TITO LIVIO |
I
A questi uomini successero i consoli Marco Genucio e Gaio Curzio. Fu un anno difficile, sia in patria sia fuori. Infatti, all'inizio dell'anno, il tribuno della plebe Gaio Canuleio presentò una proposta di legge sul matrimonio tra patrizi e plebei, con la quale i patrizi pensavano si contaminasse il loro sangue e si sovvertissero i diritti gentilizi. Inoltre, fu suggerita - prima molto cautamente da parte dei tribuni - un'altra proposta in base alla quale sarebbe stato lecito che uno dei consoli fosse di estrazione plebea.
Ma la cosa prese in séguito una tale consistenza da spingere ben nove tribuni a presentare una proposta di legge che garantiva al popolo la facoltà di nominare i consoli scegliendoli sia fra la plebe, sia tra i patrizi. E questi ultimi credevano che, se ciò fosse accaduto, non solo alla più alta carica avrebbero avuto accesso i più infimi, ma essa sarebbe stata del tutto tolta agli aristocratici per affidarla ai plebei.
Perciò fu per i patrizi un grande sollievo sentire che il popolo di Ardea si era ribellato per l'infamia con la quale gli era stata portata via la terra, che i Veienti avevano messo a ferro e fuoco le campagne alla frontiera romana e che Volsci ed Equi stavano fremendo per la fortezza di Verrugine: i patrizi preferivano una guerra dall'esito magari funesto a una pace vergognosa. Perciò, esagerando ancor più queste notizie - per far cessare, nell'agitazione di tante guerre, le iniziative dei tribuni - ordinano di organizzare le leve e di preparare la guerra e le armi, con il massimo impegno e, se possibile, con ancor maggiore sollecitudine di quella con cui erano state preparate sotto il console Tito Quinzio.
Allora Gaio Canuleio, in poche frasi, dice ai senatori che i consoli, continuando a spaventare senza motivo, non sarebbero riusciti, né a distogliere la plebe dal pensiero delle nuove leggi, né a realizzare, finché lui era vivo, la leva militare, almeno non prima che la plebe avesse espresso il proprio voto sulle proposte di legge presentate da lui e dai suoi colleghi. Detto questo, convocò subito l'assemblea.
II
Nello stesso tempo i consoli istigavano il senato contro il tribuno, e il tribuno il popolo contro i consoli. Questi ultimi sostenevano che non era possibile tollerare più a lungo i colpi di testa dei tribuni: si era ormai arrivati a toccare il limite estremo e c'erano più focolai di guerra all'interno della città che all'esterno. E se adesso le cose stavano così, la colpa era tanto della plebe quanto del patriziato e tanto dei tribuni quanto dei consoli. In ogni paese si sviluppa col massimo incremento ciò che viene ricompensato: così, sia in pace che in guerra, si formano i buoni cittadini. Ma a Roma ciò che aveva maggiore successo erano le sedizioni: da sempre esse tornavano ad onore sia dei singoli che della moltitudine.
Che ricordassero la maestà del senato quale l'avevano ricevuta dai loro padri e quale l'avrebbero consegnata ai figli, e come invece la plebe potesse vantarsi di aver accresciuto la propria autorità e importanza. Né si intravedeva una fine a questo, nemmeno per il futuro, finché le sedizioni avessero continuato ad aver fortuna e i loro autori avessero continuato a ricevere tanti riconoscimenti. Quali iniziative aveva preso Gaio Canuleio, e quanto importanti! Cercava di mescolare il sangue delle famiglie aristocratiche, di creare confusione negli auspici pubblici e privati, perché niente di puro, niente di incontaminato si salvasse, così che, soppressa ogni distinzione, nessuno potesse essere in grado di riconoscere se stesso e i suoi. Perché quale altro effetto possono avere i matrimoni misti, se non la diffusione di accoppiamenti, come tra animali, di patrizi e plebei?
Così i figli nascendo non avrebbero saputo qual era il loro sangue, quale il loro culto; sarebbero stati per metà patrizi e per metà plebei, senza trovare accordo neppure dentro di loro. Ma che fosse completamente sconvolto l'ordine delle cose divine e di quelle umane sembrava ancora poco: i sobillatori del volgo puntavano già al consolato. E mentre in un primo tempo avevano cercato di ottenere solo coi discorsi che uno dei consoli fosse plebeo, ora presentavano la proposta che fosse il popolo a eleggere, a suo piacimento, i consoli tra i patrizi o tra i plebei. E senza dubbio avrebbero sempre eletto tra la plebe i più facinorosi: dunque sarebbero diventati consoli dei Canulei e degli Icili.
Ma Giove Ottimo Massimo non avrebbe permesso che una carica investita di regale maestà cadesse così in basso. Essi sarebbero morti mille volte piuttosto di tollerare che si commettesse una simile infamia. Erano sicurissimi che anche i loro antenati, se avessero potuto prevedere che, assecondando ogni richiesta della plebe, l'avrebbero resa non più mite ma solo più dura, e che alle prime concessioni avrebbero fatto séguito nuove e sempre più ingiuste pretese, all'inizio avrebbero accettato di affrontare qualsiasi scontro piuttosto che subire l'imposizione di quelle leggi. Ma siccome avevano ceduto allora sulla questione dei tribuni, si dovette cedere altre volte. I cedimenti non potevano aver fine se nella stessa città continuavano a coesistere tribuni della plebe e patrizi: bisognava eliminare quella classe o quella magistratura; bisognava opporsi - meglio tardi che mai - all'arroganza e alla temerarietà.
Com'era possibile che, dopo aver fatto scoppiare le guerre con i vicini a forza di seminare zizzania, avessero poi impedito alla città di armarsi per difendersi dalle guerre che loro avevano fatto scoppiare? O ancora che, dopo aver quasi invitato i nemici, in seguito non avessero permesso che si arruolassero gli eserciti per affrontarli? E che Canuleio fosse così sfrontato da dichiarare in senato che se i patrizi avessero impedito l'approvazione delle leggi da lui proposte, come se fossero quelle di un trionfatore, avrebbe impedito la realizzazione della leva militare?
Cos'altro era quella se non la minaccia di tradire il proprio paese, accettando che subisse un attacco e finisse in mani nemiche? Quelle parole sì sarebbero state un bell'incoraggiamento, ma non per la plebe, per Volsci, Equi e Veienti; non avrebbero forse sperato di salire fino sul Campidoglio e sulla cittadella con Canuleio alla testa? Se insieme ai diritti e alla dignità i tribuni non avevano sottratto ai patrizi anche il coraggio, allora i consoli erano pronti a guidare la lotta contro le scelleratezze dei concittadini, prima ancora che contro le armi dei nemici.
III
Proprio mentre in senato era in pieno svolgimento il dibattito su questi temi, Canuleio pronunciò questo discorso in difesa delle sue proposte di legge e contro i consoli: «Quanto i patrizi vi odino, o Quiriti, e come vi considerino indegni di vivere accanto a loro all'interno delle mura di una stessa città, a esser sincero mi sembra di averlo già rilevato più volte in passato. E ora più che mai, poiché i patrizi dimostrano un livore senza precedenti nei confronti delle nostre proposte di legge; ma noi cosa facciamo con esse se non avvertirli che siamo loro concittadini e che, pur non avendo pari ricchezze, abitiamo nella medesima patria? Con uno dei provvedimenti chiediamo il diritto a quel matrimonio che si suole concedere ai popoli confinanti e agli stranieri; noi abbiamo assicurato anche ai nemici vinti la cittadinanza, che è ben più del diritto al matrimonio.
Con il secondo non chiediamo nulla di nuovo, ma ci limitiamo a esigere e rivendicare un diritto del popolo, e cioè che il popolo romano possa eleggere i candidati che preferisce. Ma allora per quali ragioni i patrizi hanno deciso di mettere sottosopra cielo e terra? E perché mai poco fa io sono stato quasi assalito in senato? Perché hanno dichiarato di non voler limitare il ricorso alla forza, minacciando di violare la nostra sacrosanta autorità? Se al popolo romano fosse garantita la libertà di voto, così che possa affidare il consolato a chi desidera, e se anche il plebeo non fosse privato della speranza di assurgere ai massimi onori - qualora ne fosse degno -, credete che la stabilità di questo nostro paese risulterebbe compromessa? È la fine per lo Stato romano? Che un plebeo possa diventare console, equivale forse a dire che un console diventerà un liberto o un servo?
Ma vi rendete conto in mezzo a quanto disprezzo vivete? Se solo potessero, vi porterebbero via anche parte della luce del giorno! Non sopportano che respiriate, che parliate e che abbiate forma umana, e arrivano - pensate un po'! - a definire sacrilega l'elezione di un console plebeo. Ora, ditemi, anche se noi del popolo non siamo ammessi alla consultazione dei Fasti e dei libri tenuti dai pontefici, forse per questo ignoriamo quello che anche gli stranieri sanno, e cioè che i consoli presero il posto dei re e che non hanno alcun diritto o autorità che non siano già stati dei re? Pensate che nessuno abbia sentito parlare di Numa Pompilio, che, pur non essendo patrizio e nemmeno cittadino romano, fu chiamato dalle campagne della Sabina per volontà del popolo e regnò su Roma col beneplacito dell'aristocrazia?
Oppure che in séguito Lucio Tarquinio, il quale non apparteneva a una stirpe romana né italica, figlio di Demarato di Corinto e immigrato da Tarquinia, fu eletto re, anche se i figli di Anco erano ancora vivi? O che dopo di lui Servio Tullio, figlio di una prigioniera di Cornicolo, di padre ignoto e con una schiava per madre, riuscì a reggere il regno grazie soltanto al suo ingegno e al suo valore? Per non parlare di Tito Tazio, associato al potere da Romolo in persona, il padre di questa città! Quando non si disdegnava alcuna stirpe nella quale brillasse qualche virtù, la potenza di Roma continuò a crescere. E ora non dovrebbe andarvi a genio un console plebeo, quando i nostri antenati non rifiutarono re venuti da fuori e neppure dopo la cacciata dei re la città chiuse le porte alla virtù straniera?
Prendete la famiglia Claudia che veniva dai Sabini: dopo la cacciata dei re, non solo l'abbiamo accolta in città, ma l'abbiamo anche inclusa nel novero dei patrizi. Dunque uno straniero può diventare prima patrizio e poi console, e invece un cittadino romano, se proviene dalla plebe, sarà privato della speranza di arrivare al consolato? Dobbiamo forse ritenere impossibile che un uomo forte e coraggioso in pace e in guerra, simile a Numa, a Lucio Tarquinio e a Servio Tullio, sia di estrazione plebea? Oppure, se ve ne fosse uno, gli impediremo di arrivare al timone dello Stato e dovremo avere consoli simili ai decemviri - i più turpi tra gli uomini, pur provenendo tutti dai patrizi -, invece che simili ai migliori tra i re, anche se venuti dal nulla?
IV
Ma, in realtà, dai tempi della cacciata dei re nessun plebeo è mai stato console. E allora? Non si deve introdurre nessuna novità? E ciò che non è ancora stato fatto - e in un paese recente le cose non ancora fatte sono certo moltissime - non bisogna farlo nemmeno se è utile? Ai tempi del regno di Romolo non esistevano né pontefici né àuguri: fu Pompilio a crearli. Non c'era censo né divisione in centurie basata sul censo: li introdusse Servio Tullio. Non c'erano mai stati dei consoli: furono creati dopo la cacciata dei re. Il nome e il potere del dittatore non c'erano: cominciarono a esserci al tempo dei nostri padri. Non esistevano né tribuni della plebe né edili, né questori: si stabilì di averne. Nell'arco degli ultimi dieci anni, abbiamo eletto decemviri incaricati di redigere le leggi e poi li abbiamo allontanati dalla repubblica.
Chi potrebbe dubitare che, in una città fondata per durare in eterno e che cresce smisuratamente, si debbano istituire nuovi poteri, nuovi sacerdoti e nuovi diritti delle genti e dei singoli uomini? Questo stesso divieto di contrarre matrimoni tra patrizi e plebei non lo introdussero i decemviri qualche anno or sono, causando pessimi effetti sulla comunità e danneggiando ingiustamente la plebe? Esiste forse affronto più grande e infamante di questo che considera una parte della popolazione indegna del matrimonio, come se fosse infetta? Che cos'è questa se non una segregazione all'interno delle mura della propria città? I patrizi fanno di tutto per evitare che intrecciamo rapporti con loro di affinità e di parentela, non vogliono che si mescoli il sangue.
E che? Se un simile contatto è in grado di contaminare questa vostra nobiltà - che la maggior parte di voi, date le origini albane e sabine, non possiede per lignaggio o per sangue, ma per essere stata cooptata nel patriziato, o scelta dai re o per volontà del popolo dopo la cacciata dei re -, non potevate mantenerla intatta con accorgimenti privati, non prendendo in moglie donne plebee e impedendo che le vostre figlie e sorelle sposassero uomini estranei all'aristocrazia? Nessun plebeo violenterebbe mai una ragazza patrizia: è una libidine tipica dei nobili. Nessuno costringerebbe un altro a stipulare un contratto matrimoniale contro la sua volontà. Ma impedire con la legge matrimoni tra patrizi e plebei, annullare quelli già celebrati, questo sì che è un vero affronto alla plebe! Perché allora non proponete che non ci sia diritto di matrimonio tra poveri e ricchi?
Ciò che sempre e dovunque si è lasciato alla decisione privata - ossia che una donna andasse in sposa nella casa dove si era convenuto e che l'uomo potesse prendere moglie dalla casa in cui aveva stretto l'accordo - voi volete assoggettarlo ai vincoli di una legge dispotica, per creare una frattura all'interno della società, spaccando in due lo Stato. Perché non decretate che il plebeo non possa stare accanto al patrizio, non possa camminare per la stessa strada, non possa sedersi alla stessa tavola né trovarsi nello stesso foro? Che differenza ci può mai essere se un patrizio sposa una plebea o un plebeo una patrizia? Contro quale diritto si andrebbe? I figli seguono naturalmente i padri. Volendoci unire in matrimonio con voi, non chiediamo altro che far parte del consesso umano e civile, e voi non avete nessuna buona ragione per impedircelo, a meno che vi piaccia gareggiare a chi ci oltraggia e ci umilia di più.
V
Ma infine il supremo potere appartiene al popolo romano o a voi? La cacciata dei re ha fruttato la tirannide a voi o un'uguale libertà a tutti? Al popolo romano, se questo è il suo desiderio, deve essere consentito di votare una legge, oppure, ogni qualvolta verrà presentata una nuova proposta, voi per reazione indirete una leva militare? E non appena io, in qualità di tribuno, chiamerò le tribù al voto, tu súbito, in qualità di console, costringerai i più giovani a prestare il giuramento militare e li porterai al campo, distribuendo minacce alla plebe e ai suoi tribuni? Che cosa succederebbe se non aveste già sperimentato per ben due volte quanto poco valgano queste minacce di fronte al consenso unanime della plebe? È vero che avete evitato di scontrarvi per venire incontro alle nostre esigenze, oppure non si è combattuto perché la parte più forte era anche la più moderata?
Non ci sarà scontro neppure adesso, o Quiriti: i patrizi continueranno sempre a saggiare il vostro coraggio, ma non arriveranno mai a mettere alla prova la vostra forza. Perciò, o consoli, la plebe è pronta ad affrontare queste guerre - vere o false che siano - solo se voi, ripristinato il diritto al matrimonio, finalmente riunirete questa città; se i plebei potranno fondersi, unirsi e mescolarsi con voi in base a legami privati di parentela; se ad uomini valorosi e forti sarà data la speranza di accedere alle cariche pubbliche; se sarà consentito a tutti di partecipare alla gestione della cosa pubblica; se, uguali nella libertà, si avrà l'opportunità di governare e di obbedire a turno, secondo l'avvicendamento annuale delle magistrature. Se qualcuno dovesse respingere queste condizioni, voi consoli potrete parlare di guerre e moltiplicarle coi vostri discorsi: nessuno di noi andrà a iscriversi, nessuno imbraccerà le armi, nessuno combatterà per dei padroni arroganti, coi quali non ha nulla in comune: né riconoscimenti nella vita pubblica, né matrimoni in quella privata.»
VI
Anche i consoli si erano presentati a parlare in assemblea e qui, dopo interminabili interventi, il dibattito si trasformò in un alterco. Al tribuno che chiedeva perché mai un plebeo non dovesse diventare console, Curiazio - forse giustamente, ma poco opportunamente date le circostanze - rispose che nessun plebeo aveva il diritto di prendere gli auspici e che per questo i decemviri avevano vietato i matrimoni misti, perché gli auspici non fossero turbati in caso di discendenza incerta. Di fronte a queste parole, presa da grande indignazione, la plebe s'infiammò, perché le si negava la possibilità di trarre gli auspici, come se fosse in odio agli dèi immortali.
Siccome la plebe, che aveva trovato nel tribuno un difensore accanito della causa comune, gareggiava con lui in ostinazione, lo scontro si concluse solo quando i patrizi cedettero, accettando finalmente una proposta di legge sul diritto di matrimonio; essi erano pienamente convinti che in tal modo i tribuni avrebbero abbandonato definitivamente la questione dei consoli plebei o almeno l'avrebbero rimandata alla fine della guerra, e che la plebe, soddisfatta per il diritto di matrimonio, sarebbe stata disposta ad arruolarsi. Essendo cresciuto molto il prestigio di Canuleio per la vittoria sui patrizi e per il favore della plebe, gli altri tribuni, incoraggiati alla lotta, si impegnano con tutte le forze per far passare la loro proposta e impediscono la leva, benché ogni giorno di più prendano consistenza le voci di guerra.
I consoli, non potendo per il veto dei tribuni far prendere deliberazioni al senato, tenevano riunioni private con i membri più autorevoli. Era chiaro che sarebbe stato inevitabile lasciare la vittoria o ai nemici o ai concittadini. Tra gli ex-consoli soltanto Valerio e Orazio non prendevano parte a quelle riunioni. Gaio Claudio parlava di armare i consoli contro i tribuni, mentre i due Quinzi, Cincinnato e Capitolino, erano assolutamente contrari a uccidere e usare violenza contro coloro che, in virtù del patto stipulato con la plebe, avevano dichiarato sacri e inviolabili. A séguito di queste riunioni si arrivò ad accordare l'elezione di tribuni militari con potere consolare, da scegliersi indifferentemente tra patrizi e plebei, mentre nulla doveva essere mutato per quanto riguardava l'elezione dei consoli.
Di questo furono contenti i tribuni e la plebe. Vengono quindi indetti i comizi per l'elezione di tre tribuni con potere consolare. Non appena ne fu annunciata la data, tutti quelli che avevano detto o fatto qualcosa di sedizioso (e soprattutto gli ex-tribuni), cominciarono a sollecitare la gente e, vestiti col bianco dei candidati, andarono in giro per tutto il foro a caccia di voti. E lo fecero per scoraggiare i patrizi che, in primo luogo non avevano alcuna speranza di raggiungere quella carica per via dell'irritazione della plebe, e poi erano indignati all'idea di dover dividere la magistratura con loro. Ma alla fine furono costretti dai loro membri più autorevoli a scendere in gara per non dar l'impressione di aver rinunciato al controllo della cosa pubblica.
L'esito delle elezioni dimostrò come sia diverso il comportamento degli uomini quando lottano per la libertà e l'onore rispetto a quando giudicano a mente fredda gli eventi, una volta deposte le contese. Il popolo infatti elesse tre tribuni, tutti patrizi, bastandogli che l'opinione dei plebei fosse stata presa in considerazione. Ma oggi dove si potrebbe trovare in un solo individuo quel senso di equità, quella moderazione e quella nobiltà d'animo che allora erano nell'intera popolazione?
VII
Nell'anno 310 dalla fondazione di Roma, per la prima volta, entrano in carica, al posto dei consoli, i tribuni militari: si chiamavano Aulo Sempronio Atratino, Lucio Atilio e Tito Clelio. Durante il loro mandato, la concordia interna garantì la pace anche all'esterno. Alcuni autori, sulla base di una guerra con Veio venutasi ad aggiungere a quelle con Volsci ed Equi nonché alla ribellione degli Ardeati, sostengono che i tre tribuni militari furono eletti proprio perché i due consoli non sarebbero stati in grado di far fronte contemporaneamente a tanti conflitti, e non fanno alcun accenno alla proposta di legge sull'elezione di consoli plebei, pur menzionando però che i tribuni ebbero l'autorità e le insegne dei consoli. In ogni caso, la nuova magistratura non poggiava ancora su basi sicure perché, a soli tre mesi di distanza dal giorno dell'investitura, i tre dovettero rinunciare alla carica per decreto degli àuguri, come se la loro nomina non fosse regolare, in quanto Gaio Curiazio, che aveva presieduto alle elezioni, non aveva scelto il luogo giusto per la tenda augurale.
Da Ardea arrivarono a Roma ambasciatori per lamentarsi del torto subito; facevano però capire che, se fosse stata loro restituita la terra, avrebbero continuato a essere alleati e amici dei Romani. Il senato rispose loro di non avere la facoltà di abrogare una sentenza del popolo, e non soltanto per la mancanza di precedenti e di autorità specifica, ma anche a causa dell'armonia tra le classi: se gli Ardeati volevano aspettare l'occasione propizia affidando al senato la facoltà di decidere il modo con cui ripagarli dell'offesa subita, un giorno si sarebbero rallegrati di aver controllato il proprio risentimento e avrebbero capito quanto ai senatori stesse a cuore che non si commettesse alcuna ingiustizia nei loro confronti, e che quella che già c'era stata non durasse a lungo.
Così, dopo aver assicurato che avrebbero riferito la cosa nei particolari, gli ambasciatori vennero cortesemente congedati. Siccome la repubblica era priva di magistrature curuli, i patrizi si riunirono e nominarono un interré. L'interregno durò parecchi giorni, perché non si riusciva a decidere se si dovessero nominare i consoli o i tribuni militari. L'interré e il senato volevano che si eleggessero i consoli, e invece i tribuni della plebe e la plebe volevano i tribuni. Ebbero la meglio i senatori, sia perché la plebe, che era disposta a dare entrambe le cariche ai patrizi, si astenne dall'inutile lotta, sia perché i membri più autorevoli della plebe preferivano i comizi dai quali erano esclusi come candidati a quelli in cui potevano essere lasciati da parte come indegni.
Anche i tribuni della plebe abbandonarono una lotta per loro inutile per procurarsi un titolo di merito di fronte ai senatori più eminenti. L'interré Tito Quinzio Barbato nomina quindi consoli Lucio Papirio Mugillano e Lucio Sempronio Atratino. Durante il loro consolato venne rinnovato il trattato con gli Ardeati. Proprio questo episodio è l'unica prova che essi furono consoli in quell'anno, visto che non se ne trova menzione negli antichi annali né nelle liste dei magistrati. Personalmente credo che, essendoci i tribuni militari all'inizio dell'anno, i nomi dei consoli eletti al loro posto non sono stati registrati, come se i tribuni fossero rimasti in carica per l'intera durata dell'anno. Licinio Macro attesta che i nomi di quei consoli erano sia nel trattato con gli Ardeati sia nei libri lintei conservati nel tempio di Giunone Moneta. La situazione rimase tranquilla sia in città che all'esterno, nonostante le frequenti minacce delle popolazioni dei dintorni.
VIII
Sia che ci fossero stati solo tribuni, sia che i tribuni fossero stati successivamente sostituiti da consoli, a quell'anno ne seguì un altro in cui si ebbero i consoli Marco Geganio Macerino, per la seconda volta, e Tito Quinzio Capitolino, per la quinta. Quello stesso anno vide l'avvio della censura, carica modesta in origine, ma che acquistò in séguito un tale prestigio da sottoporre alla propria autorità il controllo dei costumi e della condotta dei Romani, così come il giudizio sulla rettitudine o meno del senato e delle centurie dei cavalieri. Ma alla discrezione di chi deteneva questa carica erano affidati anche il diritto decisionale sulle proprietà pubbliche e private e la cura dell'approvvigionamento alimentare del popolo romano.
La censura si era resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. E pur trattandosi di una carica modesta, i senatori la accolsero contenti perché avrebbe incrementato il numero di magistrati patrizi all'interno della repubblica e inoltre, com'è mia opinione per altro confermata da quello che accadde poi, perché pensavano che in poco tempo il prestigio delle persone che la detenevano avrebbe aggiunto alla carica autorità e rispettabilità.
E anche i tribuni, considerando quella magistratura più necessaria che onorifica - come infatti era in quel tempo -, per evitare un inopportuno ostruzionismo in questioni di poco conto, non fecero alcuna opposizione. Siccome i cittadini più autorevoli disdegnarono la carica, il popolo decretò di affidare il censimento a Papirio e a Sempronio (sul consolato dei quali persistono dubbi), in maniera tale che con quella magistratura potessero integrare un consolato incompleto. Dalla loro funzione presero il nome di censori.
IX
Mentre a Roma succedevano queste cose, arrivarono da Ardea ambasciatori a implorare aiuto per la loro città sull'orlo della rovina, in nome dell'antichissima alleanza e del trattato rinnovato di recente. Infatti non godevano più della pace, saggiamente mantenuta invece con il popolo romano, a causa di una guerra civile originata, per quel che se ne sa, dalla rivalità tra le fazioni, che, per buona parte dei popoli, furono e saranno ben più esiziali delle guerre esterne, delle carestie, delle pestilenze, e di tutte le altre cose, calamità e pubblici disastri che vengono attribuiti all'ira divina. Una ragazza di origini plebee, famosa per la sua bellezza, aveva due giovani pretendenti: uno era della stessa condizione e contava sull'appoggio dei tutori di lei, anch'essi della stessa classe, l'altro, nobile, era attratto esclusivamente dalla bellezza.
La causa di quest'ultimo era appoggiata dal favore degli ottimati, e così la lotta tra fazioni entrò anche nella casa della ragazza. La madre preferiva il nobile perché voleva per sua figlia il più sontuoso dei matrimoni; i tutori, invece, pensando anche in quella circostanza in termini di parte, sostenevano il pretendente plebeo. Siccome la cosa non poté essere risolta tra le mura domestiche, si ricorse al tribunale. Dopo aver ascoltato le ragioni della madre e dei tutori, i magistrati stabilirono che spettasse alla madre decidere ciò che riteneva più giusto riguardo alle nozze. Ma la violenza ebbe il sopravvento. I tutori infatti, dopo aver arringato in pieno foro gli uomini della loro parte, mettendo l'accento sull'iniquità del verdetto, formarono un gruppo e rapirono la ragazza dalla casa della madre.
Contro di loro mosse una schiera di patrizi ancora più inferociti e guidati dal giovane fuori di sé per l'oltraggio subito. Lo scontro fu durissimo. La plebe respinta - in niente simile alla plebe romana - esce armata dalla città, occupa un colle e di lì opera incursioni nelle terre dei patrizi, le mette a ferro e fuoco. La plebe si prepara ad assediare la città: l'intera corporazione degli artigiani, compresi quelli che fino ad allora non avevano preso parte agli scontri, era stata richiamata dalla speranza di bottino. E non mancava nessuno degli orrori bellici, come se la città fosse stata contagiata dalla rabbia dei due giovani che cercavano nozze funeste dalla rovina del loro paese. A nessuna delle due parti parve che in patria ci fossero già abbastanza armi e guerra: gli ottimati chiamarono i Romani in aiuto della città assediata, i plebei si rivolsero ai Volsci per conquistare Ardea con il loro sostegno.
I Volsci comandati da Equo Cluilio arrivarono per primi ad Ardea e costruirono una trincea davanti alle mura nemiche. Quando a Roma arrivò la notizia, il console Marco Geganio partì immediatamente con l'esercito e, giunto a tre miglia di distanza dal nemico, scelse un luogo adatto per porre l'accampamento; poi, siccome stava rapidamente calando la notte, diede ordine ai soldati di riposarsi. Alle tre di notte, si mise in movimento e, iniziata la costruzione di una trincea, la completò così velocemente che al sorgere del sole i Volsci si resero conto di essere stati circondati dai Romani con una fortificazione più solida di quella da loro costruita intorno alla città. In un settore il console aveva poi aggiunto un terrapieno collegato alle mura di Ardea, in maniera tale che i suoi potessero andare e venire dalla città al campo.
X
Il comandante dei Volsci, che fino ad allora aveva sfamato i suoi col frumento preso giorno per giorno razziando le campagne circostanti e non con scorte accumulate in precedenza, quando, circondato dal vallo, all'improvviso si trovò del tutto privo di risorse, invitò il console a colloquio e gli disse che, se i Romani erano lì per liberare Ardea dall'assedio, lui avrebbe portato via i Volsci. Il console replicò che i vinti devono subire le condizioni e non dettarle. I Volsci erano venuti ad assediare gli alleati del popolo romano di loro spontanea volontà, però ora non potevano andarsene nella stessa maniera. Ordinò che consegnassero il comandante e che deponessero le armi, dichiarandosi vinti e obbedienti ai suoi ordini. In caso contrario lui sarebbe stato un nemico pericoloso sia per chi se ne andava, sia per chi rimaneva, deciso com'era a riportare a Roma una vittoria sui Volsci piuttosto che una pace incerta.
I Volsci, non avendo altre vie d'uscita, tentarono l'unica cosa che restava da fare, lo scontro armato. Siccome, oltre a tutti gli altri svantaggi, si trovavano in un luogo poco adatto al combattimento e ancor meno alla fuga, vennero massacrati da ogni parte. Abbandonata la lotta per implorare invece salvezza, dopo aver consegnato il comandante e cedute le armi, furono fatti passare sotto il giogo e quindi, con addosso un solo indumento per ciascuno, rimandati in patria carichi di vergogna per la disfatta. Accampatisi non lontano da Tuscolo, inermi com'erano, furono sopraffatti dai Tuscolani, che da lungo tempo li odiavano. Così dura fu la punizione che quasi non rimasero superstiti a riferire la notizia del disastro.
Ad Ardea il console romano ristabilì l'ordine sconvolto dalla sedizione, facendo decapitare i capi e confiscando i loro beni a beneficio dell'erario degli Ardeati. Questi pensavano che il grande servigio prestato loro dal popolo romano avesse riparato l'affronto del verdetto relativo alla terra contesa; ciò nonostante al senato di Roma sembrava che ci fosse ancora qualcosa da fare per cancellare il ricordo di quella avidità dello Stato romano. Il console tornò a Roma in trionfo, facendo camminare davanti al suo carro il comandante dei Volsci Cluilio e mettendo in mostra le spoglie strappate all'esercito nemico che, disarmato, era stato da lui costretto a passare sotto il giogo.
Il console Quinzio, rimasto in patria, riuscì ad eguagliare, cosa non facile, i riconoscimenti ottenuti dal collega in campo militare: ebbe cura della pace e della concordia interne, regolando i diritti dei cittadini dal ceto più umile al più alto in modo tale che i patrizi lo considerarono un console energico e i plebei abbastanza moderato. E anche nei rapporti coi tribuni ricorse alla sua autorità piuttosto che allo scontro aperto. Cinque consolati esercitati sempre nello stesso modo e tutta una vita degna di un console facevano sì che l'uomo imponesse maggiore rispetto della carica. Perciò, durante quel consolato, non si fece alcun accenno a tribuni militari.
XI
Furono eletti consoli Marco Fabio Vibulano e Postumio Ebuzio Corniceno. Questi due magistrati si rendevano conto di succedere a uomini che si erano coperti di gloria con imprese compiute in patria e fuori, e soprattutto giudicavano che l'anno trascorso sarebbe rimasto memorabile, per i vicini alleati e per i nemici, poiché con tanta sollecitudine si era intervenuti in soccorso degli Ardeati in un momento per loro difficile; a maggior ragione i due consoli avevano intenzione di impegnarsi per cancellare completamente dall'animo degli uomini l'infamia della sentenza che aveva tolto agli Ardeati il loro territorio. Proprio per questo fecero approvare dal senato un decreto in base al quale, poiché la popolazione di Ardea era stata decimata dalla rivolta intestina, sarebbero stati inviati dei coloni per difenderla dai Volsci.
Questo decreto fu registrato pubblicamente affinché al popolo e ai tribuni sfuggisse il piano architettato per annullare la sentenza. Ma i senatori avevano tra loro convenuto di iscrivere tra i coloni un numero più cospicuo di Rutuli che di Romani e di non spartire alcuna terra se non quella già in passato sottratta in séguito alla vergognosa decisione. Infine avevano stabilito che a nessun romano doveva andare anche una sola zolla, prima che tutti i Rutuli avessero avuto quanto spettava loro. Così la terra tornò agli Ardeati. In qualità di triumviri preposti alla fondazione della colonia di Ardea vennero designati Agrippa Menenio, Tito Cluilio Siculo e Marco Ebuzio Elva.
Questi, oltre a dover svolgere un cómpito per nulla popolare, non solo offesero la plebe assegnando agli alleati la terra che il popolo romano aveva già sancito essere di sua proprietà, ma non riuscirono nemmeno a incontrare il favore dei patrizi più eminenti perché non avevano compiuto favoritismi. E dunque, avendoli i tribuni citati in giudizio di fronte al popolo, evitarono queste vessazioni, rimanendo nella colonia che rappresentava la migliore testimonianza della loro integrità e della loro giustizia.
XII
Ci fu pace in città e all'esterno in quell'anno e in quello successivo, durante il consolato di Gaio Furio Paculo e di Marco Papirio Crasso. In quell'anno furono celebrati i giochi promessi dai decemviri a séguito di un decreto del senato, ai tempi della secessione dei plebei dai patrizi. Petelio cercò invano di far scoppiare disordini: egli era stato nominato di nuovo tribuno della plebe, preannunziando quel minaccioso programma, ma non riuscì a ottenere che i consoli in senato proponessero di assegnare le terre alla plebe. E quando, dopo uno scontro accesissimo, ottenne che si consultassero i senatori per sapere se si dovevano tenere comizi per eleggere i consoli o i tribuni, fu deciso di eleggere i consoli.
Erano oggetto di scherno le minacce del tribuno, di impedire la leva, perché i popoli confinanti se ne stavano quieti e non c'era bisogno né di fare la guerra, né di prepararla. A questo periodo di tranquillità seguì un anno, quello del consolato di Proculo Geganio Macerino e di Lucio Menenio Lanato, caratterizzato da molte morti e da notevoli pericoli, da rivolte, carestia; allettati da elargizioni, quasi si rischiò di finire sotto il giogo della monarchia. Mancò solo una guerra esterna: se essa fosse venuta ad aggravare la situazione, forse non sarebbe bastato l'aiuto di tutti gli dèi per resistere. Tutti i mali cominciarono con una spaventosa carestia, dovuta o all'annata poco propizia al raccolto o all'abbandono delle campagne avvenuto per l'attrattiva esercitata dalle assemblee e dalla vita cittadina: vengono infatti riportate entrambe le cause.
I patrizi accusavano la plebe d'indolenza, mentre i tribuni della plebe accusavano ora di disonestà, ora d'incuria i consoli. Infine, senza incontrare l'opposizione del senato, i tribuni spinsero la plebe a eleggere prefetto dell'annona Lucio Minucio il quale, in quella magistratura, doveva avere più successo nella salvaguardia della libertà che nell'esercizio delle sue funzioni, anche se alla fine ottenne gratitudine non immeritata e gloria per aver fatto calare il prezzo del grano. Egli, nonostante avesse mandato per mare e per terra ambascerie ai paesi confinanti, non era riuscito a migliorare la situazione annonaria, fatta eccezione per una modesta quantità di frumento giunta dall'Etruria.
Perciò era tornato a distribuire lo scarso grano di cui disponeva, costringendo la gente a dichiarare le scorte di frumento e a vendere la quantità che eccedeva i bisogni di un mese. Diminuì la razione giornaliera degli schiavi, incriminò i mercanti di frumento, esponendoli alla rabbia popolare. Solo che, con i suoi metodi da inquisitore, invece di contenere la carestia, la rivelò a tutti, e il risultato fu che molti plebei, perduta ogni speranza, dopo essersi coperti il capo, si buttarono nel Tevere piuttosto che soffrire continuando a vivere.
XIII
Allora Spurio Melio, che apparteneva all'ordine equestre ed era molto ricco per quei tempi, prese un'iniziativa utile di per sé, ma di pessimo esempio e ispirata da un disegno ancora peggiore. Infatti, avendo a sue spese comprato grano in Etruria grazie all'interessamento di amici e clienti - questa iniziativa credo che abbia ostacolato i tentativi dello Stato per alleviare la carestia - ordinò di distribuire frumento gratuitamente. Così, ammirato ed esaltato oltre il limite consentito a un privato cittadino, ovunque andasse si trascinava dietro la plebe sedotta dalla sua generosità; le aspettative e il favore della plebe erano una garanzia quasi certa per il conseguimento del consolato. Ma egli - l'animo umano non è mai sazio di ciò che la fortuna gli promette - cominciò ad aspirare a traguardi ancora più alti e irraggiungibili.
Siccome anche il consolato avrebbe dovuto strapparlo all'opposizione dei senatori, iniziò a pensare al regno: infatti soltanto il trono sarebbe stato una ricompensa adeguata alla grandiosità dei suoi progetti e alla dura fatica che avrebbe dovuto sostenere. I comizi per l'elezione dei consoli erano ormai alle porte e questa scadenza lo sorprese quando i suoi piani non erano ancora completi né sufficientemente perfezionati. Fu eletto console per la sesta volta Tito Quinzio Capitolino, un uomo davvero poco favorevole a chi aveva intenzioni rivoluzionarie. Come collega gli fu assegnato Agrippa Menenio detto Lanato. Lucio Minucio fu o rieletto prefetto dell'annona, oppure gli venne affidato l'incarico per un periodo indeterminato, fino a quando la situazione lo richiedesse.
Nient'altro infatti risulta, se non che il suo nome è registrato nei libri lintei nella lista dei magistrati, in qualità di prefetto dell'annona per entrambi gli anni. Questo Minucio, che ufficialmente esercitava le stesse funzioni che Melio esercitava in privato (e il medesimo tipo di individui frequentava le case dell'uno e dell'altro), denunciò al senato quello che aveva scoperto: che si raccoglievano armi a casa di Melio, che egli vi teneva riunioni segrete e che sicuramente progettava di restaurare la monarchia. Il momento dell'azione non era stato ancora deciso, ma tutto il resto era già stato convenuto: col denaro erano stati corrotti i tribuni perché tradissero la libertà e cómpiti specifici erano stati assegnati ai capipopolo. Quanto a lui, aveva denunciato il complotto forse più tardi di quel che la sicurezza avrebbe richiesto, per non dare informazioni approssimative o infondate.
Dopo aver sentito le parole di Minucio, i senatori più influenti rimproverarono i consoli dell'anno precedente per aver tollerato quelle elargizioni e quelle riunioni della plebe in abitazioni private; ai consoli appena eletti rimproverarono di aver aspettato che una macchinazione così preoccupante venisse denunciata al senato dal prefetto dell'annona, quando invece sarebbe stato cómpito del console non solo denunciarla, ma anche reprimerla. Allora Quinzio replicò che si rimproveravano ingiustamente i consoli, i quali, vincolati com'erano dalle leggi sul diritto di appello, approvate solo per indebolire la loro autorità, non avevano forze adeguate alla loro intenzione di punire quel crimine in ragione della sua gravità: c'era bisogno di un uomo non soltanto forte, ma anche libero e sciolto dai vincoli delle leggi.
Per questo avrebbe proposto come dittatore Lucio Quinzio, uomo dotato di un temperamento consono a quell'enorme potere. Nonostante tutti approvassero la proposta, Quinzio sulle prime rifiutò e chiese come potessero pensare di buttarlo, vecchio com'era, in uno scontro così aspro. Ma poi, visto che da ogni parte gli dicevano che in quella tempra di vecchio c'era non solo più saggezza, ma anche più coraggio che in tutti gli altri, e che lo coprivano di elogi non certo immeritati, siccome il console non desisteva, alla fine Cincinnato, dopo aver pregato gli dèi immortali che la sua vecchiaia non portasse danno e disonore alla repubblica in quelle delicate circostanze, fu proclamato dittatore dal console. Cincinnato poi nominò maestro della cavalleria Gaio Servilio Aala.
XIV
Il giorno successivo, dopo aver disposto i presìdi, scese nel foro attirandosi gli sguardi della plebe sorpresa e stupita. I seguaci di Melio e il loro stesso capo avevano capito che l'onnipotenza di quella magistratura era diretta contro di loro, e quelli che erano all'oscuro del complotto monarchico, si chiedevano quale disordine, quale improvvisa guerra avessero resa necessaria l'autorità di un dittatore o la nomina dell'ottantenne Quinzio a reggere la repubblica. Il maestro della cavalleria Servilio, mandato dal dittatore, disse a Melio: «Il dittatore ti convoca.» Quando Melio, in preda al panico, chiese che cosa volesse da lui Cincinnato, Servilio gli rispose che avrebbe dovuto perorare la propria causa difendendosi da un'accusa presentata da Minucio di fronte al senato. Allora Melio, rifugiatosi nel gruppo dei seguaci, cercò sulle prime di prendere tempo guardandosi intorno. Ma poi, quando il littore inviato dal maestro della cavalleria stava per condurlo via, fu sottratto all'arresto dall'intervento dei suoi.
Mentre tentava di scappare, chiedeva supplice la protezione del popolo romano, sostenendo di essere vittima di una congiura dei patrizi per il bene che aveva fatto alla plebe. Implorò i presenti di aiutarlo in quel pericolo estremo e di non permettere che lo trucidassero davanti ai loro occhi. E mentre così gridava, Aala Servilio lo raggiunse e lo uccise; poi, ancora grondante di sangue e scortato da un gruppo di giovani patrizi, riferì al dittatore che Melio, convocato a comparire alla sua presenza, aveva respinto il littore e quindi aveva avuto la giusta pena mentre tentava di sobillare il popolo. Allora il dittatore gli disse: «Gloria a te, Gaio Servilio, perché hai liberato la repubblica!»
XV
Poi, siccome la folla era in tumulto non sapendo come interpretare l'accaduto, Cincinnato ordinò di convocare l'assemblea del popolo. Lì dichiarò che l'uccisione di Melio era stata legittima perché, anche se non fosse stato colpevole del crimine di aspirare al regno, non si era presentato di fronte al dittatore quando era stato convocato dal comandante della cavalleria. Disse anche di essersi seduto in tribunale per istruire la causa: se il processo avesse avuto luogo, a Melio sarebbe toccato un verdetto conforme agli esiti del dibattito. Ma siccome Melio si preparava a ricorrere alla violenza per evitare il processo, con la violenza era stato punito.
E non sarebbe stato giusto trattarlo come un cittadino perché, nato in un popolo libero, con diritti e leggi, in una città da cui, come lui sapeva benissimo, erano stati cacciati i re e dove, nel corso dello stesso anno, essendo stata scoperta una congiura volta a riaccogliere in città i re, erano stati fatti decapitare dal padre i figli della sorella del re e del console che aveva liberato il paese, dove al console Tarquinio Collatino, soltanto per l'odio verso il nome che portava, era stato imposto di rinunciare alla magistratura e di andare in esilio, e dove, alcuni anni dopo, a Spurio Cassio era stata comminata la pena capitale per aver ordito un complotto per diventare re, dove di recente ai decemviri era toccata la confisca dei beni, l'esilio e la pena di morte per essersi comportati con la tracotanza dei re, Spurio Melio aveva nutrito, in quella stessa città, la speranza di salire al trono.
Ma che uomo era? Anche se nessuna nobiltà, nessuna carica, nessun merito può spianare ad alcuno la strada alla tirannide, almeno i Claudi e i Cassi avevano concepito ambizioni illecite spinti dai consolati e dai decemvirati, dalle cariche ricoperte da loro stessi e dai loro antenati. Spurio Melio, un ricco commerciante di grano che avrebbe dovuto desiderare il tribunato della plebe più che sperare di ottenerlo, si era illuso di aver comprato la libertà dei suoi concittadini con due libbre di farro e aveva creduto, dando un po' di cibo, di poter ridurre in schiavitù un popolo che aveva sottomesso tutti i vicini.
E tutto questo nella speranza che un paese, che era riuscito a malapena a digerirlo come senatore, lo accettasse come re, investito del potere e delle insegne del fondatore Romolo, che discendeva dagli dèi e che agli dèi aveva fatto ritorno. Un fatto del genere doveva essere considerato, più che un delitto, una vera mostruosità: e il sangue di Melio non sarebbe bastato a espiarlo, se non venivano demoliti il tetto e le pareti all'interno delle quali era stato concepito un proposito tanto insano e se non si confiscavano quei beni contaminati dal denaro speso per comprare il regno. Cincinnato ordinò poi ai questori di vendere quei beni e di versare il ricavato nel pubblico erario.
XVI
Poi il dittatore ordinò di radere subito al suolo la casa di Melio, affinché l'area dove sorgeva ricordasse perennemente il fallimento di quel nefasto progetto. Quel luogo fu chiamato Equimelio. A Lucio Minucio venne donato fuori della porta Trigemina un bue dalle corna dorate e senza che la plebe si opponesse, visto che Minucio aveva distribuito ai plebei il frumento di Melio al prezzo di un asse per moggio. Presso alcuni autori ho trovato che questo Minucio passò dal patriziato alla plebe e che, dopo essere stato cooptato come undicesimo tribuno della plebe, placò i disordini seguiti all'uccisione di Melio. Ma sembra poco credibile che i senatori abbiano concesso di aumentare il numero dei tribuni, che questo precedente sia stato introdotto proprio da un patrizio, e che la plebe, ottenuta tale concessione, non l'abbia conservata o almeno non abbia fatto di tutto per conservarla. Ma la prova più schiacciante contro l'autenticità dell'iscrizione posta sotto il suo ritratto è che pochi anni prima era stata emanata una legge che vietava ai tribuni di cooptare un collega.
Quinto Cecilio, Quinto Giunio e Sesto Titinio furono gli unici membri del collegio dei tribuni a non sostenere la legge sulle onorificenze da tributare a Minucio, e ad accusare di fronte alla plebe ora Minucio stesso e ora Servilio, senza mai smettere di lamentarsi per l'ingiusta fine di Melio. Così riuscirono a ottenere che si tenessero i comizi per l'elezione dei tribuni militari invece che per l'elezione dei consoli, sicuri com'erano che dei sei posti disponibili - questo era già allora il numero consentito - qualcuno sarebbe toccato ai plebei, se avessero promesso di vendicare la morte di Melio. La plebe, benché in quell'anno fosse stata agitata da molti e vari disordini, non elesse più di tre tribuni militari con potere consolare. Tra questi c'era anche Lucio Quinzio, figlio di Cincinnato, all'odiata dittatura del quale si faceva risalire la causa dei disordini. Quinzio fu preceduto per numero di voti da Mamerco Emilio, un uomo di grande prestigio. Terzo fu eletto Lucio Giulio.
XVII
Durante la loro magistratura, la colonia romana di Fidene passò a Larte Tolumnio re dei Veienti. Ma alla defezione si aggiunse un delitto ancora peggiore: infatti, su ordine di Tolumnio, furono uccisi gli inviati romani Gaio Fulcino, Clelio Tullo, Spurio Aurio e Lucio Roscio, venuti a chiedere il motivo di quella strana decisione. Alcuni autori cercano di attenuare la responsabilità del re, dicendo che una frase ambigua, da lui pronunciata dopo un colpo di dadi fortunato, venne interpretata dai Fidenati come l'ordine di ucciderli: questa sarebbe stata la causa della morte degli inviati. Ma sembra piuttosto improbabile che all'arrivo dei Fidenati, i suoi nuovi alleati venuti a chiedergli lumi su un assassinio destinato a infrangere il diritto delle genti, il re non abbia distolto l'attenzione dal gioco, e che in séguito non abbia attribuito il delitto a un malinteso.
È più facile credere che Tolumnio volesse coinvolgere i Fidenati nella responsabilità di un crimine tanto atroce in modo che non avessero più alcuna speranza di riconciliazione con i Romani. In memoria degli inviati uccisi a Fidene lo Stato fece collocare a sue spese delle statue nei rostri. Con Veienti e Fidenati, non solo per la vicinanza geografica a Roma, ma anche per l'atto esecrabile con il quale avevano scatenato la guerra, si annunciava uno scontro durissimo. Di conseguenza, poiché nell'interesse generale plebe e tribuni rimasero tranquilli, non si ebbe alcuna opposizione all'elezione dei consoli Marco Geganio Macrino, al suo terzo mandato, e Lucio Sergio Fidenate. Questi fu così soprannominato, credo, dalla guerra che in séguito condusse.
Fu infatti lui il primo a combattere con successo, al di qua dell'Aniene, contro il re dei Veienti, ma si trattò di una vittoria cruenta. Così fu più grande il dolore per i cittadini caduti che la gioia per i nemici vinti e il senato, com'è normale in circostanze difficili, ordinò che Mamerco Emilio fosse nominato dittatore. E quest'ultimo nominò maestro della cavalleria Lucio Quinzio Cincinnato, giovane degno del padre, che l'anno precedente era stato suo collega in qualità di tribuno militare con potere consolare. Alle truppe arruolate dai consoli furono aggiunti dei centurioni che erano veterani di grande esperienza militare, e furono colmati i vuoti aperti dall'ultima battaglia. Il dittatore ordinò a Tito Quinzio Capitolino e a Marco Fabio Vibulano di seguirlo in qualità di luogotenenti.
Il maggiore potere e il prestigio dell'uomo che lo deteneva indussero i nemici a ritirarsi dalla campagna romana, al di là dell'Aniene; essi trasferirono il campo sulle colline tra Fidene e l'Aniene, e di lì non scesero a valle prima che arrivassero le legioni inviate in loro aiuto dai Falisci. Soltanto allora gli Etruschi si accamparono di fronte alle mura di Fidene. Anche il dittatore romano si accampò nelle immediate vicinanze, sulle rive dove i due fiumi confluiscono, in quel punto dove la modesta distanza tra i due fiumi gli permise di costruire una fortificazione tra sé e il nemico. Il giorno successivo schierò l'esercito in ordine di battaglia.
XVIII
Tra i nemici c'erano punti di vista molto diversi. I Falisci volevano subito lo scontro perché avevano fiducia in se stessi e mal sopportavano di combattere lontano da casa. I Veienti e i Fidenati riponevano invece maggiori speranze in un prolungamento della guerra. Tolumnio, pur condividendo il parere dei suoi uomini, per evitare che i Falisci dovessero sobbarcarsi a operazioni destinate ad andare per le lunghe, annunciò che avrebbe affrontato il nemico il giorno successivo. Intanto era cresciuto il coraggio nel dittatore e nei Romani perché il nemico evitava lo scontro. Il giorno dopo, quando i soldati sdegnati già minacciavano di assalire l'accampamento e la città se non si offriva occasione per battersi, entrambi gli eserciti avanzarono nello spazio di terra compreso tra i due accampamenti. Siccome il capo dei Veienti disponeva di molti uomini, mandò delle truppe ad aggirare le alture perché, nel corso della lotta, prendessero alle spalle il campo romano.
L'esercito dei tre popoli nemici era schierato in modo che i Veienti tenessero l'ala destra, i Falisci la sinistra e i Fidenati il centro. Il dittatore mosse sulla destra contro i Falisci, Quinzio Capitolino sulla sinistra contro i Veienti. Il maestro della cavalleria si dispose con i suoi cavalieri all'attacco del centro. Per qualche tempo vi fu silenzio e quiete perché da una parte gli Etruschi non avevano intenzione di lanciarsi nella battaglia, se non vi erano costretti, e dall'altra il dittatore romano fissava con insistenza la cittadella, da dove gli àuguri dovevano inviare il segnale convenuto, non appena i presagi fossero stati propizi. Come vide il segnale, levato il grido di guerra, lanciò contro il nemico per primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento.
XIX
Vi era allora, tra le fila dei cavalieri, il tribuno militare Aulo Cornelio Cosso; la sua straordinaria bellezza era pari al coraggio e alla forza. Orgoglioso del nome della sua stirpe, che aveva ereditato già insigne, fece in modo che diventasse per i suoi discendenti ancora più nobile e glorioso. Essendosi reso conto che Tolumnio, dovunque si buttasse all'assalto, seminava lo scompiglio tra gli squadroni romani, e avendolo riconosciuto mentre galoppava col suo abito regale su e giù per la linea di battaglia, urlò: «È lui che ha violato il patto stipulato tra gli uomini e infranto il diritto delle genti? Allora, se gli dèi vogliono che su questa terra ci sia ancora qualcosa di sacro, io lo offro come vittima sacrificale ai Mani degli ambasciatori uccisi!»
E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re. Così anche la cavalleria, che da sola aveva reso incerte le sorti dello scontro, fu disfatta. Il dittatore si buttò all'inseguimento delle legioni in fuga e, dopo averle spinte verso l'accampamento, le massacrò. La maggior parte dei Fidenati, conoscendo i luoghi, riuscì a fuggire sulle montagne.
Cosso attraversò il Tevere con la cavalleria, riportando a Roma un ingente bottino razziato nel territorio di Veio. Mentre la battaglia era in pieno svolgimento, si combatté anche nei pressi dell'accampamento romano, dove ci fu lo scontro con le truppe inviate, come già detto, da Tolumnio proprio in quella direzione. Fabio Vibulano in un primo tempo difese la trincea disponendo gli uomini a semicerchio. Poi, mentre i nemici erano concentrati sul vallo, fece una sortita dalla porta principale sulla destra con i triarii e assalì gli avversari all'improvviso. Il panico che s'impossessò di loro provocò una strage minore che nella battaglia vera e propria perché erano in pochi, ma la fuga non fu meno precipitosa.
XX
Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del senato e per volontà del popolo, il dittatore poté tornare a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu la vista di Cosso che avanzava reggendo le spoglie opime del re ucciso; in onore di Cosso i soldati cantavano rozzi inni nei quali lo paragonavano a Romolo. Egli, con la dedica rituale, appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle conquistate da Romolo, che erano state le prime, e fino a quel momento le uniche, ad essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal cocchio del dittatore, così che la gloria di quel giorno fu quasi tutta sua. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra.
Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, al di là del fatto che opime sono per tradizione soltanto le spoglie strappate da un comandante a un altro comandante e che il solo che noi riconosciamo come comandante è quello sotto i cui auspici viene condotta una guerra, l'iscrizione stessa posta su quelle spoglie confuta la tesi degli altri e la mia, dimostrando che Cosso quando le strappò era console.
Ma quando ho sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i nostri templi, raccontare di essere entrato nel santuario di Giove Feretrio - da lui fatto ricostruire perché in rovina ormai con l'andar del tempo - e di aver letto questa iscrizione sulla corazza di lino, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. Dove poi sia l'errore, per quale motivo tanto gli annali antichi quanto le liste dei magistrati (quelle che, scritte su lino e conservate nel tempio di Giunone Moneta, sono continuamente citate da Licinio Macro come fonte) riportino il consolato di Aulo Cornelio Cosso insieme a Tito Quinzio solo sei anni dopo, è una questione sulla quale è giusto che ciascuno abbia una sua opinione personale.
Ma un altro valido motivo per non spostare in quell'anno una battaglia così famosa è che il consolato di Aulo Cornelio cadde in un triennio nel quale non ci fu alcuna guerra, a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali riportano solo i nomi dei consoli, catalogando l'annata come funesta. Due anni dopo il consolato, Cosso fu tribuno militare con potere consolare e nello stesso anno maestro della cavalleria, e mentre ricopriva quella carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. Su questo punto è possibile fare molte congetture, anche se a mio parere inutili. Ognuno può credere quello che vuole, fatto sta che il vero protagonista del combattimento, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo - testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera - si sottoscrisse: Aulo Cornelio Cosso console.
XXI
Durante il consolato di Marco Cornelio Maluginense e Lucio Papirio Crasso, gli eserciti romani furono condotti nelle campagne dei Veienti e dei Falisci, riportandone un consistente bottino di uomini e di bestiame. In quelle zone non riuscirono mai a imbattersi nei nemici e non ci furono occasioni di venire alle armi. Tuttavia i centri abitati non vennero assediati perché una pestilenza si abbatté sulla popolazione. E poi a Roma erano scoppiati dei disordini, privi però di conseguenze: il tribuno della plebe Spurio Melio, il quale, per la popolarità del suo nome, pensava di poter suscitare sommosse, aveva citato in giudizio Minucio e proposto la confisca dei beni di Servilio Aala, sostenendo che Melio era stato vittima delle false accuse di Minucio e incolpando Servilio dell'uccisione di un cittadino non ancora condannato. Queste accuse ebbero presso il popolo minor credito dell'uomo che le lanciava.
Erano motivo di ben più grande preoccupazione il progressivo aggravarsi dell'epidemia, e alcuni inquietanti prodigi, soprattutto perché circolava notizia di case crollate nelle campagne per continue scosse di terremoto. Per queste ragioni il popolo rivolse una supplica agli dèi secondo la formula suggerita dai duumviri. L'anno successivo, sotto il consolato di Gaio Giulio, al suo secondo mandato, e di Lucio Verginio, la pestilenza si aggravò; tanto fu il terrore dello spopolamento da essa creato a Roma e nelle campagne che nessuno usciva al di fuori del territorio romano per compiere razzie; né patrizi né plebei pensavano a muovere guerre; inoltre, come se non bastasse, i Fidenati, rimasti fino a quel momento o sulle montagne o all'interno delle loro città fortificate, scesero a saccheggiare il territorio romano.
Dopo aver fatto venire un esercito da Veio - i Falisci non si lasciarono convincere a riprendere le ostilità né dalle calamità dei Romani, né dalle pressioni degli alleati - i due popoli attraversarono l'Aniene, avanzando fin quasi sotto la porta Collina. In città non meno che nelle campagne fu subito il panico. Mentre il console Giulio dispone i suoi uomini sulla cinta muraria e sul terrapieno, Verginio consulta il senato nel tempio di Quirino. Si decide di nominare dittatore Quinto Servilio, che alcuni sostengono fosse soprannominato Prisco e altri Strutto. Verginio prese tempo per consultarsi col collega, e, ottenutone il consenso, ratificò nella notte la nomina del dittatore. Questi nominò maestro della cavalleria Postumio Ebuzio Elva.
XXII
Il dittatore ordinò a tutti di trovarsi fuori dalla porta Collina alle prime luci del giorno. Quelli che avevano forze sufficienti per portare armi si misero tutti a disposizione. Le insegne vennero prese dall'erario e consegnate al dittatore. Mentre si svolgevano tali preparativi, i nemici si ritirarono su posizioni più elevate. Il dittatore puntò contro di loro con le truppe pronte a dare battaglia e non lontano da Nomento si scontrò con le legioni etrusche mettendole in fuga. Di lì le costrinse a riparare nella città di Fidene che circondò con un vallo. Ma la città, alta e ben fortificata, non poteva essere presa nemmeno con l'uso di scale, e l'assedio non serviva a nulla perché il frumento precedentemente raccolto non solo bastava alle necessità interne, ma avanzava.
Perduta così ogni speranza sia di espugnare la città, sia di costringerla alla resa, il dittatore - che conosceva benissimo quella zona per la sua vicinanza a Roma - ordinò di scavare una galleria verso la cittadella, partendo dalla parte opposta della città, che risultava essere la meno vigilata essendo già ben protetta dalla sua stessa configurazione naturale. Poi, avanzando contro la città da punti diversissimi, dopo aver diviso in quattro gruppi le forze a disposizione - in maniera tale che ciascuno di essi potesse avvicendare l'altro durante la battaglia - combattendo ininterrottamente giorno e notte il dittatore riuscì a distrarre l'attenzione dei nemici dallo scavo. Finché, scavato tutto il monte, fu aperto un passaggio dal campo alla cittadella.
E mentre gli Etruschi continuavano a concentrarsi su vane minacce, senza rendersi conto del vero pericolo, l'urlo dei nemici sopra le loro teste fece loro capire che la città era stata presa. Quell'anno i censori Gaio Furio Paculo e Marco Geganio Macerino collaudarono in Campo Marzio un edificio pubblico nel quale ebbe luogo per la prima volta il censimento della popolazione.
XXIII
Presso Licinio Macro ho trovato che l'anno successivo furono rieletti gli stessi consoli: Giulio per la terza volta, Verginio per la seconda. Valerio Anziate e Quinto Tuberone riportano invece che i consoli di quell'anno furono Marco Manlio e Quinto Sulpicio. Però, nonostante la discrepanza, sia Tuberone che Macro citano come fonte i libri lintei. Inoltre nessuno di questi due autori nasconde che gli antichi scrittori parlavano per quell'anno di tribuni militari. Mentre Licinio segue, senza alcuna riserva, i libri lintei, Tuberone è incerto su quale sia la verità. Perciò, tra le tante questioni rimaste irrisolte, perché riguardano tempi lontani, mettiamoci anche questa.
Dopo la presa di Fidene, l'Etruria viveva in stato d'allarme: infatti, in séguito a un tale massacro, erano terrorizzati non soltanto i Veienti, ma anche i Falisci, i quali, benché non li avessero sostenuti quando avevano ripreso le ostilità, ricordavano di essere stati al loro fianco agli inizi della guerra. Così, quando questi due popoli inviarono ambasciatori alle dodici città confederate e ottennero che si convocasse un raduno di tutte le genti etrusche presso il tempio di Voltumna, il senato, presentendo gravi torbidi, ordinò di nominare per la seconda volta dittatore Mamerco Emilio. Questi scelse Aulo Postumio Tuberto come maestro della cavalleria. Così si diede inizio ai preparativi di guerra con uno sforzo tanto più grande della volta precedente, in quanto maggiore era il pericolo provenendo dall'intera Etruria e non da due popoli.
XXIV
Ma questa faccenda finì per essere più tranquilla di quanto tutti si aspettassero. Alcuni mercanti riferirono che ai Veienti era stato negato ogni aiuto e che erano stati invitati a proseguire unicamente con le loro forze la guerra che avevano scatenato per iniziativa personale e a non cercare nelle avversità come alleati coloro con i quali non avevano voluto dividere la speranza, non ancora compromessa, di successo. Di conseguenza il dittatore, per dimostrare di non essere stato eletto invano, pur non avendo più la possibilità di conquistare gloria in guerra, ma desiderando compiere ugualmente in pace qualche impresa che suggellasse per sempre nel ricordo la propria dittatura, studiò il modo di indebolire la censura. E questo sia perché ne giudicava eccessivo il potere, sia perché era infastidito, più ancora che dall'importanza, dalla durata di quella carica. Così, dopo aver convocato l'assemblea, disse che gli dèi immortali si erano assunti il cómpito di provvedere all'interesse della repubblica all'esterno e di rendere tutto sicuro.
Quanto a lui, avrebbe fatto il necessario all'interno delle mura per salvaguardare la libertà del popolo romano. Ora, la maggiore garanzia di libertà era che le cariche più importanti non si protraessero troppo a lungo e che si ponesse un limite di tempo a quelle magistrature delle quali non si poteva limitare l'autorità. Mentre le altre cariche erano annuali, la censura era invece quinquennale; era gravoso vivere per tanti anni, per una gran parte dell'esistenza, sottoposti alle stesse persone. Per questo egli avrebbe presentato una legge che riduceva la durata della censura a non più di un anno e mezzo. Il giorno successivo, quando la legge venne approvata col consenso quasi unanime del popolo, il dittatore disse: «Perché voi, o Quiriti, abbiate la prova di quanto mi siano sgraditi gli incarichi che durano troppo a lungo, rinuncio alla dittatura.»
Deposta la sua magistratura dopo aver fissato un limite a quella altrui, fu riaccompagnato a casa tra le dimostrazioni di gioia e il plauso del popolo. Ma avendo i censori sopportato di malanimo che Mamerco avesse sminuito l'importanza di una magistratura del popolo romano, lo radiarono dalla sua tribù e lo iscrissero tra gli erarii, tassandolo per un censo otto volte maggiore. Riferiscono che Mamerco abbia sopportato il colpo con grande forza d'animo, dando maggiore importanza alla causa di quella umiliazione che non all'umiliazione stessa. I capi dei patrizi, benché contrari a ridurre il potere della censura, rimasero colpiti da questo esempio di durezza censoria, perché ciascuno vedeva che sarebbe stato soggetto passivo della censura più spesso e più a lungo che non soggetto attivo. Sta di fatto che - almeno stando a quanto si racconta - l'indignazione del popolo arrivò a un punto tale che dovette intervenire Mamerco, con la sua autorità, per proteggere i censori dalla violenza della folla.
XXV
Continuando a frapporre ostacoli, i tribuni della plebe riuscirono a impedire i comizi per le elezioni consolari. E alla fine, quando si era ormai prossimi all'interregno, ebbero la meglio ottenendo che si eleggessero i tribuni militari con potere consolare. Ma quella vittoria non fu premiata, come si sperava, dall'elezione di alcun plebeo: tutti gli eletti, Marco Fabio Vibulano, Marco Folio e Lucio Sergio Fidenate, erano patrizi. Nel corso di quell'anno una pestilenza distrasse l'attenzione da tutti gli altri problemi. Perché la popolazione potesse guarire venne fatto voto di erigere un tempio ad Apollo. I duumviri, consultando i libri sibillini, tentarono molte vie per placare l'ira degli dèi e per allontanare dal popolo le cause dell'epidemia. Ciononostante le perdite furono ingentissime in città e nelle campagne, per il flagello che colpiva sia gli uomini sia il bestiame.
Temendo che all'epidemia seguisse anche la fame, visto che i contadini non erano stati risparmiati dal contagio, si mandò a cercare frumento in Etruria, nell'agro Pontino, a Cuma e alla fine anche in Sicilia. Non ci furono accenni alle elezioni consolari; vennero eletti tribuni militari con potere consolare Lucio Pinario Mamerco, Lucio Furio Medullino e Spurio Postumio Albo, tutti patrizi. Quell'anno la violenza dell'epidemia diminuì e non si rischiò nemmeno di rimanere senza frumento, grazie alle precauzioni prese in anticipo. Nelle assemblee dei Volsci e degli Equi e in Etruria presso il tempio di Voltumna in Etruria si parlò di muovere guerra. Ma in quest'ultimo raduno si decise di rinviare le operazioni all'anno successivo e si stabilì, con un decreto, di evitare ogni assemblea prima di allora, benché i Veienti si fossero lamentati sostenendo che sulla loro città incombeva la stessa sorte della distrutta Fidene.
Nel frattempo a Roma i capi della plebe, che già da tempo nutrivano la vana speranza di ottenere cariche più importanti, mentre all'esterno vi era pace, cominciarono a organizzare riunioni nelle case dei tribuni. Lì discutevano piani segreti e si lamentavano di essere tenuti dalla plebe in così poco conto che, pur essendo stati eletti per tanti anni dei tribuni militari con potere consolare, nessun plebeo era mai arrivato a ricoprire quella carica. I loro antenati avevano visto lontano impedendo ai patrizi di accedere alle magistrature plebee, altrimenti si sarebbero trovati dei patrizi come tribuni; a tal punto erano disistimati dai loro, ed erano disprezzati dalla plebe, non meno che dai patrizi. Alcuni giustificavano la plebe scaricando ogni colpa sui patrizi: si doveva ai loro intrighi elettorali e ai loro raggiri se alla plebe era preclusa la strada verso quella magistratura.
Se alla plebe veniva concesso di riprender fiato dalle loro preghiere miste a minacce, andando alle urne essa si sarebbe ricordata dei propri uomini e, ottenuto il loro sostegno, sarebbe arrivata a conquistare anche il potere. Così, per eliminare gli intrighi elettorali, si stabilì che i tribuni presentassero una legge che vietava ai candidati di indossare vesti bianche. Oggi sembrerà una cosa di poco conto e a stento si potrà prenderla sul serio. Ma in quei tempi scatenò uno scontro furibondo tra patrizi e plebei. Alla fine i tribuni riuscirono a far approvare la legge. Ed era evidente che la plebe irritata avrebbe sostenuto i suoi. Ma perché non le fosse concesso di agire liberamente, il senato decretò che si tenessero i comizi per l'elezione dei consoli.
XXVI
Il pretesto fu la rivolta di Volsci ed Equi, riferita a Roma da Latini ed Ernici. Vennero eletti consoli Tito Quinzio Cincinnato, figlio di Lucio - lo stesso a cui si aggiunge il soprannome di Peno - e Gneo Giulio Mentone. La guerra e le sue paure non furono rimandate oltre. Fatta la leva militare ricorrendo a una legge sacrata - che presso quei popoli era lo strumento di gran lunga più efficace per l'arruolamento forzato delle truppe - da entrambi i paesi si misero in marcia due forti eserciti che si congiunsero sull'Algido. Qui Equi e Volsci si accamparono in punti diversi e i rispettivi comandanti si dedicavano con una meticolosità senza precedenti alla costruzione di fortificazioni e all'addestramento degli uomini. E quando a Roma arrivarono queste notizie, il panico si fece più grande. Il senato decise allora di nominare un dittatore perché quei popoli, nonostante le numerose sconfitte, si stavano adesso preparando a una nuova guerra con uno spiegamento di mezzi senza precedenti; e poi una parte della gioventù romana se l'era portata via la pestilenza.
Le cose che spaventavano maggiormente erano i difetti dei consoli, il loro disaccordo e i contrasti durante tutte le assemblee. Secondo alcuni autori la ragione per la quale si nominò un dittatore fu una sconfitta subita sull'Algido da quei consoli. Una cosa risulta chiara: nonostante il dissenso su altri problemi, su di uno i consoli avevano identiche vedute, e cioè nell'opporsi, contro il volere dei senatori, alla nomina del dittatore. Ma quando arrivarono notizie, una più terribile dell'altra, e i consoli non rispettavano le decisioni del senato, Quinto Servilio Prisco, che aveva ricoperto egregiamente le massime cariche, disse: «Data l'estrema gravità della situazione, è a voi, o tribuni della plebe, che il senato fa appello perché in questo momento così pericoloso per la repubblica, usando la vostra autorità, costringiate i consoli a nominare un dittatore.» Sentendo queste parole, i tribuni, convinti che si presentasse l'occasione per aumentare la loro autorità, dopo essersi consultati a parte dichiararono a nome del collegio che i consoli dovevano attenersi scrupolosamente alle direttive del senato.
Se poi i consoli avessero continuato a opporsi alla volontà unanime del più importante tra gli ordini sociali, allora ne avrebbero ordinato l'arresto. I consoli preferirono cedere ai tribuni piuttosto che al senato. Ricordarono che i senatori avevano tradito le prerogative della massima magistratura e che il consolato veniva fatto passare sotto il giogo del potere tribunizio, dal momento che i consoli potevano subire le imposizioni di un tribuno per via del suo potere, e perfino essere condotti in carcere (e c'era forse qualcosa che un privato cittadino potesse temere di più?). Siccome i colleghi non erano riusciti a intendersi nemmeno su questo, il cómpito di nominare un dittatore toccò in sorte a Tito Quinzio.
Egli nominò il suocero Aulo Postumio Tuberto, un comandante intransigente, il quale a sua volta designò come maestro della cavalleria Lucio Giulio. Si ordinò subito la leva militare e la sospensione dell'attività giudiziaria, e in città non ci si occupò di altro che dei preparativi di guerra. L'esame delle richieste di esonero dal servizio militare viene rinviato a dopo la guerra. Così anche quelli che erano incerti decidono di arruolarsi. A Ernici e Latini fu imposto di fornire soldati ed entrambi i popoli obbedirono scrupolosamente al dittatore.
XXVII
Tutti questi preparativi furono portati a termine con estrema rapidità. Il console Gneo Giulio venne lasciato a difesa della città. Al maestro della cavalleria Lucio Giulio venne invece affidato il cómpito di provvedere alle più immediate necessità belliche, in modo che la mancanza di qualcosa non costringesse le truppe a rimanere nell'accampamento. Il dittatore, ripetendo la formula suggeritagli dal pontefice massimo Aulo Cornelio, promise in voto, per la guerra appena scoppiata, di indire giochi solenni. Poi, dopo aver diviso le truppe con il console Quinzio, lasciò Roma e raggiunse il nemico. Appena videro che i due accampamenti dei nemici erano posti a poca distanza l'uno dall'altro, i comandanti romani decisero anch'essi di accamparsi a circa un miglio di distanza, il dittatore nella zona di Tuscolo e il console verso Lanuvio. Così i quattro eserciti e le rispettive fortificazioni avevano nel mezzo una pianura, abbastanza vasta non solo per le scaramucce che precedono la battaglia, ma anche per lo spiegamento delle schiere da entrambe le parti.
Dal momento in cui gli accampamenti vennero posti l'uno di fronte all'altro, fu un continuo susseguirsi di piccoli scontri; il dittatore era contento che i suoi uomini misurassero le loro forze e, sperimentando il successo in queste rapide sortite, nutrissero speranze nella vittoria finale. I nemici, abbandonata ogni speranza di avere la meglio in una battaglia regolare, nella notte assalirono l'accampamento del console, affidandosi al caso e al rischio. Il clamore sorto all'improvviso svegliò dal sonno non solo le sentinelle del console e tutto il suo esercito, ma anche il dittatore. In quell'occasione, in cui le circostanze richiedevano una reazione immediata, il console dimostrò di non difettare né di coraggio né di accortezza: con parte dei suoi uomini rinsaldò i posti di guardia agli ingressi e dispose in cerchio il resto delle truppe a protezione della trincea.
Nell'altro accampamento, quello del dittatore, essendoci meno trambusto, fu più facile considerare il da farsi. Vennero subito inviati rinforzi al campo del console, affidandone il comando al luogotenente Spurio Postumio Albo. Il dittatore invece, a capo di un contingente, con una breve diversione raggiunge una posizione defilata rispetto al luogo di attacco per assalire il nemico di sorpresa. A comandare l'accampamento lascia il luogotenente Quinto Sulpicio, mentre all'altro aiutante Marco Fabio affida la cavalleria, ordinandogli però di non muoversi prima dell'alba, perché sarebbe stato difficile mantenere il controllo di quelle truppe nella confusione della notte. Tutte le cose che un capo militare saggio e sollecito avrebbe ordinato e messo in pratica in una situazione del genere, il dittatore le ordinò e le mise ordinatamente in pratica.
Ma una singolare prova di coraggio, di accortezza e di qualità non comuni fu l'avere mandato Marco Geganio con coorti scelte ad attaccare l'accampamento nemico dal quale risultassero usciti i nemici in maggior numero. Geganio, assaliti gli uomini rimasti nel campo, mentre intenti a seguire la sorte dei compagni in pericolo non si preoccupavano per se stessi e avevano trascurato di porre le sentinelle e i posti di guardia, conquistò l'accampamento ancora prima che i nemici si rendessero conto dell'attacco. Poi, com'era stato convenuto, fu dato il segnale col fumo; quando il dittatore lo vide, urlò che l'accampamento nemico era stato preso e ordinò di riferire ovunque la notizia.
XXVIII
Già albeggiava e tutto era chiaro davanti agli occhi. Fabio si era buttato alla carica con la cavalleria e il console aveva fatto una sortita dal campo contro i nemici ormai in preda al panico. Il dittatore invece, dall'altra parte, assaliti i rinforzi e la seconda linea, aveva opposto ovunque al nemico che ripiegava incalzato da grida confuse e attacchi improvvisi, la fanteria e la cavalleria vittoriose. Ormai completamente circondati, avrebbero tutti pagato, fino all'ultimo uomo, il prezzo della nuova aggressione, se non fosse stato per Vezio Messio, un volsco famoso più per le sue gesta che per la sua stirpe, il quale rimproverò i suoi compagni che già si disponevano a cerchio: «Avete deciso,» gridò, «di offrirvi al ferro dei nemici senza difendervi e senza vendicarvi? Ma allora perché mai avete preso le armi e fatto scoppiare una guerra senza essere provocati, voi che siete turbolenti in tempo di pace e fiacchi sul campo di battaglia? In che cosa sperate rimanendo qui fermi? Credete che ci penserà qualche dio a proteggervi e a portarvi via da qui? Con la spada bisogna aprirci la via. Avanti, guardate dove vado io e seguitemi, se ci tenete a rivedere le vostre case, i genitori, le mogli e i figli! Davanti non ci sono né muri né fortificazioni, ma solo uomini armati come voi. Per coraggio siete pari a loro, ma superiori per la forza della disperazione, che è l'ultima e la più potente arma.»
Detto questo, mise subito in pratica le sue parole. E i compagni, alzando di nuovo il grido di guerra, gli tennero dietro lanciandosi all'attacco là dove Postumio Albo aveva schierato le sue coorti. Riuscirono a far arretrare i vincitori fino a quando non sopraggiunse il dittatore in aiuto dei suoi che già si ritiravano: in quel luogo si concentrò l'intera battaglia. Le sorti del nemico sono affidate a un solo uomo: Messio. Da entrambe le parti molte sono le ferite, molte le stragi; ormai neanche i comandanti romani combattono illesi. Tuttavia solo Postumio, colpito da un sasso, lasciò la battaglia con il cranio fratturato. Ad allontanare dalla battaglia così in bilico il dittatore non bastò una ferita alla spalla, né furono sufficienti a Fabio un femore quasi inchiodato nel fianco del cavallo e al console un braccio troncato.
XXIX
Messio, trascinato dallo slancio attraverso i corpi esanimi dei nemici, con un gruppo di giovani fortissimi riuscì ad arrivare fino al campo dei Volsci che non era ancora stato preso. In quella direzione ripiega tutto l'esercito. Il console insegue i nemici mentre fuggono disordinatamente fino al vallo e assale il campo stesso e il vallo. Ma anche il dittatore, proveniente da un'altra direzione, conduce i suoi uomini in quel punto. L'assalto non è meno violento della battaglia. Si tramanda che il console abbia scagliato l'insegna dentro al vallo perché i soldati irrompessero con più ardore, e che sia stato lanciato il primo assalto per recuperarla. Il dittatore, dopo aver fatto breccia nella palizzata, aveva già spostato la battaglia all'interno dell'accampamento. Allora i nemici cominciarono da tutte le parti a buttare le armi e ad arrendersi.
Così alla fine venne conquistato anche l'accampamento e tutti i nemici, eccetto i senatori, furono venduti come schiavi. Fu restituito a Latini ed Ernici quella parte del bottino che riconobbero come loro, l'altra parte il dittatore la vendette all'asta. Lasciato il console a capo dell'accampamento, il dittatore tornò poi in trionfo a Roma dove rinunciò alla dittatura. Rendono triste il ricordo di questa gloriosa dittatura quanti raccontano che Aulo Postumio fece decapitare il figlio, pur vincitore, perché, attirato dall'occasione di farsi onore combattendo, aveva abbandonato senza l'ordine il suo posto. Preferisco non credere a una cosa simile, ed è lecito perché diverse sono le versioni tramandate. E c'è un argomento a favore: esistono ordini chiamati 'manliani' e non 'postumiani', in quanto il primo a dare un esempio così atroce era logicamente destinato a ottenere quel terribile titolo di crudeltà. A Manlio fu dato anche il soprannome di 'Imperioso', mentre Postumio non è marchiato da nessun funesto appellativo.
Siccome il collega era assente, il console Gneo Giulio inaugurò il tempio di Apollo senza ricorrere al sorteggio. Quando, dopo aver congedato l'esercito, Quinzio fece ritorno a Roma, prese a male la cosa, ma inutilmente si lamentò in senato. In quell'anno, rimasto famoso per tali eventi, va aggiunto un episodio che in quel tempo sembrò non avere alcuna importanza per la potenza romana: i Cartaginesi, destinati a diventare nostri acerrimi nemici, inviarono allora per la prima volta un esercito in Sicilia per sostenere una delle due fazioni che si affrontavano nelle lotte tra Siculi.
XXX
A Roma dai tribuni della plebe fu agitata la questione relativa alla nomina di tribuni militari con potere consolare, ma senza alcun successo. Furono eletti consoli Lucio Papirio Crasso e Lucio Giulio. Gli ambasciatori inviati dai Volsci al senato per chiedere un trattato d'alleanza, ricevendo in luogo del trattato una proposta di resa, chiesero e ottennero una tregua di otto anni. Oltre alla disfatta patita sull'Algido, i Volsci erano in quel momento invischiati in uno scontro senza fine tra i fautori della pace e i fautori della guerra, che provocò disordini e sedizioni: per i Romani ciò significò pace da ogni parte. I consoli, venuti a sapere, grazie alla denuncia di uno dei membri del collegio dei tribuni, che questi stavano per presentare una legge, molto gradita al popolo, sulla determinazione in denaro delle ammende, si affrettarono a proporla per primi.
I consoli successivi furono Lucio Sergio Fidenate, per la seconda volta, e Ostio Lucrezio Tricipitino. Durante il loro consolato nulla accadde che sia degno di menzione. I successori furono Aulo Cornelio Cosso e Tito Quinzio Peno, al secondo mandato. I Veienti fecero delle incursioni in territorio romano. Corse voce che a quelle scorrerie avessero preso parte alcuni giovani di Fidene, e l'indagine sul fatto venne affidata a Lucio Sergio, a Quinto Servilio e a Mamerco Emilio. Alcuni Fidenati furono confinati a Ostia perché non era sufficientemente chiaro per qual motivo fossero assenti da Fidene proprio in quei giorni. Fu aumentato il numero dei coloni ai quali venne assegnata la terra dei caduti in guerra. Quell'anno la siccità creò molti disagi e non soltanto vennero a mancare le piogge, ma anche la terra, privata della sua naturale umidità, riuscì a malapena ad alimentare i fiumi perenni. In alcuni luoghi la mancanza di acqua decimò, intorno alle fonti e ai torrenti inariditi, il bestiame che moriva di sete.
Altri animali furono uccisi dalla scabbia, poi le malattie contagiarono gli uomini: prima colpirono la gente di campagna e gli schiavi, poi la città ne fu piena. Non soltanto i corpi furono infettati, ma anche le menti suggestionate da riti magici di ogni genere di provenienza per lo più straniera, perché coloro che speculano sugli animi vittime della superstizione, con i loro vaticini riuscivano a introdurre nelle case strane cerimonie sacrificali; finché dello scandalo ormai pubblico non si resero conto le personalità più autorevoli della città, quando videro che in tutti i quartieri e in tutti i tempietti venivano offerti dei sacrifici espiatori, forestieri e insoliti, per implorare la benevolenza degli dèi. Perciò diedero disposizione agli edili di controllare che non si venerassero divinità al di fuori di quelle romane e che i riti fossero soltanto quelli tramandati dai padri.
La vendetta contro i Veienti fu rimandata all'anno successivo, in cui furono consoli Gaio Servilio Aala e Lucio Papirio Mugillano. Ma anche allora lo scrupolo religioso impedì che si dichiarasse subito guerra e che si inviassero truppe. Si decise di mandare prima i feziali a chiedere soddisfazione. Coi Veienti ci si era scontrati poco tempo prima a Nomento e Fidene, e a quell'episodio aveva fatto séguito non la pace ma una tregua; il termine era ormai scaduto e, prima del termine, quelli avevano ripreso le ostilità. Ciononostante vennero inviati i feziali, ma quando questi, dopo aver giurato secondo il rito dei padri, chiesero soddisfazione, le loro parole non vennero nemmeno ascoltate. Si discusse allora se la guerra andava dichiarata su decisione del popolo o se bastava un decreto del senato. I tribuni, minacciando di impedire la leva, riuscirono a ottenere che il console Quinzio portasse di fronte al popolo la questione della guerra. Votarono tutte le centurie. La plebe ebbe la meglio anche su di un altro punto: ottenne che non si eleggessero consoli per l'anno successivo.
XXXI
Vennero così nominati quattro tribuni militari con potere consolare: Tito Quinzio Peno, già console, Gaio Furio, Marco Postumio e Aulo Cornelio Cosso. Di loro Cosso ebbe il governo della città, mentre gli altri tre, portata a compimento la leva militare, partirono alla volta di Veio e dimostrarono quanto in guerra sia dannoso dividere il comando tra più persone. Ciascuno prediligeva il proprio piano e siccome ognuno vedeva le cose in maniera diversa dagli altri, finirono con l'offrire al nemico l'occasione di un colpo di mano. Infatti, mentre le truppe erano disorientate perché c'era chi ordinava di dare la carica e chi la ritirata, i Veienti li assalirono sfruttando il momento propizio. Fuggendo disordinatamente i Romani ripararono nel vicino accampamento: si patì il disonore più che la sconfitta. La città, non abituata alle sconfitte, piombò nella costernazione; si odiavano i tribuni, si chiedeva un dittatore nel quale riporre le speranze di tutto il paese.
Poiché anche in quella circostanza era di ostacolo lo scrupolo religioso, non potendo il dittatore essere nominato se non dal console, si consultarono gli àuguri che tolsero quello scrupolo. Aulo Cornelio nominò dittatore Mamerco Emilio che a sua volta lo scelse come maestro della cavalleria. Così, quando il paese ebbe veramente bisogno di un uomo di qualità superiori, la punizione a suo tempo inflitta dai censori non impedì che il timone dello Stato fosse affidato a una famiglia ingiustamente bollata di infamia. Trascinati dal successo, i Veienti mandarono messaggeri ai popoli dell'Etruria ad annunciare pomposamente la loro vittoria su tre comandanti romani in una sola battaglia. Pur non essendo riusciti a ottenere alcuna alleanza ufficiale dalla confederazione, tuttavia attirarono da ogni parte volontari mossi dalla speranza del bottino.
Soltanto i Fidenati decisero di riaprire le ostilità e, pensando che non fosse lecito iniziare una guerra se non con un delitto, come già prima con gli ambasciatori così ora macchiarono le loro spade col sangue dei nuovi coloni. Quindi si unirono ai Veienti. E poco dopo i capi dei due popoli si consultarono per scegliere, tra Veio e Fidene, come teatro di operazioni. Parve più opportuna Fidene, e i Veienti, attraversato il Tevere, trasferirono a Fidene il loro apparato bellico. A Roma regnava la paura. Richiamato da Veio l'esercito demoralizzato per la sconfitta, si pose l'accampamento di fronte alla porta Collina, si distribuirono uomini armati sulle mura, si sospese l'attività giudiziaria nel foro e si chiusero le botteghe: cose queste che dettero a Roma l'aspetto di un campo militare più che di una città.
XXXII
E il dittatore, mandati i banditori in giro per i quartieri, convocò in assemblea i cittadini smarriti e li rimproverò di essersi persi d'animo per un così lieve mutamento della sorte; per aver subito un piccolo scacco, oltretutto non dovuto al valore dei nemici o all'ignavia dell'esercito romano, ma alla mancanza di intesa tra i generali, avevano timore dei Veienti, da loro in passato già sconfitti ben sei volte, e di Fidene, città più spesso espugnata che assediata. Sia i Romani che i nemici erano gli stessi da molte generazioni: stesso carattere, stessa forza fisica, stesse armi. E anche lui era lo stesso dittatore Mamerco Emilio che, poco tempo prima, aveva sbaragliato a Nomento gli eserciti di Veienti e Fidenati, ai quali si erano uniti i Falisci; come maestro della cavalleria in campo di battaglia ci sarebbe stato quello stesso Aulo Cornelio che nella guerra precedente, come tribuno militare, aveva ucciso davanti a due eserciti il re dei Veienti Larte Tolumnio, e ne aveva portato poi le spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio.
Prendessero quindi le armi, ricordandosi che dalla parte loro c'erano i trionfi, le spoglie e la vittoria, mentre da quella del nemico l'orrendo assassinio degli ambasciatori uccisi contro il diritto delle genti, il massacro in tempo di pace dei coloni di Fidene, la rottura della tregua e la settima ribellione destinata a non avere successo. Non appena i due eserciti si fossero trovati a contatto, quegli infami nemici non si sarebbero rallegrati a lungo, ne era sicuro, dell'umiliazione inflitta all'esercito romano e il popolo romano avrebbe capito quanto più meritevoli verso la repubblica fossero quelli che lo avevano nominato dittatore per la terza volta di coloro che avevano bollato di infamia la sua seconda nomina, perché aveva tolto potere ai censori.
Quindi parte, dopo aver pronunciato solenni voti agli dèi, e si accampa a un miglio e mezzo da Fidene, protetto dalle alture a destra e dal fiume Tevere a sinistra. Al suo luogotenente Quinzio Peno ordina di occupare i monti e di prendere posizione su di un colle situato alle spalle dei nemici e fuori dalla loro vista. Il mattino dopo, quando gli Etruschi avanzarono in ordine di battaglia, resi euforici dal successo del giorno precedente, dovuto più alla fortuna che al valore, il dittatore temporeggiò fino a quando le vedette gli riferirono che Quinzio aveva raggiunto la sommità del colle vicino alla cittadella di Fidene. Allora diede ordine di muoversi, guidando lui stesso a passo di carica la fanteria in assetto di guerra contro il nemico.
Al maestro della cavalleria diede disposizione di combattere solo al suo comando: quando avesse avuto bisogno dell'intervento della cavalleria avrebbe dato un segnale; allora sì Aulo Cornelio avrebbe dovuto dimostrare sul campo di non aver dimenticato la vittoria sul re etrusco, il dono opimo, Romolo e Giove Feretrio! Lo scontro tra le due armate fu tremendo. Infiammati dall'odio, i Romani chiamano traditori i Fidenati e predoni i Veienti; dicono che sono violatori di tregue, macchiati del barbaro assassinio degli ambasciatori e con le mani ancora sporche del sangue dei loro stessi coloni, alleati infidi e nemici imbelli. Così, con i fatti e con le parole, saziano il loro odio.
XXXIII
Avevano fatto vacillare la resistenza dei nemici già al primo urto, quando all'improvviso si spalancarono le porte di Fidene e dalla città fuoriuscì uno strano esercito, inaudito e inusitato fino a quel momento; un'immensa moltitudine armata di fuochi, tutta sfavillante di torce ardenti che, lanciata in una corsa folle, si riversò sul nemico. Per un momento quell'insolito modo di combattere sbigottì i Romani. Allora il dittatore chiamò a sé il maestro della cavalleria coi suoi uomini e Quinzio dalle alture. Quindi, ravvivando egli stesso la battaglia, si precipitò all'ala sinistra che, come se si fosse trovata nel mezzo di un incendio più che in un combattimento, aveva cominciato a ripiegare terrorizzata dalle fiamme, e gridò:
«Vinti dal fumo come uno sciame di api, cacciati dalla vostra posizione, cederete a un nemico senz'armi? Non volete spegnere il fuoco con la spada? Se c'è da combattere col fuoco e non con le armi, perché non andate a strappare tutte quelle torce e non attaccate il nemico con le sue stesse armi? Avanti! Memori del nome di Roma e del coraggio dei vostri padri e vostro: deviate quest'incendio sulla città nemica e distruggete con le sue stesse fiamme Fidene, che con i vostri benefici non siete riusciti a placare! Vi spingono a farlo il sangue dei vostri ambasciatori e dei coloni e la vostra terra messa a ferro e fuoco!»
Tutto l'esercito si mise in moto agli ordini del dittatore. Raccolsero le torce che erano state lanciate, altre le strapparono con la forza ai nemici, così ora entrambi gli eserciti erano armati di fuoco. Il maestro della cavalleria da parte sua escogita un nuovo tipo di battaglia equestre. Ordina di togliere il morso ai cavalli, e per primo, dato di sprone, a briglia sciolta si getta in mezzo alle fiamme; e gli altri cavalli, spronati a correre senza più alcun impedimento, trascinano i cavalieri contro il nemico. La polvere che si alza, mista al fumo delle torce, offusca la vista a uomini e cavalli. Ma lo spettacolo inatteso che poco prima aveva atterrito i soldati non atterrì i cavalli, così i cavalieri seminarono morte e devastazione dovunque passavano.
Si udì un nuovo clamore di guerra che attirò l'attenzione di entrambi gli eserciti. E il dittatore gridò allora che il luogotenente Quinzio aveva attaccato il nemico alle spalle. Poi, lui stesso, ripetuto l'urlo di guerra, si butta all'assalto con più accanimento. Due eserciti, con due diversi modi di combattere, incalzavano e circondavano, di fronte e alle spalle, gli Etruschi, che non avevano alcuna possibilità di ritirarsi nell'accampamento o sulle alture, dove era spuntato a frapporsi un nuovo contingente nemico. Mentre i cavalli, non più trattenuti dal morso, avevano trascinato da ogni parte i cavalieri, la maggior parte dei Veienti disordinatamente si dirige verso il Tevere, e i Fidenati superstiti cercano di raggiungere la città di Fidene.
La fuga porta quegli uomini terrorizzati incontro alla morte: alcuni cadono trucidati sulle rive del fiume, altri, costretti a buttarsi in acqua, vengono travolti dalla corrente. Anche gli esperti nuotatori sono sopraffatti dallo sfinimento, dalle ferite e dalla paura. Fra tanti solo pochi riescono a raggiungere a nuoto la riva opposta. L'altra parte dell'esercito ripara in città passando attraverso l'accampamento. Trascinati dall'impeto, anche i Romani si buttano in quella direzione, specialmente Quinzio e i soldati che, appena scesi con lui dalle alture, sono più freschi e pronti alle fatiche, perché giunti alla fine dello scontro.
XXXIV
Entrati in città mescolati ai nemici, gli uomini di Quinzio salgono sulle mura da dove danno ai compagni il segnale che la città è stata presa. Appena il dittatore lo vide - era anche lui già penetrato nell'accampamento deserto dei nemici - conduce verso la porta i soldati impazienti di precipitarsi sul bottino, facendo loro balenare la speranza di ottenerne molto di più in città. E, accolto all'interno delle mura, marcia senza indugi in direzione della cittadella, dove vedeva riversarsi la massa scomposta dei fuggitivi. In città il massacro non fu certo minore che in battaglia; infine i nemici, gettate le armi, si consegnano al dittatore, chiedendo soltanto di aver salva la vita. Città e accampamento vengono messi a sacco. Il giorno dopo, tra cavalieri e centurioni venne sorteggiato un prigioniero a testa.
Due ne toccarono a quanti avevano dato prova di grandissimo valore. Il resto dei nemici venne venduto all'asta e il dittatore ricondusse in trionfo a Roma l'esercito vincitore e coperto di prede. Dopo aver ordinato al maestro della cavalleria di dimettersi dalla carica, abdicò anche lui, restituendo dopo quindici giorni in pace, quel potere che aveva accettato in guerra, quando la situazione era critica. Alcuni nei loro annali hanno riportato che presso Fidene ci fu anche una battaglia navale coi Veienti. La cosa è però assai improbabile perché neppure oggi il fiume è sufficientemente largo, e allora - come ci informano gli antichi - era assai più stretto. A meno che, come spesso succede, lo scontro fortuito di alcune navi che cercavano di impedire il guado del fiume, non sia stato esagerato per attribuirsi il vanto, ingiustificato, di una vittoria navale.
XXXV
L'anno successivo furono tribuni militari con potere consolare Aulo Sempronio Atratino, Lucio Quinzio Cincinnato, Lucio Furio Medullino e Lucio Orazio Barbato. Ai Veienti fu concessa una tregua di vent'anni, agli Equi di tre, anche se la loro richiesta era stata per un periodo più lungo; e le lotte interne ebbero tregua. L'anno dopo, senza guerre all'esterno né in città, fu reso memorabile dai giochi che si era fatto voto di indire durante la guerra, e che furono allestiti con straordinario sfarzo dai tribuni militari e richiamarono una grande quantità di gente dai paesi vicini. I tribuni militari con potere consolare erano Appio Claudio Crasso, Spurio Nauzio Rutilio, Lucio Sergio Fidenate e Sesto Giulio Iulo. Per la cortese ospitalità di cui tutti si erano fatti carico, la manifestazione riuscì molto gradita ai visitatori.
A giochi conclusi, i tribuni della plebe organizzarono dei comizi turbolenti nel corso dei quali si scagliarono contro la moltitudine perché, subendo stupidamente il fascino di coloro che in realtà odiava, continuava in eterno a mantenersi schiava, e non solo non osava sperare di partecipare al consolato, ma persino quando si trattava di eleggere i tribuni militari - magistratura aperta a patrizi e a plebei - dimenticava se stessa e i propri candidati. Che smettessero di domandarsi perché mai nessuno si preoccupava degli interessi della plebe. Si fatica e si affronta il rischio solo quando c'è la speranza di ricavarne vantaggio e onore. Non vi è nulla che gli uomini non intraprendano se a chi tenta grandi imprese si riservano grandi premi. Ma non si poteva certo pretendere, né sperare, che qualche tribuno della plebe si buttasse alla cieca, con molto rischio e senza alcun frutto, in scontri che gli avrebbero procurato l'implacabile ostilità dei patrizi contro i quali lottava, mentre la plebe per la quale combatteva non avrebbe minimamente aumentato la considerazione nei suoi riguardi.
Solo i grandi onori rendono grandi gli animi: nessuno dei plebei avrebbe più disprezzato se stesso, se gli altri avessero cessato di disprezzarlo. Con qualcuno bisognava pur sperimentare se c'era un plebeo in grado di occupare un'alta carica, oppure l'esistenza di un uomo forte e valoroso venuto fuori dalla plebe era un prodigio, un miracolo. Con uno sforzo immenso si era arrivati a ottenere che i tribuni militari con potere consolare venissero scelti anche tra la plebe. Avevano avanzato la propria candidatura uomini di provate qualità civili e militari: nei primi anni erano stati derisi, respinti e sbeffeggiati dai patrizi. Poi alla fine avevano smesso di esporsi agli insulti. Non vedevano perché non si dovesse abrogare quella legge che assicurava un diritto che non avrebbe mai potuto realizzarsi. Certo per loro sarebbe stato meno vergognoso venir esclusi per l'ingiustizia della legge e non perché giudicati indegni.
XXXVI
Discorsi di questo genere, ascoltati con viva partecipazione, spinsero alcuni a candidarsi al tribunato militare e a promettere che una volta eletti avrebbero presentato questa o quella proposta a favore della plebe. Si faceva balenare la speranza di distribuire l'agro pubblico, di fondare colonie, di erogare per la paga dei soldati una somma ottenuta imponendo un tributo ai possessori di terre. I tribuni militari, allora, atteso il momento in cui molta gente era via dalla città, dopo aver convocato i senatori con un avviso segreto per una data stabilita, in assenza dei tribuni della plebe, fecero emanare dal senato un decreto in base al quale, giacché circolava voce che i Volsci avevano saccheggiato il territorio degli Ernici, i tribuni militari dovevano andare a controllare la situazione, e si dovevano tenere i comizi per le elezioni dei consoli. I tribuni partirono lasciando come prefetto della città Appio Claudio, figlio del decemviro, un uomo molto energico e, fin dalla culla, imbevuto di odio verso i tribuni della plebe. Così i tribuni della plebe non poterono protestare né contro i promotori del decreto del senato, perché erano assenti, né contro Appio, perché ormai la cosa era approvata.
XXXVII
Furono eletti consoli Gaio Sempronio Atratino e Quinto Fabio Vibulano. In quell'anno, a quanto si dice, accadde un episodio che, pur riguardando un paese straniero, merita ugualmente di essere menzionato. Volturno, la città etrusca oggi nota come Capua, cadde in mano dei Sanniti e fu chiamata Capua dal loro comandante Capi o, com'è più probabile, dal terreno pianeggiante in cui si trova. I Sanniti la presero dopo esser stati in un primo tempo invitati dagli Etruschi, stremati dalla guerra, a dividere con loro i benefici della cittadinanza e la proprietà delle terre. Poi, nella notte successiva a un giorno di festa, i nuovi coloni assalirono i vecchi abitanti immersi nel sonno dopo le gozzoviglie, e li massacrarono.
I consoli sopra menzionati entrarono in carica alle idi di dicembre, dopo che erano avvenuti questi fatti. Ormai, non soltanto gli uomini che erano stati inviati per informarsi erano già ritornati con la notizia che i Volsci erano sul piede di guerra, ma anche gli ambasciatori di Latini ed Ernici riferivano che mai i Volsci, prima di allora, si erano tanto impegnati nella scelta dei comandanti e nell'arruolamento di un esercito; la gente continuava a dire che bisognava o dimenticare una volta per tutte le armi e la guerra sottomettendosi al giogo nemico, oppure non essere inferiori per valore, resistenza e disciplina militare a coloro con i quali si era in lotta per la supremazia. Le informazioni rispondevano a verità, ma i patrizi non le tennero nella dovuta considerazione.
E Gaio Sempronio, a cui era toccata in sorte quella provincia, confidando nella costanza della fortuna, giacché guidava un popolo di vincitori contro dei vinti, dimostrò una sconsideratezza e un'incuria tali che vi era più disciplina nell'esercito volsco che in quello romano. Come spesso in altre occasioni, al valore si accompagnò la fortuna. All'inizio della battaglia, affrontata da Sempronio con leggerezza e imprudenza, si andò all'attacco senza aver rinforzato lo schieramento con le riserve e senza aver disposto opportunamente la cavalleria. Il primo indizio sugli esiti della battaglia fu l'urlo di guerra che si levò forte e continuo dalla parte dei nemici, confuso, ineguale e ripetuto fiaccamente da parte dei Romani.
L'esercito, con quell'incerto grido, tradì la paura degli animi. Perciò il nemico si buttò all'assalto con ancora più accanimento, premendo con gli scudi e facendo lampeggiare le spade. Dall'altra parte, ondeggiano gli elmi dei soldati che si guardano attorno, e, non sapendo cosa fare, si agitano, si accalcano nel fitto della schiera. Le insegne un po' restano sul posto abbandonate dai soldati della prima fila, un po' sono riportate nell'interno dei manipoli. Non era ancora una vera fuga, non era ancora una vittoria. I Romani, più che combattere, cercavano di proteggersi. I Volsci si buttavano all'assalto, premevano contro le truppe romane, ma vedevano più nemici morti che in fuga.
XXXVIII
Ormai si cede da ogni parte. Inutili sono i rimproveri e gli incitamenti del console Sempronio. A nulla servivano il potere e l'autorità, e presto i suoi uomini avrebbero volto le spalle ai nemici, se Sesto Tempanio, un decurione di cavalleria, non fosse intervenuto con grande prontezza di spirito quando ormai la situazione stava per precipitare. Dopo aver urlato ai cavalieri di scendere da cavallo, se volevano salvare la repubblica - e i cavalieri di tutti gli squadroni avevano obbedito come a un comando del console - egli aggiunse: «Se questa coorte armata di piccoli scudi non riesce a frenare l'impeto dei nemici, è la fine della nostra supremazia. Seguite la punta della mia lancia come se fosse un vessillo. Mostrate a Volsci e Romani che non c'è cavalleria che possa starvi a pari quando siete in sella, né fanteria quando vi trasformate in fanti!»
Siccome al suo incitamento seguì un urlo di approvazione, Tempanio avanza reggendo alta la punta della lancia. Dovunque passano, si fanno breccia con la forza. Proteggendosi con gli scudi, accorrono dove vedono i compagni in maggiore difficoltà. Le sorti della battaglia si risollevano in tutti i punti dove il loro slancio li trascina. E se quel pugno di uomini avesse potuto buttarsi dovunque simultaneamente, non c'era dubbio che i nemici si sarebbero dati alla fuga.
XXXIX
Quando ormai da nessuna parte si poteva resistere al loro attacco, il comandante dei Volsci ordina di lasciar libero il passo a quella singolare coorte di nemici armati di scudi leggeri finché, trascinata dal suo impeto, non si trovasse tagliata fuori dai compagni. Allorché l'ordine venne eseguito, i cavalieri, intrappolati, non riuscirono più a sfondare là dove erano passati, perché i nemici erano andati a serrarsi proprio nel punto dove i cavalieri avevano fatto breccia. Così, quando il console e le legioni romane non videro più gli uomini che poco prima avevano protetto l'intero esercito, tentarono il tutto per tutto per evitare che il nemico annientasse, dopo averli intrappolati, tanti valorosi soldati.
I Volsci, divisi in due fronti, da una parte tenevano testa al console e alle legioni e dall'altra incalzavano Tempanio e i suoi cavalieri. Questi ultimi, nonostante i ripetuti tentativi, non erano riusciti ad aprirsi un varco verso i compagni, e, occupata un'altura, si difendevano disposti in cerchio, non senza ribattere colpo su colpo. La battaglia durò fino al calar della notte. Anche il console continuò a impegnare il nemico in uno scontro senza soste finché rimase un barlume di luce. La notte separò i contendenti quando la battaglia era ancora incerta. L'impossibilità di prevederne l'esito provocò in entrambi gli accampamenti un tale terrore che tutti e due gli eserciti, dopo aver abbandonato i feriti e gran parte dei bagagli, ripararono, come se fossero stati vinti, sulle alture vicine.
Tuttavia la collina fu assediata fino oltre la mezzanotte. Ma quando agli assedianti arrivò notizia che il loro accampamento era stato abbandonato, pensando che i compagni fossero stati vinti, fuggirono anch'essi nelle tenebre, ognuno dove lo portava la paura. Tempanio, temendo un'imboscata, tenne fermi i suoi fino all'alba. Poi, sceso in ricognizione con pochi uomini, informandosi presso alcuni nemici feriti, venne a sapere che l'accampamento dei Volsci era stato abbandonato. Felice per questa notizia, gridò ai suoi uomini di scendere dalla collina ed entrò nel campo romano. Ma avendo qui trovato tutto deserto, abbandonato e nella stessa desolazione dell'accampamento nemico, prima che i Volsci, rendendosi conto dell'errore, tornassero indietro, prese con sé i feriti che gli era possibile trasportare e, ignorando in che direzione fosse andato il console, si avviò per la strada più breve verso la città.
XL
Là era già arrivata notizia della sconfitta e dell'abbandono dell'accampamento e, più di ogni altra cosa, era stata accolta con manifestazioni di lutto pubblico e privato la perdita dei cavalieri. Il console Fabio, siccome anche a Roma regnava la paura, stava di guardia alle porte; quando in lontananza furono avvistati i cavalieri, ci fu un momento di panico perché non si sapeva chi fossero. Ma appena furono riconosciuti, trasformarono la paura in una gioia così grande che la città tutta si riempì delle grida di chi esultava per il ritorno dei cavalieri salvi e vittoriosi. E dalle case che poco prima in lutto avevano pianto la morte dei loro, la gente si riversò per le strade; le madri e le mogli trepidanti, dimentiche per la gioia del loro decoro, corsero incontro allo squadrone e si abbandonarono, con l'anima e col corpo, nelle braccia dei congiunti, riuscendo a stento a controllarsi per la felicità.
I tribuni della plebe, che avevano citato in giudizio Marco Postumio e Tito Quinzio ritenendoli responsabili della sconfitta subita presso Veio, colsero al volo l'occasione del recente risentimento nei confronti di Sempronio per rinfocolare l'odio della gente verso di loro. Così, convocata l'assemblea, andavano proclamando che a Veio la repubblica era stata tradita dai suoi generali e che in séguito, visto che i generali non erano stati puniti, anche il console aveva tradito l'esercito, impegnato a combattere coi Volsci, mentre gli eroici cavalieri erano stati esposti al massacro e l'accampamento vergognosamente abbandonato.
Allora Gaio Giunio ordinò di far chiamare il cavaliere Tempanio e, una volta avutolo di fronte, gli disse: «Sesto Tempanio, io ti chiedo se pensi che il console Sempronio sia entrato in battaglia al momento opportuno, se abbia rinsaldato il suo schieramento con le riserve, e se abbia in qualche modo adempiuto ai doveri di un buon console; se sei stato proprio tu che, quando le legioni romane erano ormai vinte, di tua iniziativa hai appiedato i cavalieri e risollevato le sorti della battaglia. E poi, quando tu e i tuoi cavalieri siete rimasti tagliati fuori dal resto delle nostre truppe, se il console è intervenuto di persona in vostro aiuto o se ha mandato rinforzi. E ancora, se il giorno successivo hai infine ricevuto qualche soccorso, o se tu e la tua coorte vi siete aperti la strada verso il campo solo con il vostro valore. E se nell'accampamento avete trovato traccia del console e dell'esercito, o soltanto soldati feriti abbandonati in mezzo alla desolazione. Oggi devi dire queste cose, in nome del tuo coraggio e della tua lealtà grazie ai quali soltanto in questa guerra la repubblica non è crollata. Devi dire dove si trovano adesso Gaio Sempronio e le nostre legioni, se sei stato abbandonato o se tu hai abbandonato il console e l'esercito; e infine se siamo vinti o vincitori.»
XLI
In risposta, si racconta, il discorso di Tempanio fu senza fronzoli e serio, alla maniera dei militari; senza vane lodi per sé, né compiacimento per le altrui colpe. Per quanto riguardava la perizia bellica di Gaio Sempronio, disse che non spettava certo a un soldato esprimere un giudizio su un generale, ma era spettato al popolo romano quando nei comizi lo aveva scelto come console. Perciò non era a lui che si doveva chiedere un giudizio sui piani di un comandante o sulle astuzie di un console, cose queste che avrebbero richiesto una profonda riflessione anche da parte di persone di grande cuore e intelligenza. Ma poteva riferire quello che aveva visto. Prima di rimanere isolato dal resto delle truppe, aveva visto il console combattere in prima linea, incoraggiare i suoi e aggirarsi tra le insegne romane e i dardi nemici.
In séguito, tagliato fuori dalla vista dei suoi, dallo strepito e dalle urla aveva capito che la battaglia era durata fino al calar della notte, e riteneva che, data la gran quantità di nemici, non fosse stato possibile sfondare in direzione della collina dove lui si era attestato. Ignorava dove si trovasse l'esercito. Ma come nel momento critico lui e i compagni erano andati a mettersi al riparo sfruttando le difese naturali della posizione, supponeva che anche il console, per salvare l'esercito, fosse andato ad accamparsi in un luogo più sicuro. A suo parere i Volsci non versavano in condizioni migliori di quelle dei Romani. L'oscurità e le circostanze avevano tratto in errore entrambi gli eserciti. E avendo infine pregato che non lo trattenessero più a lungo, stremato com'era dalla fatica e dalle ferite, fu congedato con grandi elogi, non solo per il coraggio, ma anche per la moderazione.
Nel frattempo il console era già arrivato al tempio della Quiete sulla via Labicana. E lì dalla città furono inviati carri e bestie da soma per riportare indietro l'esercito sfibrato dalla battaglia e dalla marcia notturna. Poco dopo il console entrò in città e si affrettò a ricoprire Tempanio di meritate lodi più che a discolpare se stesso. Mentre la città era in angustie per l'insuccesso e sdegnata nei confronti dei comandanti, Marco Postumio, che a Veio era stato tribuno militare con potere consolare, fu offerto come imputato e condannato al pagamento di 10.000 assi pesanti.
Il suo collega Tito Quinzio, che era uscito vincitore sia contro i Volsci come console sotto il comando del dittatore Postumio Tuberto, sia contro Fidene come luogotenente dell'altro dittatore Mamerco Emilio, riversando sul collega già condannato tutta la responsabilità di quella giornata, fu assolto da tutte le tribù. Si dice che gli siano stati di aiuto il ricordo del padre Cincinnato, uomo degno di grande rispetto, e Quinzio Capitolino, allora già molto avanti negli anni, il quale supplicava di evitare che proprio a lui, che aveva poco da vivere, toccasse riferire a Cincinnato una notizia così triste.
XLII
Il popolo elesse tribuni della plebe, nonostante fossero assenti, Sesto Tempanio, Marco Asellio, Tiberio Antistio e Spurio Pullio, che i cavalieri, su proposta di Tempanio, avevano scelto come centurioni. Il senato, rendendosi conto che il risentimento nei confronti di Sempronio aveva reso detestabile il nome di console, decretò che si eleggessero dei tribuni militari con potere consolare. Furono nominati Lucio Manlio Capitolino, Quinto Antonio Merenda e Lucio Papirio Mugillano. All'inizio dell'anno, il tribuno della plebe Lucio Ortensio citò in giudizio Gaio Sempronio, che era stato console l'anno prima. Quattro colleghi lo implorarono di fronte a tutto il popolo romano di non infierire sul loro incolpevole comandante, al quale non si poteva imputare nulla eccetto la cattiva sorte; Ortensio si irritò, pensando che volessero mettere alla prova la sua fermezza e che l'imputato confidasse non tanto nelle suppliche dei tribuni, ostentate soltanto per salvare le apparenze, quanto piuttosto nel loro appoggio legale.
E così, rivolgendosi a Sempronio, gli chiedeva dove fosse il famoso orgoglio dei patrizi e dove l'animo sicuro e convinto della propria innocenza: un ex-console si rifugiava sotto la protezione dei tribuni! E rivolgendosi ai colleghi: «Quanto a voi, che cosa intendete fare se io proseguo nell'accusa fino alla condanna? Volete privare il popolo dei suoi diritti o distruggere il potere dei tribuni?» Ma essi ribatterono che il giudizio su Sempronio e su chiunque altro spettava all'autorità assoluta del popolo romano, e che essi non volevano e non potevano sopprimere il giudizio del popolo. Ma, se le preghiere in favore del comandante, che per loro era come un padre, non fossero servite, avrebbero indossato con lui la veste da supplici.
Allora Ortensio disse: «La plebe romana non vedrà i suoi tribuni in gramaglie. Ritiro la mia accusa contro Gaio Sempronio, visto che mentre comandava è riuscito a farsi amare così tanto dai suoi soldati.» La compassione dei quattro tribuni non fu per la plebe e per i senatori meno gradita dell'arrendevolezza di Ortensio di fronte a giuste richieste. La buona sorte cessò di arridere agli Equi, che avevano salutato come propria la dubbia vittoria conseguita dai Volsci.
XLIII
L'anno successivo divennero consoli Numerio Fabio Vibulano e Tito Quinzio Capitolino, figlio di Capitolino. Sotto il comando di Fabio, cui erano toccate in sorte le operazioni contro gli Equi, non ci furono episodi degni di nota. Gli Equi erano appena riusciti a mettere in mostra un timido schieramento di battaglia che i Romani li sbaragliarono, senza quindi grande gloria per il console. Perciò gli venne negato il trionfo, ma per aver cancellato l'onta della disfatta subita da Sempronio, gli fu concesso di entrare in città con gli onori dell'ovazione. Mentre la guerra si era conclusa con uno scontro di dimensioni ridotte rispetto a quanto si temeva, in città la calma fu interrotta da contrasti di imprevista gravità tra plebei e patrizi, dovuti alla proposta di raddoppiare il numero dei questori. Questa proposta, che prevedeva si eleggessero, oltre ai due questori urbani, altri due destinati ad assistere i consoli nell'amministrazione bellica, era stata avanzata dai consoli, e i senatori l'avevano appoggiata con entusiasmo.
Ma i tribuni della plebe diedero battaglia perché una parte dei nuovi questori, che fino a quel giorno erano stati eletti solo fra i patrizi, fosse scelta tra la plebe. Sulle prime sia i consoli che i senatori fecero di tutto per opporsi a questa rivendicazione. In séguito concessero che, così come nell'elezione dei tribuni militari con potere consolare, allo stesso modo nella nomina dei questori il popolo avesse libertà assoluta di scelta. Poi, vedendo gli scarsi risultati ottenuti, abbandonano del tutto la proposta di aumentare il numero dei questori. I tribuni riprendono la proposta che era stata abbandonata, e inoltre altre proposte sediziose, tra cui anche quella di una legge agraria. A causa di tali contrasti il senato preferì eleggere i consoli anziché i tribuni militari.
Ma dato che l'intervento dei tribuni non permise di emanare un decreto, la repubblica passò dal consolato all'interregno. Nemmeno questo fu però esente da gravi disordini, perché i tribuni impedivano ai senatori di riunirsi. La maggior parte dell'anno successivo si trascinò in scontri tra i nuovi tribuni e alcuni interré: a seconda infatti del momento, i tribuni impedivano ai senatori di riunirsi per nominare un interré, o all'interré di emanare un decreto senatoriale sull'elezione dei consoli. Alla fine fu nominato interré Lucio Papirio Mugillano il quale, stigmatizzando sia i senatori, sia i tribuni della plebe, ricordava che la repubblica, abbandonata e trascurata dagli uomini, ma sostenuta dalla provvidenza e dalla cura degli dèi, continuava a reggersi in piedi grazie alla tregua con i Veienti e alle esitazioni degli Equi.
Tuttavia, se da quella parte fossero arrivati allarmanti segnali, erano contenti che la repubblica, priva di magistrati patrizi, venisse schiacciata? Che non ci fossero né un esercito né un comandante per arruolarlo? O avrebbero respinto una guerra esterna con una guerra civile? Se l'una e l'altra fossero esplose insieme, a stento con l'aiuto degli dèi si sarebbe potuto evitare che la potenza romana venisse travolta. Perché invece, rinunciando ciascuno a una parte dei propri diritti, non si sforzavano di trovare un accordo su una posizione intermedia, i senatori accettando che al posto dei consoli fossero eletti i tribuni militari, e i tribuni della plebe non opponendosi all'elezione di quattro questori scelti indistintamente tra patrizi e plebei con il libero voto del popolo?
XLIV
Si tennero prima i comizi per l'elezione dei tribuni. Furono eletti tribuni con potere consolare Lucio Quinzio Cincinnato, per la terza volta, Lucio Furio Medullino, per la seconda, Marco Manlio e Aulo Sempronio Atratino, tutti patrizi. Quest'ultimo tenne i comizi per le elezioni dei questori. Benché, tra i non pochi plebei, aspirassero alla carica il figlio del tribuno della plebe Aulo Antistio e il fratello dell'altro tribuno Sesto Pompilio, né l'autorità e né l'appoggio di costoro poterono impedire che la gente desse la sua preferenza, per la loro nobiltà, a uomini i cui padri e i cui antenati aveva visto consoli. Tutti i tribuni erano fuori di sé, e in particolare Pompilio e Antistio, indignati per lo scacco subito dai congiunti. Che cosa significava l'accaduto? Com'era possibile che i servigi da loro prestati, gli abusi compiuti dai patrizi o il piacere di esercitare un diritto che prima non era mai stato concesso, non avessero indotto il popolo a eleggere, se non un tribuno militare, almeno un solo questore plebeo!
Non erano dunque servite a nulla le preghiere di un padre per il figlio e di un fratello per il fratello, pur essendo entrambi tribuni della plebe, rivestiti di quel sacrosanto potere creato per la salvaguardia della libertà. In tutta quella faccenda c'erano senz'altro degli imbrogli e Aulo Sempronio nei comizi si era valso più dell'astuzia che della lealtà. Sostenevano che i loro congiunti erano stati privati della carica per i raggiri di Sempronio. Siccome non potevano attaccare lui personalmente, protetto com'era dalla sua fama di onestà e dalla magistratura che in quel momento deteneva, rivolsero la loro rabbia contro Gaio Sempronio, cugino di Atratino, e, con l'appoggio del collega Marco Canuleio, lo citarono in giudizio per l'umiliazione subita nella guerra contro i Volsci. In séguito gli stessi tribuni portarono in senato la questione della distribuzione delle terre, misura alla quale Gaio Sempronio si era sempre opposto con accanimento; pensavano, e a ragione, che Sempronio o avrebbe perso credito presso i patrizi abbandonando la causa, o continuando a sostenerla fino al giorno del processo avrebbe scontentato la plebe.
Egli preferì esporsi all'odio e nuocere alla propria causa piuttosto che all'interesse del paese, e rimase fedele all'opinione che non si dovesse fare alcuna elargizione, perché ciò avrebbe solo aumentato la popolarità dei tribuni. Questi ultimi non cercavano di ottenere terra per la plebe, ma risentimento contro la sua persona. Egli avrebbe affrontato anche quella tempesta con animo forte; quanto al senato, non doveva avere, nei confronti suoi o di qualsiasi altro cittadino, tanto riguardo da danneggiare la collettività per salvare un solo individuo. Con animo non meno deciso, quando venne il giorno del processo, perorò di persona la propria causa e, nonostante i molti tentativi fatti dai senatori per placare la plebe, Sempronio fu condannato a una multa di 15.000 assi.
Quello stesso anno la vergine Vestale Postumia fu processata per amore sacrilego. Pur essendo innocente, attirò su di sé i sospetti della gente per il suo modo di vestire troppo raffinato e per il comportamento più libero di quanto convenisse a una vergine. La causa fu prima rinviata, poi la donna fu assolta, ma il pontefice massimo a nome di tutto il collegio le ordinò di astenersi dalle frivolezze e di coltivare più la santità che l'eleganza. Nel corso di quello stesso anno, i Campani conquistarono Cuma, città che allora era in mano dei Greci. L'anno successivo ebbe come tribuni militari con potere consolare Agrippa Menenio Lanato, Publio Lucrezio Tricipitino e Spurio Nauzio Rutilio.
XLV
Grazie alla fortuna del popolo romano, fu quello un anno memorabile più per il grande pericolo corso che per il danno subito. Gli schiavi congiurarono di appiccare fuoco alla città in punti tra loro distanti, e di occupare in armi la cittadella e il Campidoglio mentre la gente era intenta qua e là a portar soccorso alle case. Ma Giove sventò questi piani scellerati e, grazie alla delazione di due partecipanti alla congiura, i colpevoli vennero arrestati e puniti. I delatori furono ricompensati con 10.000 assi pesanti pagati dall'erario - una somma allora considerata una vera fortuna - e con la concessione della libertà.
Gli Equi ricominciarono a fare preparativi di guerra e da fonti degne di fede arrivò a Roma la notizia che nuovi nemici, i Labicani, si erano alleati con quelli di un tempo. All'ostilità degli Equi la città era ormai abituata come a un anniversario. Ma, siccome la delegazione inviata a Labico era tornata con risposte ambigue, dalle quali si intuiva che non preparavano ancora la guerra, ma che la pace non sarebbe durata a lungo, i Romani affidarono ai Tuscolani il cómpito di controllare che a Labico non sorgessero nuove minacce di guerra. I tribuni militari con potere consolare per l'anno successivo, Lucio Sergio Fidenate, Marco Papirio Mugilano e Gaio Servilio, figlio di Prisco, il dittatore che aveva conquistato Fidene, súbito dopo essere entrati in carica, ricevettero la visita di ambasciatori da Tuscolo.
Riferivano che i Labicani avevano impugnato le armi e si erano accampati sull'Algido, dopo aver devastato la campagna di Tuscolo insieme a contingenti di Equi. Fu allora dichiarata guerra ai Labicani. Avendo il senato decretato che due tribuni partissero per la guerra e che uno rimanesse invece a capo della città, subito scoppiò un litigio fra i tribuni perché ciascuno vantava la propria superiorità in campo militare e disprezzava il governo della città, considerandolo un compito sgradito e inglorioso. Mentre i senatori assistevano sbalorditi a quell'alterco non certo decoroso tra colleghi, Quinto Servilio esclamò:
«Visto che non avete alcun rispetto né per questo consesso né per la repubblica, dirimerà questa contesa l'autorità paterna: mio figlio governerà la città senza che si debba ricorrere all'estrazione a sorte. Spero soltanto che chi aspira al comando in guerra sappia usare maggiore ragionevolezza e concordia nel reggerlo che nel desiderarlo.»
XLVI
Si decise di non organizzare una leva militare che coinvolgesse tutta la popolazione; furono estratte a sorte solo dieci tribù, all'interno delle quali i due tribuni scelsero i più giovani e li condussero a combattere. Gli attriti sorti in città tra i tribuni si riaccesero nell'accampamento per la stessa insaziabile sete di comando. Non erano d'accordo su nulla; lottavano per far prevalere la propria opinione; ciascuno esigeva che solo i suoi piani e i suoi ordini fossero approvati. Si disprezzavano a vicenda. Finché, dopo una reprimenda dei loro luogotenenti, decisero di esercitare il supremo comando a giorni alterni. Quando queste notizie arrivarono a Roma, si dice che Quinto Servilio, ammaestrato dall'età e dall'esperienza, abbia implorato gli dèi immortali perché la discordia dei tribuni non fosse tanto dannosa per la repubblica quanto lo era stata a Veio.
E come se una disfatta imminente fosse ormai certa, insistette con il figlio perché arruolasse dei soldati e preparasse le armi. Non fu cattivo profeta. Infatti, quando i Romani agli ordini di Lucio Sergio, a cui quel giorno toccava il comando, si vennero a trovare in una posizione svantaggiosa sotto l'accampamento nemico, dove li aveva trascinati la speranza infondata di espugnarlo - visto che gli avversari si erano ritirati al di là della palizzata di protezione fingendo di essere in preda al panico - un attacco improvviso degli Equi li ricacciò giù lungo il pendio di una valle. Molti furono raggiunti e massacrati mentre, più che fuggire, ruzzolavano verso il basso. Quel giorno riuscirono a stento a difendere l'accampamento, mentre quello successivo, ormai quasi circondati dai nemici, lo abbandonarono fuggendo vergognosamente attraverso la porta sul lato opposto.
I comandanti con i luogotenenti e le forze rimaste abbarbicate alle insegne si diressero a Tuscolo. Altri, dopo essersi dispersi per le campagne, per vie diverse raggiunsero Roma, portando la notizia di una sconfitta maggiore di quella subita. La reazione fu però più contenuta del previsto, giacché tutti erano preparati al disastro e le riserve su cui contare in una situazione di emergenza erano già state preparate dal tribuno militare. Per disposizione di quest'ultimo, i magistrati di rango inferiore riportarono l'ordine in città, e gli osservatori mandati in gran fretta tornarono con la notizia che i comandanti e l'esercito erano a Tuscolo e che il nemico non aveva spostato l'accampamento.
Quello che però più di ogni altra cosa riuscì a infondere coraggio, fu la nomina a dittatore, per decreto del senato, di Quinto Servilio Prisco, uomo di cui il paese aveva potuto apprezzare la lungimiranza già in molte altre passate circostanze, ma anche in occasione di quella guerra, perché soltanto lui aveva previsto in anticipo i pessimi risultati della rivalità tra i tribuni. Dopo aver nominato maestro della cavalleria il figlio, dal quale - quando questi era tribuno militare - era stato proclamato dittatore (è questa la tesi di alcuni storici, altri scrivono che quell'anno fu Servilio Aala maestro della cavalleria) Quinto Servilio partì per la guerra con un nuovo esercito e, fatti venire gli uomini che si trovavano a Tuscolo, pose il campo a due miglia dal nemico.
XLVII
In séguito al successo ottenuto, erano passati agli Equi l'arroganza e la negligenza già dei comandanti romani. Così il dittatore, buttatosi all'assalto con la cavalleria e avendo scompigliato sin da subito le prime linee dei nemici, ordinò alle legioni di avanzare rapidamente e uccise uno dei suoi vessilliferi che esitava. Le truppe si gettarono nella mischia con tale accanimento che gli Equi non riuscirono a reggere l'urto, e, sconfitti sul campo, si diressero con una fuga disordinata verso l'accampamento; questo fu espugnato dai Romani in meno tempo e lotta che nella battaglia. Preso e saccheggiato l'accampamento, il dittatore concesse il bottino ai soldati. I cavalieri, che avevano inseguito i nemici fuggiti dal campo, riferirono che tutti i Labicani vinti e buona parte degli Equi si erano rifugiati a Labico.
Il giorno dopo l'esercito giunse a Labico; la città, circondata, fu presa facendo uso di scale e saccheggiata. Il dittatore riportò a Roma l'esercito vincitore e rinunciò alla carica otto giorni dopo essere stato eletto. Poi, opportunamente, prima che i tribuni della plebe fomentassero disordini per la legge agraria proponendo la distribuzione del territorio labicano, il senato, a grande maggioranza, stabilì di fondare una colonia a Labico. Mille e cinquecento coloni furono inviati da Roma e ciascuno di loro ricevette 2.000 iugeri di terra. Dopo la conquista di Labico si ebbero come tribuni militari con potere consolare Agrippa Menenio Lanato, Gaio Servilio Strutto e Publio Lucrezio Tricipitino, tutti per la seconda volta, e Spurio Rutilio Crasso; l'anno successivo Aulo Sempronio Atratino, per la terza volta, Marco Papirio Mugillano e Spurio Nauzio Rutilio, entrambi per la seconda volta. Per due anni vi furono rapporti tranquilli con l'esterno e disordini interni dovuti alle leggi agrarie.
XLVIII
Chi fomentava il volgo erano i tribuni della plebe Spurio Mecilio, al quarto mandato, e Marco Metilio, al terzo, entrambi eletti pur non essendo a Roma. Essi avevano presentato una proposta di legge in base alla quale la terra tolta al nemico doveva essere divisa un tanto a testa; questo decreto del popolo avrebbe portato alla confisca delle fortune di gran parte dei nobili; infatti, com'era normale per una città situata su suolo altrui, non esisteva probabilmente un solo palmo di terra che non fosse stato conquistato con le armi e la plebe non possedeva altro se non gli appezzamenti venduti o assegnati dallo Stato, per questo si profilava uno scontro durissimo tra plebe e patrizi. Né in senato, né nelle riunioni private che tenevano con le personalità più in vista, i tribuni militari riuscivano a trovare sulla questione una via d'uscita. Allora Appio Claudio, nipote dell'Appio Claudio che era stato tra i decemviri addetti alla stesura delle leggi, pur essendo il più giovane fra i senatori, disse, a quanto si racconta, che da casa portava un espediente antico e familiare.
Infatti era stato il suo bisavolo Appio Claudio a indicare ai patrizi come unico mezzo per annientare la potestà tribunizia l'opposizione dei colleghi. Gli uomini nuovi alle cariche pubbliche, diceva, facilmente si lasciano indurre a cambiar idea dall'autorità dei maggiorenti qualora questi adattino i loro discorsi una volta tanto alle circostanze e non alla dignità del loro rango. Gli umori di persone come i tribuni mutano secondo la situazione: non appena avessero visto come il favore popolare andava tutto a quei colleghi che, senza lasciare spazio a loro, promuovevano per primi qualche iniziativa, allora avrebbero abbracciato senza alcuna esitazione la causa del senato, per guadagnarsi le simpatie dell'intero ordine e soprattutto quelle dei senatori più autorevoli.
Tutti approvarono e in particolare Quinto Servilio Prisco lodò il giovane perché non aveva tralignato dalla stirpe dei Claudi. Quindi a ciascuno, per quel che poteva, venne dato l'incarico di indurre al veto qualche membro del collegio dei tribuni. Tolta la seduta, i senatori cominciarono ad avvicinare i tribuni. Con argomenti persuasivi, con esortazioni e con l'assicurazione che il loro gesto sarebbe risultato gradito ai singoli e a tutto il senato, riuscirono a convincere sei tribuni a porre il veto. Quando il giorno dopo - come precedentemente convenuto - si riferì al senato la sedizione fomentata da Mecilio e Metilio con la loro deleteria proposta di riforma agraria, il tenore dei discorsi pronunciati dai senatori più autorevoli era tale che ciascuno, per parte sua, diceva di non saper ormai quale suggerimento dare e di non vedere nessun'altra soluzione se non nell'aiuto dei tribuni: la repubblica ormai in stato d'assedio si affidava alla loro protezione, come un cittadino bisognoso d'aiuto.
Era motivo di onore per i tribuni e per la loro carica che il tribunato non si opponesse ai colleghi malvagi con minore decisione di quanta ne dimostrasse nell'attaccare il senato e nel suscitare discordie tra i diversi ordini sociali. Per tutto il senato sorse allora un mormorio e da ogni parte della curia si invocavano i tribuni. Poi, una volta tornato il silenzio, i tribuni predisposti dalle pressioni dei capi patrizi dichiararono di esser pronti a opporre il proprio veto alla proposta presentata dai colleghi, proposta che il senato riteneva potesse sovvertire la repubblica. Il senato ringraziò coloro che avevano opposto il veto. I tribuni che invece avevano presentato la proposta di legge, convocata l'assemblea, chiamarono i colleghi traditori degli interessi della plebe e servi dei consoli, e, dopo aver inveito contro di loro con parole ancora più dure, rinunciarono all'iniziativa.
IL
L'anno successivo - durante il quale furono tribuni militari con potere consolare Publio Cornelio Cosso, Gaio Valerio Potito, Quinto Quinzio Cincinnato e Numerio Fabio Vibulano - ci sarebbero state due guerre se non fosse stata ritardata da uno scrupolo religioso dei loro capi quella contro i Veienti, le cui terre furono devastate dallo straripamento del Tevere che travolse soprattutto le fattorie nelle campagne. Nello stesso periodo, la disfatta subita tre anni prima non consentì agli Equi di portare aiuto ai Bolani, una popolazione che apparteneva alla loro stirpe. Costoro avevano fatto delle incursioni nel limitrofo territorio di Labico e attaccato i nuovi coloni. Ma, mentre avevano sperato che tutti gli Equi approvassero e difendessero quel misfatto, abbandonati dai loro, persero terre e città in una guerra che non merita neppure di essere descritta perché si ridusse a un assedio da nulla e a una sola battaglia.
Il tentativo del tribuno della plebe Lucio Decio di far passare una legge in base alla quale anche a Bola - come già a Labico - si sarebbero inviati dei coloni, fallì per l'opposizione dei colleghi, i quali dichiararono che non avrebbero permesso il passaggio di alcun decreto del popolo privo dell'autorizzazione del senato. L'anno seguente gli Equi riconquistarono Bola e, dopo avervi mandato coloni, la protessero con nuove forze, mentre a Roma erano tribuni militari con potere consolare Gneo Cornelio Cosso, Lucio Valerio Potito, Quinto Fabio Vibulano, per la seconda volta, e Marco Postumio Regillense. La campagna contro gli Equi fu affidata a quest'ultimo, uomo di indole malvagia, anche se essa si manifestò più nell'ora della vittoria che durante la guerra.
Arruolato tempestivamente un esercito, egli lo condusse a Bola e, dopo aver fiaccato con scaramucce la baldanza degli Equi, fece irruzione nella città. Quindi spostò la lotta dai nemici contro i concittadini e, sebbene durante l'assedio avesse dichiarato che il bottino sarebbe stato dei soldati, una volta conquistata la città mancò di parola. Per quanto mi riguarda credo che fu proprio questa la causa del risentimento delle truppe, e non la scarsità, rispetto alle promesse del tribuno, del bottino trovato in una città saccheggiata poco tempo prima e aperta di recente a nuovi coloni. L'irritazione crebbe quando Postumio rientrò a Roma richiamato dai colleghi a causa dei disordini provocati dai tribuni, e pronunciò in assemblea una frase stupida e insensata: mentre il tribuno della plebe Marco Sestio, che proponeva una legge agraria, disse che nel contempo avrebbe avanzato anche la proposta di inviare coloni a Bola - perché era giusto che la città e le terre di Bola andassero a chi le aveva conquistate con le armi - Postumio esclamò: «Guai ai miei soldati se non staranno tranquilli!» Questa frase irritò i senatori non meno dei partecipanti all'assemblea.
Il tribuno della plebe, uomo energico e non privo di eloquenza, avendo trovato un avversario dal carattere arrogante e dalla lingua sfrenata, che, aizzato e punzecchiato, avrebbe finito per usare espressioni tali da rendere odiose non solo la sua persona, ma anche la sua causa e l'intera classe patrizia, cercava di trascinare a discutere Postumio più di ogni altro membro del collegio dei tribuni militari. Quando ebbe udito quella frase brutale e spietata, subito Marco Sestio esclamò: «Ma lo sentite, o Quiriti, che minaccia di punire i suoi soldati come se fossero schiavi? E tuttavia questa belva vi sembrerà più degna di alti onori di quelli che vi regalano terre e città, vi aprono colonie, vi procurano una casa per la vecchiaia, e per fare i vostri interessi combattono contro nemici tanto feroci e arroganti? Cominciate a domandarvi perché pochi ormai abbracciano la vostra causa. E cosa dovrebbero aspettarsi da voi? Forse le cariche che preferite affidare ai vostri avversari, piuttosto che ai difensori del popolo romano? Poco fa vi ha ferito sentire le parole di costui. Ma ciò ha importanza? Se doveste votare ora, preferireste costui, che minaccia di punirvi, a quanti vogliono assicurarvi terre, case e patrimoni.»
L
Quando la frase di Postumio arrivò alle orecchie dei soldati, suscitò nell'accampamento un'indignazione ancora più grande: l'uomo che era ricorso alla frode per togliere il bottino alle sue truppe, ora minacciava anche di punirle? Poiché si mormorava apertamente, il questore Publio Sestio, pensando che quella sedizione potesse essere repressa con la stessa violenza con la quale era scoppiata, inviò un littore ad arrestare un soldato che sbraitava. Allora si sentirono urla e ingiurie; il questore, colpito da un sasso, dovette allontanarsi dalla mischia, mentre l'uomo che lo aveva colpito gridava che al questore era toccata la punizione che il comandante aveva minacciato di infliggere ai soldati. Richiamato da questo tumulto, Postumio aggravò la situazione con duri interrogatori e crudeli punizioni. Quando le urla di quelli che erano stati condannati a morte con il graticcio richiamarono una gran folla, egli, non riuscendo a frenare la collera, corse giù come un forsennato dai banchi del tribunale verso coloro che protestavano contro la pena. Non appena littori e centurioni si buttarono sulla folla cercando di disperderla, la rabbia proruppe a tal punto che il tribuno militare venne lapidato dalle sue truppe.
Quando a Roma arrivò la notizia di questo terribile episodio, i tribuni militari proposero di aprire un'inchiesta senatoriale sulla morte del collega, ma i tribuni della plebe si opposero. Lo scontro però aveva un'altra origine: i patrizi, temendo che la plebe, spaventata dall'inchiesta e accecata dalla rabbia, volesse nominare tribuni militari appartenenti alla propria classe, facevano il possibile perché venissero eletti i consoli. Dato che i tribuni della plebe non permettevano al senato di emanare il decreto sull'inchiesta e opponevano il proprio veto ai comizi per le elezioni consolari, si tornò all'interregno. Ma alla fine la vittoria fu dei patrizi.
LI
Nei comizi tenuti dall'interré Quinto Fabio Vibulano furono eletti consoli Aulo Cornelio Cosso e Lucio Furio Medullino. Durante il loro mandato, all'inizio dell'anno si approvò un decreto del senato in base al quale i tribuni avrebbero dovuto portare al più presto di fronte al popolo la questione dell'omicidio di Postumio e la plebe avrebbe potuto far condurre l'inchiesta da chi voleva. La plebe decise all'unanimità di affidare l'incarico ai consoli. Ed essi, dimostrando particolare moderazione e clemenza, mandarono a morte soltanto pochi che, com'è opinione diffusa, si suicidarono; ma non riuscirono a evitare che la plebe si indignasse per il loro operato: infatti i plebei si lamentavano che le proposte avanzate nel loro interesse giacevano a lungo senza ricevere attenzione, mentre la legge promulgata per spargere sangue e morte tra la plebe era stata applicata in fretta e con tanta energia.
Ora che i responsabili dei disordini erano stati puniti, ai patrizi si presentava un'occasione molto propizia per placare gli animi: la spartizione delle terre di Bola; in questo modo avrebbero diminuito il desiderio della legge agraria, destinata a privare i patrizi dell'agro pubblico ingiustamente posseduto. Quello che tormentava gli animi era proprio questa ingiustizia: che i nobili non solo si tenessero le terre pubbliche occupate con la forza, ma si rifiutassero anche di distribuire alla plebe la terra ancora da assegnare, strappata da poco al nemico e che presto sarebbe divenuta - come tutto il resto - preda di pochi. Quello stesso anno il console Furio guidò le legioni contro i Volsci che razziavano il territorio degli Ernici. Ma, non avendo trovato in quella zona il nemico, prese Ferentino, dove si era radunato un gran numero di Volsci. Il bottino fu minore di quanto ci si aspettava perché i Volsci, avendo poche speranze di difendere la città, durante la notte l'abbandonarono dopo aver portato via ogni cosa. Il giorno dopo, quando i Romani la occuparono, era un deserto. La città e le terre circostanti furono date in dono agli Ernici.
LII
A un anno trascorso in pace grazie alla moderazione dei tribuni fece seguito il tribunato della plebe di Lucio Icilio, sotto il consolato di Quinto Fabio Ambusto e Gaio Furio Paculo. Mentre sin dai primi giorni dell'anno Icilio, proponendo leggi agrarie, fomentava disordini, come se fosse un suo dovere, per il nome che portava e per la famiglia cui apparteneva, scoppiò una pestilenza non tanto grave quanto minacciosa, che distolse le menti degli uomini dal foro e dalle lotte politiche per rivolgerle alla cura delle case e dei corpi. Qualcuno pensa che la pestilenza fu meno dannosa dei disordini che sarebbero potuti scoppiare. Alla pestilenza di quell'anno, dalla quale la città uscì con molti ammalati ma pochissimi morti, sotto il consolato di Marco Papirio Atratino e Gaio Nauzio Rutilio, seguì, come spesso accade, una carestia, dovuta al fatto che si era trascurata la coltivazione dei campi. La fame avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose della pestilenza, se non si fosse provveduto all'approvvigionamento di viveri inviando delegati presso tutti i popoli che vivevano lungo il mare etrusco e le rive del Tevere, per comprare frumento.
I Sanniti che occupavano Cuma e Capua, con insolenza, impedirono l'acquisto del grano agli inviati. I tiranni della Sicilia, invece, generosamente li aiutarono. Ma la parte più consistente di derrate alimentari fu trasportata lungo il Tevere grazie alla buona disposizione dei popoli etruschi. I consoli si resero conto di come si fosse spopolata la città per il morbo, quando non trovarono che un solo senatore per ogni ambasceria e furono costretti ad aggiungervi due cavalieri. Se si eccettuano la pestilenza e la carestia, nel corso di quei due anni non ci furono altri problemi, né in città né fuori. Ma non appena queste preoccupazioni scomparvero si manifestarono nuovamente i mali che da sempre turbavano la città: la discordia interna e la guerra con l'esterno.
LIII
Durante il consolato di Marco Emilio e Gaio Valerio Potito gli Equi stavano preparando una guerra e i Volsci, pur non avendo preso le armi in maniera ufficiale, partecipavano alla campagna come mercenari. Saputo che i nemici erano già entrati nei territori dei Latini e degli Ernici, il console Valerio cercò di organizzare il reclutamento, ma il tribuno della plebe Marco Menenio, autore di un progetto di legge agraria, cercava di impedirglielo e per l'appoggio del tribuno nessuno poteva venir costretto a prestare giuramento. Ma all'improvviso arrivò la notizia che la cittadella di Carvento era caduta in mano ai nemici. Quest'umiliante episodio non solo rese odioso ai senatori Menenio, ma offrì anche al resto dei tribuni - per altro già convinti a opporsi col veto alla legge agraria - un motivo più giusto per fare resistenza al collega.
Di discussione in discussione, la disputa andò per le lunghe. I consoli chiamarono a testimoni dèi e uomini che la colpa per la vergogna di qualunque sconfitta, già subita o incombente da parte dei nemici, sarebbe ricaduta soltanto su Menenio che impediva la leva; mentre Menenio, a sua volta, protestava a gran voce che avrebbe smesso di ostacolare la leva soltanto se i proprietari avessero rinunciato al possesso illegittimo dell'agro pubblico. A questo punto gli altri nove tribuni posero fine allo scontro con un decreto e dichiararono, a nome del collegio, che si sarebbero schierati con il console Gaio Valerio se egli, nella realizzazione della leva, avesse fatto ricorso, contro il veto del loro collega, a sanzioni pecuniarie o ad altre forme di coercizione nei confronti dei renitenti.
Forte di questo decreto, il console fece prendere per il collo quei pochi che si appellavano al tribuno, e allora tutti gli altri, intimoriti, prestarono giuramento. L'esercito venne condotto sotto la cittadella di Carvento. Qui, pur essendoci odio tra console e soldati, i Romani al primo assalto scacciarono di slancio la guarnigione posta a difesa e ripresero la cittadella; l'occasione per attaccarla era stata offerta dalla negligenza dei nemici che avevano abbandonato il presidio per darsi alle razzie. Il bottino non fu trascurabile, perché il frutto delle frequenti incursioni era stato tutto quanto ammassato in quel luogo considerato sicuro. Il console ordinò ai questori di metterlo all'incanto e di versarne il ricavato nelle casse dello Stato, dichiarando che gli uomini avrebbero partecipato alla spartizione del bottino quando non si fossero rifiutati di prestare servizio militare.
Per questo si accrebbe il risentimento della plebe e dei soldati verso il console. Così, quando quest'ultimo fece ingresso a Roma con l'onore dell'ovazione decretata dal senato, i soldati, con la licenza consueta in tali occasioni, intonarono rozzi canti nei quali alternavano salaci frecciate al console ad aperte lodi a Menenio, e ogni volta che veniva fatto il nome del tribuno, la gente accalcata lungo la strada gareggiava in acclamazioni e applausi con i canti dei soldati. Questo preoccupò i patrizi più della sfrenatezza dei soldati nei confronti del console, che era un'usanza ormai quasi consolidata. E, sembrando certo che Menenio sarebbe stato eletto tribuno militare qualora avesse presentato la sua candidatura, per escluderlo furono convocati i comizi consolari.
LIV
Vennero eletti consoli Gneo Cornelio Cosso e, per la seconda volta, Lucio Furio Medullino. Prima di allora la plebe non si era mai indignata tanto perché non le erano stati affidati i comizi per l'elezione dei tribuni militari. Mostrò di lì a poco il suo sdegno vendicandosi nei comizi per l'elezione dei questori, quando per la prima volta furono nominati a questa magistratura dei plebei. Infatti, su quattro posti disponibili, uno solo toccò a un patrizio, Cesone Fabio Ambusto, mentre a giovani di famiglie nobilissime furono preferiti tre plebei: Quinto Silio, Publio Elio e Gaio Papio.
Ho trovato che chi spinse il popolo a esprimere un voto così libero furono gli Icili: tre membri di quella famiglia tanto ostile al patriziato erano stati eletti tribuni della plebe per l'anno in corso. Essi avevano promesso una grande quantità di cose di cui il popolo era avidissimo, ma anche dichiarato che non avrebbero preso iniziative se almeno nell'elezione dei questori - la sola carica lasciata aperta dal senato sia a patrizi, sia a plebei - il popolo non avesse avuto sufficiente coraggio per realizzare quanto aveva così a lungo desiderato e che era consentito dalle leggi.
Agli occhi della plebe la cosa sembrò un grande successo: non veniva presa in considerazione la questura solo in base alla sua importanza, ma si credeva che la strada verso i consolati e i trionfi fosse stata finalmente aperta a uomini nuovi. I patrizi invece scalpitavano come se quelle cariche pubbliche non le condividessero con i plebei, ma le avessero perse per sempre. Dicevano che, in una situazione del genere, non valeva la pena di allevare dei figli i quali, scacciati dal posto degli avi e costretti a vedere altri in possesso delle loro cariche, si sarebbero ridotti a fare i Salii o i Flàmini e a celebrare sacrifici pubblici senza più autorità e potere.
Da entrambe le parti gli animi erano irritati. Mentre la plebe aveva preso coraggio perché ora aveva tre uomini illustri a sostenere la causa del popolo, i patrizi, rendendosi conto che tutte le elezioni nelle quali la plebe avrebbe potuto scegliere i candidati dell'una e dell'altra parte sarebbero state molto simili a quella dei questori, cercavano di arrivare alle elezioni consolari che non erano ancora aperte a entrambe le classi sociali. Gli Icili, al contrario, sostenevano che si dovessero nominare dei tribuni militari e dicevano che alla plebe toccava finalmente accedere alle cariche.
LV
Tra le iniziative dei consoli non ce n'era nemmeno una che i tribuni potessero bloccare per realizzare ciò che desideravano. Ma all'improvviso, per uno straordinario colpo di fortuna, arrivò la notizia che Volsci ed Equi avevano sconfinato in territorio latino ed ernico per compiervi razzie. Quando, per decreto senatoriale, i consoli avviarono le operazioni di arruolamento in vista della guerra, i tribuni si opposero con tutte le proprie forze, dicendo che quello era un colpo di fortuna per loro e per la plebe. Erano tutti e tre uomini agguerriti e ormai di stirpe nobile, benché appartenessero alla plebe. Due di loro si assunsero il compito di tenere sotto costante controllo i consoli, uno per ciascuno. Al terzo venne affidato l'incarico di trattenere o di aizzare la plebe a seconda delle circostanze. Così né i consoli riuscivano a realizzare la leva, né i tribuni a ottenere le elezioni desiderate.
E quando ormai la fortuna stava pendendo dalla parte della plebe, arrivarono messaggeri ad annunciare che, mentre i soldati di presidio alla cittadella di Carvento si erano disseminati a far prede nei dintorni, gli Equi avevano conquistato la rocca dopo aver eliminato i pochi uomini rimasti di guardia; alcuni poi erano stati uccisi mentre rientravano nella fortezza, altri ancora dispersi nelle campagne. La sciagura toccata alla città aggiunse forza all'azione dei tribuni. Infatti, inutilmente pregati di cessare la loro opposizione alla guerra, non cedettero né di fronte al pericolo che minacciava il paese, né di fronte all'odio che si attiravano, così ottennero che il senato decretasse l'elezione di tribuni militari, con la condizione che non venissero computati i voti dati a chi in quell'anno era tribuno della plebe e che nessun tribuno della plebe fosse riconfermato per l'anno seguente.
Era evidente che in tal modo il senato voleva prendere di mira gli Icili, accusati di aspirare al consolato come ricompensa per il loro sedizioso tribunato. Allora, con il consenso di tutti gli ordini si dette inizio alla leva e ai preparativi bellici. Non è chiaro, e fonti discordano, se entrambi i consoli partirono per la rocca di Carvento, oppure se uno rimase per presiedere ai comizi. Di una cosa si può essere sicuri, perché non esiste voce di dissenso: dopo un lungo e inutile assedio, ci si ritirò dalla rocca di Carvento e con lo stesso esercito si riconquistò Verrugine nel territorio dei Volsci, e poi vennero devastate le campagne degli Equi e dei Volsci.
LVI
A Roma, la vittoria della plebe era consistita nell'ottenere le elezioni che preferiva, ma da queste elezioni uscirono vincitori i patrizi. Infatti, contrariamente a ogni previsione, furono eletti tribuni militari con potere consolare Gaio Giulio Iulo, Publio Cornelio Cosso e Gaio Servilio Aala, tutti e tre patrizi. Pare che i patrizi fossero ricorsi a un espediente del quale già allora gli Icili li accusavano: mescolando a quelli degni molti candidati indegni avrebbero finito per allontanare dai candidati plebei il popolo, disgustato dalle infamanti bassezze di alcuni di loro. In séguito si diffuse la notizia che Volsci ed Equi - vuoi indotti a sperare dall'efficace difesa di Carvento, vuoi infuriati per la perdita del presidio armato di Verrugine - si stavano impegnando con tutte le forze alla guerra.
A capo della coalizione armata c'erano gli Anziati; i loro ambasciatori avevano fatto la spola tra i popoli di entrambe le nazioni, rinfacciando loro la viltà dell'anno precedente, quando, rinchiusi fra le mura, avevano permesso che i Romani scorrazzassero per le campagne a far razzie e che fosse annientato il presidio di Verrugine. Ora, dicevano, non solo i Romani mandavano truppe in armi nei loro territori ma perfino coloni. E i Romani non solo si tenevano, dopo averlo spartito, quanto era di loro proprietà, ma avevano anche regalato Ferentino agli Ernici, dopo averla strappata ai Volsci.
Siccome questi discorsi accendevano gli animi, là dove arrivavano gli inviati moltissimi giovani si arruolavano. La gioventù di tutti quei popoli si radunò ad Anzio, dove venne posto l'accampamento in attesa che arrivasse il nemico. Quando queste notizie giunsero a Roma, suscitando più allarme del dovuto, il senato subito ordinò di nominare un dittatore, misura estrema alla quale si ricorreva in circostanze critiche.
Dicono che Giulio e Cornelio abbiano sopportato di mal animo questa decisione; la cosa fu discussa animatamente: i patrizi più autorevoli, dopo essersi invano lamentati perché i tribuni militari non si assoggettavano all'autorità del senato, alla fine fecero appello ai tribuni della plebe, ricordando che in casi analoghi la loro autorità aveva frenato l'ardore dei consoli. I tribuni, felici della discordia tra i senatori, dicevano di non avere alcun aiuto da dare a chi non li considerava nel novero dei cittadini, né in quello degli uomini.
Se un giorno le magistrature fossero state aperte a tutti, garantendo così anche ai plebei di partecipare alla cosa pubblica, allora avrebbero vigilato perché i decreti senatoriali non divenissero vani per la prepotenza dei magistrati. Nel frattempo i patrizi, liberi dal rispetto per le leggi e i magistrati, esercitassero da soli anche il potere tribunizio.
LVII
Questa disputa, sorta nel momento meno opportuno, mentre era in corso una guerra importante, aveva occupato i pensieri della gente. Ma quando Giulio e Cornelio a turno ebbero ripetutamente sostenuto che non era giusto che li si privasse del mandato affidato loro dal popolo, essendo sufficientemente idonei a condurre quella guerra, il tribuno militare Servilio Aala disse di aver taciuto per tanto tempo non perché non avesse una opinione ben ferma (e infatti quale buon cittadino separava il proprio interesse privato da quello pubblico?), ma piuttosto perché avrebbe preferito che i suoi colleghi cedessero spontaneamente all'autorità del senato, invece di tollerare che si invocasse contro di loro la potestà tribunizia.
Anche allora, se la situazione lo avesse permesso, avrebbe dato ai colleghi il tempo per recedere da quell'ostinata presa di posizione. Ma, siccome le necessità della guerra non aspettano le decisioni degli uomini, egli avrebbe anteposto il pubblico interesse al favore dei colleghi; se il senato non cambiava idea, la notte successiva avrebbe nominato un dittatore. Se poi qualcuno si fosse opposto al decreto del senato, lui si sarebbe attenuto alla semplice volontà del senato. Avendo con ciò ottenuto elogi non immeritati e riconoscenza da parte di tutti, nominò dittatore Publio Cornelio, dal quale venne a sua volta scelto quale maestro della cavalleria; fornì così un esempio, a chi considerava il suo caso e quello dei colleghi, di come spesso popolarità e successo arridano più facilmente a chi non li ricerca ansiosamente. La guerra non fu memorabile: in un'unica e per di più facile battaglia i nemici furono sbaragliati nei pressi di Anzio.
L'esercito vincitore devastò il territorio dei Volsci ed espugnò una fortezza situata vicino al lago Fucino, dove furono catturati 3.000 nemici, mentre i Volsci superstiti, ricacciati all'interno delle mura, non poterono difendere le campagne. Il dittatore, dopo aver condotto la guerra in maniera tale da dar l'impressione di aver semplicemente usufruito dell'occasione propizia, tornò in città famoso per la sua fortuna più che per la sua gloria, e quindi depose la magistratura. I tribuni militari, senza fare alcun accenno ai comizi per le elezioni dei consoli, irritati, credo, per la nomina del dittatore, indissero invece i comizi per l'elezione dei tribuni militari.
Allora una più grave preoccupazione si insinuò nei patrizi, che vedevano la propria causa tradita dai loro. Così come l'anno prima, candidando i peggiori, erano riusciti a scatenare il disgusto nei confronti di tutti i plebei, anche i più degni, ora, presentando i patrizi più autorevoli e che godevano del favore popolare, si assicurarono tutti i posti, senza che ai plebei ne toccasse neanche uno. Furono eletti quattro che già avevano detenuto quella magistratura: Lucio Furio Medullino, Gaio Valerio Potito, Numerio Fabio Vibulano e Gaio Servilio Aala. Quest'ultimo fu riconfermato in carica, oltre che per le altre sue qualità, per la popolarità che si era di recente conquistata grazie alla sua singolare moderazione.
LVIII
In quell'anno, poiché era scaduto il termine della tregua col popolo dei Veienti, si chiese soddisfazione tramite gli ambasciatori e i feziali. Quando questi arrivarono al confine, andò loro incontro una delegazione di Veienti. Costoro chiesero che non si andasse a Veio prima che essi si fossero presentati di fronte al senato romano. E il senato, poiché scontri intestini travagliavano i Veienti, concesse che non si richiedesse loro alcun risarcimento: tanto si era lontani dal profittare delle disgrazie altrui. Ma nel paese dei Volsci i Romani subirono una sconfitta: la perdita del presidio di Verrugine. In quell'occasione ebbe un peso decisivo la mancanza di tempestività: si sarebbero potute aiutare le truppe che, assediate dai Volsci, chiedevano soccorso, se si fosse intervenuti in fretta; l'esercito inviato a dare manforte arrivò giusto in tempo per sorprendere i nemici sparpagliati a raccogliere prede, a massacro già concluso.
Responsabili del ritardo furono, più che il senato, i tribuni: essendo stato loro riferito che gli assediati resistevano strenuamente, non tennero presente che non esiste valore capace di andare oltre il limite della resistenza umana. Ma quegli eroici combattenti non rimasero invendicati, né da vivi né dopo la morte. L'anno successivo, che vide come tribuni militari con potere consolare Publio e Gneo Cornelio Cosso, Numerio Fabio Ambusto e Lucio Valerio Potito, venne dichiarata guerra a Veio, a séguito dell'arrogante risposta data dal senato di quella città, il quale, agli ambasciatori che chiedevano soddisfazione, ordinò di rispondere che, se i Romani non se ne fossero andati al più presto dalla città e dal territorio di Veio, avrebbero dato loro ciò che Larte Tolumnio aveva già dato ai loro predecessori.
I senatori si indignarono e ingiunsero ai tribuni militari di proporre al più presto al popolo di dichiarare guerra ai Veienti. Appena la proposta fu resa nota, i giovani cominciarono a mormorare, lamentandosi che la guerra con i Volsci non era ancora finita; che pochi giorni prima erano stati annientati due presidi, mentre gli altri venivano mantenuti ancora, ma a prezzo di continui rischi; che non c'era anno in cui non si dovesse scendere in campo, e, come se non fossero bastati i problemi già esistenti, ecco che si dava inizio a una nuova guerra con uno dei popoli più potenti dei dintorni, che sicuramente avrebbe aizzato contro di loro l'intera Etruria.
I tribuni della plebe esasperarono ancor più la tensione sorta spontaneamente: essi andavano dicendo che la guerra più grande era quella condotta dai patrizi contro la plebe, a bella posta vessata dal servizio militare e esposta a farsi trucidare dal nemico; la tenevano lontana da Roma, per evitare che nella pace, memore della libertà e delle colonie, si agitasse pensando all'agro pubblico e a libere elezioni. Prendendo i veterani, enumeravano le campagne militari, le ferite e le cicatrici di ciascuno di loro, domandando quale parte del corpo era ancora integra per ricevere nuove ferite e quanto sangue potessero ancora versare per la repubblica. Poiché, con questi argomenti, ripetuti nei loro discorsi e nei loro comizi, i tribuni erano riusciti a dissuadere la plebe dall'intraprendere un nuovo conflitto, la proposta di legge sull'entrata in guerra fu rinviata, perché sembrava destinata a essere respinta se fosse stata esposta all'ostilità popolare.
LIX
Nel frattempo fu deciso che i tribuni militari conducessero l'esercito in territorio volsco. A Roma fu lasciato soltanto Gneo Cornelio. I tre tribuni, quando risultò evidente che i Volsci non erano accampati da nessuna parte e che non avrebbero affrontato il rischio di una battaglia, divisero in tre l'esercito e quindi si sparsero a devastare la zona. Valerio si diresse su Anzio, Cornelio su Ecetra: dovunque passavano, saccheggiavano campi e abitazioni in lungo e in largo, per tenere divise le forze dei Volsci. Fabio, senza compiere alcun saccheggio, andò ad assediare Anxur, che era l'obiettivo principale della campagna. Anxur, l'attuale Terracina, era una città declinante verso un terreno paludoso. Fabio simulò un attacco da quella parte; le quattro coorti affidate a Servilio Aala con l'ordine di aggirare la zona si impossessarono di una collina che dominava la città. Quindi, da questa posizione sovrastante, in un settore dove non vi era alcun presidio, tra tumulto e alte grida assalirono le mura.
Quelli che difendevano la parte più bassa della città contro Fabio, sorpresi da quell'offensiva repentina, lasciarono agli attaccanti il tempo per accostare le scale alle mura. Sùbito la città si riempì di nemici; a lungo durò la terribile strage, sia di chi fuggiva, sia di chi cercava di resistere, di armati e di inermi. I vinti furono costretti a partecipare alla lotta, perché non vi era speranza per chi si ritirava. Ma all'improvviso venne dato l'ordine di risparmiare chi non era armato e allora tutti i superstiti deposero volontariamente le armi; così circa 2.500 furono catturati vivi. Fabio impedì ai suoi uomini di mettere le mani sul bottino finché non fossero arrivati i colleghi, dicendo che Anxur era stata presa anche da quegli eserciti, perché non avevano permesso agli altri Volsci di proteggere quella posizione.
Quando i colleghi arrivarono, i tre eserciti saccheggiarono la città, che era molto ricca perché aveva goduto di un lungo periodo di prosperità. Quel gesto magnanimo da parte dei comandanti fu il primo segnale di riconciliazione tra plebei e patrizi. Si aggiunse poi un dono che fu il più opportuno di tutti quelli fatti dai maggiorenti al popolo: prima che la plebe e i tribuni vi facessero accenno, il senato decretò che i soldati venissero pagati attingendo direttamente alle casse dello Stato, mentre fino a quel giorno ciascun soldato prestava servizio a proprie spese.
LX
Si tramanda che mai nessuna concessione fu accolta dalla plebe con tanto entusiasmo. Una gran folla si riunì davanti alla curia, afferrando le mani di coloro che uscivano e chiamandoli veri 'Padri', dichiarando che di conseguenza per una patria tanto generosa nessuno avrebbe esitato a dare il proprio corpo, il proprio sangue, finché gli fosse rimasto un briciolo di forze. Se da una parte si presentava il lieto vantaggio che il patrimonio di ciascuno era al sicuro nel periodo in cui la persona era consacrata al servizio del paese, dall'altra il fatto che quella concessione fosse stata spontanea - non rivendicata dai tribuni, né richiesta con insistenza nei comizi - moltiplicava la soddisfazione e accresceva la riconoscenza per quel gesto.
I tribuni della plebe, i soli a non partecipare alla gioia e all'armonia che in quei giorni accomunavano i due ordini, sostenevano che una tale misura non sarebbe stata tanto gradita ai patrizi, né tanto favorevole per l'intera cittadinanza, come tutti credevano; si trattava di una decisione che a prima vista sembrava migliore di quanto l'esperienza avrebbe dimostrato. E infatti, il denaro necessario come avrebbe potuto essere messo insieme, se non imponendo un nuovo tributo al popolo? I senatori avevano elargito a terzi il denaro altrui.
E anche se tutti i cittadini avessero accettato, i veterani ormai in congedo non avrebbero tollerato che altri prestassero il servizio militare in condizioni migliori di quelle toccate a loro, né che gli stessi che avevano già pagato per il proprio servizio militare pagassero anche per quello di altri. Facendo leva su questi argomenti, riuscirono a influenzare parte della plebe. Quando poi il tributo fu fissato, i tribuni della plebe dichiararono che avrebbero offerto il loro appoggio a chiunque si fosse rifiutato di versare il tributo per la paga dei soldati. I patrizi continuarono a sostenere la loro fortunata iniziativa, contribuendo per primi al pagamento del tributo. Dato che non si coniavano ancora monete d'argento, alcuni fecero portare all'erario carri pieni di assi di una libbra, rendendo così più appariscente la loro contribuzione.
Dopo che i membri del senato ebbero scrupolosamente contribuito secondo il censo, anche i plebei più in vista, essendo amici dei nobili, cominciarono a versare la propria quota, com'era stato convenuto. Quando la folla vide che questi uomini venivano elogiati dai patrizi e considerati probi cittadini da quanti erano in età militare, rifiutato l'appoggio dei tribuni, fece a gara per pagare. Venne poi approvata la legge sulla dichiarazione di guerra ai Veienti e i nuovi tribuni militari con potere consolare condussero a Veio un esercito composto in gran parte di volontari.
LXI
I tribuni erano Tito Quinzio Capitolino, Quinto Quinzio Cincinnato, Gaio Giulio Iulo, al secondo mandato, Aulo Manlio, Lucio Furio Medullino, al terzo, e Manio Emilio Mamerco. Furono loro i primi ad assediare Veio. All'inizio di questo assedio gli Etruschi tennero un'affollata assemblea presso il tempio di Voltumna, ma non riuscirono a decidere se tutte le genti etrusche dovessero entrare in guerra accanto ai Veienti. Nell'anno successivo l'assedio divenne più fiacco perché parte dei tribuni e dell'esercito venne richiamata dalla guerra contro i Volsci. Quell'anno ebbe come tribuni militari con potere consolare Gaio Valerio Potito, per la terza volta, Manio Sergio Fidenate, Publio Cornelio Maluginense, Gneo Cornelio Cosso, Gaio Fabio Ambusto e Spurio Nauzio Rutilio, al suo secondo mandato.
Coi Volsci ci fu una battaglia campale presso Ferentino ed Ecetra, nella quale i Romani ebbero la meglio. Poi i tribuni cominciarono ad assediare Artena, città dei Volsci. Quindi, ricacciato in città il nemico che tentava una sortita, i Romani ebbero l'opportunità di fare irruzione e occuparono tutto, tranne la rocca. In essa, trattandosi di una fortificazione naturale, si era asserragliato un gruppo di armati, mentre in basso molti furono uccisi o fatti prigionieri. Ebbe inizio l'assedio, ma non si poteva espugnarla perché il presidio era più che sufficiente, data la ristrettezza del luogo; né si poteva sperare nella resa, visto che l'intera scorta pubblica di grano era stata portata all'interno della rocca prima che la città cadesse. Stanchi di non venirne a capo, i Romani avrebbero rinunciato, se un servo traditore non avesse consegnato loro la fortezza.
Questi fece infatti entrare da un passaggio scosceso i soldati che la conquistarono. Dopo che le sentinelle caddero sotto i colpi, tutti gli altri, in preda al panico, si arresero. Rase al suolo la città e la rocca di Artena, le legioni furono richiamate dal territorio dei Volsci e tutte le forze romane furono concentrate su Veio. Allo schiavo traditore, oltre alla libertà, furono dati in premio i beni di due famiglie e gli fu attribuito il nome di Servio Romano. Alcuni sostengono che Artena appartenesse ai Veienti e non ai Volsci. L'errore è dovuto al fatto che tra Cere e Veio esisteva una città con lo stesso nome. Solo che quell'Artena, che poi era dei Ceretani e non dei Veienti, l'avevano già distrutta i re romani; quest'altra con lo stesso nome, della cui distruzione si è appena detto, si trovava nel territorio dei Volsci.
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