosse buono e fausto per la repubblica, per loro e per i loro figli, ordinarono a tutti di andare a consultare di persona le leggi proposte. Per quanto era stato possibile alle capacità intellettuali di dieci uomini, dissero di aver messo sullo stesso piano i diritti di tutti, dai cittadini più altolocati a quelli meno in vista. 

Certo le menti e le proposte di molti avrebbero sortito esiti più efficaci. Che si considerasse dunque ogni singolo punto, se ne discutesse e alla fine si venisse a esporre di fronte a tutti gli eccessi e le inadeguatezze eventualmente riscontrati nei singoli articoli. Il popolo romano doveva avere delle leggi che sembrassero non solo essere state approvate, ma addirittura proposte dal consenso unanime della comunità. Quando sembrò che le leggi avessero subito sufficienti emendamenti alla luce delle opinioni espresse dalla gente sulle singole sezioni, i comizi centuriati approvarono e adottarono definitivamente le Leggi delle X Tavole, che ancor oggi, in questo immenso guazzabuglio di leggi accatastate caoticamente l'una sull'altra, restano la fonte di tutto il diritto pubblico e privato. 

In séguito cominciò a circolare la voce che mancassero ancora due tavole, aggiunte le quali il corpo del diritto romano si sarebbe potuto definire realizzato. Con le elezioni ormai alle porte, la speranza di completare le leggi fece crescere nella gente il desiderio di eleggere di nuovo dei decemviri. La plebe, al di là del fatto che detestava il nome dei consoli almeno tanto quanto quello dei re, ormai non andava nemmeno più a cercare l'aiuto dei tribuni, visto che in caso di appello i decemviri cedevano reciprocamente l'uno nei confronti dell'altro. 


35)  Ma quando venne annunciato che le elezioni dei decemviri si sarebbero tenute il terzo giorno di mercato, si scatenarono a tal punto le ambizioni che anche i cittadini più in vista - credo per paura che un simile potere, una volta lasciato libero il campo, potesse finire in mani non sufficientemente degne - cominciarono a sollecitare gli elettori, implorando da quella stessa plebe, con la quale avevano avuto non pochi scontri, una carica che avevano avversato con ogni mezzo. La prospettiva di dover lasciare in quel momento la posizione raggiunta, alla sua età, e dopo le cariche occupate, spronava Appio Claudio. 

Non si sapeva se annoverarlo tra i decemviri o tra i candidati. A volte si comportava come un aspirante alla magistratura e non come chi già la deteneva; diffamava gli ottimati, portava alle stelle i candidati più insignificanti e di bassi natali, andava girando qua e là per il foro in compagnia di ex-tribuni, con Duilii e Icilii, facendosi raccomandare da questi ultimi alla plebe. Finché anche i colleghi, i quali fino ad allora avevano dimostrato una straordinaria devozione nei suoi confronti, cominciarono a guardarlo stupiti, domandandosi che cosa gli passasse per la testa. Era chiaro che non agiva sinceramente: in un'indole così altezzosa tanta affabilità non era di certo senza scopo. 

Il suo troppo abbassarsi e il mescolarsi con privati cittadini non erano tanto gli atteggiamenti di uno ansioso di abbandonare una magistratura, quanto di uno che cercasse la strada migliore per prorogare la sua carica. Non osando opporsi apertamente alla sua sfrenata ambizione, cercano di frenarne gli slanci, assecondandolo. Essendo egli il collega più giovane, concordemente gli impongono di convocare i comizi. Si trattava di uno stratagemma per impedirgli di autoeleggersi, cosa che al di fuori dei tribuni della plebe - e questo era di per sé il peggiore dei precedenti - non aveva mai osato fare nessuno. 

Ma Appio, in realtà, pur avendo promesso con una preghiera augurale di presiedere le elezioni, riuscì a trasformare un ostacolo in un'occasione propizia. In un primo tempo, grazie ad alleanze elettorali, mise da parte nella corsa alla candidatura i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato, suo zio paterno Gaio Claudio, da sempre partigiano della causa aristocratica, nonché altri cittadini dello stesso rango. 

Proclamò decemviri invece degli individui che per eccellenza di vita non stavano alla pari degli esclusi, e primo se stesso, cosa questa che i cittadini onesti disapprovarono: nessuno avrebbe creduto che osasse arrivare a tanto. Insieme a lui furono eletti Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio Merenda, Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabuleio. 


36)  Fu allora che Appio depose la maschera. Da quel momento in poi ricominciò a essere se stesso e a plasmare a sua immagine e somiglianza i nuovi colleghi, ancor prima che entrassero in carica. Si incontravano tutti i giorni lontano dagli sguardi indiscreti e mettevano a punto programmi spregiudicati che maturavano in segreto. Ormai non cercavano nemmeno più di nascondere la loro arroganza, si lasciavano avvicinare di rado e facevano i difficili con chi rivolgeva loro la parola: così continuarono fino alle Idi di maggio. In quel tempo le Idi di maggio erano la data tradizionale per l'inizio delle magistrature. 

Così, appena assunto il potere, essi resero memorabile il primo giorno di magistratura con un'iniziativa terribilmente minacciosa. Infatti, mentre i predecessori nel decemvirato si erano attenuti con scrupolo alla disposizione secondo la quale soltanto un membro del collegio aveva diritto a portare i fasci e questa insegna regale doveva passare a turno a ciascuno di loro, i nuovi eletti si presentarono all'improvviso in pubblico ciascuno con dodici fasci. 

I 120 littori avevano invaso il foro brandendo davanti a sé le scuri tenute insieme dai fasci. I decemviri spiegarono che non c'era nessuna ragione di rimuovere le scuri perché la magistratura cui erano stati nominati non contemplava il diritto d'appello. Sembravano dieci re e ciò accrebbe il terrore non solo nei cittadini più umili, ma anche nei membri più influenti del senato, i quali sospettavano che i decemviri stessero cercando qualche pretesto per procedere a una strage: se qualcuno avesse osato, in senato o di fronte al popolo, intervenire in favore della libertà, verghe e scuri sarebbero state sciolte, magari solo per intimorire il resto della gente. 

Il popolo non aveva più alcuna garanzia dopo la soppressione del diritto d'appello; come se non bastasse, all'unanimità i decemviri eliminarono anche il diritto di opposizione interna, mentre i predecessori avevano tollerato che le sentenze da loro emesse venissero modificate su richiesta di un collega, accettando anche che talune cause, apparentemente di stretta competenza dei decemviri, venissero portate di fronte al popolo. Per un certo periodo il terrore fu uguale per tutti. 

Poi, a poco a poco, cominciò a concentrarsi interamente sulla plebe: i patrizi venivano lasciati in pace; i decemviri infierivano sui più umili con arbitraria crudeltà. Era tutta questione di persone, non di cause, visto che per quegli individui, invece dell'equità, contava l'influenza esercitata dal singolo. Manipolavano in privato le sentenze per poi andarle a pronunciare nel foro. Se qualcuno si appellava a uno di loro, se ne veniva via da quello a cui si era rivolto, pentendosi di non aver accettato la sentenza del primo. 

Nel frattempo si era anche diffusa una diceria di provenienza non accertata, secondo la quale i decemviri non si sarebbero limitati a concertare un operato criminoso per la sola durata della carica, ma, grazie a un patto giurato in segreto, avrebbero anche deciso di non tenere le elezioni e di conservare per sempre il potere conquistato una volta per tutte, protraendo così all'infinito il decemvirato. 


37)  Allora i plebei cominciarono a studiare con circospezione i volti dei patrizi, cercando di captare un soffio di libertà proprio in quella parte di cittadinanza che, per aver fatto loro balenare lo spettro della schiavitù, li aveva portati a ridurre il paese in quello stato. I capi dell'aristocrazia odiavano sia i decemviri sia la plebe. Non approvavano certo quello che si faceva, ma credevano anche che quel che accadeva la gente se lo meritasse. 

Non avevano alcuna intenzione di aiutare quanti, lanciati in una corsa dissennata verso la libertà, erano invece scivolati nella schiavitù, non volevano nemmeno aggiungere altri soprusi, nella speranza che il disgusto per la situazione facesse nascere il desiderio del ritorno ai due consoli e allo stato delle cose di un tempo. L'anno era ormai quasi alla fine, alle dieci tavole dell'anno precedente se n'erano aggiunte altre due, né c'era più alcun bisogno di considerare necessaria al paese quella magistratura, specie se quelle stesse leggi venivano approvate dai comizi centuriati. Si viveva nell'attesa che venissero indette le elezioni dei consoli. 

La plebe invece aveva un solo pensiero: trovare il modo di ristabilire l'autorità dei tribuni, che era la vera roccaforte della sua libertà e che in quel periodo era sospesa. Nel frattempo non si faceva alcun accenno a possibili elezioni. E i decemviri, che all'inizio - per la popolarità di un simile gesto - si erano fatti vedere dalla plebe in compagnia di ex-tribuni, ora si circondavano di giovani patrizi le cui bande stazionavano di fronte ai tribunali. Trattavano con impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto che era sempre il più forte ad avere ragione, qualunque capriccio gli fosse passato per la testa. 

Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le persone: si frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà non fosse fine a se stessa, all'esecuzione del proprietario seguiva la confisca dei beni. Corrotti da questi allettamenti, i giovani nobili non solo non si opponevano ai soprusi, ma dimostravano di preferire la propria sfrenatezza alla libertà di tutti. 


38)  Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo. Si piange la libertà come perduta per sempre; non c'è, e sembra che non ci possa essere nemmeno in futuro, chi sappia rivendicarla. 

Non si trattava soltanto di uno scoramento generale della popolazione: i paesi dei dintorni avevano infatti cominciato a disprezzare i Romani, ritenendo indegno che l'egemonia toccasse a un popolo privo di libertà. I Sabini fecero un'incursione in territorio romano con un largo spiegamento di truppe. Dopo aver devastato la campagna in lungo e in largo, riuscirono a portarsi via il bottino di uomini e bestiame, in tutta sicurezza. 

Quindi, al termine di varie scorrerie nel circondario, si andarono a chiudere ad Ereto, dove si accamparono, nella speranza che le discordie a Roma ostacolassero l'arruolamento. A creare scompiglio e agitazione non contribuivano soltanto i messaggeri in arrivo, ma anche le masse di contadini riversatesi in città dalle campagne. I decemviri, abbandonati al loro destino dall'odio tanto dei patrizi quanto dei plebei, si interrogano sul da farsi. La cattiva sorte aggiunse un altro motivo di terrore: gli Equi, provenienti da un'altra direzione, si andarono ad accampare sull'Algido e di lì, con rapide incursioni, si misero a devastare la zona di Tuscolo. 

Queste notizie arrivarono a Roma con i messaggeri inviati da Tuscolo per implorare aiuto. I decemviri furono così spaventati - due guerre contemporaneamente incombevano sulla città - che convocarono il senato. Ordinano di far chiamare i senatori nella curia, pur non ignorando quale ondata di risentimento covava nei loro confronti: tutti li avrebbero ritenuti responsabili delle devastazioni subite dalle campagne e dei pericoli che incombevano. 

Ciò avrebbe portato al tentativo di abolire la loro magistratura, se di comune accordo non avessero opposto resistenza e se, esercitando pesantemente la loro autorità nei confronti dei pochi veramente accaniti, non avessero represso le velleità degli altri. Quando nel foro si sentì la voce del banditore convocare i senatori nella curia presso i decemviri come se fosse una novità - l'usanza di consultare il senato era stata da tempo abbandonata - questo annuncio attirò una folla stupita che si domandava cosa mai fosse successo per spingere i decemviri a ripristinare una pratica da tempo desueta. 

Bisognava dire grazie ai nemici e alla guerra se succedeva qualcosa di assolutamente normale per una città libera. Si guardava in tutte le parti del foro per individuare dei senatori, ma raramente se ne vedeva qualcuno. Poi si guardava dentro la curia dove i decemviri se ne stavano tutti soli. Si interpretava in maniera diversa il fatto che i senatori non si fossero presentati: i decemviri sostenevano che ciò dipendesse dall'odio unanime nei confronti della loro carica, mentre la plebe sosteneva che i decemviri, essendo dei privati cittadini, non avevano il diritto di convocare il senato. 

Un vero passo avanti coloro che rivendicavano la libertà lo avrebbero fatto se la plebe avesse collaborato col senato, e se, come i senatori che non si erano presentati in senato, pur essendo stati convocati, così la plebe avesse rifiutato di arruolarsi. Questo vociferava la gente. Quasi nessuno dei senatori era nel foro, pochi erano presenti in città. Indignati per la situazione, si erano ritirati in campagna, e si curavano dei loro affari privati trascurando invece l'interesse della comunità. I senatori pensavano infatti che tanto più sarebbero stati sicuri quanto più avessero evitato contatti e rapporti con i tirannici padroni al potere. 

Quando, nonostante la convocazione, essi non si presentarono, vennero inviati alle loro case dei pubblici ufficiali con il duplice cómpito di effettuare pignoramenti a titolo di sanzione e di chiedere se quelle assenze erano deliberate. I messi tornarono riferendo che i senatori erano in campagna. I decemviri accolsero la notizia con maggiore piacere di quanto ne avrebbero avuto se fosse stato annunciato loro che si trovavano in città, ma non avevano intenzione di attenersi alle disposizioni. 

Ordinano quindi una convocazione generale e fissano una seduta del senato per il giorno successivo; e i senatori vennero più numerosi di quanto essi non avessero sperato. Ma proprio per questo motivo la plebe pensava che la libertà era stata tradita dai senatori: essi, come se l'ingiunzione fosse legale, avevano obbedito a uomini che non erano più magistrati e che, senza l'uso della forza, sarebbero stati dei privati cittadini. 


39)  Ma l'obbedienza dimostrata nel presentarsi in senato fu, a quanto si dice, superiore alla remissività con la quale esposero il proprio punto di vista. Si racconta che Lucio Valerio Potito, dopo la proposta avanzata da Appio Claudio e prima che i senatori venissero chiamati in successione a esporre le proprie opinioni, chiese di essere autorizzato a parlare della situazione in cui versava lo Stato. Ma siccome i decemviri cercavano di impedirglielo ricorrendo all'intimidazione, Valerio fece scoppiare un pandemonio dichiarando di volersi presentare di fronte al popolo. 

Nel dibattito Marco Orazio Barbato non dimostrò minor veemenza: chiamò i decemviri dieci Tarquini, ricordando loro che erano stati i Valeri e gli Orazi a scacciare i re. E non era stato il nome di re ciò che allora aveva disgustato la gente, in quanto proprio con quel nome era consuetudine chiamare Giove, così come Romolo, fondatore della città, e in séguito i suoi successori, e il nome poi si era mantenuto come titolo solenne in àmbito religioso. No, quello che il popolo aveva detestato nelle persone dei re erano state l'arroganza e la crudeltà. 

E se queste caratteristiche si erano allora rivelate insopportabili in un re o nel figlio di un re, adesso chi le avrebbe potute tollerare in tanti privati cittadini? Che stessero quindi bene attenti a non privare della libertà di parola i presenti in curia, costringendoli ad alzare la voce fuori dalla curia. E poi non riusciva a vedere come fosse meno lecito a lui - un privato cittadino - convocare il popolo in assemblea di quanto non lo fosse a loro costringere il senato. 

Avrebbero potuto verificare in qualsiasi momento quanto più forte potesse essere l'esasperazione di un uomo chiamato a rivendicare la propria libertà rispetto alla smodata ingordigia di chi difende un potere fondato sull'ingiustizia. E loro, i decemviri, venivano poi a parlare della guerra contro i Sabini, come se per il popolo romano qualunque guerra potesse essere più importante di quella da combattersi contro coloro che, eletti proprio per proporre delle leggi, non avevano lasciato nemmeno le tracce della legalità all'interno del paese, spazzando via le regolari assemblee, le magistrature annue, l'avvicendamento del potere - unica garanzia di uguale libertà - arrivando fino a insignirsi delle fasce e del potere dei re, pur essendo privati cittadini. 

Dopo la cacciata dei re, c'erano stati dei magistrati patrizi, mentre a séguito della secessione della plebe la nomina era toccata anche ai plebei: ma loro, i decemviri - si domandava Valerio - di quale parte erano? Popolare? Ma cosa avevano mai fatto per il popolo? O erano forse degli aristocratici? Loro che, per quasi un anno, non avevano convocato il senato, ora che lo avevano riunito impedivano di dibattere il problema dello Stato? Che non ponessero troppa speranza nell'altrui terrore: quello di cui ora soffriva sembrava ormai alla gente più gravoso di quello che temeva per il futuro. 


40)  Di fronte all'attacco di Orazio, i decemviri non sapevano se era il caso di indignarsi o di lasciar perdere, e non capivano quale piega avrebbe preso la cosa. Gaio Claudio, che era lo zio paterno di Appio Claudio, pronunciò un discorso più simile a un'implorazione che a una requisitoria. In nome dei Mani di suo fratello, padre di Appio, supplicò il nipote di ricordarsi del consorzio civile all'interno del quale era nato piuttosto che dello scellerato patto stipulato insieme ai colleghi. Questa supplica gliela rivolgeva più nel suo interesse che non in quello del paese. Perché la repubblica avrebbe rivendicato il proprio diritto contro la loro volontà, se i decemviri non erano in grado di garantirlo spontaneamente. Ma grandi scontri di solito generano grandi rancori: e Claudio ne temeva gli esiti. 

Benché i decemviri volessero evitare che il dibattito si spostasse su temi estranei a quelli posti all'ordine del giorno, tuttavia non ebbero il coraggio di interrompere Claudio. Egli quindi espresse il parere che il senato non doveva prendere alcuna decisione. Così tutti compresero che Claudio riteneva i decemviri privati cittadini. E molti degli ex-consoli si dimostrarono d'accordo. Un'altra proposta, apparentemente più spregiudicata ma di fatto molto meno drastica della precedente, invitava i patrizi a riunirsi per nominare un interré. 

Varando infatti un qualsiasi provvedimento, venivano riconosciuti magistrati quelli che avevano convocato il senato, mentre sarebbero rimasti privati cittadini se invece si accettava la proposta di chi caldeggiava la completa astensione dall'attività. Mentre la posizione dei decemviri era sempre più in bilico, Lucio Cornelio Maluginense, fratello del decemviro Marco Cornelio, cui era stato intenzionalmente riservato l'ultimo intervento nel dibattito, in un primo tempo si mise a difendere il fratello e il resto del collegio fingendo di essere in apprensione per la guerra, e poi disse di essersi curiosamente domandato in base a quale fatalità avesse potuto succedere che contro i decemviri si fossero scagliati - soltanto o soprattutto - proprio quelli che avevano puntato al decemvirato; e perché mai, mentre nel corso di tutti quei mesi di pace interna nessuno di loro aveva posto in discussione la legittimità dei magistrati preposti alle più alte cariche, e soltanto adesso, coi nemici ormai quasi alle porte, si mettessero ad alimentare dissensi tra i cittadini; a meno che non pensassero che in uno stato di confusione i reali motivi del loro comportamento si sarebbero rivelati meno perspicui. 

Quanto al resto, non era forse meglio non pregiudicare una questione tanto importante quando le menti erano occupate da un pensiero ben più grave? Intorno all'accusa mossa da Valerio e Orazio secondo la quale i decemviri avrebbero dovuto uscire di carica prima delle Idi di maggio, Cornelio disse che a suo parere la questione andava dibattuta in senato, non prima però di aver posto fine alle guerre incombenti e di aver riportato la pace nello Stato. 

Appio Claudio si tenesse pronto già fin da allora a rendere conto dei comizi per elezioni dei decemviri che egli stesso, un decemviro, aveva presieduto: se erano stati nominati per un anno oppure fino a quando non fossero state approvate le leggi mancanti. Quanto poi al presente, l'opinione di Cornelio era che ci si dovesse occupare esclusivamente della guerra. 

Se poi le voci riguardanti la guerra si dimostravano infondate e i senatori ritenevano che non solo i messaggeri romani ma anche gli ambasciatori dei Tuscolani avessero riferito delle notizie prive di senso, allora - questo quanto lui suggeriva - sarebbe stato necessario inviare sul posto delle pattuglie di ricognizione perché riportassero informazioni più sicure dopo aver attentamente esaminato la situazione. Se invece si prestava fede ai messaggeri romani e agli ambasciatori, si facesse al più presto la leva, i decemviri guidassero gli eserciti dove sarebbe parso più opportuno a ciascuno di loro; si desse alla guerra la precedenza assoluta su ogni altra questione. 


41)  I giovani senatori erano ormai riusciti a far prevalere questa proposta. Allora Valerio e Orazio, con maggior furore, chiesero gridando che fosse loro concesso di parlare sulla situazione dello Stato. Avrebbero parlato al popolo, se con raggiri non fosse stato loro concesso di farlo in senato. Infatti dei privati cittadini non potevano certo opporsi né nella curia né nell'assemblea: essi non si sarebbero fermati di fronte ai loro fasci che rappresentavano un potere del tutto inesistente. 

Appio allora, pensando che la sua autorità avesse ormai i minuti contati, se non reagiva con audacia pari alla loro violenza, disse: «Fareste bene ad aprire bocca soltanto sugli argomenti sui quali vi consultiamo!» E siccome Valerio sosteneva di non poter essere zittito da un privato cittadino, Appio ordinò a un littore di mettersi al suo fianco. E mentre Valerio dal fondo della curia implorava l'aiuto dei Quiriti, Lucio Cornelio andò a trattenere Appio e, fingendo di intervenire a favore dell'altro, pose fine alla contesa. 

Così, grazie a Cornelio, a Valerio fu concesso di trattare i temi che più gli stavano a cuore; ma poiché non ebbe altra libertà che quella di parlare, i decemviri ottennero ciò che si erano prefissati. Perfino gli ex-consoli e i senatori più anziani, a causa dell'odio che continuavano a nutrire nei confronti del potere dei tribuni - a loro detta rimpianto dalla plebe più del potere consolare - preferivano che col tempo i decemviri rinunciassero volontariamente alla carica piuttosto che il risentimento nei loro confronti portasse a una nuova insurrezione della plebe. 

Se il potere fosse tornato ai consoli gradatamente e senza tumulti di piazza, essi, grazie allo scoppio di qualche guerra o in virtù della moderazione dimostrata dai consoli nell'esercizio delle proprie funzioni di comando, sarebbero riusciti a far dimenticare alla plebe i tribuni. Viene bandita la leva senza opposizioni da parte dei senatori. Siccome il decemvirato non ammetteva il diritto d'appello, i giovani rispondono alla chiamata. 

Una volta arruolate le legioni, i decemviri si consultano tra di loro per decidere chi debba andare in guerra e a chi tocchi il comando delle truppe. Tra i decemviri più autorevoli erano Quinto Fabio e Appio Claudio. Ma la guerra intestina dava l'impressione di essere più preoccupante di quella col nemico. Il carattere impetuoso di Appio sembrò loro più adatto a reprimere le sommosse cittadine. L'indole di Fabio era invece più incostante nel bene che solerte nel male. 

E Fabio - distintosi in passato tanto per meriti civili quanto militari - era stato trasformato in maniera così profonda dalla carica di decemviro e dai colleghi che adesso preferiva essere simile ad Appio piuttosto che a se stesso. Gli venne affidata la campagna contro i Sabini e come colleghi ebbe Manio Rabuleio e Quinto Petelio. Marco Cornelio fu invece inviato sull'Algido insieme a Lucio Minucio, Tito Antonio, Cesone Duilio e Marco Sergio. Ad Appio Claudio affidarono come aiutante nella difesa di Roma Spurio Oppio, conferendo lo stesso potere a tutti i decemviri. 


42)  Il paese, adesso che era in guerra, non conobbe una gestione migliore di quella avuta in tempo di pace. La sola colpa dei comandanti fu quella di essersi resi invisi agli occhi dei cittadini. Il resto della responsabilità gravava quasi per intero sulle spalle dei soldati i quali, volendo evitare che sotto la guida e gli auspici dei decemviri qualunque iniziativa avesse esito favorevole, si lasciavano sconfiggere di proposito, coprendo di ignominia se stessi e i loro comandanti. 

Gli eserciti vennero così sbaragliati sia dai Sabini a Ereto, sia dagli Equi sull'Algido. Da Ereto, fuggendo nel silenzio della notte, si andarono ad accampare nei pressi di Roma, in un punto leggermente rialzato a metà strada tra Fidene e Crustumeria. Incalzati dai nemici, non si avventuravano mai a combattere in campo aperto, ma si facevano difendere dalla natura del luogo e dalla trincea, non dal loro valore e dalle armi. Sul monte Algido il disonore fu ancora più grande e più grave la sconfitta: perduto l'accampamento e privati di tutto l'equipaggiamento, i soldati ripararono a Tuscolo, sperando nel sostegno e nella sincera compassione degli ospiti che in verità non vennero loro a mancare. 

A Roma erano arrivate notizie così allarmanti che i patrizi, lasciando da parte l'odio verso i decemviri, ritennero opportuno disporre delle sentinelle in città e ordinare che tutti gli uomini in età di portare le armi andassero a proteggere le mura e costituissero posti di guardia in prossimità delle porte. Quindi decisero che s'inviassero rinforzi a Tuscolo, che i decemviri scendessero dalla cittadella di Tuscolo e trattenessero i soldati nell'accampamento, che l'altro campo fosse spostato da Fidene alla campagna sabina; il ritorno all'offensiva avrebbe distolto il nemico dal proposito di assediare Roma. 


43)  Ai disastri dovuti al nemico, i decemviri aggiunsero anche due orrendi crimini, sul campo di battaglia e in patria. Nelle truppe opposte ai Sabini militava Lucio Siccio. Questi, facendo leva sul risentimento nei confronti dei decemviri, si sarebbe messo a solleticare la massa dei soldati arringandoli in segreto con discorsi sulla necessità di eleggere dei tribuni e di ripetere la secessione. Per questo i comandanti lo mandarono a cercare un luogo adatto all'accampamento, dando disposizione agli uomini scelti per accompagnarlo nella spedizione di eliminarlo non appena si fossero trovati in una zona adatta. 

Ma Siccio non morì senza vendicarsi. Infatti, mentre cercava di difendersi battendosi come poteva, sul campo rimasero accanto al suo i cadaveri di alcuni dei sicari, perché, pur essendo stato circondato, era fortissimo e lottava con un coraggio pari alla gagliardia fisica. Gli scampati, al ritorno nell'accampamento, riferirono di esser caduti in un'imboscata, sottolineando che Siccio era morto combattendo valorosamente e che con lui erano caduti anche altri. 

Sulle prime si credette a questa versione dei fatti. Quando in séguito, col permesso dei decemviri, gli uomini di una coorte vennero inviati sul luogo dell'imboscata per seppellire i cadaveri, notando che i corpi non presentavano tracce di spoliazione e che quello di Siccio giaceva armato nel mezzo con tutti gli altri disposti intorno e rivolti verso il suo, e vedendo che non c'erano cadaveri di nemici né tracce della loro ritirata, ne riportarono indietro la salma, affermando con assoluta certezza che era stato ucciso dai suoi stessi compagni. 

L'indignazione pervase l'accampamento: e anche se tutti erano dell'avviso che il corpo di Siccio dovesse essere immediatamente portato a Roma, i decemviri si affrettarono a far celebrare un funerale militare a spese dello Stato. Siccio venne sepolto nel cordoglio generale, e la fama dei decemviri peggiorò agli occhi di tutti. 


44)  A questo orribile episodio ne seguì in città un altro, nato dalla libidine. Le conseguenze non furono tuttavia meno disastrose di quelle che, a causa dello stupro e del suicidio di Lucrezia, avevano in passato portato alla cacciata dei Tarquini dal trono e da Roma. Così non soltanto la fine dei decemviri e dei re fu uguale, ma uguale fu anche la causa della perdita del potere. Appio Claudio venne preso dalla smania di possedere una vergine plebea. 

Il padre della ragazza, un uomo esemplare in pace e in guerra, comandava con onore una centuria sull'Algido. Nello stesso modo era stata educata sua moglie e la stessa educazione ricevevano i figli. Egli aveva promesso in sposa la figlia all'ex-tribuno Lucio Icilio, un uomo risoluto e di provato coraggio nelle lotte a favore della plebe. 

Appio, innamorato pazzo della ragazza - ormai adulta e straordinariamente bella - tentò di sedurla con proposte di denaro e con promesse. Ma, quando si rese conto che il pudore della ragazza gli precludeva ogni via, decise di ricorrere a una crudele e arrogante violenza. Diede disposizione a un suo cliente di nome Marco Claudio di andare a reclamare la ragazza come sua schiava e di non cedere di fronte a chi ne chiedesse la libertà provvisoria, pensando che l'assenza del padre fosse una circostanza favorevole a quel sopruso. 

Così, mentre la ragazza si stava recando nel foro - dove, nei padiglioni, avevano sede le scuole - il mezzano della libidine del decemviro le mise le mani addosso dicendo che era una schiava, figlia di una sua schiava, e le ordinò di seguirlo: se avesse opposto resistenza l'avrebbe trascinata via con la forza. La ragazza, sbigottita, rimase senza parole, ma le urla della nutrice, che implorava a gran voce la protezione dei Quiriti, fecero súbito accorrere molta gente. 

I nomi di Verginio, il padre, e di Icilio, il fidanzato, erano sulla bocca di tutti. Per la stima di cui essi godevano presero le parti della ragazza i conoscenti, per l'indegnità dell'affronto la folla. La ragazza era ormai al sicuro dalla violenza, quando colui che la reclamava protestò dicendo che tutta quella gente non aveva alcun motivo di agitarsi: egli procedeva legalmente e non con la forza. Quindi citò la ragazza in giudizio. Siccome gli astanti che l'avevano aiutata le consigliarono di seguirlo, si presentarono tutti di fronte al tribunale di Appio. 

Lì l'accusatore inscenò una commedia ben nota al giudice - proprio lui ne aveva congegnato la trama -: la ragazza, nata nella sua casa, era in séguito stata rapita e portata in quella di Verginio, al quale era stata fatta passare per figlia sua. Diceva di avere le prove e di essere in grado di dimostrarlo al giudice, anche se fosse stato Verginio in persona, al quale toccava il danno maggiore. Per il momento era giusto che la schiava seguisse il padrone. I difensori della ragazza dissero che Verginio non era in città perché serviva la repubblica: se fosse stato informato, tempo due giorni, si sarebbe presentato. 

Siccome era ingiusto che si trovasse coinvolto in una controversia legata ai figli proprio durante la sua assenza, chiesero ad Appio di sospendere il giudizio fino al ritorno del padre, in maniera tale che, in base alla legge fatta approvare proprio da lui, si garantisse la libertà provvisoria alla ragazza, e non si permettesse così che la reputazione di una giovane illibata potesse esser messa in pericolo ancor prima che venisse emanato un giudizio circa la sua libertà. 


45)  Appio prima di pronunziarsi sottolineò quanto egli fosse favorevole alla libertà: lo dimostrava proprio la legge invocata dagli amici di Verginio per sostenere la loro richiesta. Tuttavia tale legge avrebbe continuato a essere una garanzia sicura per la libertà, solo a patto che non subisse modifiche a seconda delle situazioni e delle persone: infatti nei casi di rivendicazione della libertà - visto che chiunque poteva intentare una simile azione legale - la libertà provvisoria era un diritto garantito. Ma, nel caso di una donna che si trovava sotto l'autorità paterna, allora la sola persona a favore della quale il padrone doveva rinunciare al possesso era appunto il padre. 

Di conseguenza sentenziò di farlo chiamare. Nel frattempo colui che la rivendicava non avrebbe dovuto esser privato del diritto di portarsi a casa la ragazza, promettendo però di farla comparire una volta che fosse arrivata la persona che sosteneva di esserne il padre. Contro l'ingiustizia della decisione si levò un mormorio di disapprovazione, senza però che neppure uno osasse opporvisi apertamente. A questo punto arrivarono Publio Numitorio, lo zio materno della ragazza, e il fidanzato Icilio. La folla fece loro largo poiché pensava che Icilio, col suo intervento, potesse opporsi ad Appio; un littore disse che ormai il verdetto era stato emesso e allontanò con la forza Icilio che protestava a gran voce. 

Un affronto tanto crudele avrebbe infiammato anche un temperamento mite. «Se vuoi cacciarmi via di qua, o Appio, sperando di far passare sotto silenzio ciò che non vuoi venga alla luce,» gridò Icilio, «dovrai ricorrere alle armi. Questa ragazza diventerà mia moglie e per ciò io voglio che sia pura il giorno delle nozze. Dunque chiama pure tutti i littori, anche quelli dei colleghi, ordina che si tengano pronti con le verghe e con le scuri, ma stai pur sicuro che la promessa sposa di Icilio non passerà la notte fuori dalla casa di suo padre. 

Se siete riusciti a togliere alla plebe romana il sostegno dei tribuni e il diritto di appello, due baluardi a difesa della libertà, non per questo è stato concesso alla vostra lussuria pieno potere sui nostri figli e sulle nostre mogli. Infierite pure sulle nostre spalle e sulle nostre teste, ma almeno lasciate stare la castità delle donne. Se invece cercherete di violarla con l'uso della forza, allora a difesa della mia promessa sposa io invocherò l'aiuto dei Quiriti qui presenti, Verginio, per proteggere la sua unica figlia, quello dei commilitoni e tutti noi quello degli Dei e degli uomini, mentre tu non riuscirai a eseguire questa sentenza senza versare il nostro sangue. 

Io ti chiedo, Appio, di valutare con estrema attenzione la strada che hai intenzione di percorrere. Verginio deciderà cosa fare per la figlia non appena sarà qui. Ma di una cosa soltanto stai pur certo: se si piegherà alle pretese di quest'uomo, dovrà cercare un altro marito per la figlia. Quanto a me, nel rivendicare la libertà della mia promessa sposa, rinuncerò prima alla vita che alla parola data.» 


46)  La folla era in fermento e sembrava imminente uno scontro. I littori avevano circondato Icilio, pur senza spingersi al di là delle minacce, benché Appio dicesse che lo scopo di Icilio non era di difendere Verginia ma, da uomo turbolento e ribollente di spirito tribunizio, di cercare un pretesto per suscitare disordini. Lui, quel giorno, non gliene avrebbe comunque fornito l'occasione. Ma sapesse sin da ora che il trattamento di favore veniva concesso non alla sua insolenza, ma all'assenza di Verginio, al nome di padre e alla libertà. 

Lui, Appio, quel giorno non avrebbe emanato un verdetto né anticipato alcuna decisione; avrebbe chiesto a Marco Claudio di rinunciare al suo diritto e di lasciare libera la ragazza fino al giorno seguente. Se poi l'indomani il padre non si fosse presentato, rendeva noto a Icilio e a quelli come lui che né il legislatore sarebbe venuto meno alla propria legge né la fermezza sarebbe venuta meno al decemviro. Non avrebbe fatto ricorso ai littori dei colleghi: per domare i responsabili dei disordini sarebbero bastati i suoi. Dato che il sopruso era stato differito e i difensori della ragazza se ne erano andati, si decise che prima di tutto il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio, due giovani risoluti, si dirigessero in fretta verso la porta della città e poi corressero all'accampamento a chiamare Verginio. 

La salvezza della ragazza era legata al suo presentarsi il giorno seguente a vendicare il torto subìto. Partiti al galoppo con questa missione da compiere, i due giovani riferiscono il messaggio a Verginio. Siccome l'individuo che rivendicava la ragazza insisteva perché Icilio ne richiedesse la libertà provvisoria e desse dei garanti e Icilio rispondeva che stava occupandosi proprio di quello - anche se a dir la verità faceva del suo meglio per prendere tempo, in modo tale che i messaggeri inviati all'accampamento potessero guadagnare del vantaggio - tra la folla si alzarono mani da ogni parte e tutti si dichiararono pronti a farsi mallevadori per Icilio. Egli, in preda alla commozione, disse: 

«Vi sono riconoscente: domani ci sarà bisogno del vostro aiuto. Di garanti ora ne ho più che a sufficienza.» Così, grazie alla malleveria dei congiunti, a Verginia venne garantita la libertà provvisoria. Appio aspettò un poco, per non dare l'impressione di essersi seduto solo per quella causa. Quindi, visto che non si presentava più nessuno (la gente, avendo dimenticato tutto il resto, aveva ormai un solo pensiero per la testa), se ne tornò a casa dove scrisse una lettera ai colleghi che si trovavano nell'accampamento, pregandoli di non concedere licenze a Verginio e di metterlo addirittura agli arresti. Ma il suo piano malvagio venne - come giustamente meritava - messo in pratica troppo tardi: Verginio aveva già ottenuto il permesso ed era partito all'imbrunire, mentre la lettera che gli doveva impedire la partenza fu consegnata inutilmente la mattina successiva.


47)  A Roma stava albeggiando quando la gente, in piedi in trepida attesa nel foro, vide arrivare insieme a una folla di sostenitori Verginio vestito a lutto e con al braccio la figlia - anche lei vestita senza la minima cura - e accompagnati da alcune matrone. Lì egli cominciò ad andare in giro in mezzo alla folla e a sollecitare i singoli, non limitandosi a chiedere aiuto per misericordia, ma esigendolo come cosa dovuta. Diceva di essere ogni giorno in prima linea a difesa dei loro figli e delle loro mogli, e sosteneva che di nessun altro soldato si potevano menzionare gesta più coraggiose e audaci compiute in guerra. 

A cosa giovava se, in una città incolume, i suoi figli dovevano subire gli estremi mali che si temono in una città conquistata? Si aggirava tra la gente dicendo queste cose come se fosse stato nel pieno di un'arringa. Appelli del tutto simili venivano lanciati da Icilio. Ma il pianto silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso. Di fronte a tutte queste manifestazioni, Appio, con un pensiero fisso - tanta era la forza della follia, non dell'amore, che gli aveva sconvolto la mente - salì sul banco del tribunale. 

E mentre colui che rivendicava la ragazza si stava brevemente lamentando perché il giorno precedente non gli era stata resa giustizia per brighe illegali, prima ancora che avesse completato la richiesta o Verginio avesse avuto l'opportunità di ribattere, Appio lo interruppe. Forse qualche versione tramandata dagli antichi autori del discorso che egli premise alla sentenza risponde al vero. Ma dato che, per l'enormità della sentenza, non mi è stato possibile trovarne una che fosse plausibile, mi sembra opportuno riferire i nudi fatti riconosciuti da tutti; cioè che Appio accordò la schiavitù provvisoria.

Dapprima lo stupore destato da una simile atrocità paralizzò tutti e per qualche minuto fu il silenzio generale. Poi, quando Marco Claudio, che si era fatto largo tra le matrone per afferrare la ragazza, venne accolto dal coro di singhiozzi e di lacrime delle donne, Verginio, minacciando Appio con il pugno chiuso, gridò: «Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!» Quando l'individuo che reclamava la ragazza venne respinto dal gruppo di donne e di conoscenti che le stavano attorno, un araldo ordinò di fare silenzio. 


48)  Il decemviro allora, pazzo di libidine, dicendo di non basarsi soltanto sugli schiamazzi di Icilio del giorno prima e sulla violenza di Verginio (di cui era stato testimone il popolo romano), ma avvalendosi anche di certe informazioni avute, affermò di sapere per certo che durante tutta la notte si erano tenute in città delle riunioni con l'intento di organizzare una rivolta. Essendo quindi al corrente di quel progetto bellicoso, era sceso nel foro accompagnato da una scorta armata, certo non per usare violenza ai cittadini pacifici, ma, conformandosi alle attribuzioni della sua carica, per schiacciare chi turbava la quiete pubblica. 

«Da questo momento in poi, sarà meglio non agitarsi troppo. Vai, littore,» gridò quindi, «allontana la folla e lascia libero il passaggio al padrone perché possa prendere la sua schiava!» Dopo che Appio ebbe rabbiosamente tuonato queste parole, la folla si disperse spontaneamente, e la ragazza rimase sola, preda dell'ingiustizia. 

Allora Verginio, rendendosi conto di non poter più contare su alcun sostegno, disse: «Innanzitutto, Appio, ti prego di perdonare il dolore di un padre se poco fa ho inveito contro di te con molta durezza. In secondo luogo permettimi di domandare alla nutrice, qui in presenza della ragazza, come stanno le cose, cosicché se mi si è dato del padre e non era vero, almeno io possa andarmene con l'animo un po' più sollevato.» 

Ottenuto il permesso, prese con sé figlia e nutrice e le portò presso il tempio di Venere Cloacina, vicino alle botteghe che adesso si chiamano Nuove. Lì, dopo aver afferrato un coltello da macellaio, disse: «Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia disposizione!» Detto questo, trafisse il petto della ragazza e quindi, rivolgendo lo sguardo al tribunale, gridò: «Con questo sangue, Appio, io consegno te e la tua testa alla vendetta degli Dei!» 

L'urlo che seguì questo atroce episodio attirò l'attenzione di Appio il quale ordinò l'arresto di Verginio. Questi però, facendosi largo col ferro dovunque passava e con la protezione della folla che gli faceva da scorta, riuscì a raggiungere la porta della città. Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. 

Dietro di loro le urla disperate delle matrone che in lacrime si domandavano se fossero quelle le condizioni nelle quali i bambini venivano messi al mondo e se fosse quello il premio della castità. E insieme a queste aggiungevano altre parole che il dolore infonde nelle donne in simili frangenti, un dolore tanto più degno di compassione quanto più emerge triste da un animo debole. Gli uomini, invece, e soprattutto Icilio, si richiamavano all'autorità tribunizia, al diritto d'appello al popolo, soppresso a forza, alle manifestazioni di sdegno pubblico. 


49)  L'agitazione della folla era dovuta in parte all'atrocità del delitto e in parte alla speranza di sfruttare l'occasione per riconquistare la libertà. Appio in un primo tempo ordina di far chiamare Icilio, poi, visto che questi si opponeva alla convocazione, ingiunge di arrestarlo. Ma alla fine, siccome i suoi subalterni non potevano passare, si slancia egli stesso in mezzo alla folla alla testa di una schiera di giovani patrizi, e ordina di condurlo in prigione. In quel frangente Icilio aveva dalla sua parte non solo il popolo, ma anche i suoi capi: Lucio Valerio e Marco Orazio, i quali respinsero il littore sostenendo che se Appio agiva nel rispetto della legge, essi proteggevano Icilio dalle pretese di un privato. 

Se si ricorreva alla forza, anche in quel caso non sarebbero stati da meno. Queste parole fecero scoppiare una rissa tremenda. Il littore del decemviro si avventa su Valerio e Orazio, ma la gente fracassa i fasci. Appio allora sale sulla tribuna seguito da Valerio e Orazio. La folla ascolta questi ultimi, ma disturba le parole del decemviro. E Valerio, come se fosse investito del potere, stava ordinando ai littori di allontanarsi da un privato cittadino, quando Appio, in preda al panico e temendo per la sua vita, si coprì la testa e, senza farsi notare dagli avversari, andò a rifugiarsi in una casa vicina al foro. 

Spurio Oppio, per dare aiuto al collega, irruppe nel foro dalla parte opposta, ma si rese conto che l'autorità dei decemviri stava soccombendo davanti alla violenza. Considerati poi i molti suggerimenti che gli venivano da ogni parte e non sapendo a quale affidarsi, finì con l'ordinare la convocazione del senato. Questa decisione - giacché l'operato dei decemviri sembrava non incontrare il favore di buona parte dei senatori - contribuì a placare la folla, facendo balenare la speranza che i senatori ponessero fine a quella magistratura. Il senato ritenne opportuno non esasperare la plebe ed evitare che il rientro di Verginio provocasse disordini all'interno delle truppe. 


50)  Per questo motivo, vennero inviati all'accampamento, situato in quel momento sul monte Vecilio, alcuni giovani senatori, che avvertirono i decemviri di impedire a tutti i costi ai soldati di sollevarsi. Ma lì Verginio fece scoppiare disordini ben più gravi di quelli che aveva lasciato a Roma. Non solo era stato visto arrivare con una scorta di 400 uomini che, indignati per l'ingiustizia, si erano offerti di andare con lui, ma con il coltello ancora in mano e gli schizzi di sangue sul corpo, e questo aveva attirato l'attenzione dell'intero accampamento. 

E poi, la vista di toghe un po' in tutti i punti del campo aveva fatto apparire il numero di civili lì presenti molto più alto di quanto realmente non fosse. A chi gli domandava cosa fosse accaduto, Verginio per lungo tempo non riuscì a rispondere, soffocato com'era dal pianto. Ma alla fine, quando cessò lo scompiglio della folla che a poco a poco si era venuta radunando e ci fu silenzio, Verginio raccontò l'accaduto secondo l'ordine dei fatti. Poi, alzando le mani al cielo come se stesse pregando, e rivolgendosi ai commilitoni, li supplicò di non attribuire a lui il crimine, ma a Appio Claudio, e di non respingerlo alla stregua di chi aveva ammazzato i propri figli. 

La vita della figlia gli sarebbe stata più a cuore della sua, se la ragazza avesse avuto la possibilità di vivere libera e pura. Ma quando se l'era vista portar via come una schiava destinata allo stupro, pensando che fosse meglio esser privati dei figli dalla morte piuttosto che dall'oltraggio, la compassione lo aveva portato a commettere un atto in apparenza crudele. Non sarebbe però sopravvissuto alla figlia, se non avesse sperato di poterne vendicare la morte con l'aiuto dei commilitoni. 

Anche loro avevano figlie, sorelle e mogli: la libidine di Appio non si era certo spenta insieme con sua figlia, ma sarebbe divenuta più sfrenata se non fosse stato punito. La disgrazia toccata a un altro avvertiva ognuno di loro che stesse in guardia da un simile sopruso. Quanto poi a lui, la moglie gliel'aveva portata via il destino, mentre la figlia, visto che non avrebbe più potuto vivere conservando la castità, era andata incontro alla morte triste, ma onorata. Nella sua casa non c'era più posto per la libidine di Appio: da altre violenze di costui, avrebbe difeso la propria persona con lo stesso animo con cui aveva difeso la figlia. 

Che gli altri provvedessero quindi a se stessi e ai propri figli. Mentre Verginio urlava queste cose, la folla gridava che non avrebbe dimenticato il suo dolore, né mancato di difendere la propria libertà. E i civili, mescolati alla massa dei soldati, ripetevano le stesse cose, insistendo su quanto più indegni sarebbero loro parsi i fatti se, invece di sentirseli raccontare, li avessero visti coi propri occhi, e dicendo che a Roma i decemviri avevano ormai le ore contate. 

Ma nel frattempo l'arrivo di altri civili con la notizia che Appio aveva quasi perso la vita ed era andato in esilio indusse gli uomini a gridare «Alle armi», a prendere le insegne e a partire alla volta di Roma. I decemviri allora, turbati non solo da quello che avevano sotto gli occhi ma anche da quanto si riferiva fosse successo a Roma, cominciarono a girare per il campo - uno da una parte e uno dall'altra - nel tentativo di sedare i disordini appena scoppiati. A quelli di loro che agivano con cautela non si rispondeva. Se però qualcuno si azzardava a fare ricorso all'autorità, gli rispondevano che loro erano uomini e che erano armati. 

Marciano quindi i soldati inquadrati alla volta di Roma e prendono possesso dell'Aventino, esortando ogni plebeo che incontravano a riconquistare la libertà e a rieleggere i tribuni della plebe. Non si udì in giro nessun'altra proposta violenta. Spurio Oppio convoca il senato. Si decide di non usare alcun rigore, dato che i responsabili della sommossa erano proprio loro. Tre ex-consoli - Spurio Tarpeio, Gaio Giulio e Publio Sulpicio - vengono inviati a chiedere a nome del senato per ordine di chi avessero lasciato l'accampamento, e che cosa si prefiggessero occupando l'Aventino con le armi e abbandonando la guerra contro il nemico per catturare la propria patria. 

Le risposte non mancavano di certo: quel che mancava era chi avesse il cómpito di darle, visto che non esisteva ancora un capo vero e proprio e i singoli non osavano esporsi a possibili rappresaglie. Ma dalla folla si alzò un grido unanime: che fossero mandati Marco Orazio e Lucio Valerio; a loro avrebbero dato le loro risposte. 


51) Congedati i tre inviati, Verginio fa notare ai soldati che, pur essendosi trattato di una questione di importanza non grandissima, poco prima c'era stata una gran confusione perché la moltitudine non aveva ancora un capo. Anche se poi la risposta data era stata soddisfacente, ciononostante si era trattato di un fortuito consenso più che di una decisione comune. La sua idea era quella di eleggere dieci uomini da porre ai vertici del comando e da insignire del grado militare di tribuni dei soldati. 

Siccome il primo cui si voleva conferire questa carica era proprio Verginio, egli disse: «Questi segni di apprezzamento nei miei confronti riservateli a tempi migliori per me e per voi. Quanto a me, non c'è titolo che possa rendermi felice fino al giorno in cui la morte di mia figlia non sarà vendicata. Né può risultare di grande utilità che in questo momento di crisi per il paese vi guidino degli individui inevitabilmente destinati a essere impopolari. Se posso essere in qualche modo utile alla causa comune, non lo sarò certo di meno come privato cittadino.» 

Così nominano dieci tribuni militari. Ma neppure in terra sabina l'esercito romano rimase inerte. Anche lì, su istigazione di Icilio e Numitorio, scoppiò una rivolta contro i decemviri: infiammò gli animi il ricordo dell'assassinio di Siccio, inasprito dalla recente notizia della ragazza così vergognosamente disonorata per soddisfare la libidine. Quando Icilio venne a sapere che sull'Aventino avevano nominato dei tribuni militari, per evitare che le assemblee cittadine si allineassero alle scelte di quelle militari, eleggendo tribuni della plebe gli stessi uomini, essendo esperto di questioni legate al popolo e aspirando egli stesso a quella carica, fece in modo che prima di marciare alla volta di Roma i suoi ne eleggessero un ugual numero e con uguale potere. 

Entrati in città dalla porta Collina con le insegne, raggiunsero l'Aventino attraversando incolonnati il centro della città. Dopo essersi lì ricongiunti con l'altro esercito, affidarono ai venti tribuni militari il cómpito di nominarne due all'interno di loro, ai quali poi delegare il potere assoluto. La scelta cadde su Marco Oppio e Sesto Manilio. I senatori, in allarme per la situazione generale, tenevano ogni giorno una seduta, ma molto spesso si perdevano in battibecchi invece di deliberare. Ai decemviri rinfacciavano l'uccisione di Siccio, la libidine di Appio e le disonorevoli azioni militari. 

Si decideva di inviare Valerio e Orazio sull'Aventino, ma essi si rifiutavano, se i decemviri non abbandonavano le insegne di quella magistratura dalla quale erano decaduti già nel corso dell'anno precedente. I decemviri, lamentandosi di venir sottoposti a una vera degradazione, decidevano che non avrebbero rinunciato al potere prima dell'approvazione di quelle leggi per redigere le quali erano stati eletti. 


52)  Informata da Marco Duillio, un ex-tribuno della plebe, che dagli interminabili battibecchi non veniva fuori nulla, la plebe si spostò dall'Aventino sul monte Sacro; lo stesso Duillio affermava che i patrizi non si sarebbero preoccupati fino a quando non avessero visto la città abbandonata. Il monte Sacro avrebbe ricordato loro quanto incrollabile fosse la volontà della plebe, e si sarebbero finalmente resi conto che il ritorno alla concordia civile non era possibile se non si ristabiliva l'autorità dei tribuni. 

Partiti lungo la via Nomentana, che allora si chiamava Ficulense, si accamparono sul monte Sacro e, imitando la moderazione dei loro antenati, evitarono ogni devastazione. All'esercito tenne dietro la plebe, e nessuno tra quelli cui l'età lo permetteva si rifiutò di andare. Li accompagnarono sino alle porte anche i figli e le mogli, che, tra i lamenti, chiedevano a chi avessero lasciato il cómpito di difenderli in una città dove ormai neppure la libertà e la castità erano sacre. 

A Roma lo spopolamento aveva reso la città una desolazione e nel foro si vedeva solo qualche vecchio. Quando, nel corso di una seduta del senato, il foro apparve ancora più deserto ai senatori, furono in molti - oltre a Orazio e Valerio - a esprimere il proprio malcontento. «Che cosa state aspettando, padri coscritti? Se i decemviri persistono nella loro ostinazione, intendete tollerare che tutto si deteriori e vada in rovina? E che cos'è mai, decemviri, questo potere a cui vi aggrappate tanto? Volete dettar legge a tetti e muri? Non vi vergognate vedendo che nel foro i vostri littori sono più numerosi degli altri cittadini? 

Cosa fareste se il nemico attaccasse la città? Oppure se tra breve la plebe ci assalisse armi alla mano, rendendosi conto che anche con la secessione non riesce a ottenere gran che? Volete che il vostro potere finisca col crollo della città? Eppure bisogna, o non avere la plebe, o accettare i tribuni della plebe. Verranno meno prima a noi i magistrati patrizi che a loro quelli plebei. Quando riuscirono a strapparlo con la forza ai nostri padri, il tribunato era un potere nuovo e non ancora sperimentato. Ma ora, dopo averne assaporato una volta il fascino, sarà ancora più difficile per loro non desiderarlo, tanto più che noi non moderiamo il nostro potere, in modo che i plebei sentano meno la necessità di un aiuto.» 

Dato che queste cose venivano ripetute da ogni parte, i decemviri, sopraffatti dalla volontà comune, affermarono che, se quella era giudicata la soluzione migliore, essi si sarebbero assoggettati all'autorità dei senatori. Questa soltanto fu la loro richiesta e la loro raccomandazione: essere protetti dal risentimento popolare, perché con il loro sangue la plebe non si abituasse a punire i senatori. 


53)  A Valerio e a Orazio venne allora affidato il cómpito di riportare in città la plebe alle condizioni che fossero loro parse più opportune, nonché quello di rimettere a posto le cose e di proteggere i decemviri dalla rabbia e dalla violenza della gente. Partiti alla volta dell'accampamento, sono accolti dalla plebe con grandi manifestazioni di gioia, come liberatori, sia per aver dato inizio alla rivolta, sia per l'esito della stessa. Per questi motivi, non appena misero piede nel campo, furono ringraziati. 

Icilio prese la parola a nome di tutti. Quando poi si passò a discutere delle condizioni fissate e gli inviati domandarono quali fossero le richieste della plebe, Icilio stesso, attenendosi a quanto stabilito di comune accordo prima dell'arrivo dei legati, pose i termini della questione in maniera tale da far risultare con evidenza che le speranze dei plebei erano riposte molto più sull'equità delle proposte che non sul ricorso alle armi. Chiedevano fosse ripristinato il potere dei tribuni e il diritto d'appello - cose queste che erano state il sostegno della plebe prima dell'elezione dei decemviri. 

E inoltre che a nessuno recasse danno l'aver incitato i soldati o la plebe a riconquistarsi, con la secessione, la libertà. Una sola richiesta fu durissima: quella riguardante la pena da infliggere ai decemviri. I plebei ritenevano infatti giusto che i decemviri venissero loro consegnati e minacciavano di bruciarli vivi. I legati allora risposero: 

«Le vostre richieste - dettate certo dal giudizio - sono così ragionevoli che avrebbero dovuto già trovare soddisfazione. Perché con queste richieste voi esigete delle garanzie di libertà e non l'autorizzazione arbitraria ad assalire gli altri. La vostra rabbia deve essere più scusata che assecondata: per l'odio della crudeltà precipitate nella crudeltà, e ancor prima di essere liberi voi stessi volete già tiranneggiare sugli avversari. Ma per la nostra città verrà mai il giorno in cui cesseranno le condanne inflitte dai patrizi alla plebe o dalla plebe ai patrizi? 

Più che una spada a voi serve uno scudo. È già abbastanza, o fin troppo, abbassato chi vive in una città dove tutti hanno gli stessi diritti, senza subire e senza infliggere ingiustizie. E anche se un giorno arriverete a farvi temere, quando, dopo aver recuperato le vostre magistrature e le vostre leggi, avrete l'autorità di giudicare le nostre persone e i nostri beni, allora emetterete i vostri giudizi valutando caso per caso. Ora è sufficiente riconquistare la libertà.» 


54)  Siccome venne loro concesso di agire come ritenevano più opportuno, i legati dichiararono che sarebbero ritornati dopo aver concluso l'accordo. Quindi partirono ed esposero ai senatori le richieste della plebe. Gli altri decemviri, quando si resero conto che, al di là di ogni speranza, non si accennava minimamente a punizioni nei loro confronti, non fecero alcuna obiezione; ma Appio, che era violento di natura e sapeva di essere particolarmente impopolare, misurando l'odio degli altri verso di lui dall'odio che egli nutriva nei loro riguardi, disse: 

«Non sono certo ignaro della sorte che mi attende. Mi rendo però conto che l'attacco contro di noi sarà ritardato fino al momento in cui le armi verranno consegnate ai nostri avversari. L'odio vuole il suo sangue. Tuttavia non esiterò neppure io a rinunciare al decemvirato.» Il senato approvò quindi un decreto in base al quale i decemviri avrebbero dovuto dimettersi al più presto, al pontefice massimo Quinto Furio sarebbe toccato il cómpito di nominare i tribuni della plebe e nessuno avrebbe dovuto subire delle conseguenze a séguito della secessione delle truppe e della plebe. 

Approvati questi decreti e sciolta la seduta, i decemviri si presentano di fronte all'assemblea popolare e rinunciano alla propria magistratura fra il tripudio generale. La notizia è riferita alla plebe. Tutti quelli che erano rimasti in città accompagnano gli inviati. A questa folla andò incontro un'altra folla festante che veniva dall'accampamento. Si congratularono reciprocamente per il ritorno del paese alla libertà e alla concordia. Gli inviati di fronte all'assemblea dissero: 

«Perché il bene, la buona sorte e la felicità possano di nuovo essere con voi e la repubblica, tornate in patria, alle vostre case, dalle mogli e dai figli! Ma visto che vi siete comportati con moderazione qui, dove nessuna proprietà è stata violata nonostante che molte fossero le cose necessarie a un così elevato numero di persone, ebbene, portate la stessa moderazione in città. Tornate sull'Aventino da dove siete venuti. In quel fausto luogo, da dove avete mosso i primi passi verso la libertà, potrete nominare dei tribuni della plebe. Per tenere i comizi avrete a disposizione il pontefice massimo.» 

Grande fu il consenso, unanime l'entusiasmo. Levano le insegne e partono alla volta di Roma, facendo a gara in manifestazioni di allegria con la gente che incontrano. Armati attraversano la città e in silenzio raggiungono l'Aventino. Qui, durante i comizi sùbito tenuti dal pontefice massimo, elessero i tribuni. Il primo degli eletti fu Lucio Verginio, al quale fecero poi séguito Lucio Icilio e Publio Numitorio, zio materno di Verginia, cioè i due artefici della secessione. 

Quindi Gaio Sicinio, discendente di quel Sicinio che, stando alla tradizione, sarebbe stato il primo a essere eletto tribuno della plebe sul monte Sacro, e Marco Duillio, figura di spicco come tribuno prima dell'avvento dei decemviri e che non aveva mai abbandonato la plebe negli scontri coi decemviri stessi. Infine, non per i meriti ma per quello che si sperava da loro, vennero eletti Marco Titinio, Marco Pomponio, Gaio Apronio, Appio Villio e Gaio Oppio. 

Entrato in carica, Icilio propose e fece approvare alla plebe che a nessuno fosse imputata come colpa la secessione contro i decemviri. Súbito dopo Marco Duillio presentò una proposta di legge che prevedeva l'elezione di consoli il cui potere fosse limitato dal diritto d'appello. Tutto questo venne portato a termine dall'assemblea della plebe tenutasi nei prati Flamini, prati che oggi si chiamano Circo Flaminio.


55)  Poi, tramite l'interré, vennero eletti consoli Lucio Valerio e Marco Orazio che entrarono immediatamente in carica. Il loro consolato, di orientamento popolare, non fece alcuna ingiustizia nei riguardi dei patrizi, tuttavia provocò il loro malcontento. Infatti, qualunque cosa si facesse per la libertà della plebe, essi credevano che diminuisse il loro potere. Prima di tutto, poiché era controverso giuridicamente se i senatori dovessero attenersi ai decreti della plebe, i consoli presentarono nei comizi centuriati una legge in base alla quale ciò che la plebe aveva approvato nei comizi tributi vincolava tutta la popolazione. 

Questa legge diede alle richieste dei tribuni un'arma assai temibile. Quanto poi all'altra legge - quella cioè relativa al diritto d'appello, unica garanzia di libertà abolita dai decemviri - non solo fu ripristinata, ma resa più efficace per il futuro con una nuova legge in base alla quale non sarebbe stato più possibile nominare i magistrati non soggetti al diritto d'appello. Chiunque avesse violato tale disposizione, avrebbe potuto essere ucciso secondo le leggi umane e divine, e per quel crimine non vi sarebbe stata la pena di morte. 

Dopo aver fornito alla plebe sufficienti garanzie sia col diritto d'appello sia con l'aiuto dei tribuni, i consoli, nell'interesse dei tribuni stessi, ristabilirono il principio della loro inviolabilità, cosa di cui ormai si era persa memoria, riattivando le cerimonie rituali abbandonate da lungo tempo: li resero infatti inviolabili non solo sul piano religioso ma anche con una legge, in base alla quale coloro che avessero recato danno ai tribuni della plebe, agli edili, e ai giudici decemviri sarebbero stati maledetti e affidati alla vendetta di Giove e i loro beni sarebbero stati venduti al tempio di Cerere, Libero e Libera. 

Oggi i giuristi sostengono che in base a questa legge nessuno era veramente sacro e inviolabile, ma che essa semplicemente sanciva la maledizione per chi avesse oltraggiato una delle predette autorità. Un edile poteva essere arrestato e imprigionato da magistrati di rango superiore. Questa procedura, pur essendo illegittima (infatti danneggiava chi, in base a detta legge, non era lecito danneggiare), tuttavia costituisce la prova che un edile non era sacro e inviolabile. 

Invece i tribuni lo erano, in base all'antico giuramento fatto dalla plebe quando per la prima volta creò quella magistratura. Ma ci fu pure chi argomentò che per la stessa legge Orazia anche consoli e pretori godevano della medesima protezione, visto che questi ultimi venivano eletti con gli stessi auspici consultati per la nomina dei consoli. 

E infatti un tempo i consoli erano chiamati giudici. Tale tesi è però confutata dal fatto che in quel periodo non c'era ancora l'abitudine di chiamare giudice il console, bensì pretore. Furono queste le leggi proposte dai consoli, i quali stabilirono anche che i decreti del senato venissero affidati agli edili della plebe nel tempio di Cerere, mentre in passato venivano occultati o falsificati secondo l'arbitrio dei consoli. 

In séguito il tribuno della plebe Marco Duillio propose alla plebe, e la plebe lo approvò, un provvedimento in base al quale chi avesse lasciato la plebe senza tribuni o avesse eletto dei magistrati il cui potere non fosse limitato dal diritto d'appello veniva condannato alla fustigazione o alla decapitazione. Tutte queste misure, pur non avendo ottenuto il consenso dei patrizi, vennero comunque approvate senza incontrare opposizione da parte loro, perché fino a quel momento non si infieriva ancora contro nessuno in particolare. 


56)  In séguito, consolidata l'autorità tribunizia e la libertà della plebe, i tribuni, pensando che ormai fosse arrivato il tempo di procedere contro i singoli senza correre eccessivi rischi, scelsero Verginio come primo accusatore e Appio come primo imputato. Verginio citò quindi Appio in giudizio. E quando Appio si presentò nel foro scortato da una schiera di giovani aristocratici, appena la gente se lo trovò davanti agli occhi insieme alle sue guardie del corpo, si rinnovò subito nella memoria di tutti il ricordo di quell'infame potere. 

Allora Verginio disse: «L'oratoria è stata inventata per le cause incerte: perciò, né io starò a perdere tempo sciorinandovi le accuse a carico di un uomo dalla cui crudeltà vi siete liberati da soli con le armi, né permetterò che costui aggiunga agli altri suoi crimini l'impudenza di difendersi. Dunque ti faccio grazia, Appio Claudio, di tutte le turpi ed empie nefandezze che, una dopo l'altra, hai osato compiere nel corso di due anni. Ma per una sola di esse io ordinerò di metterti in prigione, se non sceglierai un giudice e gli dimostrerai di aver a buon diritto negata la libertà provvisoria a una libera cittadina rivendicata come schiava.» 

Appio non riponeva alcuna speranza né nell'aiuto dei tribuni, né nel verdetto del popolo. Ciononostante si appellò ai tribuni e, quando una guardia lo afferrò, senza che nessuno si opponesse, Appio disse: «Mi appello al popolo.» Quella parola, che da sola garantisce la libertà, uscita dalla bocca da cui poco tempo prima era stata pronunciata una sentenza contro la libertà, provocò un grande silenzio. 

Dentro di sé ciascuno mormorava che alla fin fine gli Dei esistevano e non trascuravano i casi umani; che, anche se in ritardo, tuttavia pene non lievi colpivano l'arroganza e la crudeltà; che si appellava colui che l'appello aveva abolito; che invocava il popolo colui che aveva privato il popolo di ogni diritto; che era incarcerato e privato della libertà colui che aveva condannato alla schiavitù una persona libera. Tra il mormorio dell'assemblea si udì la voce dello stesso Appio implorare la protezione del popolo romano. 

Ricordava i servigi resi alla patria dai suoi antenati in pace e in guerra, la sua sfortunata opera a favore della plebe romana, in conseguenza della quale, per rendere le leggi uguali per tutti, aveva rinunciato al consolato con grande rammarico dei patrizi, e infine le sue leggi, che erano ancora in vigore mentre si conduceva in carcere chi le aveva proposte. Quanto poi al bene e al male commessi, Appio disse che li avrebbe presi in esame quando gli fosse stata concessa l'opportunità di perorare la propria causa. 

Per il momento, in qualità di cittadino romano, secondo il comune diritto di cittadinanza, Appio chiese che, fissata la data, gli fosse permesso di parlare in propria difesa per poi affrontare il giudizio del popolo romano. Non temeva l'odio nei suoi confronti tanto da non riporre più alcuna speranza nell'equità e nella compassione dei suoi concittadini. Se invece fosse finito in carcere senza che gli fosse accordato di difendersi, allora si sarebbe di nuovo appellato ai tribuni della plebe, avvertendoli di non imitare quelli che essi avevano detestato. 

Se poi i tribuni si dicevano obbligati a negargli l'appello in base all'accordo che essi rimproveravano ai decemviri di aver preso in segreto, allora si sarebbe appellato al popolo, chiamando in causa le leggi sul diritto d'appello proposte quello stesso anno sia dai consoli che dai tribuni. Chi infatti poteva ricorrere in appello, se questo diritto non era concesso a un cittadino che non era ancora stato giudicato e del quale non si era sentita la difesa? Quale plebeo, quale modesto cittadino avrebbe potuto trovare sostegno nelle leggi, se esse non lo garantivano ad Appio Claudio? Il suo caso avrebbe stabilito se con le nuove leggi si era consolidata la tirannide oppure la libertà, e se il diritto d'appello al popolo e il ricorso contro le ingiustizie dei magistrati erano veramente concessi o erano chiacchiere senza fondamento. 


57)  Ma Verginio replicò che Appio Claudio era l'unico uomo a trovarsi al di là della legge e a non avere alcun rapporto col consorzio umano e civile. Invitò poi la gente a rivolgere lo sguardo al tribunale, ricettacolo di ogni crimine: lì quel decemviro a vita, acerrimo nemico dei cittadini e dei loro beni, delle loro persone e del loro sangue, che minacciava tutti con verghe e scuri, senza portare alcun rispetto a Dei e uomini. 

Circondato com'era non di littori ma di carnefici, aveva ormai spostato i suoi interessi dalle razzie e dagli assassini alla libidine: così, di fronte agli occhi di tutto il popolo romano, aveva strappato dalle braccia del padre una ragazza di condizione libera e, trattandola alla stregua di una prigioniera di guerra, l'aveva data in dono a un cliente che in casa sua gli faceva da cameriere. Sui banchi di quel tribunale Appio, con una sentenza disumana e un'assegnazione nefanda, aveva armato la mano destra di un padre contro la figlia. 

Sempre in quel tribunale, mentre il fidanzato e lo zio sollevavano da terra il corpo esanime della giovane, aveva ordinato che fossero imprigionati, infuriato più per l'impedimento dello stupro che per l'uccisione della ragazza. Anche per Appio era stato costruito quel carcere che lui amava definire residenza del popolo romano. Perciò, anche se avesse continuato ad appellarsi all'infinito, all'infinito Verginio gli avrebbe intimato di presentarsi di fronte a un giudice per dimostrare di non aver pronunciato una sentenza di schiavitù provvisoria nei riguardi di una libera cittadina. 

Se poi Appio non fosse comparso di fronte al giudice, allora avrebbe dato ordine di portarlo in prigione come se fosse stato condannato. Fu condotto in carcere; anche se nessuno si alzò per esprimere disapprovazione, ciononostante grande fu il disagio, perché la punizione di una personalità così importante faceva sembrare alla plebe eccessiva la sua stessa libertà. Il tribuno aggiornò la causa. 

Nel frattempo Latini ed Ernici inviarono a Roma ambasciatori per congratularsi dell'accordo tra patrizi e plebei e per questo accordo portarono in dono a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio una corona d'oro non molto pesante perché non c'erano allora molte ricchezze e le cerimonie religiose erano celebrate più con la devozione che con la sontuosità. Da questa stessa delegazione si venne a sapere che Equi e Volsci si stavano preparando alla guerra con grande impegno. Perciò ai consoli fu ordinato di spartirsi gli incarichi: a Orazio toccarono i Sabini, a Valerio gli Equi. 

Quando bandirono la leva in previsione di quei conflitti, fu tanto il favore della plebe che, non solo i più giovani, ma anche una grande quantità di volontari tra i militari in congedo si misero a disposizione dando i propri nomi ai consoli, in modo tale che l'esercito, grazie all'immissione dei veterani, si rinforzò sia per il numero, sia per la qualità dei soldati. Prima che l'esercito lasciasse la città, furono esposte in pubblico, incise sul bronzo, le leggi nate per volontà dei decemviri, conosciute come Leggi delle XII Tavole. Alcuni autori scrivono che quell'incarico sarebbe toccato agli edili su ordine dei tribuni. 


58)  Gaio Claudio, aborrendo i crimini dei decemviri e particolarmente ostile all'arroganza del nipote, si era ritirato a Regillo, luogo d'origine della sua famiglia. Pur essendo ormai avanti negli anni, era tornato a Roma per tentare di salvare proprio l'uomo i cui vizi lo avevano indotto a fuggire. Accompagnato da familiari e clienti, andando in giro per il foro vestito a lutto, fermava uno per uno i cittadini e li supplicava di non permettere che alla famiglia Claudia toccasse il marchio infamante di aver meritato l'arresto e la detenzione. 

Un uomo la cui immagine sarebbe stata fatta oggetto dei più alti onori da parte delle generazioni future, il legislatore e il fondatore del diritto romano, in quel momento giaceva incatenato tra ladri notturni e tagliagole comuni. Per il momento rivolgessero l'animo dall'ira alla comprensione e alla riflessione e, di fronte alle preghiere di tanti Claudi, ne perdonassero uno solo, piuttosto che respingere un numero così alto di suppliche, esclusivamente per l'odio verso quell'uno. 

Claudio aggiunse che lui stesso compiva quel gesto per il buon nome della famiglia, ma che non si era riconciliato con l'uomo al quale cercava di portare soccorso nella mala sorte. Col coraggio era stata riconquistata la libertà, con l'indulgenza si poteva ristabilire l'armonia tra le classi sociali. Alcuni furono toccati più dal suo attaccamento alla famiglia che dalla causa di colui per il quale si stava adoperando. Ma Verginio li invitava ad aver compassione piuttosto di lui e di sua figlia, pregandoli di dare ascolto più che alle suppliche della famiglia Claudia, che si era arrogata il diritto di tiranneggiare la plebe, a quelle dei parenti di Verginia, e cioè i tre tribuni che, eletti per sostenere la plebe, ora dalla plebe imploravano sostegno e protezione. 

Alla gente sembrò che queste lacrime fossero più giuste. Persa quindi ogni speranza, Appio si suicidò prima che arrivasse il giorno fissato per il processo. Sùbito dopo Publio Numitorio fece arrestare Spurio Oppio, il più odiato dei decemviri dopo Appio, perché presente in città quando il collega aveva pronunciato l'ingiusta sentenza di schiavitù provvisoria. A dir la verità provocarono il risentimento popolare nei confronti di Oppio più i misfatti commessi che quelli che non aveva impedito. 

Venne prodotto un teste che passò in rassegna le ventisette campagne militari a cui aveva partecipato meritandosi otto volte decorazioni speciali; dopo aver esibito queste decorazioni davanti al popolo, si strappò la tunica mostrando la schiena straziata dalla frusta e dichiarò che, se l'imputato era in grado di menzionare qualche sua colpa, scatenasse di nuovo, benché ora privato cittadino, la sua rabbia su di lui. 

Così anche Oppio finì in carcere, dove si tolse la vita prima del giorno del processo. I tribuni confiscarono le proprietà di Claudio e di Oppio. Gli ex-colleghi di decemvirato andarono in esilio e i loro beni vennero confiscati. Anche Marco Claudio, l'uomo che aveva rivendicato la proprietà di Verginia, fu processato e condannato. Essendogli stata risparmiata la pena di morte per l'intercessione dello stesso Verginio, fu rilasciato e andò in esilio a Tivoli. Così i Mani di Verginia - certo più fortunata da morta che da viva - dopo aver vagato tra tante case per chiedere vendetta, ora che nessun colpevole era rimasto impunito, ebbero finalmente pace. 


59)  I patrizi erano ormai in preda al panico e i tribuni cominciavano ad assomigliare sempre più ai decemviri, quando il tribuno della plebe Marco Duillio decise di porre un salutare freno a quell'eccessivo potere. «Accontentiamoci della nostra libertà e delle pene inflitte ai nemici di un tempo,» dichiarò Duillio. «Perciò, nel corso di quest'anno, non permetterò che alcuno sia citato in giudizio, né che sia incarcerato. Non è infatti giusto andare a ricercare vecchie colpe di cui non ci si ricorda nemmeno più, dato che i reati recenti sono stati espiati con le condanne inflitte ai decemviri, e dato che le energie continuamente profuse da entrambi i consoli per proteggere la vostra libertà ci possono garantire che non verranno commessi crimini di tale gravità da richiedere l'intervento dell'autorità tribunizia.» 

Questa moderazione da parte del tribuno liberò innanzitutto i patrizi dalla paura, ma incrementò anche il loro risentimento nei confronti dei consoli, perché avevano dimostrato un tale attaccamento alla causa della plebe, che l'incolumità e la libertà dei patrizi era stata più a cuore a un magistrato plebeo che a uno patrizio; e poi perché i loro nemici si erano saziati di infliggere condanne, prima che i consoli avessero dato l'impressione di volersi opporre alle loro sfrenatezze. 

Molti dissero che avevano agito senza il necessario rigore perché proprio i senatori avevano votato le leggi proposte dai consoli, e non c'era dubbio che, in quel difficile momento in cui si era venuta a trovare la repubblica, i senatori si erano piegati alle circostanze. 


60)  Sistemata la situazione in città e consolidata la posizione della plebe, i consoli partirono per le rispettive destinazioni. Valerio, incaricato di fronteggiare Volsci ed Equi, che nel frattempo avevano già unito le proprie truppe sull'Algido, di proposito ritardò l'inizio delle ostilità. Se infatti avesse sùbito tentato la sorte, nel diverso stato d'animo in cui si trovavano allora i nemici e i Romani, dopo le disastrose imprese dei decemviri, non so se il combattimento non si sarebbe risolto in una grave sconfitta. Dunque, posto l'accampamento a un miglio di distanza dagli avversari, vi trattenne le truppe. 

I nemici si andarono più volte a schierare nello spazio di terra tra i due accampamenti, ma nessuno dei Romani raccolse le provocazioni. Alla fine, stanchi di attendere invano l'inizio delle ostilità, Equi e Volsci, credendo che i Romani avessero quasi quasi rinunziato alla vittoria, se ne andarono a razziare parte i territori latini e parte quelli degli Ernici, lasciandosi alle spalle un contingente più adatto a presidiare l'accampamento che non a sostenere lo scontro. 

Quando il console se ne rese conto, schierò le truppe in ordine di battaglia e prese a provocare i nemici, terrorizzandoli come prima era stato terrorizzato lui. Poiché quelli, consci di non avere forze sufficienti, evitavano di venire alle armi, subito crebbe il coraggio nei Romani che davano già per vinti i nemici rannicchiati dentro il vallo. Dopo esser stati pronti a battersi per tutto il giorno, al calar della notte si ritirarono. 

E mentre da una parte i Romani, pieni di speranza, si rifocillavano, dall'altra parte, animati da tutt'altro spirito, i nemici preoccupati inviarono messaggeri in varie direzioni per richiamare quanti si erano dati alle razzie. Fu possibile far tornare chi si trovava nelle vicinanze, ma quelli che erano andati più lontano non riuscirono a raggiungerli. Alle prime luci del giorno i Romani uscirono dall'accampamento con l'intento di dare l'assalto al vallo, se non avessero avuto la possibilità di combattere. 

Poiché buona parte della mattinata se n'era già andata senza che i nemici avessero dato alcun segnale di volersi muovere, il console ordinò di avanzare. Quando l'esercito si mosse, Equi e Volsci provarono sdegno vedendo che la difesa dei loro eserciti vittoriosi era affidata a un vallo e non al coraggio e alle armi. Pertanto anch'essi chiesero e ottennero dai loro comandanti il segnale di dar battaglia. Parte degli uomini era già uscita dalle porte, seguita in ordine dagli altri che andavano a occupare ciascuno la propria posizione, quando il console romano, senza aspettare che lo schieramento nemico si rafforzasse completando i ranghi, si buttò all'assalto. 

Avendo sferrato l'attacco quando non tutti gli avversari erano ancora usciti e quelli che lo avevano già fatto non si erano ancora dispiegati lungo la linea, piombò su una massa fluttuante di disperati che correvano in tutte le direzioni e si lanciavano l'uno con l'altro occhiate piene di sconforto. Le urla e l'impeto dei Romani aggravarono poi la loro agitazione. Così, sulle prime, i nemici furono costretti a retrocedere, ma dopo, quando ripresero animo e sentirono da ogni parte i comandanti inferociti chiedere loro se avessero intenzione di cedere a dei vinti, riuscirono a ristabilire le sorti della battaglia. 


61) Il console, dall'altra parte, invitava i Romani a ricordarsi che quel giorno, per la prima volta, combattevano da liberi per una libera Roma e che avrebbero vinto per se stessi, e non per essere, da vincitori, il premio dei decemviri. Alla loro testa non c'era Appio, bensì il console Valerio, discendente da uomini che avevano liberato Roma e lui stesso liberatore. Che dimostrassero quindi come gli insuccessi nelle precedenti battaglie fossero dovuti all'imperizia dei comandanti e non a quella dei soldati. 

Sarebbe stato vergognoso aver dimostrato più coraggio contro i concittadini che contro il nemico, e aver temuto più la schiavitù interna che quella proveniente dall'esterno. In tempo di pace era toccato alla sola Verginia veder minacciata la propria castità, così come Appio era stato il solo cittadino la cui libidine avesse costituito una minaccia. Se però la guerra avesse preso una brutta piega, allora il pericolo per i figli di tutti sarebbe venuto da molte migliaia di nemici. Ma non voleva presagire cose che né Giove né il padre Marte avrebbero permesso in una città fondata con simili auspici. 

Ricordando loro l'Aventino e il monte Sacro, li invitava a riportare intatto il potere là dove pochi mesi prima era nata la libertà, a dimostrare che nei soldati romani, dopo la cacciata dei decemviri, c'era l'identica tempra di prima che i decemviri venissero eletti e, infine, che il valore del popolo romano non era diminuito con l'uguaglianza dei diritti. Dopo aver pronunciato queste parole, circondato dai vessilli della fanteria, volò verso i cavalieri e disse loro: 

«Avanti, giovani, cercate di superare i fanti in atti di valore, così come già li superate nel grado militare e nel ceto sociale. Al primo scontro la fanteria ha costretto i nemici a retrocedere. Adesso tocca a voi: caricateli coi cavalli e spazzateli via dal campo. Non reggeranno l'urto, visto che anche ora temporeggiano più che resistere.» 

Quelli spronano i cavalli, li lanciano contro i nemici, già stravolti dallo scontro con i fanti, sfondano le linee e avanzano fino alla retroguardia: una parte di loro aggira i nemici in campo aperto, impedisce il ritorno all'accampamento al grosso degli Equi e dei Volsci che già fuggiva da ogni parte e, cavalcando davanti a loro, li respinge e li tiene lontani. La fanteria e il console, con tutte le forze a disposizione, irrompono nell'accampamento e lo conquistano, seminando la morte e portandosi via un grande bottino. 

La notizia di questa vittoria arrivò non solo a Roma, ma anche all'altro esercito impegnato in territorio sabino: in città fu celebrata con esplosioni di gioia, nell'accampamento accese gli animi dei soldati, spingendoli a emulare quelle gesta gloriose. Orazio, mettendoli alla prova con incursioni improvvise e scaramucce di poco peso, li aveva abituati ad avere fiducia in se stessi, a dimenticare le ignominie subite sotto il comando dei decemviri. E quei piccoli scontri avevano riacceso in loro la speranza di avere la meglio nello scontro finale. 

Ma neppure i Sabini, imbaldanziti dal successo dell'anno precedente, lesinavano le provocazioni e le minacce. Soprattutto si domandavano perché mai i Romani perdessero tutto quel tempo in modeste incursioni e ritirate, degne di ladruncoli, e spezzassero tutta la guerra in una serie di scaramucce. Perché non scendevano a combattere in campo aperto, lasciando che la sorte decidesse una volta per tutte a chi doveva andare la vittoria? 


62)  Oltre ad aver già recuperato di per sé sufficiente fiducia nei propri mezzi, i Romani ardevano anche di sdegno: mentre in quel momento l'altro esercito stava rientrando vittorioso a Roma, loro erano ancora lì a farsi insultare e sbeffeggiare dal nemico. Ma quando sarebbero stati all'altezza dei nemici, se non lo erano allora? Appena il console si rese conto che tra gli uomini circolavano questi mormorii, convocò l'adunata e disse: 

«Immagino, soldati, che abbiate sentito come sono andate le cose sull'Algido. L'esercito si è comportato come si addice all'esercito di un popolo libero. La vittoria è arrivata grazie all'intelligenza del mio collega e al valore dei soldati. Quanto a me, la mia strategia e il mio coraggio dipenderanno esclusivamente dal vostro comportamento. Si può ritardare la guerra con vantaggio o concluderla in fretta. Se si deve ritardarla io, continuando con la tattica adottata sinora, farò in modo che, giorno dopo giorno, crescano le vostre speranze e il vostro coraggio. Ma se invece siete già sufficientemente coraggiosi e volete farla finita subito con questa guerra, allora, a testimonianza della vostra volontà di vittoria e del vostro sicuro valore, alzate qui nell'accampamento il grido che alzereste sul campo di battaglia.» 

Sull'onda dell'entusiasmo il grido non si fece attendere. Poi il console, augurando il migliore esito all'impresa, disse che li avrebbe assecondati e che il giorno successivo li avrebbe guidati in battaglia. Il resto della giornata venne impiegato nella preparazione delle armi. Il giorno dopo, appena i Sabini, che già da molto tempo erano impazienti di venire alle armi, videro i Romani schierarsi, uscirono anch'essi allo scoperto. 

Fu una di quelle battaglie in cui si scontrano due eserciti animati dalla stessa fiducia nelle proprie capacità: se infatti questo poteva vantare un'antica e ininterrotta gloria, quello aveva il morale alle stelle per l'ultima, ancora recente vittoria. I Sabini accrebbero la loro pericolosità con un ingegnoso stratagemma: dopo aver infatti disposto lo schieramento su un fronte che aveva la stessa estensione di quello avversario, fecero uscire dai ranghi 2.000 uomini perché, durante la battaglia, assalissero il fianco sinistro dell'esercito romano. 

Ma quando con un attacco laterale stavano quasi per accerchiare e sopraffare l'ala dell'esercito nemico, i cavalieri di due legioni romane, circa seicento, scendono da cavallo e si buttano nelle prime file dove i loro stavano già indietreggiando; si oppongono al nemico e nello stesso tempo infiammano gli animi dei fanti, prima condividendone il pericolo, poi puntando sul sentimento dell'onore. Era infatti vergognoso che il cavaliere combattesse la propria e l'altrui battaglia e che il fante non fosse all'altezza neppure del cavaliere sceso da cavallo. 


63)  I fanti ritornano al combattimento che dalla loro parte era stato abbandonato e riconquistano la posizione dalla quale si erano ritirati. E in un attimo non solo vennero ristabilite le sorti della battaglia, ma l'ala sabina fu costretta a ripiegare. I cavalieri, coperti dalle linee della fanteria, rimontano a cavallo. Arrivati al galoppo dall'altra parte dello schieramento, comunicano ai compagni la notizia della vittoria e nel contempo caricano i nemici, già in preda al panico per la rotta della loro ala più forte. In quella battaglia nessuno brillò per valore più dei cavalieri. 

Il console pensava a tutto: distribuiva elogi ai forti e urlava improperi se in qualche parte la lotta era più fiacca. Gli uomini su cui cadeva il suo biasimo sùbito si trasformavano in valorosi, ed erano spinti dalla vergogna, quanto gli altri dalle lodi. Dopo aver di nuovo alzato tutti insieme il grido di guerra, con uno sforzo comune misero in fuga il nemico. E da quel momento in poi non fu più possibile contenere l'impeto dei Romani. I Sabini vennero dispersi per le campagne circostanti, e lasciarono l'accampamento in preda agli avversari, che lì non recuperarono, come sull'Algido, i beni degli alleati, ma si ripresero i propri, perduti durante le incursioni nei loro campi. 

Per la doppia vittoria riportata in due battaglie diverse, il senato meschinamente decretò soltanto un giorno di ringraziamenti ufficiali in nome dei consoli. Ma il popolo, contrariamente a quanto era stato disposto, andò in gran numero a pregare anche il giorno successivo. E questa spontanea manifestazione di popolo fu, a causa dell'entusiasmo generale, quasi più affollata dell'altra. I consoli, di comune accordo, rientrarono in città proprio in quei due giorni, e convocarono il senato in Campo Marzio. 

Lì, mentre discutevano delle loro imprese, i senatori più autorevoli si lamentarono che il senato fosse stato convocato in mezzo alle truppe col preciso intento di spaventarli. I consoli allora, per non dare adito ad accuse infondate, spostarono la seduta nei prati Flamini, cioè là dove oggi c'è il santuario di Apollo e che era già chiamato Apollinare. E qui, poiché i senatori concordi volevano rifiutare il trionfo, il tribuno della plebe Lucio Icilio portò di fronte al popolo la questione riguardante il trionfo dei consoli, benché molti si facessero avanti per dissuaderlo e più di tutti Gaio Claudio. 

Egli urlava che i consoli volevano celebrare un trionfo non sui nemici ma sui patrizi, e quello che chiedevano non era un riconoscimento al valore quanto piuttosto un favore in cambio di un servizio reso ai tribuni a titolo del tutto privato. Mai prima si era discusso del trionfo con il popolo; valutare il merito e decretare quell'onore era stato sempre cómpito del senato. Neppure i re avevano osato privare di quella prerogativa il più alto ordine dello Stato. Che i tribuni non dilatassero l'estensione del proprio potere a tal punto da non permettere più l'esistenza di nessuna pubblica assemblea. 

Solo se ciascun ordine avesse mantenuto le prerogative garantite dalla legge e la propria autorità, la città sarebbe stata finalmente libera e le leggi uguali per tutti. Dopo gli interventi anche degli altri senatori più anziani che parlarono prolissamente per sostenere la stessa tesi, tutte le tribù votarono per la proposta del tribuno. Fu in quell'occasione che un trionfo, pur non avendo avuto l'autorizzazione del senato, venne per la prima volta celebrato per volontà del popolo. 


64)  Questa volta la vittoria conquistata dai tribuni e dalla plebe per poco non degenerò in un pericoloso stato di sfrenatezza. Infatti i tribuni raggiunsero in segreto un accordo in base al quale i detentori di quella magistratura sarebbero stati riconfermati in carica. E inoltre, per evitare che la loro sete di potere risultasse evidente, stabilirono di rinnovare il mandato anche ai consoli. Il pretesto che veniva addotto era l'accordo realizzato dai senatori i quali, con l'offesa arrecata ai consoli, avevano attentato ai diritti della plebe. Che cosa sarebbe successo se, quando le leggi non erano ancora consolidate, i consoli, appoggiati dalla loro fazione, avessero assalito i nuovi tribuni? 

Perché di certo i consoli non sarebbero sempre stati uomini dello stampo di Valerio e Orazio, che anteponevano ai propri interessi la libertà della plebe! Ma in quella circostanza una fortunata concomitanza di eventi volle che a presiedere alle elezioni la sorte chiamasse Marco Duillio, uomo prudente e capace di prevedere il risentimento che la rielezione degli stessi magistrati avrebbe provocato. 

Quando Duillio si rifiutò di prendere in considerazione la candidatura dei tribuni in carica, i suoi colleghi diedero battaglia perché concedesse il voto libero alle singole tribù, oppure cedesse l'incarico di presiedere alle elezioni ai colleghi, che le avrebbero tenute attenendosi alle leggi e non secondo le indicazioni dei senatori. Nell'accesa discussione che seguì, Duillio convocò i consoli presso i banchi delle tribune e chiese loro che intenzioni avessero riguardo alle elezioni consolari. Siccome essi risposero che avrebbero eletto nuovi consoli, Duillio, avendo trovato il sostegno popolare a una proposta certo non popolare, si presentò all'assemblea in compagnia dei consoli. 

Lì, quando furono di fronte al popolo, gli venne chiesto come si sarebbero comportati se il popolo romano, memore della libertà riconquistata in patria grazie a loro nonché dei successi militari, li avesse riconfermati in carica. Siccome i consoli risposero che non sarebbero tornati sulla propria decisione, Duillio prima li elogiò per la fermezza con la quale si erano fino all'ultimo sforzati di non assomigliare ai decemviri, e quindi tenne i comizi. 

Eletti cinque tribuni, poiché, per la palese brama a essere rieletti di nove tribuni, nessun altro candidato ottenne i voti necessari, Duillio sciolse la seduta, senza più riconvocarla per le elezioni. Disse che si era agito nel pieno rispetto della legge la quale in nessuna parte definiva il numero, prescriveva solo che fossero eletti dei tribuni e imponeva che i neoeletti si scegliessero i colleghi. Diede quindi lettura della formula prevista dalla legge che diceva: 

«Se proporrò la nomina di dieci tribuni della plebe e se oggi voi qui eleggerete meno di dieci tribuni, quelli che gli eletti avranno cooptato come colleghi per questa stessa legge siano legittimi tribuni della plebe, così come lo sono quelli che oggi voi chiamerete a ricoprire tale carica.» Duillio, sostenendo fino alla fine che la repubblica non poteva avere quindici tribuni della plebe, ed essendo nel contempo riuscito ad avere ragione dell'ingordigia politica dei colleghi, uscì di carica dopo essersi reso gradito tanto ai patrizi quanto ai plebei. 


65)  I nuovi tribuni nella cooptazione dei colleghi assecondarono i desideri degli aristocratici; infatti scelsero anche Spurio Tarpeio e Aulo Aternio, due nobili che in passato erano stati consoli. Quanto poi ai nuovi consoli, Spurio Erminio e Tito Verginio, entrambi privi di particolari inclinazioni nei confronti della plebe o del patriziato, mantennero la pace in patria e all'estero. Il tribuno della plebe Lucio Trebonio, risentito nei confronti dei patrizi perché sosteneva di esser stato da loro tratto in inganno e tradito dai colleghi nella cooptazione dei tribuni, propose una legge in base alla quale chi avesse convocato la plebe romana alle elezioni dei tribuni avrebbe dovuto continuare a presiedere la seduta fino a quando non fossero stati eletti i dieci tribuni della plebe previsti. 

Trebonio, per tutta la durata del suo mandato, incalzò i patrizi con una tale insistenza che gli fu dato il soprannome di Aspro. I consoli successivi Marco Geganio Macerino e Gaio Giulio sedarono le contese sorte tra i tribuni e i giovani nobili, senza accanirsi contro il potere di quei magistrati e conservando il prestigio dei senatori. Per evitare poi che la plebe si lasciasse andare a episodi di violenza, sospesero la leva militare indetta per la guerra contro Volsci ed Equi, affermando che, se in città regnava la pace, anche all'estero tutto rimaneva tranquillo, mentre le discordie intestine facevano alzare la testa ai popoli vicini. 

La salvaguardia della pace fu causa anche della concordia interna. Ma una delle due classi era sempre pronta a sfruttare la moderazione dell'altra. E fu così che, mentre la plebe era quieta, i giovani patrizi cominciarono a commettere soprusi. Quando i tribuni tentavano di spalleggiare i più deboli, il loro intervento approdava a poco. Poi neppure i tribuni riuscivano a sottrarsi alla violenza fisica, specie negli ultimi mesi del mandato, perché i più potenti si coalizzavano per imporre l'ingiustizia, ma anche perché il potere di ogni magistratura verso la fine dell'anno solitamente s'indebolisce. 

Ormai la plebe poteva riporre qualche speranza nel tribunato soltanto a condizione di avere tribuni come Icilio, ma negli ultimi due anni si erano avuti solo dei tribuni di nome. Dal canto loro, i patrizi più anziani, pur sapendo che i loro giovani erano troppo violenti, preferivano che - se da qualche parte si doveva superare la misura - gli eccessi di animosità li facessero registrare i loro piuttosto che gli avversari. 

Nella lotta per difendere la libertà la moderazione è veramente difficile: infatti, pur ostentando di volere una forma di equilibrio, ciascuno tende a innalzare se stesso soffocando gli altri. Cercando poi di non essere intimoriti, alla fine gli uomini si trasformano nell'oggetto delle altrui paure. E mentre il sopruso ci disgusta, come se fosse inevitabile o commetterlo o subirlo, finisce che siamo noi a fare dei torti agli altri. 


66)  Vennero poi eletti consoli Tito Quinzio Capitolino, per la quarta volta, e Agrippa Furio. A costoro non toccarono né disordini interni né conflitti all'esterno, benché sia gli uni, sia gli altri incombessero. Infatti non era più possibile contenere la discordia civile, visto il risentimento nutrito da plebe e tribuni nei confronti degli aristocratici, e in considerazione del fatto che i processi a carico di questo o di quell'altro nobile provocavano sempre nuovi disordini che turbavano le assemblee. 

Non appena si verificarono i primi contrasti, come se fossero stati un segnale, Volsci ed Equi presero le armi; i loro comandanti, avidi di bottino, li avevano persuasi che a Roma nel biennio precedente non era stato possibile indire la leva perché la plebe rifiutava ormai ogni tipo di disciplina: per quel motivo non era stato inviato alcun esercito contro di loro. La dissolutezza aveva ormai sbriciolato ogni tradizione militare, e Roma non era più la patria comune. Tutta la rabbia e il rancore che un tempo avevano nei riguardi degli stranieri, ora li riversavano su se stessi. 

Quella era l'occasione per sterminare quei lupi accecati da una rabbia che li spingeva l'uno contro l'altro. Così, dopo aver unito i propri eserciti, Volsci ed Equi cominciarono col devastare le campagne latine. Poi, quando videro che nessuno accorreva in aiuto di quelle popolazioni, fra l'esultanza di quanti avevano fomentato la guerra, di razzia in razzia, arrivarono fin sotto le mura di Roma in direzione della porta Esquilina, e qui cominciarono a sbeffeggiare gli abitanti indicando loro le campagne devastate. Dopo che si furono ritirati impuniti procedendo a passo di marcia in direzione di Corbione e con il bottino bene in vista alla testa dello schieramento, il console Quinzio convocò l'assemblea del popolo. 


67)  Lì - almeno a quanto ho trovato io - parlò in questi termini: «Benché io sia conscio di non aver alcuna colpa, o Quiriti, ciononostante è con estrema vergogna ch'io mi presento al cospetto di questa assemblea. Voi sapete, e un giorno verrà tramandato ai posteri, che, durante il quarto consolato di Tito Quinzio, Volsci ed Equi - un tempo appena all'altezza degli Ernici - sono giunti impunemente fin sotto le mura di Roma con le armi in pugno. Benché ormai da tempo la situazione sia tale da non lasciar presagire nulla di buono, ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno ci riservava un episodio così funesto, avrei evitato questa ignominia, anche a costo di andare in esilio o di togliermi la vita, ove non mi restassero altri mezzi per sottrarmi a questa carica. 

Se fossero stati uomini degni di questo nome quelli che si sono presentati con le armi in pugno di fronte alle nostre porte, Roma avrebbe potuto esser presa sotto il mio consolato! Avevo avuto onori a sufficienza e vita a sufficienza, anzi fin troppo lunga: avrei dovuto morire durante il mio terzo consolato. Ma a chi hanno riservato il loro disprezzo i nostri più vili nemici? A noi consoli, oppure a voi, o Quiriti? Se la colpa è nostra, allora privateci di un'autorità della quale non siamo degni. E se poi questo non basta, aggiungete anche una punizione. Se invece la responsabilità ricade su di voi, l'augurio è che né gli Dei né gli uomini vi facciano pagare i vostri errori, ma siate soltanto voi stessi a pentirvene. 

I nemici non hanno disprezzato la codardia che è in voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia nel proprio coraggio. A dir la verità è toccato loro molte volte di essere sbaragliati e messi in fuga, privati dell'accampamento e di parte del territorio, nonché di passare sotto il giogo, e conoscono voi e se stessi! No, sono la discordia delle classi e gli eterni contrasti - vero veleno di questa città - tra patrizi e plebei, che hanno risollevato il loro animo, perché noi non moderiamo il nostro potere e voi la vostra libertà, voi siete insofferenti nei confronti dei patrizi e noi nei confronti delle magistrature plebee. Ma in nome degli Dei, cosa volete? 

Morivate dalla voglia di avere dei tribuni della plebe, in nome della concordia sociale ve li abbiamo concessi. Desideravate i decemviri: ne abbiamo autorizzato l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad abbandonare la carica. Continuavate a odiarli anche quando erano ormai tornati dei privati cittadini, abbiamo tollerato che uomini molto nobili e onorati venissero condannati a morte e all'esilio. Poi vi è di nuovo venuta la voglia di eleggere dei tribuni, li avete eletti, e di nominare consoli dei membri della vostra parte e noi, pur sembrandoci ingiusto nei confronti dell'aristocrazia, siamo arrivati al punto di vedere quella grande magistratura patrizia offerta in dono alla plebe. 

L'intromissione dei tribuni, l'appello di fronte al popolo, i decreti approvati dalla plebe e imposti al patriziato, i nostri diritti calpestati in nome dell'eguaglianza delle leggi, tutto abbiamo sopportato e sopportiamo. In che modo potranno mai avere fine i contrasti? Verrà mai il giorno in cui sarà possibile avere una sola città unita e considerarla la patria comune? Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo la situazione con animo più sereno di quanto non facciate voi, che pure siete i vincitori. Non vi basta che noi dobbiamo temervi? 

Contro di noi è stato preso l'Aventino, contro di noi è stato occupato il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino quasi preso dal nemico e i Volsci apprestarsi a scalare le mura di Roma: nessuno ha avuto il coraggio di andarli a ricacciare indietro. Solo contro di noi voi siete dei veri uomini, solo contro di noi impugnate le armi. 


68)  Forza dunque: visto che siete riusciti ad assediare la curia, a trasformare il foro in una a tana di insidie e a riempire le patrie prigioni di uomini eminenti, dimostrate la stessa audacia, uscite dalla porta Esquilina. Ma se non siete neppure all'altezza di un gesto del genere, allora andate a vedere dall'alto delle mura i vostri campi messi a ferro e fuoco, le vostre cose portate via e il fumo degli incendi che sale qua e là nel cielo dalle case in fiamme. Ma voi potreste obiettare che chi sta peggio è lo Stato, con le campagne che bruciano, la città assediata e la gloria militare lasciata solo ai nemici. E con questo? 

Credete che i vostri interessi privati non si trovino nella stessa situazione? Presto dalla campagna arriverà a ciascuno di voi la notizia delle perdite subite. Che cosa c'è qui in patria, in grado di risarcirle? Ci penseranno i tribuni a restituirvi quel che avete perduto? Vi prodigheranno a sazietà parole e chiacchiere, accuse contro cittadini in vista, leggi su leggi e concioni. Ma da quelle concioni nessuno di voi è mai tornato a casa più ricco di beni e di denaro. 

O c'è mai stato qualcuno che abbia riportato a moglie e figli altro che risentimento, antipatie e gelosie pubbliche e private dalle quali siete stati protetti non certo per il vostro valore e la vostra integrità, ma per l'aiuto ricevuto da altri? Ma, per Ercole, quando eravate al servizio di noi consoli e non dei tribuni, e nell'accampamento invece che nel Foro, quando il vostro urlo spaventava il nemico in battaglia e non i senatori romani in assemblea, dopo aver fatto bottino e dopo aver conquistato terre al nemico, tornavate a casa, ai vostri Penati, carichi di preda, coperti di gloria e di successi conquistati per la patria e per voi stessi! 

Ora invece permettete che i nemici se ne vadano carichi delle vostre ricchezze. Tenetevele strette le vostre assemblee e continuate pure a vivere nel Foro: ma la necessità di prendere le armi - da cui rifuggite - vi incalza. Vi pesava marciare contro Equi e Volsci? Ora la guerra è alle porte. Se non si riuscirà ad allontanarla, presto si trasferirà all'interno delle mura e salirà fino alla rocca del Campidoglio, perseguitandovi anche dentro le case. Due anni or sono il senato bandì una leva militare e poi diede ordine di condurre le truppe sull'Algido: noi ora ce ne stiamo qui oziosi, litigando come donnicciole, contenti della pace del momento e incapaci di prevedere che da questo breve periodo di tregua la guerra risorgerà mille volte più grande. So benissimo che ci sono cose molto più piacevoli a dirsi. 

Ma a parlare di cose vere anziché di gradite, anche se non mi ci inducesse il mio carattere, mi obbliga la necessità. Vorrei davvero piacervi, o Quiriti, ma preferisco di gran lunga vedervi sani e salvi, qualunque sia il sentimento che nutrirete in futuro nei miei confronti. Dalla natura è stato disposto così: chi parla in pubblico per interesse personale è più gradito di chi ha invece al vertice dei suoi pensieri solo l'interesse dell'intera comunità; a meno che per caso non crediate che tutti questi adulatori del popolo e questi demagoghi che oggi non vi permettono né di combattere né di starvene tranquilli vi incitino e vi stimolino nel vostro interesse. 

La vostra agitazione è per loro titolo di merito o ragione di profitto; e siccome quando regna la concordia tra le classi essi sanno di non essere nulla, preferiscono mettersi a capo di tumulti e sedizioni, preferiscono fare azioni malvage piuttosto che nulla. Se esiste una possibilità che alla fine tutto ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate tornare alle vostre abitudini di un tempo e a quelle dei vostri antenati, rinunciando alle funeste innovazioni, vi autorizzo a punirmi se nel giro di pochi giorni non sarò riuscito a sbaragliare questi devastatori delle nostre campagne dopo averli sradicati dall'accampamento, e a trasferire da sotto le nostre mura alle loro città questa paura di un conflitto che ora vi paralizza.» 


69)  Raramente, in altre occasioni, il discorso di un tribuno popolare ebbe presso la plebe un'accoglienza più entusiastica di quella toccata allora alla durissima requisitoria del console. Perfino i giovani, che in situazioni così critiche avevano di solito nella renitenza alla leva l'arma più affilata contro il patriziato, guardavano invece con impazienza alle armi e alla guerra. E siccome i contadini fuggiti dopo essere stati depredati e feriti mentre si trovavano nella campagna riferivano di atrocità ben più gravi di quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di sdegno travolse l'intera città. Quando si riunì il senato, a dir la verità tutti si voltarono verso Quinzio, guardandolo come il solo vendicatore della maestà di Roma. 

I senatori più autorevoli dichiararono che il suo discorso era stato all'altezza dell'autorità consolare, degno cioè dei molti consolati detenuti in passato e dell'intera sua vita, che era stata piena di riconoscimenti a lui spesso tributati e anche più spesso da lui meritati. Altri consoli avevano in passato o adulato la plebe tradendo la dignità dei senatori oppure, insistendo in un'accanita difesa dei diritti della loro classe, avevano esasperato la massa cercando a tutti i costi di soggiogarla; nel suo discorso Tito Quinzio aveva tenuto conto della dignità dei senatori, della concordia tra le classi e - soprattutto - della situazione di fatto. Implorarono lui e il suo collega di prendere in mano le redini dello Stato e pregarono i tribuni di predisporsi ad agire di conserva con i consoli, nel tentativo di allontanare la guerra dalle mura di Roma, supplicandoli anche di fare in modo che in circostanze così allarmanti la plebe accettasse di obbedire ai senatori. 

Dissero inoltre che la patria comune, vedendo le devastazioni nelle campagne e la città quasi stretta d'assedio, si rivolgeva ai tribuni invocandone l'aiuto. All'unanimità venne quindi decretata e sùbito messa in pratica la leva militare. Di fronte all'assemblea i consoli proclamarono che non c'era tempo per valutare i motivi per esentare dal servizio, e dunque i più giovani - nessuno escluso - dovevano presentarsi in campo Marzio all'alba del giorno successivo; solo a guerra finita si sarebbe trovato il tempo di valutare la giustificazione di chi non era andato ad arruolarsi; e quanti avessero addotto delle motivazioni poi giudicate non sufficientemente valide avrebbero ricevuto il trattamento riservato ai disertori. 

Il giorno successivo tutti i giovani si presentarono. Ciascuna coorte si scelse autonomamente i propri centurioni e due senatori vennero posti al comando di ognuna di esse. Ho trovato che questi preparativi furono portati a termine così rapidamente che, nel corso di quella stessa giornata, le insegne furono prelevate dai questori nell'erario, trasferite in Campo Marzio e di là, alla quarta ora del giorno si misero in movimento. E il nuovo esercito, scortato volontariamente da poche coorti di veterani, alla sera si accampò a dieci miglia da Roma. Il giorno successivo venne avvistato il nemico, e gli accampamenti vennero a trovarsi uno a ridosso dell'altro, nei pressi di Corbione. Il terzo giorno, dato che i Romani erano in preda alla rabbia e gli altri - che si erano già più volte ribellati - consci delle proprie colpe e disperati, nessuno tentò di ritardare in alcun modo la battaglia. 


70) Benché nell'esercito romano i due consoli avessero la stessa autorità, tuttavia in quell'occasione Agrippa lasciò il comando supremo al collega, il che è molto utile quando si devono prendere decisioni di estrema importanza. E il prescelto Tito Quinzio ricambiò il generoso gesto comunicando al collega, che si era posto volontariamente in sottordine, i propri piani, e condividendone i meriti, e considerandolo a lui pari ancorché ormai inferiore di grado. Nello schieramento sul campo Quinzio tenne l'ala destra e Agrippa la sinistra. Al luogotenente Spurio Postumio Albo fu affidato il centro, a capo della cavalleria fu posto Publio Sulpicio, l'altro luogotenente. All'ala destra la fanteria si batté con estremo accanimento, ma la resistenza dei Volsci non fu da meno. Publio Sulpicio fece breccia con la cavalleria nel centro dello schieramento nemico. 

Avrebbe potuto rientrare nei ranghi dalla stessa parte e prima che il nemico avesse avuto il tempo di riformare le linee sconvolte: invece ritenne più opportuno prendere i Volsci alle spalle. Caricandoli da dietro avrebbe disperso in un attimo i nemici atterriti da due attacchi simultanei se i cavalieri dei Volsci e degli Equi, impegnandolo separatamente, non lo avessero contenuto per un po'. Ma in quell'istante Sulpicio gridò che non c'era più tempo da perdere e che sarebbero stati circondati e tagliati fuori dal resto dei compagni, se con tutte le loro forze non avessero concluso quello scontro tra cavallerie. 

Non sarebbe stato sufficiente mettere in fuga i nemici permettendo che ne uscissero incolumi: dovevano distruggere uomini e cavalli, in maniera tale che nessuno potesse rituffarsi nello scontro e dare nuovo vigore alla battaglia. I nemici non potevano certo tener loro testa, se prima la schiera compatta dei fanti aveva dovuto cedere al loro sfondamento. Non aveva parlato a sordi. Con un'unica carica i Romani sbaragliarono l'intera cavalleria nemica: dopo avere disarcionato moltissimi cavalieri, li trafissero insieme ai cavalli, servendosi delle lance. 

Fu questa la conclusione della battaglia equestre. Dopo essersi sùbito buttati all'assalto della fanteria, mandarono dei messaggeri ai consoli per riferir loro del successo ottenuto, mentre il fronte nemico già stava per cedere. La notizia aumentò l'ardire dei Romani che stavano avendo la meglio, e seminò lo scompiglio tra le fila degli Equi in ritirata. La loro rotta cominciò nel centro dello schieramento, nel punto in cui l'irruzione della cavalleria aveva sconvolto le linee. Poi però anche l'ala sinistra cominciò a cedere di fronte al console Quinzio. Sul versante destro lo sforzo fu tremendo. 

Qui il giovane e prestante Agrippa, vedendo che la battaglia ovunque aveva esiti migliori che dalla sua parte, strappò le insegne ai vessilliferi e cominciò a brandirle lui stesso, gettandone anche qualcuna tra le linee compatte dei nemici. Allora i suoi uomini, spinti dal timore della vergogna, si rovesciarono sugli avversari, e così la vittoria fu uguale in ogni settore. In quel momento arrivò da Quinzio la notizia che egli, ormai vincitore, stava già minacciando l'accampamento nemico, ma non voleva assaltarlo prima di aver ricevuto la notizia che anche all'ala sinistra le cose erano finite per il meglio. 

Se Agrippa aveva già sbaragliato i nemici, allora che andasse ad unire le truppe alle sue, perché nel medesimo momento l'intero esercito potesse mettere le mani sul bottino. E il vittorioso Agrippa raggiunse il collega vittorioso di fronte all'accampamento nemico e lì ci fu uno scambio di congratulazioni. Messi in fuga in un baleno i pochi rimasti a presidiare il campo, i due consoli senza far uso delle armi irrompono nelle trincee e riconducono in patria l'esercito carico di un ingente bottino, e che inoltre aveva recuperato i propri beni andati perduti durante il saccheggio delle campagne. 

Da quanto sono riuscito ad appurare, né i consoli richiesero il trionfo né il senato lo decretò; non ci viene tramandato il motivo per il quale un simile riconoscimento fu dai vincitori disdegnato o non sperato. Per quanto posso arguire, dopo così tanto tempo, siccome il trionfo era stato negato dal senato ai consoli Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver sconfitto Volsci ed Equi, si erano coperti di gloria anche nella guerra contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si vergognarono di chiederlo per un'impresa ch'era metà di quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare che si fosse tenuto conto più degli uomini che dei meriti. 


71)  L'onorevole vittoria conseguita sui nemici fu inquinata a Roma da un'infame sentenza del popolo in merito ai territori degli alleati. I cittadini di Ardea e di Aricia erano spesso giunti allo scontro per una fascia di terra la cui appartenenza era controversa; stanchi delle molte reciproche sconfitte, scelsero quale giudice il popolo romano. Presentatisi in città per perorare le rispettive cause ed essendo stata convocata dai magistrati l'assemblea, si ebbe un'accanita disputa. E quando, dopo esser stati prodotti i testimoni, si era ormai prossimi alla convocazione delle tribù e al voto da parte del popolo, Publio Scapzio, un plebeo piuttosto anziano, si alzò a parlare e disse: 

«Se mi è concesso, o consoli, di parlare nell'interesse del paese, io non permetterò che in questa causa il popolo commetta un errore.» I consoli dissero che, inattendibile qual era, non c'erano ragioni per ascoltarlo, e dato che continuava a sbraitare che si tradiva l'interesse del paese, avevano ordinato di allontanarlo. Ma egli si appellò ai tribuni. Questi, abituati quasi sempre a essere guidati dalla plebe anziché a guidarla, concessero alla folla impaziente di sentire quello che Scapzio aveva in mente di dire. 

Il vecchio cominciò così a parlare dicendo di avere 83 anni e di aver militato proprio nella zona che in quel momento era al centro del dibattito, e non da giovane, ma come uno che al tempo della campagna di Corioli aveva già vent'anni di servizio alle spalle. Per questo si riferiva a un episodio che, pur essendo ormai caduto nel dimenticatoio perché successo così indietro nel tempo, si era comunque impresso nella sua memoria: la terra oggetto della disputa era stata parte del territorio dei Coriolani. Poi, una volta presa Corioli, era per diritto di guerra diventata proprietà del popolo romano. Si meravigliava quindi moltissimo della sfrontatezza con la quale Aricini e Ardeati speravano di togliere al popolo romano - trasformandolo da proprietario in giudice - una fascia di terra sulla quale essi non avevano mai esercitato alcun tipo di diritto quando lo stato di Corioli era ancora indipendente. 

Gli restava poco da vivere, tuttavia non si poteva convincere che, dopo aver fatto la sua parte di soldato nel conquistare con le armi quella terra, ora 85 da vecchio non dovesse difenderla con la parola, la sola forza rimasta a sua disposizione. Perciò invitava vivamente il popolo a non danneggiare la propria causa solo per un inutile pudore. 


72)  Quando i consoli si accorsero che Scapzio non solo era ascoltato in silenzio, ma anche otteneva consenso, chiamando a testimoni gli Dei e gli uomini che si stava per commettere un'enorme ingiustizia, fecero venire i senatori più autorevoli. E andando con loro in giro tra le tribù, pregavano che, come giudici, non si macchiassero di una simile infamia e non dessero un esempio ancora peggiore risolvendo quella causa a loro vantaggio. Ammesso che fosse lecito a un giudice badare al proprio interesse, appropriandosi della terra contesa essi non venivano a guadagnare più di quanto in realtà perdevano, dato che si sarebbero alienati con un sopruso le simpatie degli alleati: la loro reputazione e la loro affidabilità avrebbero subito danni ben maggiori del prevedibile. 

Il fatto lo avrebbero riferito in patria gli inviati, si sarebbe divulgato, avrebbe raggiunto le orecchie di alleati e nemici, con dolore per i primi e gioia per i secondi. Credevano forse che i popoli confinanti ne avrebbero ritenuto responsabile Scapzio, un vecchio ciarlatano assembleare? Certo per questo aspetto Scapzio sarebbe diventato famoso, ma il popolo romano avrebbe fatto la figura del delatore per interesse e del rapinatore. E infatti quale giudice, nell'àmbito di una causa privata, era mai arrivato ad aggiudicare a se stesso l'oggetto della controversia? 

Neppure Scapzio in persona, pur avendo ormai superato ogni limite di decenza, sarebbe stato capace di tanto. Queste erano le cose che senatori e consoli si sgolavano a dire, ma l'avidità e Scapzio, che tale avidità aveva scatenato, ebbero la meglio. Le tribù chiamate al voto decisero che la fascia di terra era pubblica proprietà del popolo romano. Non si esclude che l'esito sarebbe stato il medesimo se altri fossero stati i giudici. Ma nel presente caso, la bontà della causa non attenuò per nulla l'infamia della sentenza, che non sembrò meno vergognosa e amara agli Aricini e agli Ardeati di quanto non lo fosse stata ai senatori romani. Il resto dell'anno trascorse quieto, senza disordini in città e all'esterno.  

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