( I )
Nel corso dell'anno successivo ci fu la pace di Caudio, rimasta celebre per la disfatta subita dai Romani, durante il consolato di Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno il comandante in capo dei Sabini era Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio di un padre che eccelleva in saggezza, e lui stesso guerriero e stratega di prim'ordine. Quando gli ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione rientrarono senza aver concluso la pace, Gaio Ponzio disse:
«Non crediate che questa ambasceria non abbia avuto esito alcuno, perché con essa abbiamo espiato l'ira degli Dei sorta nei nostri confronti per aver violato i patti. Qualunque sia stato il dio che ha voluto farci sottostare all'obbligo di restituire ciò che ci era stato richiesto in base alle clausole del trattato, sono sicuro che questo stesso dio non ha gradito che i Romani abbiano respinto con tanta arroganza la nostra riparazione per l'avvenuta rottura dei patti. Ma che cos'altro si sarebbe potuto fare per placare gli dèi e rabbonire gli uomini, più di quello che già abbiamo fatto? Quel che è stato tolto ai nemici come bottino, e che secondo le leggi di guerra avrebbe già potuto dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo restituito.
I responsabili della guerra li abbiamo riconsegnati morti, visto che non ci è stato possibile consegnarli vivi. Le loro cose, per evitare che ci rimanesse addosso qualcosa che potesse far ricadere la colpa su di noi, le abbiamo portate a Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani, cosa ai trattati, e agli dèi testimoni dei trattati? Chi vi devo proporre a giudice della vostra rabbia e della nostra pena? Non voglio sottrarmi al giudizio di nessuna popolazione e di nessun privato cittadino.
Se infatti il più forte non concede al più debole alcun diritto umano, allora mi rivolgerò agli dèi che si vendicano degli eccessi di superbia, e li implorerò di rivolgere le loro ire contro quanti non hanno ritenuto sufficiente la restituzione delle proprie cose né l'aggiunta delle altrui, contro quanti la cui ferocia non è stata saziata dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna dei cadaveri né dai beni che accompagnavano la resa dei loro legittimi proprietari, contro quanti non potranno mai essere placati se noi non offriremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da sbranare.
La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali risulta necessaria, e il ricorso alle armi è sacrosanto per quelli cui non restano altre speranze se non nelle armi. Di conseguenza, se nelle imprese degli uomini è una cosa di assoluta importanza avere gli dèi dalla propria parte piuttosto che contro, state pur certi che le guerre del passato le abbiamo condotte più contro gli dèi che contro gli uomini, mentre questa che è ormai alle porte la condurremo agli ordini degli dèi in persona».
( II )
Dopo aver rivolto ai Sanniti queste profetiche parole non meno vere che di buon augurio, si mise alla testa dell'esercito andando ad accamparsi nei pressi di Caudio con la maggior segretezza possibile. Di lì inviò dieci soldati travestiti da pastori a Calazia, dove gli era giunta voce si trovassero già il console e l'accampamento romani, e ordinò loro di pascolare il bestiame vicino alle guarnigioni armate dei Romani, a distanza l'uno dall'altro. Nel caso si fossero poi imbattuti in predatori nemici, avrebbero dovuto riferire tutti la stessa storia, e cioè che gli eserciti sanniti si trovavano in Apulia, che erano impegnati ad assediare Luceria con tutte le forze e ormai stavano per prenderla d'assalto. Questo tipo di voci, messe in circolo a bella posta in precedenza, era già arrivato alle orecchie dei Romani, e la loro attendibilità venne incrementata dalle deposizioni dei prigionieri, che, e ciò ebbe un peso determinante, collimavano tutte tra di loro. Non c'era dubbio che i Romani erano chiamati a portare aiuto agli abitanti di Luceria, alleati valorosi e fedeli, anche per evitare che l'Apulia defezionasse in blocco di fronte alla minaccia incombente dei Sanniti. Si discusse soltanto sul percorso da compiere. Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa adriatica, aperta e sgombra, ma tanto più lunga quanto più sicura, l'altra attraverso le Forche Caudine, più rapida. Si tratta però di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all'andata, oppure - qualora si voglia procedere - attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima. L'esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno dei passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda gola, quando la trovò ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di grossi massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi, senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli naturali e da uomini armati. Allora, senza che nessuno lo avesse loro ordinato, si bloccarono, attoniti, le membra incapaci di muoversi. E guardandosi in faccia l'un l'altro, ciascuno nella speranza che il compagno avesse maggiore lucidità e potesse prendere una qualche decisione, rimasero a lungo in silenzio. Poi, quando videro che si stavano piantando le tende dei consoli, e che qualcuno cominciava a preparare il materiale per allestire l'accampamento, pur rendendosi conto che costruire fortificazioni in una situazione pressoché irreparabile e disperata avrebbe suscitato il riso del nemico, ciò non ostante, per non aggiungere la propria responsabilità alla disgrazia, tutti - senza che nessuno li esortasse a farlo o lo ordinasse loro - si misero di propria iniziativa a costruire dei dispositivi di difesa, scavando una trincea intorno al campo nei pressi dell'acqua di un ruscello: e ironizzavano amaramente, quasi non bastassero le insolenti frecciate dei nemici, sull'inutilità delle opere allestite e della fatica sostenuta. Attorno ai consoli tristi, che non convocavano nemmeno il consiglio di guerra (visto che non c'era consiglio o aiuto che potessero valere), si vennero a raccogliere di loro spontanea volontà i luogotenenti e i tribuni, mentre i soldati, girandosi verso il pretorio, chiedevano agli ufficiali quel sostegno che a malapena gli dèi avrebbero potuto offrire.
( III )
La notte li sorprese mentre più che consultarsi si stavano lamentando del proprio destino, e ognuno di essi reagiva secondo il proprio carattere. Uno diceva: «Avanziamo attraverso le barriere lungo la strada, su per le pendici dei monti, attraverso i boschi, dovunque potremo portare le armi: così che almeno si riesca ad arrivare fino al nemico, sul quale da quasi trent'anni abbiamo la meglio. Tutto sarà facile e agevole per dei soldati romani che combattono contro perfidi Sanniti». Un altro ribatteva: «Dove e per dove dovremmo andare? Non vogliamo per caso spostare i monti dalle loro sedi naturali? Finché avremo queste cime sopra la testa, per quale via si potrà raggiungere il nemico? Armati o inermi, coraggiosi o vigliacchi, siamo tutti ugualmente prigionieri e vinti; il nemico non ci offrirà nemmeno una spada perché possiamo morire in maniera gloriosa: vincerà la guerra senza muovere un dito». La notte trascorse tra battute di questo genere: nessuno pensò a riposare o a mangiare. Ma nemmeno i Sanniti, pur trovandosi in una congiuntura tanto favorevole, sapevano che cosa convenisse fare. E per questo decisero all'unanimità di inviare un messaggio a Erennio Ponzio, padre del comandante in capo, per averne un consiglio. Quest'ultimo, avanti negli anni com'era, si era già ritirato non solo dall'attività militare, ma anche dalla vita politica. Ciò non ostante, nel suo corpo malato era ancora vivo il vigore dell'animo e dell'intelletto. Quando venne a sapere che gli eserciti romani erano stati schiacciati alle Forche Caudine tra due gole, essendogli stato chiesto un consiglio dal messaggero inviato dal figlio, propose di lasciarli andare al più presto tutti senza colpirli. Ma siccome questo consiglio non venne messo in pratica, inviato una seconda volta lo stesso messaggero col cómpito di consultarlo, egli propose di ucciderli tutti dal primo all'ultimo. Le risposte contrastavano tanto da sembrare il responso di un oracolo ambiguo: e il figlio - pur pensando che ormai anche la mente del padre avesse perso lucidità nel corpo malato -, ciò non ostante si lasciò convincere dalle insistenze di tutto l'esercito a convocare il genitore di persona nell'assemblea. Stando a quanto si racconta, il vecchio non avrebbe fatto difficoltà a lasciarsi portare su un carro all'accampamento, e una volta introdotto nell'assemblea si sarebbe espresso all'incirca in questi termini, senza modificare in nulla il proprio parere, ma limitandosi a chiarirne i motivi: scegliendo la prima strada, che lui riteneva la più valida, ci si sarebbe assicurata una pace duratura e l'amicizia con un popolo potentissimo; optando invece per la seconda, si sarebbe evitata la guerra per molti anni, perché dopo la perdita di quei due eserciti per i Romani non sarebbe stato facile raggiungere di nuovo la potenza di un tempo; una terza via non esisteva. Ma siccome il figlio e gli altri alti ufficiali insistevano a chiedere che cosa pensasse di una soluzione di compromesso - permettere cioè ai Romani di andarsene sani e salvi, ma imporre loro, in quanto vinti, il diritto di guerra -, l'uomo rispose: «Questa soluzione è tale che non vi acquisterà degli amici né vi libererà dai nemici. Salvate pure la vita a uomini che avete esasperato con un trattamento umiliante: la caratteristica del popolo romano è quella di non sapersi rassegnare alla condizione di vinto. Nei loro cuori sarà sempre vivo il marchio di infamia del caso presente, e questo non darà loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con pene molte volte più dure». Una volta respinte entrambe le sue proposte, Erennio venne ricondotto dall'accampamento in patria.
( IV )
Frattanto, nell'accampamento romano, falliti parecchi tentativi di fare breccia nell'accerchiamento, e mancando ormai ogni cosa, nella morsa degli eventi si decise di inviare ambasciatori a chiedere una pace a parità di condizioni: se non l'avessero ottenuta, avrebbero sfidato il nemico in battaglia. Alla delegazione Ponzio replicò che la guerra era ormai stata decisa, e siccome neppure da sconfitti e da prigionieri erano in grado di ammettere la propria sorte, li avrebbe fatti passare sotto il giogo privi di armi e con una sola veste per ciascuno. Il resto delle condizioni sarebbero state eque per vincitori e vinti: se i Romani abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le colonie fondate, allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro leggi in base a un patto di alleanza alla pari. Erano queste le condizioni alle quali egli era pronto a scendere a patti coi consoli. Se qualcuna di queste clausole non era di loro gradimento, allora vietava agli ambasciatori di ripresentarsi al suo cospetto. Quando venne riferito l'esito dell'ambasceria, il lamento levatosi immediatamente da tutto l'esercito fu così profondo e gli animi vennero invasi da un tale sconforto, che il dolore non sarebbe stato più grande se fosse giunta la notizia che tutti erano destinati a morire in quello stesso luogo. Restarono a lungo in silenzio, e i consoli non riuscivano ad aprire bocca né per difendere un accordo così infamante, né per respingere un patto tanto necessario, quando Lucio Lentulo, che tra gli ambasciatori inviati era allora il più autorevole per valore e per cariche ricoperte, disse: «Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di essere stato il solo, nel senato sul Campidoglio, a sconsigliare di riscattare Roma dai Galli pagandola a peso d'oro, perché i Romani non erano stati circondati né con una trincea né con un fossato da quel nemico quanto mai indolente e poco portato ai lavori di fortificazione, ed erano in grado di tentare una sortita, pur rischiando moltissimo, ma senza andare incontro a un disastro sicuro. E se, come quelli erano stati in grado di lanciarsi dal Campidoglio armati contro il nemico, nel modo spesso utilizzato dagli assediati per tentare una sortita contro gli assedianti, venisse anche a noi concessa l'opportunità di combattere (in posizione favorevole o meno), certo non mi mancherebbe lo spirito di mio padre nel guidarvi. Morire per la patria, lo ammetto, è cosa gloriosa, e sono pronto a offrire la mia vita per il popolo e per l'esercito romano o a gettarmi nel mezzo dei nemici. Ma è qui che vedo la patria, qui tutto quel che resta delle legioni romane, le quali, a meno che vogliano correre incontro alla morte per difendere se stesse, che cosa possono salvare con il loro sacrificio? "Le case della città," dirà qualcuno, "le mura e la gente rimasta a Roma". Ma, per Ercole, è proprio se questo esercito verrà annientato che tutto ciò andrà perduto e non salvato! Chi, infatti, potrà difenderlo? Forse la massa imbelle e senz'armi? «Esattamente come le difese, per Ercole, dagli assalti dei Galli». Ma potrà forse invocare l'arrivo da Veio di un esercito con Camillo alla testa? Le nostre speranze e le nostre risorse le abbiamo tutte qui: se le salviamo, salviamo la patria, se invece le consegniamo alla morte, abbandoniamo la patria al suo destino. "La resa è però cosa disonorevole e infamante". Ma proprio questo è vero amor di patria: salvarla, qualora ve ne sia bisogno, a prezzo tanto del disonore quanto della morte. Vediamo quindi di subire questo marchio di infamia, per quanto indelebile esso possa essere, e pieghiamoci alla fatalità, che neppure gli dèi possono superare. Andate, o consoli, e riscattate con le armi la città che i vostri antenati hanno riscattato con l'oro».
( V )
I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il vincitore voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il trattato non poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i feziali e il resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non fu stipulata con regolare trattato - come abitualmente si crede e come anche scrive Claudio -, ma tramite una garanzia personale. Infatti che bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto che in quel caso l'accordo è stipulato dall'invocazione che Giove colpisca quel popolo venuto meno alle condizioni sancite, così come il maiale viene colpito dai feziali? Garanti si fecero i consoli, i luogotenenti, i questori, i tribuni militari, e ci restano i nomi di tutti coloro che sottoscrissero l'impegno (mentre rimarrebbero solo i nomi dei due feziali, nel caso fosse stato stipulato un vero e proprio trattato). Inoltre, per l'inevitabile rinvio del trattato, fu imposta la consegna di 600 cavalieri in qualità di ostaggi, destinati a pagare con la propria vita se i patti venivano violati. Fu poi fissato il termine per consegnare gli ostaggi e per lasciare libero l'esercito disarmato. Il rientro dei consoli rinnovò il dolore all'interno dell'accampamento, e i soldati si trattennero a stento dallo scagliarsi addosso a quanti, per la loro imprudenza, li avevano trascinati in quel luogo: per la cui ignavia erano adesso costretti a uscirne in maniera ancora più infamante di come vi erano entrati; non erano ricorsi a una guida pratica della zona, né avevano effettuato ricognizioni, lasciandosi spingere alla cieca dentro una fossa come tante bestie selvatiche. Si guardavano gli uni con gli altri, osservavano le armi che presto avrebbero dovuto consegnare, le mani destinate a essere disarmate, i corpi soggetti alla volontà del nemico: avevano già di fronte agli occhi il giogo nemico, la derisione, gli sguardi arroganti dei vincitori, il passaggio senza armi in mezzo a uomini armati e ancora la mesta marcia dell'esercito disonorato attraverso le città alleate, il ritorno dai genitori in patria, là dove spesso essi stessi e i loro antenati erano rientrati in trionfo. Solo loro erano stati sconfitti senza subire ferite, senza armi, senza combattere; a loro non era stato concesso né di sguainare le spade né di scontrarsi in battaglia col nemico; a loro era stato infuso invano il coraggio. Mentre mormoravano queste cose, arrivò l'ora fatale dell'ignominia, destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora più doloroso di quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un'unica veste. I primi a essere consegnati e incarcerati furono gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai littori di scostarsi dai consoli, cui fu invece tolta la mantella da generali: spettacolo questo che suscitò così grande compassione anche tra quanti poco prima si erano scagliati contro i consoli proponendo di consegnarli al nemico e di farli a pezzi, che ciascuno dei presenti, dimentico della propria sorte, distolse lo sguardo da quella profanazione di una simile autorità, come dalla vista di qualcosa di abominevole.
( VI )
I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti all'infamia, e alla fine le singole legioni una dopo l'altra. I nemici stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti e dileggiando i Romani. Molti vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche feriti e uccisi, se l'espressione troppo risentita dei loro volti a causa di quell'oltraggio offendeva il vincitore. Così furono fatti passare sotto il giogo, e - cosa questa quasi ancora più penosa - proprio sotto gli occhi dei nemici. Una volta usciti dalla gola, pur sembrando loro di vedere per la prima volta la luce come se fossero emersi dagli inferi, ciò non ostante la luce in sé e per sé fu più dolorosa di ogni tipo di morte, al vedere una schiera ridotta in quello stato. E così, anche se avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte, dubitando dell'affidabilità degli alleati e trattenuti dalla vergogna, lungo la strada che porta alla città abbandonarono a terra i loro corpi ormai bisognosi di tutto. Quando a Capua arrivò la notizia del vergognoso episodio, l'arroganza congenita dei Campani venne meno di fronte alla naturale compassione nei confronti degli alleati. Inviarono immediatamente ai consoli le insegne della loro carica; ai soldati offrirono invece armi, cavalli, vestiti e cibo, e al loro arrivo si fecero loro incontro tutto il senato e il popolo, adempiendo così a ogni tipo di obbligo formale in materia di ospitalità pubblica e privata. Ma né l'umanità degli alleati né la benevolenza dei volti poterono strappare una parola ai Romani, che nemmeno sollevavano gli occhi da terra per rivolgere uno sguardo agli amici che si sforzavano di consolarli. A tal punto la vergogna, ancor più dell'amarezza, li spingeva a evitare la conversazione e la compagnia degli esseri umani. Il giorno dopo alcuni giovani esponenti della nobiltà vennero inviati col cómpito di scortare fino al confine della Campania quelli che stavano partendo; al rientro, convocati in senato, rispondendo alle domande degli anziani, riferirono che i Romani avevano dato l'impressione di essere ancora più avviliti e mesti, tanto silenziosamente camminavano, come fossero diventati muti. Il fiero carattere romano era prostrato, e insieme alle armi aveva perso anche il coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di ricambiare il saluto, di rispondere, di aprir bocca per lo sgomento, come se portassero ancora al collo il giogo sotto il quale erano stati fatti passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti non era stata soltanto clamorosa, ma anche duratura nel tempo, perché avevano privato il nemico non tanto di Roma (come in passato i Galli), quanto piuttosto della virtù e dell'orgoglio romano, e questo dimostrava ancor di più il loro valore.
( VII )
Mentre si dicevano e si sentivano queste cose, e nell'assemblea dei fedeli alleati la potenza romana veniva quasi pianta come se fosse stata annientata, pare che Aulo Calavio, figlio di Ovio, uomo famoso per nascita e per gesta compiute, e in quel periodo reso ancora più rispettabile dall'età, avesse sostenuto che le cose stavano in tutt'altra maniera: quel silenzio ostinato, gli occhi fissi a terra, le orecchie sorde a ogni tipo di conforto e l'imbarazzo di dover guardare la luce erano i segnali di un animo che nell'intimo covava un'enorme rabbia. Se non conosceva male il carattere dei Romani, di lì a poco quel silenzio avrebbe suscitato tra i Sanniti grida piene di gemiti e dolore, e il ricordo della pace di Caudio sarebbe stato molto più pesante per i Sanniti che per i Romani. Perché dovunque si fossero scontrati nei giorni a venire, ognuno di essi avrebbe avuto la grinta di sempre, mentre per i Sanniti non ci sarebbero state dappertutto le Forche Caudine. La notizia della grave disfatta era già arrivata anche a Roma. In un primo tempo si era venuti a sapere che erano stati circondati. Poi, ben più doloroso di quello relativo al pericolo corso, era arrivato l'annuncio della vergognosa pace. Alla notizia dell'accerchiamento, erano state avviate le pratiche della leva militare. Quando però si venne a sapere che era stata stipulata una pace tanto infamante, venne interrotto l'allestimento di rinforzi. E sùbito, senza aspettare alcuna decisione ufficiale, il popolo tutto si era abbandonato a ogni forma di lutto. I negozi intorno al foro vennero chiusi, sospesi spontaneamente i pubblici affari prima ancora che arrivasse l'ordine relativo. Vennero deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli d'oro. I cittadini erano quasi più addolorati dello stesso esercito; il loro risentimento non toccava soltanto i comandanti e i responsabili e garanti della pace, ma anche gli innocenti soldati: sostenevano che non li si dovesse accogliere in città né all'interno delle case. Il rancore venne però piegato dall'arrivo dell'esercito, che suscitò compassione anche negli animi più esacerbati. Entrati infatti in città a tarda sera, non come uomini che tornavano sani e salvi in patria contro ogni speranza, ma con l'aspetto e l'espressione di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case e nessuno di essi volle vedere il foro o la pubblica via, né l'indomani né i giorni successivi. I consoli, nascosti nelle loro abitazioni, non compirono alcun gesto pertinente alla carica, tranne quanto prescritto da un decreto del senato, e cioè la nomina di un dittatore cui far presiedere le elezioni. La scelta cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre maestro di cavalleria venne eletto Publio Elio Peto. Ma essendosi verificata una qualche irregolarità in questa nomina, i due vennero rimpiazzati dal dittatore Marco Emilio Papo e dal maestro di cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi, tuttavia, riuscirono a presiedere le elezioni, e siccome il popolo si dimostrava insofferente nei confronti di tutti i magistrati di quell'anno, si ebbe un interregno. Interré furono Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per la seconda volta, che vennero eletti all'unanimità dalla cittadinanza perché erano i generali più in vista del periodo.
( VIII )
Essi entrarono in carica lo stesso giorno in cui erano stati eletti (questa la decisione del senato) e, dopo aver portato a compimento i decreti ordinari del senato, misero all'ordine del giorno il dibattito sulla pace di Caudio. Publilio, cui quel giorno toccava il potere, disse: «Parla, o Spurio Postumio». Questi si alzò in piedi e, con la stessa espressione con la quale era andato sotto il giogo, disse: «Non ignoro, o consoli, di esser stato chiamato e invitato a parlare per primo non in segno di onore ma a titolo di infamia, e non certo in qualità di senatore, ma come responsabile di una guerra sventurata e di una pace infamante. Tuttavia, dato che non avete messo all'ordine del giorno la discussione relativa alla nostra colpevolezza e neppure alla pena da infliggerci, tralasciando di difendermi (cosa che non sarebbe troppo difficile di fronte a uomini non certo ignari dei casi e delle vicissitudini umane), esprimerò in poche parole la mia opinione sulla questione da voi posta all'ordine del giorno. E sarà la mia opinione a testimoniare se io abbia voluto salvare me stesso o piuttosto le vostre legioni, quando mi sono impegnato dando una garanzia tanto ignominiosa quanto necessaria. Nei confronti di questa il popolo romano non ha alcun tipo di vincolo, poiché essa è stata offerta senza il suo consenso, e in virtù di essa ai Sanniti non è dovuto nulla se non le nostre persone. Consegnateci nudi e legati tramite i feziali: liberiamo dall'obbligo religioso il popolo, se lo abbiamo vincolato in qualche modo, affinché non vi sia alcuno scrupolo divino o umano che impedisca di ricominciare da capo una guerra giusta e sacrosanta. Propongo che nel frattempo i consoli arruolino un nuovo esercito, lo armino e lo guidino fuori dalla città, senza entrare però in territorio nemico prima che siano state messe in pratica tutte le operazioni necessarie per la nostra consegna. Io invoco e supplico voi, o dèi immortali: se non avete voluto che i consoli Spurio Postumio e Tito Veturio conducessero con successo la guerra contro i Sanniti, almeno accontentatevi di averci visti andare sotto il giogo, di averci visti vincolati da una promessa umiliante, consegnati nudi e legati al nemico, pronti a ricevere sui nostri corpi tutta l'ira dei nemici. Fate sì che i nuovi consoli e le legioni romane combattano la guerra contro i Sanniti nello stesso modo in cui sono state combattute tutte le guerre precedenti al nostro consolato». Non appena ebbe pronunciato queste parole, i presenti furono presi, insieme, da una tale ammirazione e compassione verso quell'uomo, che da una parte stentavano a convincersi che egli fosse quello stesso Spurio Postumio che aveva firmato una pace tanto vergognosa, e dall'altra provavano pena al pensiero che una simile personalità dovesse sopportare il più crudele supplizio da parte dei nemici risentiti per la rottura della pace. Mentre l'intera assemblea non aveva che parole di elogio per quell'eroe e ne approvava la proposta, tentarono per qualche tempo di porre il proprio veto i tribuni della plebe Lucio Livio e Quinto Melio, i quali sostenevano che la consegna dei due ex consoli non poteva liberare il popolo dall'obbligo religioso, a meno che ai Sanniti non venisse restituita ogni cosa nello stato in cui si trovava a Caudio. Aggiungevano di non meritare alcuna pena per il fatto di aver salvato l'esercito del popolo romano offrendo le proprie persone come garanzia alla pace, e infine di non poter essere consegnati ai nemici né sottoposti a violenza, vista la loro caratteristica di inviolabilità.
( IX )
Allora Postumio disse: «Intanto cominciate col restituire noi che non siamo sacri, ciò che potete fare, senza violare i principi della religione. Poi consegnerete anche costoro che sono inviolabili, non appena avranno esaurito il loro mandato. Se però mi ascoltate, prima di restituirli, fateli bastonare qui nell'assemblea, in modo tale che paghino l'interesse dovuto per il ritardo con cui viene loro inflitta la pena. Perché la loro tesi - e cioè che con la nostra consegna il popolo non sarà liberato dai vincoli della religione - essi la sostengono più per non essere consegnati che per la reale situazione in atto: chi infatti ha così poca esperienza in materia di diritto feziale, da non rendersene conto? Io non voglio negare, o senatori, che tanto le garanzie quanto i trattati sono ritenuti sacri da chi rispetta la parola come un sacro vincolo religioso. Nego però che senza l'autorizzazione del popolo sia possibile sancire alcun atto che vincoli il popolo stesso. Ma se i Sanniti ci avessero costretti a pronunciare la formula di rito per la consegna della città con la stessa violenza con la quale ci hanno estorto questa promessa, voi, o tribuni, direste che il popolo romano si è rimesso nelle mani dei nemici e che questa città, i templi, i santuari, i campi e le acque sono di proprietà dei Sanniti? Lasciamo pure da parte la questione della resa, visto che si tratta di una garanzia personale: ma che dire se avessimo garantito che il popolo romano avrebbe abbandonato questa città? Che l'avrebbe incendiata? Che non avrebbe più goduto di magistrati, di un senato e di leggi? Che si sarebbe piegata a una monarchia? "Che gli dèi tengano lontano da noi cose di quel genere", direte voi. Eppure non è l'enormità delle condizioni poste che può eliminare il vincolo della garanzia: se esiste qualcosa cui un popolo può essere vincolato, allora lo sarà per qualunque cosa. Ma nemmeno questo argomento - che forse potrebbe toccare la sensibilità di qualcuno - ha un qualche peso: e cioè che a offrire la garanzia sia stato un console, un dittatore oppure un pretore. Anche i Sanniti hanno giudicato in questo modo, visto che non si sono accontentati dell'idea che a fare da garanti fossero solo i consoli, ma hanno costretto a prestare garanzia anche i luogotenenti, i questori e i tribuni militari. Che adesso nessuno mi venga a chiedere perché ho offerto questa garanzia, visto che la cosa non rientrava nelle competenze del console, né io potevo garantire ai nemici una pace che non dipendesse dalla mia volontà, e tanto meno a nome vostro, siccome non mi avevate affidato alcun tipo di incarico. A Caudio nulla è dipeso dalle decisioni degli uomini: sono stati gli dèi a privare del senno i vostri generali e quelli del nemico. Se noi non ci siamo cautelati a dovere in quella guerra, loro invece hanno sperperato in malo modo una vittoria ottenuta malamente, ora fidandosi poco del luogo grazie al quale avevano avuto la meglio, ora lasciandosi prendere dalla fretta di disarmare a qualunque costo degli uomini nati per le armi. Ma se fossero stati assennati, sarebbe forse stato difficile per loro - mentre convocavano dalla patria gli anziani per averne un parere - inviare ambasciatori a Roma e trattare della pace e delle relative condizioni col senato e col popolo? A inviati veloci sarebbero bastati tre giorni di marcia, mentre nel frattempo si sarebbe potuta fissare una tregua, nell'attesa che rientrassero da Roma gli ambasciatori ad annunciare la vittoria sicura o la pace. Questa sì che sarebbe stata una garanzia, quella che noi avessimo garantito su mandato del popolo. Ma una pace così né voi l'avreste accettata, né noi l'avremmo garantita, ed è stato per volere del cielo che le cose non sono andate diversamente: e cioè che i Sanniti si lasciassero ingannare da un sogno troppo bello perché le loro menti arrivassero a rendersene conto, che il nostro esercito venisse salvato da quella stessa sorte che prima l'aveva avversato, che una vittoria vana fosse vanificata da una pace ancora più vana, e che venisse offerta una garanzia che non vincolava nessuno tranne chi se n'era fatto garante. E infatti, o senatori, cos'è stato trattato con voi, cosa col popolo romano? Chi può chiamarvi in causa, chi può sostenere di essere stato ingannato da voi? I nemici o i concittadini? Ai nemici non avete garantito nulla, né avete ordinato ad alcun cittadino di offrire una garanzia a nome vostro. Per questo non avete alcun tipo di obbligo né verso di noi, cui non avete ordinato nulla, né verso i Sanniti, con i quali non avete trattato nulla. Di fronte ai Sanniti i garanti siamo noi, responsabili e nella posizione di poter offrire soddisfazione per quel che siamo in grado di offrire, ovvero i nostri corpi e le nostre menti: è contro di questi che devono infierire, contro di questi che devono rivolgere le loro spade e la loro rabbia. Per quel che poi concerne i tribuni, stabilite voi se la loro consegna si possa effettuare sùbito, o la si debba differire ad altra data. Nel frattempo noi, o Tito Veturio e voi altri, offriamo queste nostre povere persone come soddisfazione della garanzia data, e liberiamo le armi romane con la pena inflittaci».
( X )
A convincere i senatori furono sia la validità degli argomenti portati, sia l'autorevolezza della persona in questione. E non soltanto si persuasero tutti gli altri, ma anche i tribuni, al punto di dichiararsi disposti ad assecondare l'autorità del senato. Perciò rinunciarono immediatamente alla carica e vennero affidati ai feziali insieme agli altri per essere condotti a Caudio. Una volta presa questa decisione da parte del senato, sembrò che su Roma risplendesse una nuova luce. Postumio era sulla bocca di tutti: lo innalzavano al cielo a forza di elogi, mentre il suo gesto veniva paragonato al sacrificio del console Publio Decio e ad altre imprese di vaglio: la gente sosteneva che Roma si era sottratta a una pace umiliante grazie al suo acume e al suo operato. Si offriva spontaneamente alle vessazioni e al risentimento dei nemici, immolandosi come capro espiatorio per il popolo romano. Tutti pensavano solo alle armi e alla guerra: non sarebbe quindi mai arrivata l'occasione di affrontare i Sanniti con le armi in pugno? Nella città infiammata dalla rabbia e dal risentimento venne arruolato un esercito composto quasi esclusivamente di volontari. Con gli stessi effettivi di prima vennero messe insieme nuove legioni, e l'esercito fu condotto nei pressi di Caudio. I feziali vennero mandati avanti: una volta arrivati alle porte, ordinarono che i garanti della pace venissero spogliati e che fossero loro legate le mani dietro la schiena. Dato che un attendente, per il rispetto nei confronti del prestigio di Postumio, lo legava in maniera troppo fiacca, questi disse: «Che aspetti a stringere la corda, così che la consegna sia regolare?». Quando poi giunsero di fronte alla folla dei Sanniti e alla tribuna di Ponzio, il feziale Aulo Cornelio Arvina pronunciò queste parole: «Siccome questi uomini hanno garantito la conclusione di un trattato pur non avendo l'autorizzazione del popolo romano dei Quiriti, e proprio per questo si sono macchiati di una colpa, di conseguenza, perché il popolo romano sia libero da una colpa scellerata, io vi consegno questi uomini». Mentre il feziale pronunciava queste parole, Postumio col ginocchio gli colpì la gamba il più forte possibile, e ad alta voce gridò di essere cittadino sannita e di aver offeso quell'ambasciatore feziale contro il diritto delle genti: per questo i Romani avrebbero avuto un più giusto motivo per fare guerra.
( XI )
Allora Ponzio disse: «Né io accetterò questa consegna, né i Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli dèi esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni ai patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. Ma perché dovrei rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state accerchiate. Che nessuno abbia ingannato nessuno: che ogni cosa sia considerata come non avvenuta; riprendano le armi consegnate a norma dei patti, e si tengano tutto quello che avevano prima di avviare le consultazioni: e allora decidano pure per la guerra e per le maniere forti, e allora soltanto ripudino la garanzia e la pace. Noi la guerra la facciamo attenendoci a quelle condizioni e attestandoci in quelle posizioni nelle quali ci trovavamo prima di affrontare l'argomento della pace; il popolo romano non si metta quindi a criticare la garanzia data dai consoli, e noi evitiamo di lamentarci della mancanza di lealtà dimostrata dal popolo romano. Potrà mai mancarvi un pretesto per non attenervi ai patti dopo una sconfitta? Avete consegnato degli ostaggi a Porsenna, e ve li siete ripresi con l'inganno. Roma l'avete riscattata dai Galli a peso d'oro, per poi massacrarli mentre ricevevano l'oro. Con noi avete concordato la pace affinché vi restituissimo le legioni cadute prigioniere, e adesso quella pace la ritenete priva di valore. E rivestite sempre l'inganno con un velo di apparente legalità. Al popolo romano non sta bene che l'esercito si sia salvato grazie a una pace infamante? Ma che allora si tenga la pace e restituisca al vincitore le legioni che avevamo catturato: questo sì che sarebbe in accordo con la lealtà, con i patti e coi riti sacri dei feziali. Ma che tu ottenga quanto hai chiesto nei patti - ovvero la salvezza di tanti cittadini -, e che io non abbia invece quella pace che ho concordato in cambio del rilascio di questi uomini, tutto questo tu, o Aulo Cornelio, e voi, o feziali, lo ritenete conforme al diritto delle genti? Io non accetto né considero consegnati questi soldati che voi fingete di consegnare, e non impedisco loro di rientrare nella città vincolata dall'adempimento della garanzia, lasciando che ad accompagnarli sia la rabbia degli dèi tutti, della cui divinità vi fate beffe. Dichiarateci pure guerra, col pretesto che un attimo fa Spurio Postumio ha percosso col ginocchio un ambasciatore feziale: così gli dèi penseranno che Postumio sia cittadino sannita e non romano, che l'ambasciatore romano sia stato offeso da un sannita, e che di conseguenza sia giusta la guerra che ci avete dichiarato! Possibile che non proviate vergogna a inscenare questa farsa della religione, che uomini avanti con gli anni, già consoli, debbano tentare l'inganno con trucchi degni a malapena di bambini? Littore, procedi: togli le corde ai Romani, che nessuno impedisca loro di andare dove preferiscono». E così i Romani, liberati probabilmente anche del vincolo di natura pubblica (visto che dalla promessa personale lo erano già di certo), rientrarono da Caudio all'accampamento romano senza che nessuno li sfiorasse.
( XII )
I Sanniti, che al posto di una pace imposta con arroganza vedevano rinascere una guerra minacciosa, avevano non solo nell'animo ma quasi di fronte agli occhi il presentimento di quello che poi accadde. Ed elogiavano tardi e invano entrambi i suggerimenti dell'anziano Ponzio, perché, caduti com'erano a metà tra l'uno e l'altro, avevano barattato il possesso della vittoria con una pace priva di garanzie. Perduta così l'occasione di danneggiare il nemico o di arrecargli un beneficio, avrebbero dovuto misurarsi con quegli uomini che sarebbe stato loro possibile eliminare una volta per tutte come nemici o rendersi amici per sempre. E anche se non c'era ancora stata una battaglia in cui una delle due parti avesse avuto il sopravvento, dopo la pace di Caudio la condizione psicologica era così cambiata, che tra i Romani Postumio si era guadagnato più gloria dall'essersi consegnato ai nemici, di quanta non ne fosse toccata a Ponzio tra i Sanniti per la vittoria ottenuta senza spargimento di sangue. Per i Romani era già una vittoria sicura poter fare la guerra, mentre i Sanniti ritenevano che la ripresa della guerra fosse per i nemici come aver già avuto la meglio. Nel frattempo gli abitanti di Satrico passarono dalla parte dei Sanniti, e la colonia di Fregelle venne occupata dai Sanniti durante la notte con un'azione a sorpresa (a quanto pare assieme a loro c'erano anche dei Satricani). Così fu il timore reciproco a mantenere tranquille entrambe le parti fino all'alba. Il sorgere del giorno segnò l'inizio dello scontro, sostenuto per parecchio tempo alla pari dagli abitanti di Fregelle, che combattevano per i propri altari e focolari; anche la popolazione inerme collaborava, dai tetti delle case. La battaglia venne poi decisa da un trabocchetto, quando i Sanniti lasciarono risuonare la voce di un araldo che proclamava l'incolumità per chi avesse deposto le armi. Questa speranza smorzò negli animi la voglia di combattere, e da ogni parte iniziarono a gettare a terra le armi. I più ostinati si aprirono la strada con le armi attraverso la porta di fronte al nemico, e per loro l'audacia fu più sicura di quanto non fosse stata la paura per gli altri che si erano incautamente fidati, e che, invocando invano gli dèi e il rispetto della parola data, vennero avvolti dalle fiamme e bruciati vivi dai Sannit i. I consoli si divisero le zone di operazione ricorrendo alla sorte: Papirio partì per l'Apulia alla volta di Luceria (dove erano imprigionati i cavalieri romani dati in ostaggio a Caudio), mentre Publio si fermò nel Sannio per fronteggiare le legioni di Caudio. Questa mossa tenne in allarme i Sanniti, che non avevano il coraggio di spingersi fino a Luceria per paura che i nemici li inseguissero alle spalle, né di rimanere lì fermi, nel timore che Luceria finisse nel frattempo in mano ai Romani. L'ipotesi più praticabile sembrò quella di tentare la fortuna e di scontrarsi in campo aperto con Publilio. Per questo schierarono l'esercito in ordine di battaglia.
( XIII )
Quando ormai era sul punto di attaccare battaglia, il console Publilio, pensando fosse opportuno rivolgere un appello ai suoi uomini, fece convocare l'assemblea. E tutti accorsero in massa con grande entusiasmo presso il pretorio, col risultato che il trambusto impedì ai soldati di sentire le parole del comandante: ciascuno era già esortato dalla propria coscienza, memore dell'umiliazione subita. E così si gettarono nella mischia sollecitando i portainsegne e, per non rallentare il combattimento lanciando prima i giavellotti e poi sguainando le spade, come avessero ricevuto un ordine in proposito, deposero a terra i giavellotti, e con le spade in pugno si lanciarono di corsa contro il nemico. In quella circostanza non ebbe alcuna incidenza la perizia strategica del comandante nel disporre i manipoli e le truppe di riserva, perché tutto fece con impeto quasi folle la rabbia dei soldati. Così i nemici non soltanto furono sbaragliati, ma non avendo il coraggio di porre fine alla fuga nemmeno all'interno dell'accampamento, si diressero in disordine verso l'Apulia. Ciò non ostante arrivarono a Luceria con l'esercito di nuovo inquadrato e compatto. La stessa rabbia che aveva spinto i Romani in mezzo alle fila nemiche li trascinò anche all'interno dell'accampamento. Lì ci furono sangue e massacri più ancora che nel pieno dello scontro, e la maggior parte del bottino andò distrutta in una mischia rabbiosa. L'altro esercito alla guida di Papirio era arrivato fino ad Arpi seguendo la costa, dopo esser stato accolto in maniera pacifica da tutte le popolazioni incontrate lungo la strada (più per le violenze subite da parte dei Sanniti e per il risentimento nei loro confronti che per aver ricevuto un qualche beneficio dal popolo romano). Infatti i Sanniti, da quel popolo di montanari e contadini che erano, visto che in quel tempo abitavano in villaggi sui monti, disprezzavano gli abitanti delle pianure in quanto più molli e, come di solito succede, simili alle terre nelle quali vivevano. Così molto spesso mettevano a ferro e fuoco le zone della pianura e quelle lungo la costa. Se questa area fosse rimasta fedele ai Sanniti, l'esercito romano non sarebbe stato in grado di arrivare ad Arpi, oppure - impedito di rifornirsi - sarebbe stato messo in ginocchio dalla mancanza di viveri. Eppure, anche così, una volta partiti da Arpi alla volta di Luceria, tanto gli assedianti quanto gli assediati furono afflitti dalla carestia. Ai Romani veniva fornita ogni cosa da Arpi, però soltanto in quantità molto ridotta: i cavalieri che dalla città portavano all'accampamento il frumento in sacchetti ai soldati impegnati nei servizi di guardia e di vigilanza e nei lavori di fortificazione, a volte, quando si imbattevano nel nemico, erano costretti ad abbandonare i viveri per combattere. Gli assediati invece, prima che arrivasse l'altro console con l'esercito vincitore, ricevevano vettovaglie e rinforzi dai monti del Sannio. Ma l'arrivo di Publilio rese tutto più difficile, perché - dopo aver lasciato al collega il cómpito di occuparsi dell'assedio ed essendo libero di girare per le campagne - il console sbarrò tutti gli accessi ai rifornimenti dei nemici. E così, siccome gli assediati non avevano alcuna speranza di resistere più a lungo alla fame, i Sanniti accampati presso Luceria, dopo aver raccolto forze da ogni parte, furono costretti a scontrarsi in campo aperto con Papirio.
( XIV )
In quel momento, mentre i due schieramenti si preparavano allo scontro, da Taranto arrivarono degli ambasciatori che intimarono a Romani e Sanniti di rinunciare alla guerra: qualunque delle due parti si fosse opposta alla cessazione delle ostilità avrebbe dovuto combattere contro i Tarentini, schierati a fianco dell'altra. Udite le parole degli inviati, Papirio, fingendo di esserne rimasto turbato, rispose che si sarebbe consultato con il collega. Dopo averlo fatto convocare, avendo trascorso con lui tutto il temp o nei preparativi della battaglia e aver passato in esame con lui una cosa già decisa, diede il segnale di battaglia. Mentre i consoli erano impegnati nei sacrifici e nei preparativi che di solito precedono uno scontro campale, gli ambasciatori di Taranto si fecero loro incontro aspettando una risposta. Papirio replicò con queste parole: «O Tarentini, l'addetto ai polli ci fa sapere che gli auspici sono favorevoli. E poi, i sacrifici sono stati propizi. Come potete ben vedere, ci buttiamo nella mischia sotto la guida degli dèi». Diede così ordine di avanzare e si mise alla testa delle truppe, biasimando la superficialità di quelle genti che, incapaci com'erano di governarsi a causa delle discordie e dei sommovimenti interni, avevano l'ardire di dettare legge agli altri in materia di guerra e di pace. Dalla parte opposta i Sanniti, che avevano tralasciato ogni preparativo bellico - vuoi perché davvero volevano la pace, vuoi perché conveniva loro il fingerlo per assicurarsi l'appoggio dei Tarentini -, quando videro che i Romani si erano schierati in tutta fretta pronti a dare battaglia, urlarono di voler restare agli ordini dei Tarentini e di non avere intenzione di scendere in campo né di portare le armi al di là della trincea: anche se raggirati, avrebbero sopportato qualunque tipo di sciagura, pur di non dare l'impressione di disprezzare le proposte di pace dei Tarentini. I consoli dissero di accogliere quelle dichiarazioni come un augurio, e di pregare gli dèi affinché ispirassero ai nemici il proposito di non difendere nemmeno la trincea. Dopo essersi divisi le truppe tra di loro, si avvicinano ai dispositivi di difesa del nemico e li assalgono contemporaneamente da ogni punto: e mentre alcuni riempivano il fossato e altri sradicavano la trincea fortificata gettandola nel fossato, poiché non solo il valore innato ma anche il risentimento stimolava gli animi esacerbati dall'umiliazione, i Romani irruppero all'interno del campo nemico. Ciascuno ricordava di non avere di fronte a sé né le Forche né le gole impraticabili di Caudio, dove cioè l'inganno aveva avuto superbamente la meglio sull'errore, ma solo il valore romano che né la trincea né il fossato riuscivano a trattenere: massacrarono senza distinzione chi opponeva resistenza e chi si dava alla fuga, inermi e armati, schiavi e liberi, bambini e adolescenti, uomini e bestie. E non sarebbe sopravvissuto nessun essere vivente, se i consoli non avessero fatto suonare la ritirata, e non avessero spinto via a forza, con ordini carichi di minacce, gli uomini assetati di sangue. E ai soldati inferociti per l'interruzione imposta al piacere della vendetta i consoli tennero immediatamente un discorso, per ricordare loro che essi non erano né sarebbero stati secondi a nessuno dei soldati quanto a odio nei confronti dei nemici: anzi, come li avevano guidati in guerra, così li avrebbero portati a una vendetta senza pietà, se il pensiero dei 600 cavalieri tenuti in ostaggio a Luceria non avesse frenato la loro animosità, per paura che i nemici, non avendo più speranze di poter essere perdonati, si lasciassero trascinare ciecamente a uccidere i prigionieri, scegliendo così di annientare prima di essere annientati. I soldati salutarono queste parole con un applauso, soddisfatti che i loro animi impetuosi avessero trovato un freno, e si dissero pronti ad affrontare qualunque tipo di sofferenza, pur di evitare che venisse compromessa la salvezza di tanti nobili giovani romani.
( XV )
Tolta l'assemblea, venne convocato un consiglio per stabilire se si dovesse aggredire Luceria con tutte le forze, oppure inviare nei dintorni uno degli eserciti consolari col comandante al fine di sondare le intenzioni degli Apuli, la cui posizione era ancora incerta. Il console Publilio, partito per una missione di perlustrazione attraverso l'Apulia, con una sola spedizione sottomise alcune popolazioni con l'uso della forza, mentre altre le accolse con patti all'interno della coalizione romana. Anche per Papirio, che si era fermato ad assediare Luceria, l'esito degli eventi fu in breve commisurato alle speranze. Infatti, dato che tutte le strade attraverso le quali arrivavano i rifornimenti dal Sannio erano bloccate, i Sanniti che erano di guarnigione a Luceria, vinti dalla fame, inviarono degli ambasciatori al console romano, invitandolo ad abbandonare l'assedio, una volta riavuti i cavalieri che erano la causa del conflitto. Papirio rispose loro che, circa il trattamento da riservarsi agli sconfitti, avrebbero dovuto andare a consultarsi con Ponzio figlio di Erennio, l'uomo che li aveva convinti a far passare i Romani sotto il giogo. Ma visto che preferivano farsi imporre delle condizioni giuste dai nemici piuttosto che proporne essi stessi, ordinò di comunicare a Luceria che venissero lasciati all'interno delle mura le armi, i bagagli, le bestie da trasporto e l'intera popolazione civile. Quanto ai soldati, li avrebbe fatti passare sotto il giogo con un solo indumento addosso, più per vendicare l'umiliazione subita che per infliggerne una nuova. Non venne respinta alcuna delle condizioni. A passare sotto il giogo furono in 7.000 soldati, mentre a Luceria venne rastrellato un ingente bottino. Tutte le insegne e le armi perdute a Caudio vennero riprese , e - gioia questa superiore a ogni altra - furono recuperati i cavalieri consegnati dai Sanniti affinché venissero custoditi a Luceria come pegno di pace. Con quell'improvviso ribaltamento di fatti, nessuna vittoria del popolo romano fu più splendida, e ancor di più se poi è vero quanto ho trovato presso alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto il giogo insieme agli altri, affinché espiasse l'umiliazione inflitta ai consoli. Il fatto che non sia certo se anche il comandante nemico sia stato consegnato e fatto passare sotto il giogo non mi sorprende troppo: è molto strano invece che persistano incertezze se quella campagna a Caudio e quindi a Luceria l'abbia condotta il dittatore Lucio Cornelio con Lucio Papirio Cursore in qualità di maestro di cavalleria, e Lucio Cornelio abbia trionfato, unico vendicatore dell'ignominia inflitta ai Romani, con il trionfo che ritengo probabilmente il più giusto fino a quei giorni dai tempi di Furio Camillo, oppure se quell'onore sia da ascrivere ai consoli e in particolare a Papirio. Ma a questo dubbio ne tiene dietro un altro: se cioè nelle successive elezioni sia stato eletto console per la terza volta Papirio Cursore (insieme a Quinto Aulo Cerretano console per la seconda volta), a séguito di un rinnovamento della carica per la vittoria ottenuta a Luceria, oppure Lucio Papirio Mugillano, e l'errore si sia verificato nella trascrizione del nome.
( XVI )
In séguito ci si trovò d'accordo nell'affermare che le restanti operazioni belliche erano state portate a compimento dai consoli. Con la vittoria in un'unica battaglia, Aulo pose fine alla guerra coi Ferentani e accettò la resa della loro città, dove era andato a rifugiarsi l'esercito sbaragliato, imponendo la consegna di ostaggi. Stessa sorte ebbe la campagna condotta dall'altro console contro i Satricani, i quali, non ostante fossero cittadini romani, dopo la disfatta di Caudio erano passati dalla parte dei Sanniti, e ne avevano accolto un presidio armato in città. Quando l'esercito arrivò nei pressi delle mura di Satrico, dalla città arrivarono degli ambasciatori con supplichevoli richieste di pace. Il console però rispose con durezza che non tornassero da lui se non dopo aver fatto a pezzi o consegnato il presidio dei Sanniti. Queste parole spaventarono i coloni più di un attacco armato. Perciò gli ambasciatori tornarono immediatamente dal console per chiedergli in che modo ritenesse che loro, deboli e sparuti com'erano, avrebbero potuto sopraffare un presidio tanto forte e armato. Allora il console ingiunse loro di andare a farsi consigliare da quelle stesse persone che li avevano spinti ad accettare il presidio in città. Poi, dopo aver a malapena ottenuto di poter consultare il senato sulla questione e quindi di riferire la risposta al console, si congedarono rientrando in città. All'interno del senato c'erano due opposte fazioni: alla testa di una di esse c'erano quanti avevano suggerito la defezione da Roma, a capo dell'altra c'erano invece i cittadini rimasti fedeli. Ciò non ostante, pur di tornare alla pace, entrambi gli schieramenti fecero a gara nel dimostrarsi premurosi verso il console. Siccome il presidio sannita aveva intenzione di uscire nel corso della notte successiva (non essendo in grado di sostenere un assedio), una delle due fazioni non fece altro che informare il console a quale ora della notte e per quale porta e strada il nemico sarebbe uscito. L'altro partito invece - quello che si era opposto alla defezione dalla parte dei Sanniti -, nel corso della stessa notte aprì le porte al console e, senza farsi accorgere dal nemico, accolse in città i soldati romani. Così, grazie a questo doppio tradimento, il presidio armato dei Sanniti fu sorpreso e sopraffatto dai Romani che si erano andati ad appostare in una fitta macchia lungo la strada, mentre in città si alzò alto il grido dei soldati che vi erano penetrati. Nell'arco di un'ora i Sanniti furono sbaragliati e Satrico occupata, e ogni cosa finì in potere del console: istruita un'inchiesta sulle responsabilità dell'ammutinamento, fece frustare e decapitare quanti vennero riconosciuti colpevoli e, dopo aver imposto una forte guarnigione armata in città, fece disarmare i Sanniti. Gli autori che sostengono che Luceria venne riconquistata e i Sanniti fatti passare sotto il giogo da Papirio Cursore, riportano che dopo quei fatti Papirio rientrò a Roma per celebrarvi il trionfo. Papirio fu uomo degno di ogni elogio sul piano militare, eccezionale non solo per la tempra interiore, ma anche per la prestanza fisica. Era straordinariamente veloce di gambe, qualità questa che gli valse il soprannome di Cursore, e si dice che ai suoi tempi nessuno riuscisse a superarlo nella corsa, sia per la grande forza fisica, sia per il notevole allenamento. Oltre a questa caratteristica, era un mangiatore e un bevitore formidabile. Durante il suo mandato, tanto per i fanti quanto per i cavalieri il servizio militare era duro come non lo era mai stato agli ordini di nessun altro, visto che egli stesso aveva un fisico contro il quale nulla poteva la fatica: ad alcuni cavalieri che un giorno avevano avuto il coraggio di chiedergli l'esenzione da un servizio come ricompensa a un'azione ben condotta, rispose: «Perché non possiate dire che non vi abbia esentati da alcunché, vi esimo dall'accarezzare il dorso dei cavalli quando scenderete di sella». Il suo prestigio era grandissimo sia presso gli alleati sia presso i concittadini. Una volta il comandante del contingente di Preneste aveva per paura tardato a portare i suoi uomini dalle retrovie alla prima linea: il console, passeggiando di fronte alla sua tenda, lo fece chiamare fuori e poi diede ordine al littore di slegare la scure. Siccome il prenestino, sentendo queste parole, era mezzo morto dallo spavento, Papirio disse: «Avanti, o littore, taglia questa radice che dà fastidio a chi passeggia», e quindi lasciò libero l'ufficiale alleato che era in preda al panico per paura di una condanna a morte, non andando al di là dell'imposizione di un'ammenda in denaro. E senza dubbio in quel periodo, che fu ricco di valori più di ogni altro, non c'era nessun altro uomo su cui la potenza di Roma potesse poggiare in maniera più sicura. Alcuni sostengono addirittura che Papirio sarebbe stato un generale degno di tenere testa ad Alessandro Magno, se solo quest'ultimo, una volta sottomessa l'Asia, avesse rivolto i suoi eserciti contro l'Europa.
( XVII )
Si potrebbe rilevare che sin dall'inizio di quest'opera non ho cercato di evitare niente con tanta attenzione quanto il discostarmi da una trattazione ordinata degli eventi, e il cercare motivi di piacevole svago per i lettori e un po' di riposo per la mia mente infarcendo questa ricerca storica con amene digressioni. Ciò non ostante, l'aver menzionato un re e un generale tanto grande, mi riporta a considerazioni che tante volte ho fatto tra me e me, e non mi spiace ora valutare quale sarebbe stata la sorte della potenza romana se si fosse scontrata con Alessandro. In guerra gli elementi che sembrano avere maggior peso sono il numero degli effettivi e il loro valore, il talento dei generali, e la sorte, il cui potere è grandissimo nelle cose degli uomini, e soprattutto nelle guerre. Esaminando questi fattori - presi sia uno per uno sia nella loro globalità -, emerge con evidente chiarezza che Roma, come non fu sottomessa da altri re e da altri popoli, allo stesso modo non lo sarebbe stata nemmeno da questo monarca. Innanzitutto, partendo da un confronto tra i due generali, non posso certo negare che Alessandro sia stato un grande condottiero. Ma la sua gloria è ulteriormente accresciuta dal fatto di essere stato da solo al comando, e di essere morto giovane, nel momento culminante della sua potenza, senza aver ancora sperimentato i rovesci del destino. Tralasciando altri celebri sovrani e generali (illustri esempi dei casi umani), che cosa fece sì che fossero in balia della sorte Ciro, tanto celebrato dai Greci, e di recente Pompeo Magno se non la loro lunga vita? Dovrei elencare i generali romani (e non tutti quelli di ogni epoca), ma soltanto quelli, dittatori o consoli, contro i quali avrebbe potuto combattere Alessandro, e cioè Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio Rutilo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Deci, Lucio Volumnio, Manio Curio? A questi uomini ne seguirebbero altri famosi, se solo Alessandro avesse anteposto la guerra contro Cartagine a quella contro Roma, e fosse passato in Italia una volta raggiunta un'età più avanzata. Ciascuno di questi uomini era naturalmente dotato di coraggio e di capacità pari ad Alessandro, inoltre tutti avevano una competenza militare trasmessa di mano in mano fin dalle origini di Roma, e giunta a essere una scienza regolata da norme fisse. Così i re avevano combattuto le loro guerre, e così quelli che li avevano cacciati, i Giunii e i Valerii, così in séguito i Fabii, i Quinzi e i Cornelii, così Furio Camillo, che era già avanti negli anni agli occhi di quegli uomini che, nel pieno della loro giovinezza, avrebbero avuto in sorte il cómpito di affrontare Alessandro. Per quel che concerne le capacità dimostrate da Alessandro nell'affrontare il combattimento (caratteristica questa che accresce ancor di più il suo prestigio), se mai avessero dovuto affrontarlo in duello, avrebbero di conseguenza avuto la peggio Manlio Torquato o Valerio Corvo, famosi prima ancora come guerrieri che come generali, avrebbero avuto la peggio i Deci che, avendo offerto in voto i propri corpi, si lanciarono nel fitto delle file nemiche, avrebbe avuto la peggio Papirio Cursore, forte nel fisico e nello spirito com'era? Per non fare i nomi a uno a uno, la saggezza di un solo giovane avrebbe piegato quel senato la cui essenza fu colta dall'uomo che lo definì composto di re? Questa è la sola cosa che si sarebbe dovuta temere: cioè che Alessandro fosse in grado di scegliere, con maggiore accortezza di uno qualsiasi dei personaggi sopramenzionati, il punto in cui piazzare il campo, come preparare i rifornimenti, come evitare gli agguati, come scegliere il momento opportuno per attaccare battaglia, come schierare le truppe e come consolidarne la struttura con gli uomini di riserva! Avrebbe detto di non aver più a che fare con Dario che, trascinandosi dietro un esercito fatto di donne e di enuchi, appesantito dall'oro e dalla porpora (segni tangibili della sua condizione), più vicino allo stato di preda che non a quello di nemico, era stato vinto senza spargimento di sangue, e senza che Alessandro avesse alcun altro merito se non il coraggio di trattare con disprezzo tutta quella vana ostentazione. L'Italia gli avrebbe fatto un'impressione del tutto diversa dall'India, attraverso la quale avanzò tra una crapula e l'altra con un esercito di avvinazzati, non appena avesse visto i passi dell'Apulia e le montagne della Lucania e le tracce della recente disfatta subita in famiglia, nel punto in cui poco tempo prima aveva trovato la morte lo zio materno, Alessandro re dell'Epiro.
( XVIII )
E stiamo parlando di un Alessandro non ancora sommerso dall'eccesso di fortuna, che mai nessuno seppe reggere in maniera meno decisa di lui. Se poi ci mettiamo a giudicarlo per il comportamento tenuto nella nuova sorte e per il nuovo modo di essere di cui, per così dire, si rivestì dopo aver trionfato, se ne può dedurre che in Italia sarebbe arrivato più simile a Dario che ad Alessandro, trascinando un esercito che ormai non aveva più memoria della Macedonia ed era precipitato nella degenerazione morale dei Persiani. Dispiace dover menzionare in un sovrano tanto grande l'arrogante trasformazione di costumi e modi di vita e la volontà di farsi adulare dai sudditi in ginocchio (cosa questa difficile da tollerare per dei vinti, figurarsi poi per i Macedoni reduci da tanti trionfi), le vergognose condanne a morte e le uccisioni di amici nel pieno della sbronza durante i banchetti, e il vezzo di attribuirsi falsi alberi genealogici. E cosa dire poi della passione per il bere che giorno dopo giorno cresceva sempre di più? E della sua ira truce e cieca (e qui non sto certo a parlare di cose che siano in dubbio tra gli storici)? Bisogna forse pensare che tutti questi difetti non danneggino le qualità di un generale? Il pericolo era proprio questo - come più volte ripetono gli storici greci meno affidabili, loro che arrivano a esaltare il valore dei Parti per odio verso Roma -, e cioè che il popolo romano non fosse in grado di sostenere l'altisonante nome di Alessandro (che in realtà ho l'impressione non conoscessero neppure per sentito dire), e che l'uomo contro il quale gli Ateniesi avevano avuto il coraggio di parlare a viso aperto in assemblea, come risulta dalle orazioni, non ostante si trovassero in una città piegata dalle armi macedoni, e che proprio in quel momento vedeva quasi ancora fumare le rovine di Tebe, possibile che nessuno di tutti quegli illustri uomini politici romani avrebbe osato attaccarlo verbalmente in piena libertà? Per quanto grande possa a noi sembrare la statura di quell'uomo, ciò non ostante la sua sarà pur sempre la grandezza di un unico individuo, concentrata in poco più di dieci anni di buona sorte. Quanti la esaltano, sostenendo che il popolo romano, pur non avendo perduto alcuna guerra, è stato tuttavia vinto in molte battaglie, là dove invece per Alessandro nessuna battaglia ebbe esito sfortunato, non si rendono conto di confrontare le imprese di un solo individuo (per di più giovane) con quelle di un popolo che guerre ne combatte da ormai ottocento anni. Dovremmo forse stupirci se, essendo da una parte il numero delle generazioni superiore agli anni dell'altra, ci siano stati più rivolgimenti del destino in uno spazio di tempo tanto lungo che nell'arco di tredici anni? Perché mai non mettere a confronto la fortuna di un individuo con quella di un altro individuo, di un generale con quella di un altro generale? Quanti comandanti romani potrei menzionare, per i quali l'esito della battaglia non fu mai sfavorevole? Basta scorrere gli annali e i fasti dei magistrati per trovare i nomi di consoli e di dittatori dotati di capacità e con successi ottenuti dei quali il popolo romano non dovette mai dispiacersi. E, ciò che li rende più apprezzabili di Alessandro o di qualsiasi altro sovrano, il fatto che alcuni di essi detennero la dittatura per dieci o venti giorni, e nessuno il consolato per un periodo più lungo di un anno. I tribuni della plebe ostacolavano l'esecuzione delle leve militari, ed essi dovevano partire per il fronte in ritardo, e venivano richiamati prima del mandato per presiedere le elezioni. L'anno di carica scadeva esattamente nel momento di massimo sforzo, e spesso l'imprudenza del collega o la sua cattiva disposizione erano di ostacolo, arrivando a produrre anche danni. Avevano il cómpito di condurre una campagna avviata malamente da altri, e si ritrovavano con un esercito di reclute o di soldati privi di disciplina. Invece, per Ercole, i re non sono soltanto liberi da qualunque condizionamento ma, padroni degli eventi e del proprio tempo, non vanno dietro passivamente alle cose che accadono, ma le governano piegandole alle loro idee. Di conseguenza Alessandro si sarebbe scontrato con dei generali che non avevano conosciuto la sconfitta, mettendo sulla bilancia le stesse garanzie del destino. Anzi, avrebbe rischiato di più, per il fatto che i Macedoni avevano un solo Alessandro, che non era solamente esposto a molteplici pericoli ma vi si esponeva spontaneamente, mentre tra i Romani erano molti gli uomini pari ad Alessandro per gloria e imprese, e ciascuno di essi avrebbe potuto, a seconda del proprio destino, vivere o morire senza esporre lo Stato ad alcun rischio.
( XIX )
Restano da confrontare le forze messe in campo dalle due parti: il numero e la qualità degli uomini, l'entità dei contingenti ausiliari. Nei censimenti di quell'epoca i cittadini romani ammontavano a 250.000 unità: di conseguenza, anche nell'eventualità che tutti gli alleati latini si fossero dissociati in massa, la sola leva dei cittadini romani avrebbe permesso l'arruolamento di dieci legioni. In quegli anni spesso accadeva che partissero per il fronte quattro o cinque eserciti per volta, in Etruria, in Umbria (dove ai nemici si erano aggiunti i Galli), nel Sannio e in Lucania. In séguito, in tutto il Lazio, con i Sabini, i Vo lsci, gli Equi, nell'intera Campania, in parte dell'Umbria e dell'Etruria, tra i Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e gli Apuli, e lungo tutta la costa tirrenica abitata da Greci, da Turi fino a Napoli e Cuma e di lì fino ad Anzio e Ostia, Alessandro avrebbe trovato validi alleati oppure nemici già sconfitti in guerra. Quanto a lui, avrebbe attraversato il mare coi veterani macedoni (non più di 30.000 uomini) e con 4.000 cavalieri, provenienti per buona parte dalla Tessaglia. Era infatti questo il meglio delle sue truppe. Se invece avesse portato con sé anche i Persiani, gli abitanti dell'India e altre popolazioni, si sarebbe trascinato dietro un fastidio più che un valido supporto. Si aggiunga poi a tutto ciò il fatto che i Romani avevano a portata di mano dei riservisti da richiamare in servizio, mentre Alessandro, combattendo in territorio nemico, avrebbe subito la stessa sorte toccata in séguito ad Annibale, cioè il progressivo indebolimento dell'esercito col passare del tempo. Passiamo, ora, alle armi: i Macedoni avevano il clipeo e la sarissa (ovvero l'asta); i Romani lo scudo rettangolare, che proteggeva meglio la figura, e il giavellotto, ovvero un'arma da lancio capace di colpire con più precisione dell'asta. Erano entrambi, Macedone e Romano, soldati di posizione, abituati a mantenere il proprio posto nello schieramento, ma la falange macedone era poco mobile e compatta, mentre la legione romana risultava più articolata, composta di varie parti e non aveva difficoltà a doversi eventualmente dividere o ricomporre a seconda del bisogno. E poi, chi era il soldato che potesse stare alla pari col Romano nel campo dei lavori di fortificazione? Chi era più adatto a sopportare le fatiche? Se Alessandro fosse stato sconfitto in un'unica battaglia, avrebbe perso la guerra: quale armata avrebbe potuto piegare i Romani, che non erano stati annientati dagli eventi di Caudio o di Canne? Se avesse riportato delle vittorie anche solo all'inizio, avrebbe rimpianto le spedizioni contro i Persiani, gli Indiani e l'imbelle Asia, e avrebbe affermato di aver combattuto fino a quel momento contro delle femminucce (come pare abbia detto Alessandro re dell'Epiro, ferito a morte, paragonando i successi nelle guerre combattute dal giovane re con le sue). A dir la verità, quando penso che nel corso della prima guerra punica i Romani combatterono ventiquattro anni di battaglie navali contro i Cartaginesi, mi sembra che la vita di Alessandro sarebbe bastata a stento per portare a termine quella sola guerra. E siccome Cartagine era unita a Roma da un antico trattato di alleanza, è probabile che il timore avrebbe portato a prendere insieme le armi contro il comune nemico le due città più potenti per armamenti e per uomini, e Alessandro sarebbe stato schiacciato dalle forze congiunte dei Cartaginesi e dei Romani. Anche se i Macedoni non erano più sotto la guida di Alessandro e se la loro forza non era più integra, i Romani ebbero ciò non ostante l'opportunità di sperimentare le armi macedoni nei conflitti contro Antioco, Filippo e Perseo, non solo senza mai subire sconfitte, ma senza mai correre alcun pericolo. Possano le mie parole non essere fraintese e tacciano le guerre civili: noi Romani non siamo mai stati messi in difficoltà da nemici a cavallo o a piedi, in campo aperto, a parità di posizioni, e tanto meno in zone a noi favorevoli. La nostra fanteria pesante può temere la cavalleria, le frecce, gli avvallamenti del terreno, i punti dove i rifornimenti risultino difficili, ma è perfettamente in grado di respingere - e sempre lo sarà - migliaia di eserciti più imponenti di quello dei Macedoni e di Alessandro, a patto però che duri per sempre l'amore per questa pace nella quale adesso viviamo e la preoccupazione per l'armonia nei rapporti tra i cittadini.
( XX )
Vennero in séguito eletti consoli Marco Folio Flaccina e Lucio Plauzio Venoce. Nel corso dell'anno numerose popolazioni sannite inviarono ambasciatori per rinnovare il trattato di alleanza. Riuscirono a commuovere il senato inginocchiandosi a terra, ma, rinviati al cospetto del popolo, le loro preghiere non risultarono ugualmente efficaci. Di conseguenza venne loro negato il rinnovo: dopo essersi sciolti in suppliche ai singoli cittadini, per diversi giorni, ottennero la concessione di una tregua biennale. In Apulia anche gli abitanti di Teano e di Canusio, ridotti allo stremo dalle devastazioni, si arresero al console Lucio Plauzio, accettando di consegnargli ostaggi. Nello stesso anno, a Capua, vennero per la prima volta nominati dei prefetti, in base a norme stabilite dal pretore Lucio Furio - avevano fatto richiesta dell'uno e dell'altro provvedimento gli abitanti stessi di Capua, per rimediare alle discordie interne alla città -. A Roma vennero aggiunte due nuove tribù, la Ufentina e la Falerna. La situazione in Apulia venne decisa una volta per tutte in favore dei Romani, e gli Apuli di Teano si presentarono dai nuovi consoli Gaio Giunio Bubulco e Quinto Emilio Barbula, con la richiesta di un trattato di alleanza, garantendo al popolo romano il mantenimento della pace nell'Apulia intera. Dato che offrivano questa coraggiosa garanzia, ottennero un trattato di alleanza, le cui condizioni non furono però paritarie, ma contemplavano la sovranità del popolo romano. Sottomessa l'intera Apulia - Giunio si era infatti impossessato anche di Forento, città molto ben fortificata -, si proseguì in direzione della Lucania. Lì l'arrivo improvviso del console Emilio permise di prendere con la forza la città di Nerulo. Quando tra gli alleati si diffuse la notizia che a Capua la situazione era tornata alla normalità grazie all'intervento dei Romani, anche gli abitanti di Anzio, i quali si lamentavano di esser costretti a governarsi senza leggi sicure e magistrati, ottennero dal senato l'invio di patroni col cómpito di promulgare leggi per la colonia stessa. Ormai non erano solo le armi di Roma, ma anche le sue leggi ad affermarsi in lungo e in largo.
( XXI )
Alla fine dell'anno i consoli Gaio Giunio Bubulco e Quinto Emilio Barbula consegnarono le legioni non nelle mani dei consoli che essi stessi avevano proclamati eletti, e cioè Spurio Nauzio e Marco Popilio, bensì al dittatore Lucio Emilio. Quest'ultimo, accintosi insieme al maestro di cavalleria Lucio Fulvio ad attaccare Saticula, offrì ai Sanniti un motivo pretestuoso per riaprire le ostilità. Per i Romani ne conseguì quindi una doppia minaccia: mentre da una parte i Sanniti, dopo aver raccolto un grosso esercito, si erano andati ad accampare non lontano dai Romani, nell'intento di liberare gli alleati dall'assedio, dall'altra gli abitanti di Saticula, aperte all'improvviso le porte, attaccarono violentemente i posti di guardia nemici. Così l'una e l'altra parte, confidando più negli aiuti altrui che nelle proprie forze, diedero immediato inizio alle ostilità e misero in difficoltà i Romani. Ma pur avendo un impegno su due fronti, il dittatore riusciva a tenere duro da entrambe le parti, perché aveva scelto una posizione difficile da accerchiare, e aveva distribuito i suoi manipoli in diverse direzioni. Il grosso delle forze lo concentrò però contro gli assediati che avevano dato vita alla sortita, e riuscì a ricacciarli tra le mura dopo una lotta non priva di durezze. Poi rivolse tutte le sue forze contro i Sanniti. In quel settore la battaglia fu più accanita. La vittoria arrivò tardi, ma non fu né incerta né limitata. E i Sanniti, dopo essersi rifugiati in disordine all'interno dell'accampamento, spenti i fuochi in piena notte, si ritirarono in silenzio, e, avendo perso ogni speranza di difendere Saticula, si misero ad assediare Plistica, città alleata dei Romani, per restituire al nemico un colpo di uguale portata.
( XXII )
A fine anno, la guerra fu poi proseguita dal dittatore Quinto Fabio. I nuovi consoli, così come i loro predecessori, rimasero a Roma. Fabio arrivò a Saticula con rinforzi per prendere in consegna l'esercito da Emilio. I Sanniti, infatti, non erano rimasti nei dintorni di Plistica ma, fatte arrivare dalla patria delle nuove forze e confidando nella loro superiorità numerica, si erano accampati nella stessa posizione di prima, e cercavano di distogliere i Romani dall'assedio provocandoli allo scontro. E il dittatore, rivoltosi con impeto ancora maggiore contro le mura nemiche, convinto che la vera guerra fosse soltanto quella che aveva come meta ultima l'espugnazione della città, non dava troppo peso ai Sanniti, opponendosi alle loro sortite solo con presidi armati a guardia dell'accampamento, per premunirsi di fronte a un'eventuale incursione nemica. Per questo i Sanniti cavalcavano tanto più baldanzosi davanti alla trincea, senza concedersi un attimo di tregua. E poiché il nemico era ormai quasi alle porte del campo, il maestro di cavalleria Quinto Aulio Cerretano, senza richiedere il parere del dittatore, utilizzando tutti gli squadroni di cavalleria, organizzò un'impetuosa sortita e respinse i Sanniti. In quel frangente, in un combattimento che di solito non vede mai troppa determinazione, la sorte esercitò il suo potere al punto da mietere stragi in entrambi gli schieramenti e causare la morte gloriosa dei comandanti stessi. Il capo dei Sanniti per primo, non accettando l'eventualità di essere sconfitto e messo in fuga da posizioni occupate con tanta ostinazione, pregò e incitò i suoi cavalieri a rituffarsi nella mischia. Contro di lui, che si distingueva tra i suoi nel rinnovare la battaglia, il maestro di cavalleria romano, la lancia spianata, spronò il cavallo con tanta furia da sbalzarlo esanime di sella al primo colpo. Le truppe, contrariamente al solito, non furono scoraggiate dalla caduta del loro comandante: anzi, si infiammarono. I Sanniti in massa scagliarono le loro frecce contro Aulio, che si era spinto imprudentemente in mezzo agli squadroni nemici. Fu soprattutto al fratello che gli dèi concessero la gloria di vendicarsi del comandante sannita caduto: dopo aver trascinato giù dal cavallo il maestro di cavalleria vincitore, lo massacrò col cuore gonfio di rabbia e di dolore, e poco mancò che i Sanniti si impossessassero anche della salma, finita tra gli squadroni nemici. Ma i Romani scesero immediatamente da cavallo e si misero a combattere da fanti, costringendo i Sanniti a fare altrettanto. L'improvvisata fanteria iniziò il combattimento intorno ai cadaveri dei comandanti. I Romani ebbero la meglio, rientrando così in possesso del corpo di Aulio, che riportarono vittoriosi all'accampamento, divisi tra il dolore e la gioia. I Sanniti, perso il comandante, stremati dalla battaglia a cavallo, abbandonarono Saticula, che ormai sembrava inutile difendere, e tornarono all'assedio di Plistica. Così, nell'arco di pochi giorni, i Romani presero Saticula che si arrese spontaneamente, mentre i Sanniti conquistarono Plistica con il ricorso alla forza.
( XXIII )
In séguito il teatro delle operazioni cambiò: dal Sannio e dall'Apulia gli eserciti vennero trasferiti a Sora, città passata ai Sanniti dopo che i coloni romani ivi residenti erano stati uccisi. Siccome l'esercito romano vi era arrivato per primo a marce forzate nell'intento di vendicare l'uccisione dei concittadini e riappropriarsi della colonia, gli osservatori disseminati lungo le strade tornarono uno dopo l'altro riferendo che le truppe sannite seguivano da presso e si trovavano ormai non troppo lontane. I Romani andarono allora incontro al nemico, e a Lautule si combatté una battaglia dall'esito incerto. A separare i contendenti non furono né le perdite patite, né la fuga di una delle parti in causa, quanto piuttosto la notte, che lasciò gli uni e gli altri nel dubbio di essere vincitori o vinti. Presso alcuni autori ho trovato che l'esito di quella battaglia fu sfavorevole ai Romani e che in essa perse la vita il maestro di cavalleria Quinto Aulio. Per rimpiazzare il defunto, da Roma giunse con un nuovo esercito il maestro di cavalleria Gaio Fabio, il quale mandò avanti messaggeri per chiedere al dittatore un consiglio sul luogo appropriato per fermarsi, nonché sul momento e sulla direzione dalla quale il nemico avrebbe dovuto essere attaccato. Ottenute tutte le informazioni sul piano di battaglia, si attestò in un punto nascosto. Il dittatore, dopo aver trattenuto per alcuni giorni dopo la battaglia i suoi uomini all'interno della trincea (così da farli sembrare più assediati che assedianti), diede all'improvviso il segnale di battaglia, e pensando che il più grosso stimolo per gli animi di uomini valorosi fosse riporre ogni speranza esclusivamente in se stessi, non rivelò loro l'arrivo imminente del maestro di cavalleria insieme al nuovo esercito. Come se quella sortita fosse l'unica speranza di salvezza, disse: «O soldati, siamo intrappolati in un luogo chiuso, e non abbiamo altra via d'uscita se non quella che ci potremo aprire con la vittoria. Il nostro accampamento è ben protetto dalle fortificazioni, ma esposto alla mancanza di viveri: infatti tutti i paesi dei dintorni che ci potevano far pervenire dei rifornimenti si sono ribellati, e se anche potessimo trovare aiuto negli esseri umani, a esserci avversi sono i luoghi. Per questo io non ho alcuna intenzione di ingannarvi lasciando l'accampamento qui, dove vi potreste rifugiare nel caso non vi dovesse arridere la vittoria, come successo nei giorni scorsi. Le fortificazioni devono essere protette dalle armi, e non le armi dalle fortificazioni. Un accampamento lo tengano e vi cerchino scampo quelli che hanno interesse a tirare la guerra per le lunghe: noi non dobbiamo considerare altro scampo se non nella vittoria. Gettatevi all'assalto del nemico: quando le truppe avranno superato la trincea, diano fuoco alle strutture quelli cui sarà stato dato ordine di farlo. Soldati, il danno che subirete sarà ricompensato dal bottino strappato a tutte le popolazioni dei dintorni che ci hanno tradito». I soldati si lanciarono contro i nemici infiammati dal discorso del dittatore, che aveva segnalato la gravità estrema del frangente; e anche lo scorgere dietro le spalle gli accampamenti in fiamme (benché per ordine del dittatore il fuoco fosse stato appiccato soltanto alle tende più vicine) fu motivo di forte incitamento. Lanciatisi in avanti come forsennati, travolsero al primo urto le file nemiche, e al momento opportuno il maestro di cavalleria, quando vide da lontano levarsi le fiamme dall'accampamento (era questo il segnale convenuto), assalì il nemico alle spalle. Così, presi tra due fronti, i Sanniti si diedero alla fuga sparpagliandosi dove meglio ciascuno riusciva, in tutte le direzioni. Una grande quantità di nemici, che in preda al terrore si erano asserragliati in cerchio e nella calca generale si intralciavano a vicenda nei movimenti, venne fatta a pezzi sul posto. L'accampamento nemico venne preso e saccheggiato. Il dittatore riportò nel campo romano i soldati carichi di bottino, felici sia per la vittoria conseguita sia per aver ritrovato intatte le tende contro ogni speranza (fatta eccezione per una piccola area danneggiata dall'incendio).
( XXIV )
Si ritornò poi all'assedio di Sora. E i nuovi consoli Marco Petelio e Gaio Sulpicio ricevettero dal dittatore Fabio il comando dell'esercito, licenziando gran parte degli effettivi avanti con gli anni e aggiungendo al loro posto nuove coorti. Ma poiché per la difficile posizione naturale della città non si riusciva a trovare un sistema abbastanza sicuro per espugnarla, e la vittoria sembrava restare o troppo in là nel tempo o esposta a rischi eccessivi, un disertore di Sora uscito di nascosto dalla città e arrivato fino ai posti di guardia romani si fece immediatamente portare al cospetto dei consoli, ai quali promise di consegnare la sua città nelle loro mani. Alle richieste dei consoli che cercavano di sapere in che modo avrebbe potuto garantire l'impresa l'uomo replicò con risposte che non lasciavano dubbi; così sembrò che le sue argomentazioni non fossero vane parole, e il disertore convinse i Romani a spostare di sei miglia dalla città l'accampamento, che adesso era invece quasi attaccato alle mura: di giorno la vigilanza delle sentinelle si sarebbe così allentata. Lui stesso poi, nel corso della notte successiva, dopo che ad alcune coorti venne data disposizione di attestarsi in un bosco sotto la città, attraverso sentieri impervi e quasi inaccessibili portò con sé dieci soldati romani sulla rocca, dove aveva raccolto un numero di aste di gran lunga superiore alle necessità di quel manipolo. C'erano anche parecchi sassi, parte dei quali si trovavano lì per ragioni naturali (come sempre nei luoghi dirupati), mentre parte erano stati ammucchiati intenzionalmente dagli assediati, nell'intento di rendere più sicura la postazione. L'uomo portò in quel punto i Romani, e indicando loro un sentiero stretto e scosceso che dalla città saliva fin sulla rocca disse: «Basterebbero anche solo tre uomini armati per impedire la salita all'esercito più massiccio: voi siete in dieci e - ciò che più conta - siete Romani, e tra i Romani siete anche i guerrieri più forti. Dalla vostra parte avrete la posizione e la notte, che nell'incertezza fa apparire più grosso qualunque pericolo a chi già sia spaventato. Io adesso farò in modo di seminare il panico ovunque: voi limitatevi a tenere saldamente la rocca». Detto questo, si lanciò giù di corsa gridando con quanta più voce aveva dentro: «Allarmi! Cittadini, aiuto, la rocca è in mano ai nemici! Presto, correte a difenderla!». Così gridava di fronte alle dimore dei capi, a chi incontrava e alla gente che si riversava terrorizzata nelle strade. Per tutta la città si diffuse il panico suscitato da un solo individuo. I magistrati affannosamente mandarono soldati in avanscoperta alla rocca e quando si sentirono riferire che essa era occupata da uomini (il cui numero venne esagerato) con le armi in pugno, abbandonarono ogni speranza di poterla riconquistare. Fu allora una fuga generale e precipitosa, e le porte furono sfondate dalla folla quasi del tutto inerme e appena alzatasi dal letto. Attirato dalle grida, il contingente romano irruppe attraverso uno degli ingressi massacrando la gente che correva terrorizzata per le strade. Sora era già conquistata, quando all'alba arrivarono i consoli che accettarono la resa di quanti per motivi contingenti erano rimasti in città dopo la strage notturna e la fuga. Ne vennero condotti a Roma in catene, quelli cioè che l'opinione pubblica additava come primi responsabili dell'infausto massacro di coloni e della defezione. Il resto della popolazione fu lasciato incolume a Sora, dove venne insediato un presidio armato. Gli uomini deportati a Roma furono bastonati e decapitati in pieno Foro con grande gioia della plebe, cui premeva la sicurezza dei cittadini inviati nelle colonie.
( XXV )
Partiti da Sora, i consoli trasferirono la guerra nelle campagne e nelle città degli Ausoni. L'arrivo dei Sanniti in concomitanza con la battaglia di Lautule aveva infatti favorito un'insurrezione generale, e in molte zone della Campania erano stati organizzati complotti contro Roma, tanto che neppure Capua restò esente da sospetti (anzi, l'inchiesta arrivò addirittura fino a Roma e ad alcuni dei cittadini più in vista). Per altro i Romani giunsero ad avere il controllo del popolo degli Ausoni a séguito di un tradimento, come già successo a Sora. Dodici nobili giovani provenienti dalle città di Ausona, Minturno e Vescia, dopo aver deciso di consegnare le proprie città in mano ai Romani, si presentarono ai consoli e li informarono che i loro concittadini speravano già da tempo nell'arrivo dei Sanniti e, non appena erano venuti a conoscenza dell'esito della battaglia di Lautule, considerando ormai sconfitti i Romani, avevano offerto un supporto ai Sanniti inviando uomini e armi. E adesso che i Sanniti erano stati sbaragliati e messi in fuga, si mantenevano in un rapporto di pace ambigua, e non chiudevano le porte in faccia ai Romani solo per evitare lo scoppio di un conflitto; se però l'esercito romano si fosse avvicinato, erano più che decisi a chiuderle. In una simile incertezza, sarebbe stato facile averne la meglio cogliendoli di sorpresa. Seguendo i loro suggerimenti, i Romani avvicinarono l'accampamento, e nel contempo inviarono nei dintorni delle tre città uomini armati, con l'ordine di rimanere nascosti nei pressi delle mura, e altri in abiti civili, con le spade nascoste sotto la veste e col cómpito di entrare in città all'alba attraverso le porte aperte. Furono questi ultimi che iniziarono a eliminare le sentinelle e contemporaneamente a dare il segnale ai compagni armati, perché uscissero in fretta dai loro nascondigli. Così vennero occupate le porte e nello stesso istante anche le tre città furono catturate, con il medesimo espediente. Ma poiché l'assalto non avvenne alla presenza dei capi, non vi fu freno al massacro, e gli Ausoni vennero decimati per un'accusa di tradimento poco affidabile, come se si fosse trattato di una guerra all'ultimo sangue.
( XXVI )
Nel corso dello stesso anno Luceria passò dalla parte dei Sanniti dopo aver consegnato in mano nemica il presidio armato romano. Ma il tradimento non tardò a essere punito: l'esercito romano si trovava nella zona e la città, in aperta pianura, venne catturata al primo assalto. Gli abitanti di Luceria e i Sanniti furono passati per le armi e la rabbia arrivò a un punto tale che, quando a Roma si discusse in senato circa l'invio di una colonia a Luceria, molti espressero l'avviso di radere al suolo la città. A prescindere dal risentimento - fuor di misura nei confronti di un popolo sottomesso già due volte -, l'idea di inviare cittadini in una zona così lontana dalla patria e in mezzo a genti tanto ostili era in sé poco accetta. Ciò non ostante prevalse il parere di mandare coloni, in numero di 2.500. Nello stesso anno, mentre per i Romani la situazione era ovunque difficile, anche a Capua i membri più eminenti della città organizzarono in segreto una congiura. Al senato giunse notizia della cosa, e la voce non fu affatto trascurata: venne anzi aperta un'inchiesta e si decise di eleggere un dittatore che se ne occupasse. L'incarico toccò a Gaio Menio, che scelse Marco Folio in qualità di maestro di cavalleria. Quella magistratura metteva in grandissima soggezione: perciò, spinti dalla paura o dalla consapevolezza della propria colpa, i Calavii Ovio e Novio, i maggiori responsabili della congiura, prima ancora di comparire di fronte al dittatore, evitarono il processo togliendosi la vita (non vi fu dubbio che si trattasse di suicidio). Venuta meno la materia di indagine in Campania, l'inchiesta si spostò a Roma, dove la si interpretò nel senso che il senato avesse dato disposizione di indagare non solo sui responsabili del complotto di Capua, ma più in generale su tutte quelle persone che, in qualunque parte, avessero preso degli accordi privati o congiurato contro lo Stato (di conseguenza anche le coalizioni realizzate per ottenere incarichi politici risultavano ai danni dello Stato). L'indagine era destinata a estendersi in relazione sia ai fatti indagati sia agli inquisiti, e il dittatore non faceva nulla per impedire che il suo diritto di inchiesta risultasse illimitato. Vennero così incriminati alcuni esponenti del patriziato, il cui appello ai tribuni risultò vano perché nessuno di essi volle intervenire contro le denunce a loro carico. E allora l'intero corpo nobiliare - e non solo coloro contro cui erano dirette le accuse - sostenne che quelle accuse non dovevano essere rivolte ai patrizi (per i quali la via alle cariche non avrebbe avuto ostacoli se le cose si fossero svolte senza brogli), ma agli uomini nuovi: quanto al dittatore e al maestro di cavalleria, in relazione al reato inquisito erano loro stessi più degni di fare da imputati che da inquisitori, e se ne sarebbero resi conto non appena il loro mandato fosse scaduto. Menio allora, preoccupandosi più della propria rispettabilità che non della carica detenuta, prese la parola di fronte all'assemblea e pronunciò questo discorso: «Voi tutti siete al corrente dei miei trascorsi, Quiriti, e questa stessa carica che mi è stata conferita è la prova inconfutabile della mia onestà. Infatti per portare avanti un'inchiesta avete dovuto ricorrere, per avere un dittatore, non a chi si fosse maggiormente distinto per valori militari (come in altri casi in cui le esigenze del paese rendevano necessaria una scelta di quel genere), bensì a chi avesse trascorso i suoi giorni il più lontano possibile da quelle conventicole. Ma siccome alcuni esponenti della nobiltà hanno prima cercato con ogni mezzo di mandare a monte l'inchiesta - preferisco che il motivo lo giudichiate voi, piuttosto che ad affermare una cosa non provata sia io nella mia qualità di magistrato -, successivamente, non essendo riusciti nei propri intenti, e volendo evitare di comparire in giudizio per difendersi, si sono ridotti all'arma difensiva propria degli avversari, e cioè l'appello al popolo e il veto dei tribuni. E alla fine, poiché anche in quella direzione la via era sbarrata, ogni altra soluzione è sembrata loro più sicura che provare la propria innocenza, al punto da lanciarsi addosso a noi, senza nemmeno vergognarsi, da privati cittadini quali sono, di pretendere che sul banco degli imputati salga il dittatore. E io, perché tutti, uomini e dèi, sappiano che essi tentano anche l'impossibile, pur di non dover rendere conto della propria condotta di vita, e che non mi oppongo all'accusa e mi offro ai nemici in qualità di imputato, rinuncio alla dittatura. Vi prego, consoli, se il senato vi affiderà l'incarico di portare avanti l'inchiesta contro di me innanzitutto e contro Marco Folio, di fare in modo che risulti in maniera evidente che a tutelarci dalle accuse rivolte da queste persone non è stato il rispetto per la carica che ricopriamo, bensì la nostra innocenza». Poi rinunciò alla dittatura, e dopo di lui fu Folio a deporre sùbito la carica di maestro di cavalleria. E dopo esser stati sottoposti a processo per primi dai consoli (ai quali il senato aveva affidato l'inchiesta), furono assolti in maniera onorevole, non ostante le testimonianze contrarie dei nobili. Anche Publilio Filone, che in passato aveva più volte ricoperto le più alte cariche per essersi distinto in pace e in guerra, ma non aveva il favore della nobiltà, venne processato e assolto. Ma come spesso accade, l'inchiesta relativa alle personalità di maggiore spicco non andò oltre le fasi iniziali, spostandosi poi tra gli strati subalterni della popolazione, fino a esser messa a tacere dagli ambienti e dai circoli contro cui era stata istruita.
( XXVII )
La notizia di questi eventi, ma più ancora la speranza di una defezione della Campania (e il complotto era stato ordito in questa direzione), fece di nuovo convergere su Caudio i Sanniti diretti verso l'Apulia; si proponevano così di essere più vicini a Capua e di tentare di strapparla ai Romani, nel caso in cui qualche contrasto interno ne avesse offerto l'occasione. I consoli si diressero in quella zona con un forte esercito. In un primo tempo i due schieramenti indugiarono in prossimità delle gole, perché era un rischio per entrambi marciare dritti contro il nemico. Poi i Sanniti, dopo una lieve diversione in zone aperte, scesero verso la pianura, nelle terre campane, dove in un primo tempo collocarono l'accampamento in vista del nemico, per poi mettere reciprocamente alla prova le rispettive forze in scaramucce di poco conto, più spesso ingaggiate dalla fanteria che dalla cavalleria. Ai Romani non dispiaceva né l'esito di queste schermaglie né che la guerra andasse per le lunghe. Ai comandanti sanniti sembrava invece che le loro forze venissero ridotte dalle perdite quotidiane, che si logorassero per il protrarsi del conflitto. Per questo uscirono allo scoperto schierandosi in ordine di battaglia, e divisero la cavalleria disponendola sulle due ali, con l'ordine di badare all'accampamento alle spalle piuttosto che alla battaglia in corso (per evitare appunto un assalto nemico in quella direzione). Per garantire saldezza al fronte avanzato dello schieramento sarebbe bastata la fanteria. Dei due consoli, Sulpicio occupò l'ala destra, Petelio la sinistra. Sulla destra i contingenti vennero schierati con intervalli più ampi, perché anche i Sanniti avevano disposto in quel settore i loro reparti in ordine più rado, vuoi per aggirare il nemico, vuoi per non essere aggirati a loro volta. A sinistra, oltre al fatto che le file erano già di per sé più serrate, il console Petelio decise all'improvviso di aggiungere nuovi contingenti, mandando sùbito in prima linea le coorti dei riservisti, che di norma venivano mantenute integre per eventuali prolungamenti dello scontro. Impiegando tutte le forze a disposizione, al primo urto, costrinse il nemico a indietreggiare. Vedendo che le linee della fanteria stavano vacillando, i cavalieri sanniti si fecero avanti subentrando nello scontro. Contro di loro che avanzavano dai fianchi fra le due prime linee si lanciò la cavalleria romana, seminando lo scompiglio tra i reparti e le file di fanti e cavalieri, fino a mettere in rotta da quella parte l'intero fronte sannita. All'ala sinistra era venuto a incitare le truppe non soltanto Petelio, ma, udito l'urlo levatosi per primo da quella parte, anche Sulpicio, che aveva lasciato i suoi uomini ancora inattivi. Quando constatò che in quel settore la vittoria era ormai sicura, tornò verso la sua ala con 1.200 uomini. Lì però trovò una situazione molto diversa, perché i Romani erano stati costretti a indietreggiare e i nemici vittoriosi incalzavano i suoi ormai allo sbando. Ma all'improvviso le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo del console: vedendo infatti il loro comandante, i soldati ripresero coraggio, e poi il validissimo contingente arrivato con lui costituì un supporto ben più massiccio di quanto il suo numero non facesse prevedere. E quando infine udirono - e videro coi loro occhi - che l'altra ala aveva avuto la meglio, rimisero in piedi le sorti dello scontro. Ormai i Romani stavano prevalendo su tutta la linea e i Sanniti, smesso il combattimento, vennero uccisi o fatti prigionieri, fatta eccezione per quelli che ripararono a Malevento, la città che oggi si chiama Benevento. Stando alla tradizione, 30.000 Sanniti sarebbero stati uccisi o fatti prigionieri.
( XXVIII )
Dopo quella splendida vittoria, i consoli guidarono sùbito l'esercito all'assedio di Boviano, dove si accamparono per l'inverno, fino a quando assunse il comando delle truppe il dittatore Gaio Petelio, eletto dai consoli Lucio Papirio Cursore e Gaio Giunio Bubulco (rispettivamente al quinto e al secondo mandato), con Marco Folio in qualità di maestro di cavalleria. Venuto a sapere che la rocca di Fregelle era stata occupata dai Sanniti, il dittatore lasciò Boviano e si mosse rapidamente in quella direzione. I Sanniti avevano abbandonato la città nel corso della notte, e Fregelle fu ripresa senza scontro; lasciatovi un forte presidio, il dittatore tornò in Campania, determinato a riprendere Nola con le armi. Con l'avvicinarsi del dittatore, tutti i Sanniti e gli abitanti della campagna di Nola si erano rifugiati all'interno delle mura cittadine. Il dittatore, esaminata la posizione della città, per avere più libero accesso alle fortificazioni, fece incendiare tutti gli edifici che si trovavano addossati all'esterno delle mura e nei quali vivevano moltissime persone. Nola fu presa in poco tempo: secondo alcuni autori dal dittatore Petelio, secondo altri dal console Gaio Giunio. Quelli che attribuiscono al console il merito della conquista di Nola aggiungono che anche Atina e Calazia furono catturate dalla stessa persona, e che a séguito di una pestilenza Petelio venne nominato dittatore con il cómpito di piantare un chiodo. Nello stesso anno vennero fondate le colonie di Suessa e di Ponzia. Suessa prima dipendeva dagli Aurunci, mentre Ponzia, un'isola in vista della costa, era abitata da Volsci. Un decreto del senato stabilì la deduzione di una colonia anche a Interamna Sucasina. Però la nomina dei triumviri preposti e l'invio di 4.000 coloni furono opera dei consoli dell'anno successivo, e cioè Marco Valerio e Publio Decio.
( XXIX )
Mentre la guerra con i Sanniti era ormai avviata alla conclusione, prima ancora che il senato si fosse liberato di quel pensiero, cominciò a circolare la voce di una guerra scatenata dagli Etruschi. Galli a parte, in quel tempo non c'era nessun popolo le cui armi facessero più paura, sia per la prossimità sia per il numero. E così, mentre l'altro console portava a termine le ultime operazioni belliche nel Sannio, Publio Decio, rimasto a Roma perché seriamente ammalato, su proposta del senato nominò dittatore Gaio Giunio Bubulco. Quest'ultimo, poiché la situazione era così critica da renderlo necessario, bandì una leva militare di tutti i giovani, e provvide con estrema cura alle armi e alle altre necessità del momento. Pur confortato da questa grande disponibilità di mezzi, il dittatore non aveva l'intenzione di muovere guerra per primo, ma, senza dubbio, di attendere che gli Etruschi prendessero l'iniziativa. Senonché anche gli Etruschi si comportarono nella stessa maniera, facendo grossi preparativi bellici ma rinunciando a scatenarla. Di conseguenza nessuna delle due parti in causa uscì dal proprio territorio. In quell'anno fu memorabile la censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio, anche se dei due il nome che rimase più a lungo presso i posteri fu quello di Appio, in quanto fece costruire una strada e l'acquedotto che porta l'acqua a Roma; queste opere le portò a termine da solo, perché il collega, per colpa di una revisione della lista dei senatori che aveva attirato dure critiche e risentimento contro i censori, aveva ceduto alla vergogna rinunciando alla carica. Appio allora, che dagli antenati aveva ereditato l'ostinazione tipica della famiglia, esercitò la censura da solo. Per iniziativa dello stesso Appio, la gens Potizia - cui in passato era riservato il culto dell'ara massima di Ercole - aveva istituito servi pubblici per affidare loro l'incombenza dei riti di quel culto. Stando a quanto si racconta, a séguito di questa decisione si verificò un fatto prodigioso che arrivò a creare scrupoli religiosi in quanti avessero voluto inserire delle innovazioni nei riti sacri: mentre in quel periodo le famiglie facenti capo alla gens Potizia erano dodici e comprendevano circa trenta uomini in età adulta, prima della fine dell'anno tutti i suoi membri con la relativa discendenza morirono. E non solo sparì il nome dei Potizi, ma alcuni anni dopo anche il censore Appio venne privato della vista dagli dèi, memori di quel fatto.
( XXX )
E così i consoli dell'anno successivo, Gaio Giunio Bubulco per la terza volta e Quinto Emilio Barbula per la seconda, appena entrati in carica si lamentarono di fronte al popolo del fatto che il corpo dei senatori fosse stato deformato dalla pessima scelta operata, in virtù della quale erano stati esclusi parecchi individui migliori di quelli eletti, e si rifiutarono di garantire validità alla lista dei nuovi membri del senato, dicendo che era stata stilata in base al capriccio e alle amicizie personali, senza distinzione tra buoni e cattivi; così convocarono immediatamente il senato attenendosi all'elenco in vigore prima della censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio. Quell'anno vennero attribuite in base al voto del popolo due cariche di natura militare: il primo provvedimento stabiliva l'elezione da parte del popolo di sedici tribuni militari per quattro legioni, mentre in precedenza i posti riservati ai candidati di nomina popolare erano pochi, e l'assegnazione della carica era appannaggio quasi esclusivo di dittatori e consoli. La proposta venne presentata dai tribuni della plebe Lucio Atilio e Gaio Marcio. Il secondo provvedimento stabiliva invece che spettasse al popolo nominare anche i duumviri navali, il cui cómpito era quello di allestire la flotta e di organizzarne la manutenzione. L'iniziativa di questo plebiscito fu del tribuno della plebe Marco Decio. In quel medesimo anno si verificò un episodio di cui non parlerei perché privo di importanza, se non fosse che sembrò toccare la sfera religiosa. I flautisti, indignati perché gli ultimi censori avevano loro vietato di celebrare il tradizionale banchetto nel tempio di Giove (usanza tramandata fin dai tempi antichi), si recarono in massa a Tivoli, sicché a Roma non rimase nessuno in grado di accompagnare con la musica i riti sacrificali. Il senato guardò alla cosa come a un'irregolarità di natura religiosa, e inviò a Tivoli degli ambasciatori con il cómpito di fare tutto il possibile per ricondurre a Roma i suonatori. I Tiburtini garantirono il loro interessamento: in un primo tempo convocarono i flautisti nella curia e li invitarono a rientrare a Roma; ma poi, vedendo che non riuscivano a convincerli, li ingannarono ricorrendo a un espediente del tutto appropriato alla natura di quelle persone. In un giorno di festa i cittadini, chi in un modo chi in un altro, invitarono i flautisti nelle loro case con il pretesto di rallegrare il banchetto con la musica, e li fecero bere - i flautisti sono solitamente molto amanti del vino -, finché si addormentarono. Così, immersi nel sonno com'erano, li misero su dei carri e li riportarono a Roma. I flautisti non si accorsero di nulla, se non quando la luce del giorno li sorprese ancora in preda ai fumi dell'ebbrezza, sui carri abbandonati nel Foro. L'afflusso di popolo che ci fu li convinse a rimanere. Fu loro concesso di andare in giro per la città, tre giorni all'anno, suonando ornati a festa, abbandonandosi a quel tipo di baldoria che è in uso ancora oggi, e venne di nuovo assicurato il diritto di celebrare il banchetto nel tempio di Giove a quanti accompagnavano i riti sacri con la musica. Tutto questo avveniva nel pieno della preoccupazione per due grandi guerre.
( XXXI )
I consoli si divisero gli incarichi: a Giunio toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti, mentre a Emilio la nuova guerra contro gli Etruschi. Nel Sannio la guarnigione romana di Cluvie, dopo aver respinto un attacco nemico, poiché non era stato possibile prenderla con la forza, una volta sottoposta ad assedio aveva dovuto arrendersi per fame ai Sanniti; questi massacrarono a bastonate e trucidarono i soldati già arresisi. Indignato per questa crudeltà, e ormai convinto che l'attacco contro Cluvie fosse la più urgente delle cose da farsi, quello stesso giorno Giunio assalì le mura della città e la catturò uccidendo tutti gli adulti. Di lì l'esercito vittorioso venne trasferito a Boviano, capitale dei Sanniti Pentri e città ricchissima, anche di armi e di uomini. Non essendoci motivo di particolare risentimento, i soldati si impossessarono della città per la speranza di razziare del bottino. Fu per questo che infierirono meno sui nemici, portando via però un bottino quasi più cospicuo di quanto non ne avessero rastrellato in tutto il Sannio; il console generosamente lo concesse tutto agli uomini. Poiché allo strapotere militare dei Romani non riuscivano a resistere né gli eserciti, né gli accampamenti fortificati, né le città, i pensieri di tutti i comandanti sanniti si concentrarono a individuare un punto propizio per un agguato, se per caso fossero riusciti a sorprendere l'esercito romano intento alle sue razzie. Alcuni contadini che avevano disertato o erano stati fatti prigionieri, giunti tra i Romani in parte per puro caso e in parte per una precisa scelta, si trovarono d'accordo nel riferire al console (e per altro la cosa corrispondeva a verità) che una grande quantità di bestiame era stata concentrata in un impervio passo sulle montagne, e così convinsero il console a portate in quel punto le legioni armate alla leggera, nell'intento di fare del bottino. Lì, in prossimità dei sentieri, si era andato a nascondere un forte contingente nemico che, sbucando fuori quando vide i Romani entrare nel passo, li assalì all'improvviso con urla e grande frastuono. Sulle prime la sorpresa seminò il panico fra i Romani, che afferravano le armi e accatastavano i bagagli nel mezzo della strada. Poi però, mano a mano che ciascun uomo si liberava del carico e si armava, da ogni parte i soldati accorrevano alle proprie insegne e l'esercito, senza bisogno di ordini, prese a schierarsi secondo l'ordine ben noto per la lunga esperienza di guerra. E il console, precipitatosi nel punto in cui la battaglia era più accesa, saltò giù da cavallo e chiamò Giove, Marte e gli altri dèi a testimoni di essere venuto su quel passo non tanto per cercare gloria individuale, quanto bottino per gli uomini, e di non poter essere biasimato di nient'altro se non dell'eccessivo desiderio di fare arricchire i soldati romani ai danni del nemico. Ma in quel momento la sola cosa che lo potesse salvare dal disonore era il valore delle truppe. Che dunque si unissero tutti in uno sforzo comune per gettarsi su un nemico già superato sul campo di battaglia, già privato del suo accampamento, delle città, e che tentava il tutto per tutto con quell'indegno espediente, affidandosi al luogo e non certo alle armi. Ma quale luogo, ormai, era inespugnabile per il valore romano? Bastava ricordare le rocche di Fregelle e di Sora, e tutti i successi ottenuti in zone sfavorevoli. Esaltati da queste parole, gli uomini - dimentichi di tutte le difficoltà - si riversarono sulla schiera nemica che si trovava in posizione sopraelevata. Sulle prime dovettero faticare molto per risalire la china. Ma poi, non appena i primi manipoli ebbero raggiunto la sommità del crinale e l'esercito si sentì saldamente piazzato su un'area pianeggiante, la paura si rivolse sùbito contro i responsabili dell'agguato i quali, liberandosi delle armi e fuggendo in tutte le direzioni, cercarono scampo in quegli stessi anfratti che prima erano loro serviti da nascondigli. Ma la conformazione accidentata del terreno, scelta apposta per creare problemi al nemico, andava adesso a loro discapito, impedendone i movimenti. Di conseguenza furono pochi quelli che riuscirono a salvarsi: vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame offerto loro dal nemico in persona.
( XXXII )
Mentre nel Sannio succedevano queste cose, ormai tutti i popoli dell'Etruria - fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo - erano corsi alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni. Il console Emilio con un esercito si mosse in quella direzione per liberare gli alleati dall'assedio. All'arrivo dei Romani, gli abitanti di Sutri portarono una grande quantità di vettovaglie nell'accampamento davanti alla città. Gli Etruschi spesero il primo giorno discutendo se accelerare o tirare in lungo la guerra. All'alba del giorno successivo, visto che i comandanti avevano deciso di optare per la soluzione più rapida anziché per la più sicura, diedero il segnale di battaglia e, armatisi, scesero in campo. Informato, il console fece immediatamente diffondere tra gli uomini l'ordine di mangiare, e di armarsi sùbito dopo essersi rimessi in forze. Una volta eseguiti gli ordini, il console, non appena li vide pronti e con le armi in pugno, fece uscire l'esercito fuori dalla trincea e lo schierò in ordine di battaglia non lontano dai nemici. Per qualche tempo entrambe le parti si studiarono, nell'attesa che l'avversario alzasse per primo il grido di guerra e desse inizio alla battaglia. Ma mezzogiorno passò senza che da una parte e dall'altra venisse lanciata una sola freccia. Poi gli Etruschi, per non doversi ritirare senza risultato, levarono il grido di battaglia e si lanciarono all'assalto al suono delle trombe. Ma anche i Romani si gettarono nella mischia con non minore determinazione. Si scontrarono con estrema animosità: se i nemici erano numericamente superiori, i Romani sopravanzavano per coraggio, e l'incertezza dello scontro fece molte vittime da entrambe le parti; caddero tutti i più forti in campo. La situazione rimase in bilico finché la seconda linea romana non diede il cambio alla prima, con gli uomini freschi al posto di quelli ormai provati. Gli Etruschi, poiché non avevano a disposizione riservisti freschi a supporto della prima linea, caddero in massa davanti e intorno alle loro insegne. In nessun'altra battaglia la strage sarebbe stata più impressionante e più esiguo il numero dei fuggiaschi, se il buio non avesse protetto gli Etruschi, la cui ostinazione a combattere era tanta che i vincitori abbandonarono la battaglia prima dei vinti. Dopo il tramonto venne dato il segnale della ritirata, e nella notte i due eserciti fecero rientro ai rispettivi accampamenti. Nella parte residua dell'anno, presso Sutri non accadde nulla che fosse degno di essere ricordato, perché l'intera prima linea dell'armata nemica era stata distrutta in quell'unica battaglia, e agli Etruschi rimanevano solo i riservisti, appena sufficienti per difendere l'accampamento. Ma anche da parte romana i feriti furono molti, al punto che i morti a séguito di ferite contratte furono più numerosi dei caduti in battaglia.
( XXXIII )
Quinto Fabio, console l'anno successivo, assunse il comando delle operazioni sotto Sutri. Suo collega fu Gaio Marcio Rutilo. Fabio portò anche rinforzi da Roma, mentre per gli Etruschi arrivò un nuovo esercito dalle loro terre. Era già da molti anni che tra magistrati patrizi e tribuni della plebe non c'erano motivi di contrasto, quand'ecco che un attrito venne causato dalla famiglia cui sembrava fosse toccato in sorte il destino di essere in perenne lite con i tribuni e con la plebe. Il censore Appio Claudio, a diciotto mesi di distanza dalla fine del suo mandato (era l'arco di tempo previsto dalla legge Emilia), benché il suo collega Gaio Plauzio avesse rinunciato alla magistratura, non si lasciò convincere da alcun tipo di pressione a fare altrettanto. Tribuno della plebe era Publio Sempronio, il quale aveva intrapreso un'azione legale per far sì che alla censura venisse posto termine entro il limite cronologico previsto dalla norma, azione non meno popolare che giusta, e non meno gradita al popolo che ai patrizi. Il tribuno, dopo aver letto e riletto la legge Emilia e aver elogiato il dittatore Mamerco Emilio che l'aveva presentata, perché aveva ridotto a diciotto mesi il limite della censura prima quinquennale, diminuendo così l'eccesso di potere che la lunga durata conferiva a quella magistratura, così parlò: «Ebbene, Appio Claudio, dimmi che cosa avresti fatto se tu fossi stato censore quando lo furono Gaio Furio e Marco Geganio?». Appio rispose che la domanda del tribuno non aveva troppa pertinenza col suo caso: infatti anche se la legge Emilia aveva colpito i censori durante il cui mandato essa era stata promulgata, poiché il popolo aveva approvato la legge dopo l'elezione di quei censori (e la volontà espressa dal popolo ha valore di legge), ciò non ostante né lui né chiunque altro fosse stato nominato censore dopo l'approvazione di quella legge poteva esser tenuto a rispettarla.
( XXXIV )
Mentre Appio Claudio ricorreva a questi cavilli, senza tuttavia trovare alcuno che lo sostenesse, Sempronio disse: «Ecco a voi, Quiriti, un discendente di quell'Appio che, eletto decemviro per un anno, l'anno successivo si nominò da solo, e nel corso del terzo anno - pur non essendo stato nominato né da se stesso né da alcun altro - mantenne le insegne del potere anche come privato cittadino, e abbandonò la carica soltanto quando fu travolto da un potere male acquisito, mal gestito e mal conserva-to. Questa è la stessa famiglia che a forza di violenze e di soprusi vi spinse, esuli dalla terra natia, a ritirarvi sul monte Sacro. La stessa contro la quale voi vi siete tutelati creando l'intercessione dei tribuni. La stessa per colpa della quale due vostri eserciti sono andati ad accamparsi sull'Aventino, la stessa che si è sempre schierata contro le leggi sul tasso di interesse e le leggi agrarie. È stata questa famiglia a opporsi ai matrimoni tra patrizi e plebei, e a sbarrare alla plebe la strada alle magistrature curuli: per la vostra libertà questo è un nome molto più pericoloso di quello dei Tarquini. Dunque, Appio Claudio, pur essendo già trascorsi cento anni dalla dittatura di Mamerco Emilio, dei tanti censori che ci sono stati - uomini tra i più nobili e validi -, possibile che nessuno di loro abbia letto le XII tavole? Che nessuno di loro fosse al corrente che l'ultima deliberazione presa dal popolo ha valore di legge? A essere sinceri lo sapevano tutti, e proprio per questo hanno obbedito alla legge Emilia piuttosto che a quella in virtù della quale vennero nominati i primi censori, perché era questa l'ultima approvata dal popolo, e poi perché, nel caso di due leggi in contrasto, è sempre la nuova ad abrogare la vecchia. Oppure sostieni, o Appio, che il popolo non è tenuto a rispettare la legge Emilia? O che il popolo è tenuto a farlo, mentre tu sei il solo a esserne esentato? La legge Emilia vincolò quei censori violenti, Gaio Furio e Marco Geganio, i quali dimostrarono quale sia il danno potenzialmente arrecabile allo Stato da quella magistratura, nel momento in cui, volendosi vendicare della limitazione imposta alla loro autorità, retrocedettero nell'ultima classe Mamerco Emilio, l'uomo migliore del suo tempo in pace e in guerra. Quella legge ha poi vincolato cento anni di censori, e adesso è un vincolo per il tuo collega Gaio Plauzio, eletto in base ai tuoi stessi auspici e dotato dei tuoi stessi diritti. Oppure il popolo non lo ha eletto censore con pieni diritti? Sei tu la sola eccezione, e vale soltanto per te questo bizzarro e unico privilegio? Ma allora quale re dei sacrifici nomineresti? Visto che ha il nome di re, potrà credere di essere nominato re di Roma con pieni diritti? A chi pensi che basterà una dittatura di sei mesi o un interregno di cinque giorni? Chi avrai il coraggio di eleggere dittatore solo per piantare un chiodo o per far svolgere i giochi? Come devono sembrare stupidi e insensati a quest'uomo coloro che, compiute gesta memorabili, rinunciarono alla dittatura a venti giorni dalla nomina, o quelli che rinunciarono all'incarico per essere stati eletti in maniera irregolare! Ma perché andare a frugare nel passato? Di recente, circa dieci anni or sono, il dittatore Gaio Menio, mentre stava conducendo un'inchiesta con un rigore eccessivo per la sicurezza di taluni potenti, accusato dai propri nemici dello stesso reato sul quale stava indagando, rinunciò alla dittatura per poter affrontare l'accusa nelle vesti di privato cittadino. Da te non pretendo certo una simile misura, ma non voglio nemmeno che tu finisca per tralignare da una famiglia superba e arrogante quanto nessun'altra: non abbandonare la tua carica un solo giorno e una sola ora prima del dovuto, lìmitati soltanto a non superare il termine previsto. Ti è sufficiente aggiungere alla censura un giorno o un mese? "Terrò la censura" replichi tu "tre anni e sei mesi più del limite concesso dalla legge Emilia, e lo farò da solo". Ma questo sì che è come essere re! Oppure nominerai al posto di Plauzio un altro collega, quando non è consentito sostituire nemmeno un censore defunto? Non ti rimorde, o meticoloso censore pieno di scrupoli, di aver sottratto un rito antichissimo - il solo istituito di persona dal dio in onore del quale viene celebrato - ai nobilissimi sacerdoti di quel culto, per affidarlo a servi dello Stato, e di vedere una famiglia più antica delle origini di questa città, sacra per aver offerto ospitalità agli dèi immortali, estinguersi sin nelle radici nell'arco di un anno e solo per colpa tua e della tua censura? No, tu vuoi contaminare la repubblica tutta con quell'istinto criminoso che la mia mente inorridisce anche solo a nominare! Roma finì in mano nemica in quel lustro durante il quale, morto il censore Gaio Giulio, il collega Lucio Papirio Cursore, per non rinunciare alla carica, nominò al suo posto Marco Cornelio Maluginense. E quanto più misurata fu la sua ambizione, Appio! Infatti Lucio Papirio non detenne la censura da solo né oltre i termini consentiti dalla legge. Eppure non trovò nessuno che in séguito si uniformasse alla sua iniziativa: col passare del tempo, tutti i censori rinunciarono alla carica dopo la morte del collega. Tu non ti fai trattenere né dalla scadenza del termine prefissato per la censura, né dalle dimissioni del collega e neppure dalla legge e dalla vergogna. Tu ritieni che l'arroganza sia una virtù, e così la sfrontatezza e il disprezzo degli dèi e degli uomini. Per la maestà e il rispetto dovuto alla magistratura che hai detenuto, Appio Claudio, vorrei non solo evitare di arrivare alla violenza, ma anche di rivolgerti una sola parola meno che riguardosa. La tua caparbietà e la tua arroganza mi hanno però costretto a usare le parole che hai appena sentito, e se non ti atterrai alla legge Emilia, darò ordine di farti arrestare. E siccome i nostri avi hanno stabilito che, nelle elezioni a censore, se due candidati non hanno raggiunto il tetto di voti previsto dalla legge, si ripeta la votazione, senza però nominare censore il solo candidato che abbia raggiunto il tetto di voti previsto, dato che tu non puoi nominarti censore da solo, adesso io non permetterò che tu eserciti da solo la censura». Pronunciato questo discorso, ordinò di arrestare e imprigionare Appio. Mentre sei dei tribuni approvarono l'azione proposta dal collega, furono in tre a intercedere per Appio il quale aveva fatto ricorso all'appello. E così egli tenne da solo la censura, tra il disprezzo di tutte le classi di cittadini.
( XXXV )
Mentre a Roma si verificavano questi fatti, Sutri era stretta d'assedio dagli Etruschi, e il console Fabio, che stava guidando l'esercito lungo le pendici dei monti Cimini per portare aiuto agli alleati e attaccare i dispositivi di difesa dei nemici, se avesse trovato qualche passaggio praticabile, si imbatté nell'esercito etrusco schierato in ordine di battaglia. L'ampia pianura sottostante gli permetteva di constatare che le forze del nemico erano cospicue, e cercando di sopperire all'inferiorità numerica dei suoi con la posizione occupata, fece loro deviare leggermente la marcia, in modo tale da farli risalire lungo il declivio (che era scosceso e coperto di massi); quindi rivolse il fronte contro il nemico. E gli Etruschi, non pensando ad altro che alla loro superiorità numerica, nella quale avevano una cieca fiducia, si buttarono nella mischia con una foga e una impazienza tali che, per arrivare il più in fretta possibile al corpo a corpo, gettarono a terra le aste e avanzarono contro gli avversari con le spade sguainate. I Romani, invece, non smettevano di scagliare verso il basso tanto i loro giavellotti quanto i sassi, arma questa offerta in abbondanza dal luogo. Pertanto per gli Etruschi non era facile arrivare al corpo a corpo perché, anche quando non venivano feriti, rimanevano storditi dai colpi che piovevano sugli elmi e sugli scudi, e non avevano armi da lancio con le quali affrontare il combattimento a distanza. E mentre restavano fermi, esposti ai colpi, senza che ormai nulla li potesse più proteggere, e alcuni cominciavano a ritornare sui propri passi, gli hastati e i principes, levando di nuovo il grido di battaglia, si lanciarono con le spade in pugno contro quella massa instabile e ondeggiante. Gli Etruschi non ressero l'urto, e voltate le spalle fuggirono disordinatamente in direzione dell'accampamento. Ma i cavalieri romani attraversarono la pianura in diagonale, andando a sbarrare la strada ai fuggitivi, che, rinunciando a raggiungere l'accampamento, ripiegarono verso i monti. Di lì, quasi disarmati e ridotti a mal partito dalle ferite, si rifugiarono nella selva Ciminia. I Romani, dopo aver massacrato parecchie migliaia di Etruschi e aver loro sottratto trentotto insegne militari, si impadronirono anche dell'accampamento nemico, raccogliendovi un grosso bottino. Fu allora che si iniziò a pensare al modo di dare la caccia al nemico.
( XXXVI )
In quel tempo la selva Ciminia era più impervia e spaventosa di quanto non siano di recente sembrate le foreste della Germania, e fino ad allora non l'aveva mai attraversata nessuno, nemmeno dei mercanti. E quasi nessuno, fatta eccezione per il comandante in persona, aveva il coraggio di addentrarvisi: in tutti gli altri era ancora vivo il ricordo della disfatta di Caudio. Allora, tra i presenti, il fratello del console Marco Fabio (altri sostengono si chiamasse Cesone, altri ancora Gaio Claudio, indicandolo come fratello del console soltanto per parte di madre) disse che sarebbe andato in avanscoperta e che di lì a poco avrebbe riportato notizie sicure. Cresciuto a Cere presso suoi ospiti, aveva avuto un'istruzione a base di lettere etrusche e parlava bene l'etrusco. Secondo alcuni autori, come adesso si ha l'abitudine di istruire i ragazzi romani nelle lettere greche, allo stesso modo in quel tempo li si istruiva in quelle etrusche. Ma è più vicino alla verità il fatto che l'uomo che andò a mescolarsi tra i nemici con una messinscena tanto temeraria avesse già avuto qualche esperienza in tal senso. A quanto sembra fu accompagnato soltanto da uno schiavo, che era cresciuto con lui e quindi aveva una certa competenza in quella stessa lingua. Prima di partire, dell'area in cui stavano per addentrarsi non avevano alcuna cognizione, se non qualche sommario ragguaglio circa la natura del luogo e i nomi dei capi delle varie popolazioni, sui quali avevano preso informazioni per evitare di essere smascherati da esitazioni su fatti risaputi. Partirono vestiti da pastori, con addosso armi da campagna, una falce e due spiedi a testa. Ma a proteggerli non furono tanto la conoscenza della lingua né il tipo di armi o di vesti, quanto piuttosto il fatto che nessuno si potesse immaginare uno straniero addentratosi nella selva Ciminia. Pare siano arrivati fino agli Umbri Camerti. Lì Fabio ebbe il coraggio di rivelare la loro identità e, introdotto nel senato locale, a nome del console propose di stipulare un trattato di amicizia e di alleanza. Gli riservarono una generosa ospitalità, e lo pregarono di riferire ai Romani che, se il loro esercito si fosse spinto in quella zona, avrebbe avuto a disposizione cibo per trenta giorni, e che la gioventù degli Umbri Camerti sarebbe stata pronta a prendere le armi agli ordini dei Romani. Quando queste cose vennero riferite al console, alle prime luci della sera, mandati avanti gli uomini con i bagagli, diede ordine alla fanteria di seguirli. Egli rimase fermo con la cavalleria e alle prime luci del giorno successivo passò a cavallo di fronte ai posti di guardia nemici collocati al di fuori del bosco. Dopo aver impegnato per qualche tempo i nemici, rientrò all'accampamento e uscendo dalla porta opposta raggiunse la fanteria prima del buio. All'alba del giorno dopo aveva già raggiunto le cime dei monti Cimini. E dopo aver contemplato da quel punto le ricche terre d'Etruria, inviò i suoi uomini a metterle a ferro e fuoco. E i Romani avevano già raccolto un bel bottino, quando si trovarono di fronte squadre raccogliticce di contadini etruschi formate in tutta fretta dai capi della zona, ma in maniera così disordinata, che quanti erano venuti a riprendersi la preda per poco non finirono essi stessi oggetto di preda. Dopo aver eliminato o messo in fuga i nemici, e dopo aver razziato in lungo e in largo le campagne, i Romani rientrarono al campo in trionfo e carichi di ogni avere. Lì erano arrivati casualmente cinque delegati e due tribuni della plebe per comunicare a Fabio l'ordine del senato di non attraversare la selva Ciminia. Felicitatisi per essere arrivati troppo tardi per impedire lo scoppio della guerra, rientrarono a Roma ad annunciare la vittoria.
( XXXVII )
Invece di porre termine alla guerra, questa spedizione del console ne aveva ampliato il raggio: infatti le genti che abitavano ai piedi dei monti Cimini erano state gravemente danneggiate dalle incursioni romane, e avevano contagiato con il loro risentimento non solo i popoli dell'Etruria, ma anche quelli confinanti dell'Umbria. Per questo motivo misero insieme nei pressi di Sutri un esercito più numeroso di quanto non avessero mai fatto prima, e non si limitarono soltanto a trasferire l'accampamento al di là della selva ma, per l'impazienza di arrivare allo scontro, portarono anche l'esercito nella pianura. Poi, schieratisi in ordine di battaglia, in un primo tempo rimasero fermi sulle loro posizioni, lasciando ai Romani lo spazio necessario per disporsi di fronte. Vedendo però che i nemici si rifiutavano di venire a battaglia, si presentarono sotto la trincea. Quando poi si resero conto che anche le postazioni più avanzate erano state ritirate all'interno delle fortificazioni, si levò sùbito dalle file un urlo rivolto ai comandanti, col quale chiedevano venissero loro portati dall'accampamento i viveri per quel giorno. Sarebbero rimasti lì con le armi in pugno, e nel corso della notte - o, al più tardi, alle prime luci del giorno - avrebbero attaccato il campo nemico. L'esercito romano, pur essendo certo non meno impaziente, venne trattenuto sul posto dalle disposizioni del comandante. Erano più o meno le quattro del pomeriggio, quando il console ordinò ai soldati di consumare il rancio, e li avvisò di farsi trovare armati, in qualunque ora del giorno o della notte egli avesse dato il segnale di attacco. Rivolse un breve discorso alle truppe, esaltando le guerre contro i Sanniti, sminuendo gli Etruschi, e sostenendo che i due nemici non erano da mettere sullo stesso piano né per valore né per numero di effettivi. Aggiunse poi che vi era un'altra arma segreta che avrebbero conosciuto a tempo debito, ma che per il momento era necessario rimanesse nascosta. Con questi accenni sibillini voleva alludere al fatto che i nemici erano minacciati alle spalle, e lo faceva per confortare il morale dei soldati, spaventati dalla grande quantità dei nemici. La messinscena era resa più verosimile dal fatto che il nemico aveva preso posizione senza però costruire dispositivi di difesa. Dopo aver ridato vigore ai corpi col rancio, si lasciarono andare al sonno. Furono svegliati verso le quattro del mattino e presero le armi senza fare rumore. Ai portatori vennero distribuite le asce per abbattere il terrapieno e riempire le fosse. L'esercito venne schierato al di qua delle fortificazioni, mentre le coorti scelte furono piazzate alle uscite delle porte. Avendo poi ricevuto il segnale poco prima dell'alba - ovvero l'ora che nelle notti d'estate è più propizia al sonno intenso -, l'esercito abbatté il terrapieno e saltò fuori, assalendo i nemici coricati in maniera disordinata. La morte ne sorprese alcuni del tutto immobili, altri mezzo addormentati nei loro giacigli, e la maggior parte mentre cercava affannosamente di prendere le armi. Soltanto a pochi venne lasciato il tempo di armarsi: ma anche questi, non avendo insegne da seguire e comandanti cui obbedire, vennero sbaragliati, messi in fuga e inseguiti. Disseminati in tutte le direzioni, tentarono di raggiungere l'accampamento o il fitto della boscaglia. E furono proprio le selve a offrire un rifugio più sicuro, perché l'accampamento situato in aperta campagna venne catturato nel corso di quello stesso giorno. L'ordine fu di consegnare oro e argento al console, mentre tutto il resto venne lasciato ai soldati. Quel giorno furono uccisi o fatti prigionieri 60.000 nemici. Alcuni autori sostengono che questa battaglia tanto gloriosa fu combattuta al di là della selva Ciminia nei pressi di Perugia, e che a Roma si stette in grande ansia, per paura che l'esercito tagliato fuori da quel bosco impraticabile che faceva da barriera venisse sopraffatto dagli Etruschi e dagli Umbri insorti da ogni parte. Ma in qualunque punto sia avvenuta la battaglia, è certo che a vincere furono i Romani. Da Perugia, Cortona e Arezzo, che a quell'epoca erano le città più in vista di tutto il mondo etrusco, arrivarono ambasciatori con richieste di pace e alleanza rivolte ai Romani. Venne loro concessa una tregua di trent'anni.
( XXXVIII )
Mentre in Etruria erano in corso questi avvenimenti, l'altro console Gaio Marcio Rutilo strappò ai Sanniti la città di Alife conquistandola con la forza. Molte altre fortezze e villaggi vennero conquistati e distrutti oppure finirono in mano ai Romani ancora del tutto integri. Nel contempo la flotta romana, pilotata verso la Campania da Publio Cornelio, cui il senato aveva affidato il cómpito di vigilare sulle coste, sbarcò a Pompei, e di lì i contingenti della marina forniti dagli alleati puntarono su 217 Nocera per saccheggiarne il territorio. Dopo fulminee razzie nelle zone dei dintorni, da dove era più facile rientrare alle navi, attirati - come spesso accade - dalla sete di fare bottino, si spinsero troppo nell'interno, attirandosi addosso i nemici. Per tutto il tempo che rimasero disseminati per la campagna, dove avrebbero potuto essere fatti a pezzi dal primo all'ultimo, per fortuna non si imbatterono in nessuno. Invece, proprio mentre tornavano sui loro passi marciando senza alcuna precauzione, vennero raggiunti non lontano dalle navi dai villici della zona che si ripresero il bottino, uccidendone anche un certo numero. Il manipolo disordinato dei superstiti si rifugiò sulle navi in preda al panico. La notizia che Quinto Fabio si era addentrato nella selva Ciminia, così come aveva tenuto Roma in apprensione, allo stesso modo era stata motivo di tripudio per i Sanniti, per i quali era come se l'esercito romano, tagliato fuori dalla patria, si trovasse in stato d'assedio: per i Romani si profilava una disfatta pari a quella delle Forche Caudine. Quella gente, perennemente avida di nuove conquiste, era stata spinta dalla temerarietà di sempre in quelle regioni inospitali, dove adesso era circondata dall'impraticabilità dei luoghi più che dalle armi nemiche. Ma la gioia si mescolava già con una certa quale invidia, perché la sorte aveva trasferito dai Sanniti agli Etruschi l'onore della guerra contro Roma. Per questo, dopo aver raccolto uomini e armi, si misero in movimento per schiacciare il console Gaio Marcio, e se quest'ultimo non avesse accettato di dare battaglia, avevano intenzione di trasferirsi immediatamente in Etruria passando attraverso i territori dei Marsi e dei Sabini. Il console li andò ad affrontare, e lo scontro dall'esito incerto che ne seguì fu durissimo. Benché entrambe le parti avessero avuto perdite ugualmente gravi, tuttavia la voce comune attribuì ai Romani la sconfitta, perché avevano perso degli uomini di rango equestre, alcuni tribuni militari, un luogotenente e - ciò che aveva suscitato maggiore scalpore - era rimasto ferito addirittura il console. Poiché le voci avevano ingigantito la sconfitta, come sempre succede, i senatori vennero presi dal panico al punto da voler nominare un dittatore, e nessuno aveva dubbi sul fatto che la scelta sarebbe caduta su Papirio Cursore, considerato il miglior generale del suo tempo. Però non si era sicuri di poter fare arrivare la notizia nel Sannio, dato che tutta la regione pullulava di nemici, né si era al corrente se il console Marcio fosse ancora vivo. L'altro console, poi, era un nemico personale di Papirio. Per evitare che questo attrito andasse a discapito degli interessi dello Stato, il senato decise di mandare a Fabio una delegazione composta di ex consoli, i quali, avvalendosi del proprio prestigio personale, oltre che dell'autorità conferita loro dallo Stato, lo convincessero a dimenticare la rivalità di un tempo in nome del bene della patria. Quando gli ambasciatori arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero comunicato la decisione del senato, descrivendola con parole all'altezza dell'incarico ricevuto, il console abbassò gli occhi a terra e si allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che decisione avrebbe potuto prendere. Poi, nel silenzio della notte (come tradizione vuole), nominò dittatore Lucio Papirio. Quando gli inviati lo ringraziarono per aver piegato al meglio la propria disposizione d'animo, Fabio rimase ostinatamente in silenzio, e senza fornire risposta o commenti al suo gesto, licenziò gli inviati, perché fosse chiaro che grande dolore il suo animo stesse soffocando. Papirio scelse come maestro di cavalleria Gaio Giunio Bubulco. Mentre era impegnato a presentare ai comizi curiati la legge che gli conferiva l'autorità, venne costretto a rimandare il rituale da un presagio di cattivo augurio. La votazione, infatti, era iniziata dalla curia Faucia, celebre per due disastri, e cioè la presa di Roma e la pace di Caudio: ora, in entrambi gli anni in cui quei fatti si erano verificati, la sorte aveva affidato alla stessa curia il cómpito di avviare la votazione. Licinio Macro aggiunge che quella curia era di cattivo augurio anche per una terza disfatta, ovvero quella subita nei pressi del Cremera.
( XXXIX )
Il giorno successivo, rinnovati gli auspici, il dittatore fece approvare la legge. Partito da Roma con le legioni appena arruolate sull'onda del panico generato dalla notizia che l'esercito aveva superato la selva Ciminia, giunse nei pressi di Longula. Ricevute dal console Marcio le legioni già in servizio, schierò i suoi in ordine di battaglia. E i nemici non parvero riluttanti all'idea di combattere. Quando le due parti erano già schierate e con le armi in pugno, senza però che nessuna delle due volesse iniziare il combattimento, vennero sorprese dal calar della notte. Rimasti inattivi per qualche tempo da quel momento in poi, pur non mancando di fiducia nei propri mezzi né sottovalutando il nemico, i due contendenti collocarono i rispettivi accampamenti fissi a breve distanza l'uno dall'altro. Anche contro gli Umbri i Romani si misurarono in campo aperto: i nemici furono messi in fuga, subendo però poche perdite, perché non resistettero a lungo allo scontro, nel quale si erano lanciati con estremo accanimento. Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in passato. La battaglia venne combattuta con un furore tale, che nessuno dei due contendenti arrivò a scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato con le spade divenne via via sempre più acre, mantenendosi a lungo nell'incertezza, al punto che i Romani non avevano l'impressione di combattere contro gli Etruschi già sconfitti tante altre volte, ma contro qualche popolo nuovo. Nessuna delle due parti accennava alla fuga: gli uomini della prima linea crollarono e, per evitare che i reparti restassero privi di copertura, la seconda fila rimpiazzò la prima. Poi vennero chiamati allo scontro anche gli ultimi riservisti. E la situazione arrivò a essere talmente critica, che i cavalieri romani, scendendo da cavallo, raggiunsero le prime file di fanti avanzando tra le armi e i corpi dei caduti. Entrati in campo, come un esercito fresco, in mezzo a uomini stanchi, gettarono lo scompiglio tra le linee etrusche. Seguendo poi il loro slancio, il resto delle truppe, pur allo stremo delle forze, riuscì finalmente a prevalere sullo schieramento nemico. Allora la tenacia degli Etruschi cominciò a cedere e alcuni manipoli presero a indietreggiare, dandosi inequivocabilmente alla fuga non appena ebbero voltato le spalle. Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo.
( XL )
Poco tempo dopo i Romani corsero un pericolo analogo, riportando però un successo altrettanto netto contro i Sanniti i quali, oltre agli altri preparativi militari, avevano fatto sì che le loro armate fossero più splendenti grazie a una nuova e brillante armatura. Gli eserciti erano due: uno aveva lo scudo cesellato in oro, l'altro in argento. La forma dello scudo era questa: più largo in alto per coprire il petto e le spalle, il bordo livellato e, sul fondo, fatto a cuneo per renderlo più maneggevole. A protezione del torace avevano una corazza spugnosa, mentre per la gamba sinistra c'era uno schiniere. Gli elmi erano dotati di cresta, per accrescere l'imponenza delle persone. Le tuniche dei soldati provvisti di scudo dorato erano di varie tinte, mentre quelle dei soldati con lo scudo d'argento erano di lino bianchissimo. Ai primi venne affidata l'ala sinistra, ai secondi la destra. Ma i Romani erano già stati informati di quell'armatura splendente, e i comandanti avevano ricordato loro che il soldato deve avere un aspetto rude, non avere addosso armi cesellate d'oro e d'argento, ma confidare nella propria spada e nel proprio valore. A essere sinceri, non armi erano quelle, ma futuro bottino: brillanti prima dello scontro, segno di infamia tra il sangue e le ferite. Il valore era l'ornamento dei soldati: tutto quel prezioso splendore sarebbe stato il séguito della vittoria, e un nemico ricco era il premio del vincitore, per quanto povero questi potesse essere. Risollevati i suoi uomini con queste parole, Cursore li guidò in battaglia. Egli andò ad occupare l'ala destra, mentre alla sinistra collocò il maestro di cavalleria. All'inizio dello scontro la lotta col nemico fu accesa, e non meno viva la competizione tra il dittatore e il maestro di cavalleria per stabilire chi avesse dato il via per primo alla vittoria. Il destino volle che Giunio fosse il primo a far indietreggiare i nemici, attaccando con l'ala sinistra il fianco destro del nemico (composto di uomini votatisi agli dèi, secondo la tradizione sannita, e per questo vestiti tutti di bianco). Proclamando che avrebbe immolato i nemici all'Orco, Giunio si lanciò all'attacco e ne scompigliò le file, costringendo il fronte a indietreggiare sensibilmente dalla sua linea. Quando il dittatore se ne accorse, disse: «Allora la vittoria inizierà dall'ala sinistra, e l'ala destra, con le truppe del dittatore, starà a guardare le sorti del combattimento altrui, non farà la parte del leone nella vittoria?». Con questo intervento infiammò gli animi dei suoi soldati, e i cavalieri non furono da meno dei fanti quanto a valore dimostrato, così come i luogotenenti non lo furono rispetto ai comandanti. Marco Valerio all'ala destra, Publio Decio a sinistra (entrambi ex consoli), si lanciarono dalla parte dei cavalieri schierati alle due ali, esortandoli a conquistarsi la loro parte di gloria. Poi andarono all'assalto in diagonale contro i fianchi del nemico. Poiché questa nuova minaccia si era abbattuta sullo schieramento avversario da entrambe le parti, e la fanteria romana, vedendo i Sanniti in preda al panico, aveva di nuovo levato il grido di battaglia prendendo ad avanzare, i Sanniti cominciarono a fuggire. Le campagne già erano ingombre di cumuli di cadaveri e armi luccicanti. In un primo momento i Sanniti, terrorizzati, si andarono a rifugiare nell'accampamento; poi però non riuscirono a tenere nemmeno questo, che prima del calar della notte venne conquistato, saccheggiato e dato alle fiamme. Su decreto del senato il dittatore ottenne il trionfo, il cui più splendido ornamento furono le armi strappate ai Sanniti. Semb rarono così straordinarie, che gli scudi dorati furono consegnati ai banchieri, affinché fungessero da addobbo per il Foro. Si dice che di lì sia nato l'uso degli edili di adornare il Foro per le processioni solenni sui carri. Mentre i Romani utilizzarono le armi dei nemici per rendere omaggio agli dèi, i Campani, per sfrontatezza e risentimento verso i Sanniti, dotarono con quelle armature i gladiatori che si esibivano durante i banchetti, e diedero loro il nome di Sanniti. Nello stesso anno il console Fabio combatté contro i resti dell'esercito etrusco nei pressi di Perugia, che aveva violato la tregua, e conseguì una vittoria facile e netta. E avrebbe anche espugnato con la forza la città - alle cui mura si stava già avvicinando dopo la vittoria -, se non ne fossero usciti ambasciatori a offrire la resa. Lasciata una guarnigione armata a Perugia, il console mandò avanti in senato, a Roma, gli ambasciatori etruschi con la richiesta di un trattato di amicizia, ed entrò poi in città in trionfo, dopo aver conseguito una vittoria ancora più memorabile di quella del dittatore. A dir la verità, gran parte del merito della sconfitta inflitta ai Sanniti venne attribuito ai luogotenenti Publio Decio e Marco Valerio, i quali, nel corso delle successive elezioni, vennero nominati con ampia maggioranza console il primo e pretore il secondo.
( XLI )
Come premio per la brillante sottomissione dell'Etruria Fabio ottenne il prolungamento del consolato, avendo Decio come collega. Valerio venne eletto pretore per la quarta volta. I consoli si divisero tra loro gli incarichi: a Decio toccò in sorte l'Etruria, mentre a Fabio andò il Sannio. Partito alla volta di Nocera Alfaterna, Fabio, dopo aver respinto la richiesta di pace fatta da quella città (perché non aveva voluto accettarla quando essa era stata offerta dai Romani), la attaccò costringendola alla resa incondizionata. Affrontò poi in campo aperto i Sanniti, sconfiggendoli senza eccessivo impegno. Di questa battaglia non ne sarebbe rimasta notizia, se nell'occasione i Marsi non avessero combattuto per la prima volta contro i Romani. Alla defezione dei Marsi seguì quella dei Peligni, che andarono incontro allo stesso destino. La guerra ebbe esito positivo anche per l'altro console, Decio, il quale spaventò i Tarquiniensi al punto tale da costringerli a fornire frumento all'esercito e a chiedere una tregua quarantennale. Prese poi con la forza alcune roccaforti degli abitanti di Volsinii, distruggendone una parte, per evitare che offrissero rifugio ai nemici. Scorrazzando e devastando in lungo e in largo la zona, seminò un panico tale da portare l'intera gente etrusca a chiedere al console un trattato di pace. Il trattato fu negato, mentre venne concessa una tregua di un anno, il cui prezzo fu il pagamento all'esercito romano dello stipendio di quell'anno in corso, e la fornitura di due tuniche a ogni soldato. A turbare la situazione ormai sotto controllo in Etruria fu la sollevazione degli Umbri, popolo che non aveva avuto ancora contatti con i disastri della guerra, salvo il fatto di aver subito da parte dei Romani devastazioni delle campagne. Chiamati alle armi tutti i loro giovani e sobillata gran parte degli Etruschi a ricominciare la guerra, gli Umbri 219 raccolsero un esercito tanto massiccio che, lasciatisi alle spalle Decio in Etruria, nutrivano il baldanzoso progetto di porre l'assedio a Roma, e nei loro discorsi mostravano grande fiducia nei propri mezzi e disprezzo per i Romani. Quando la notizia dei loro movimenti arrivò alle orecchie del console Decio, questi a marce forzate si diresse dall'Etruria a Roma, fermandosi nella regione di Pupinia, in attesa di notizie sul nemico. A Roma la guerra contro gli Umbri non veniva trascurata, e già soltanto le minacce lanciate dal nemico avevano spaventato la gente, che in occasione del disastro causato dai Galli avevano già avuto modo di saggiare quanto fosse insicura la posizione della città. E proprio per questo inviarono una delegazione al console Fabio con l'ordine di portare immediatamente l'esercito in Umbria, se solo la guerra contro i Sanniti gli avesse lasciato un attimo di tregua. Il console obbedì, e si diresse a marce forzate verso Mevania, dove in quel momento si trovavano le forze degli Umbri. L'arrivo improvviso del console, che i nemici credevano fosse lontano dall'Umbria alle prese con un altro conflitto nel Sannio, li terrorizzò a tal punto che c'era chi proponeva di barricarsi all'interno delle mura, chi invece di lasciar perdere la guerra. Una sola popolazione - da loro chiamata Materina - non si limitò soltanto a convincere le altre a rimanere in armi, ma le trascinò sùbito allo scontro. Assalirono Fabio mentre era impegnato a fortificare il campo. E il console, quando li vide riversarsi in massa contro le difese, richiamò i soldati dalle loro occupazioni e li schierò come la conformazione del terreno e le circostanze gli permettevano. Li esortò ricordando con parole accorate i grandi riconoscimenti militari ottenuti combattendo sia in Etruria sia nel Sannio, e li invitò a porre fine a quella ridicola appendice della guerra con gli Etruschi, e a far scontare agli Umbri le loro scellerate dichiarazioni, che minacciavano un attacco a Roma. Le sue parole suscitarono un entusiasmo tale negli uomini da portarli a levare un urlo spontaneo col quale interruppero il discorso del comandante. Prima ancora di ricevere l'ordine, prima che i corni e le trombe si mettessero a suonare, si lanciarono contro il nemico correndo col cuore in gola. Si gettarono come se gli altri non fossero guerrieri, quasi non indossassero le armi. E - cosa questa ben più difficile a credersi - cominciarono a strappare di mano le insegne agli alfieri, per poi trascinare addirittura gli alfieri di fronte al console, spingere tra le linee romane i soldati nemici con ancora le armi in pugno e, là dove la lotta infuriava, servirsi più degli scudi che delle spade, scaraventando a terra gli avversari con la punta dello scudo o con una spallata. Il numero dei prigionieri superò quello dei caduti, mentre per tutto il campo si sentiva soltanto una voce, ovvero quella dei vincitori che li invitavano a deporre le armi. Fu così che, nel mezzo dello scontro, si arresero proprio quelli che avevano scatenato la guerra. L'indomani e i giorni successivi si arresero anche le altre tribù di Umbri: agli abitanti di Ocricoli venne però formalmente promesso che sarebbero stati accolti tra gli amici di Roma.
( XLII )
Fabio, trionfatore in una guerra destinata dalla sorte al comando di altri, riportò l'esercito nella zona di sua competenza. Perciò, a séguito di quelle imprese tanto fortunate, come l'anno prima il popolo gli aveva concesso di ripetere il consolato, così adesso il senato (non ostante l'opposizione soprattutto di Appio) gli prorogò il comando delle operazioni per l'anno successivo, durante il quale furono eletti consoli Appio Claudio e Lucio Volumnio. In alcuni annali ho trovato che Appio aveva presentato la sua candidatura al consolato quand'era ancora censore, e che il tribuno della plebe Lucio Furio aveva opposto il proprio veto a tale elezione, fino a quando non avesse rinunciato alla censura. Nominato console, mentre al collega venne affidata una nuova guerra (contro i Sallentini), Appio rimase a Roma, per incrementare il proprio potere con attività civili, dato che la gloria in campo militare era appannaggio di altri. Volumnio non ebbe motivo di dispiacersi dell'incarico toccatogli, perché ebbe la meglio in parecchi scontri e prese con la forza numerose città nemiche. Era molto generoso in materia di bottino, e tale munificità già di per sé gradita era impreziosita dalla sua affabilità: queste doti avevano spinto i suoi uomini ad affrontare fatiche e pericoli. Quinto Fabio, col grado di proconsole, affrontò in campo aperto l'esercito sannita nei pressi della città di Alife. La vittoria non presentò margini di incertezza: i nemici vennero travolti e costretti a rientrare al campo. E non sarebbe loro rimasta neppure questa possibilità, se il giorno non fosse stato ormai alla fine. Ciò non ostante vennero circondati prima del buio, e guardati a vista durante la notte, per evitare che qualcuno fuggisse. All'alba i Sanniti cominciarono a trattare la resa, ottenendo come condizioni che ciascuno di loro fosse liberato e fatto passare sotto il giogo con addosso un solo indumento. I loro alleati non ebbero alcun tipo di garanzia: furono venduti all'asta in numero di 7.000. Quanti invece avevano dichiarato di essere cittadini ernici, vennero separati e custoditi a parte, per poi essere inviati in massa da Fabio di fronte al senato di Roma. Lì venne loro chiesto se avessero combattuto come volontari oppure fossero stati arruolati con una regolare leva militare; poi furono affidati alle varie genti latine col cómpito di sorvegliarli. I consoli neoeletti, ovvero Publio Cornelio Arvina e Quinto Marcio Tremulo nominati poco tempo prima, ricevettero disposizione di aprire un'inchiesta sull'intera faccenda e di riferirne al senato. Gli Ernici si risentirono: e poiché la gente di Anagni aveva convocato l'assemblea plenaria di tutta la gente ernica nel circo oggi chiamato Marittimo, tutto il popolo ernico, con la sola eccezione di Alatri, Ferentino e Veroli, dichiarò guerra a Roma.
( XLIII )
Poiché Fabio aveva lasciato la zona, anche nel Sannio ripresero le ostilità. I Sanniti espugnarono Calazia e Sora con i presidi romani che vi si trovavano, e infierirono barbaramente sui prigionieri. Per questo Publio Cornelio venne mandato là con un esercito. A Marcio venne invece affidata la spedizione contro i nemici recenti, visto che agli Anagnini e al resto degli Ernici era già stata dichiarata guerra. In una prima fase i nemici occuparono tutti i punti strategici tra gli accampamenti dei due consoli, così che non poteva passare nemmeno un messaggero disarmato, e per parecchi giorni i consoli rimasero senza notizie preoccupandosi l'uno e l'altro delle sorti del collega. L'apprensione contagiò anche Roma, al punto che tutti i giovani vennero chiamati alle armi; furono formati così due eserciti completi 220 per affrontare gli imprevisti del caso. Ma la guerra contro gli Ernici non corrispose alle paure che aveva suscitato né alla gloria militare che quel popolo aveva dimostrato in passato. Non presero mai, da nessuna parte, alcuna iniziativa degna di essere menzionata: persi tre accampamenti nel giro di pochi giorni, scesero a patti ottenendo una tregua di trenta giorni, in maniera da poter inviare una delegazione al senato di Roma; la condizione fu che pagassero lo stipendio all'esercito, e fornissero i viveri per due mesi e una veste per ogni soldato. Il senato li indirizzò a Marcio, cui conferì con un proprio decreto pieni poteri circa le condizioni da imporre agli Ernici. Ed egli ne accettò la resa. Nel Sannio l'altro console, pur avendo la superiorità numerica, era in difficoltà per la natura impervia dei luoghi. I nemici avevano sbarrato tutte le vie di comunicazione, occupando i passi praticabili per impedire i rifornimenti. E il console, pur schierando ogni giorno il suo esercito in ordine di battaglia, non riusciva a trascinare i Sanniti allo scontro, ed era evidente che né i Sanniti avevano intenzione per il momento di accettare battaglia, né i Romani di sopportare che la guerra venisse tirata per le lunghe. L'arrivo di Marcio, accorso in aiuto del collega dopo aver sottomesso gli Ernici, tolse però ai nemici la possibilità di evitare ancora lo scontro. Infatti, siccome già prima non si ritenevano in grado di affrontare in campo aperto un solo esercito, adesso erano convinti di non avere più alcuna speranza, nel caso in cui avessero permesso ai due eserciti consolari di riunirsi. E per questo piombarono sulle truppe di Marcio che si stavano avvicinando in formazione poco compatta. Il console fece sùbito abbandonare a terra i bagagli e schierò i suoi come il caso gli permetteva. In un primo tempo arrivò al campo il frastuono delle urla, poi il polverone alzato in lontananza destò grande apprensione nell'accampamento dell'altro console. Questi immediatamente diede ordine di armarsi e, dopo aver tempestivamente schierato i suoi in ordine di battaglia, assalì il fianco delle truppe nemiche, già impegnate in un altro scontro, urlando che sarebbe stata una grossa umiliazione se avessero lasciato all'altro esercito l'onore di entrambe le vittorie, senza rivendicare per se stessi la gloria nella guerra toccata loro. Sfondarono là dove avevano attaccato e, attraversate le linee avversarie, avanzarono fino all'accampamento nemico, che presero e diedero alle fiamme perché completamente sguarnito. Quando i soldati di Marcio videro le fiamme e anche i nemici si voltarono a guardare, i Sanniti cominciarono a darsi alla fuga da una parte e dall'altra: ovunque però furono raggiunti dal massacro, senza trovare scampo in alcuna direzione. Dopo che già 30.000 nemici erano stati uccisi, il console fece suonare la ritirata. Stavano già raccogliendo le truppe complimentandosi a vicenda, quando all'improvviso apparvero all'orizzonte nuovi contingenti nemici (erano ausiliari inviati a sostegno): così la strage fu completa. Senza nemmeno aspettare l'ordine dei consoli né il segnale di battaglia, i vincitori si riversarono loro addosso, urlando che i Sanniti avrebbero dovuto iniziare la loro ferma con un duro tirocinio. I consoli non si opposero allo slancio delle legioni, consapevoli del fatto che le giovani reclute nemiche, mescolate ai veterani in rotta, non avrebbero neppure avuto il coraggio di tentare il combattimento. Il loro ragionamento non si dimostrò sbagliato: tutte le forze sannite, vecchie e nuove, fuggirono verso i monti circostanti. Ma anche l'esercito romano si diresse da quella parte, e non c'era più un punto che fosse sicuro per gli sconfitti, scacciati anche dalle alture che avevano occupato. Ormai chiedevano la pace a una voce sola. Dopo aver subito l'onere di fornire il grano per tre mesi, pagare lo stipendio per un anno e dotare ogni soldato di una tunica, i Sanniti inviarono al senato una delegazione per chiedere la pace. Cornelio rimase nel Sannio. Marcio ritornò a Roma, dove entrò in trionfo per la vittoria sugli Ernici, e gli venne decretata una statua equestre nel Foro, che fu collocata di fronte al tempio di Castore. Alle tre città erniche di Alatri, Veroli e Ferentino vennero lasciate le loro leggi, perché avevano preferito questa condizione alla cittadinanza romana, e fu loro concesso il diritto di contrarre matrimonio misto (diritto questo che essi furono i soli tra gli Ernici a conservare a lungo). Agli abitanti di Anagni e al resto delle genti che avevano preso le armi contro Roma fu concessa la cittadinanza romana senza diritto di voto, venne revocato il diritto di libera assemblea e di matrimonio misto, e fu loro vietato di avere dei magistrati propri, fatta eccezione per quelli che si occupavano del culto. Nello stesso anno il censore Gaio Giunio Bubulco appaltò la costruzione del tempio della Salute da lui promesso in voto quand'era console durante la guerra contro i Sanniti. Lo stesso Giunio insieme al collega Marco Valerio Massimo fece costruire a spese dello stato una rete di strade che attraversava le campagne. E ancora in quell'anno venne rinnovato per la terza volta il trattato con Cartagine, e gli ambasciatori venuti a Roma per questo scopo ricevettero doni e un trattamento di grande cortesia.
( XLIV )
Lo stesso anno ebbe come dittatore Publio Cornelio Scipione, e Publio Decio Mure in qualità di maestro di cavalleria. I due presiedettero le elezioni consolari (cómpito per il quale erano stati nominati, in quanto nessuno dei due consoli aveva potuto allontanarsi dal fronte). Vennero eletti consoli Lucio Postumio e Tiberio Minucio. Questi consoli per Pisone seguono a Quinto Fabio e a Publio Decio, saltando però il biennio durante il quale abbiamo riferito che i consoli furono Claudio con Volumnio e Cornelio con Marcio. Non è chiaro se Pisone li abbia dimenticati nel redigere gli annali, oppure se abbia omesso di proposito i due consolati, ritenendoli privi di fondamento. Nel corso dello stesso anno ci furono incursioni da parte dei Sanniti nella pianura Stellate in Campania. Entrambi i consoli vennero inviati nel Sannio, dirigendosi però in zone diverse, Postumio a Tiferno e Minucio a Boviano. Il primo scontro avvenne a Tiferno, agli ordini di Postumio: alcuni autori sostengono che i Sanniti vennero sconfitti in maniera netta e che furono fatti 20.000 prigionieri; altri invece che le parti si allontanarono dopo una battaglia dall'esito rimasto incerto, che Postumio, fingendo di aver paura, marciando di notte andò a nascondere le sue truppe sui monti, e che i nemici gli tennero dietro, accampandosi a due miglia di distanza da lui in una posizione ben protetta. Il console, volendo dare l'impressione di aver scelto quella zona per porre l'accampamento fisso, in quanto sicura e ricca (come in effetti era), in un primo tempo fece dotare il campo di difese, attrezzandolo con ogni tipo di materiale. Dopo avervi lasciato una massiccia guarnigione armata, nel pieno della notte guidò lungo il percorso più breve possibile le sue truppe equipaggiate alla leggera fino a raggiungere il collega, accampato di fronte a un altro esercito nemico. Lì, su consiglio di Postumio, Minucio attaccò battaglia, e poiché lo scontro andò avanti nell'incertezza fino a giorno inoltrato Postumio aggredì all'improvviso con le sue forze ancora fresche i nemici ormai stremati. E così, visto che i Sanniti non riuscivano a fuggire per la stanchezza e le ferite riportate, furono uccisi tutti dal primo all'ultimo, mentre i Romani catturarono ventuno insegne, dirigendosi poi verso l'accampamento di Postumio. Qui i due eserciti vincitori, gettandosi sui nemici demoralizzati per le notizie ricevute, li travolsero costringendoli alla fuga e catturando ventisei insegne militari, più il comandante dei Sanniti Stazio Gellio, molti altri uomini ed entrambi gli accampamenti. Il giorno successivo venne iniziato l'assedio di Boviano, catturata anch'essa in breve tempo, e i due consoli che tanta gloria avevano conquistato con quelle imprese celebrarono il trionfo. Alcuni autori sostengono che il console Minucio, riportato nell'accampamento con una ferita molto grave, morì sul posto, e che per sostituirlo venne nominato console Marco Fulvio il quale, subentrando a Minucio nel comando del suo esercito, avrebbe conquistato Boviano. Nel corso di quell'anno Sora, Arpino e Cesennia vennero nuovamente strappate ai Sanniti, mentre una grande statua di Ercole venne collocata in Campidoglio e lì consacrata.
( XLV )
Durante il consolato di Publio Sulpicio Saverrione e di Publio Sempronio Sofro, i Sanniti - nel desiderio di porre fine alla guerra o di ottenere una tregua - inviarono a Roma ambasciatori per discutere la pace. Alle loro suppliche venne replicato che, se i Sanniti non avessero di frequente richiesto la pace continuando in realtà a preparare la guerra, si sarebbe potuto stipulare un trattato di pace con una semplice discussione tra le due parti in causa. Ma ora che le parole a tale riguardo si erano dimostrate vane, era necessario starsene ai fatti. Il console Publio Sempronio si sarebbe recato di lì a poco nel Sannio con un esercito, e non gli sarebbe certo potuto sfuggire che intenzioni avessero i Sanniti, se bellicose o pacifiche. Chiarito ogni aspetto, avrebbe riferito al senato. Che quindi i delegati seguissero il console al suo rientro dal Sannio. Quell'anno, poiché un esercito romano che l'aveva percorso in lungo e in largo aveva trovato il Sannio in condizioni pacifiche ed era stato generosamente rifornito dalle genti del posto, ai Sanniti venne di nuovo concesso il trattato di pace di una volta. Le armi di Roma si rivolsero poi contro gli Equi, antichi nemici, che per anni non avevano dato fastidi, sotto le apparenze di una pace di cui non ci si poteva fidare, ma che prima della disfatta inflitta agli Ernici avevano con questi ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la sottomissione degli Ernici erano passati quasi in massa dalla parte del nemico senza che venisse nascosta l'ufficialità di tale decisione. E quando poi - conclusa a Roma la pace coi Sanniti - erano arrivati i feziali a chiedere soddisfazione, gli Equi avevano sostenuto trattarsi di una manovra fatta dai Romani per convincerli ad accettare la cittadinanza romana forzandoli con lo spauracchio di una guerra. Ma quanto la cosa fosse desiderabile, erano stati loro Ernici a mostrarlo, scegliendo, quando ne venne data l'opportunità, le proprie leggi in luogo della cittadinanza romana. Quanti invece non avevano avuto l'opportunità di scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado accettare la cittadinanza romana come un castigo. Siccome i discorsi che si tenevano nelle assemblee erano in genere di questo tenore, il popolo romano ordinò di fare guerra agli Equi. E i due consoli, partiti alla volta del nuovo conflitto, si attestarono a quattro miglia dal campo nemico. L'esercito degli Equi, che non combattevano più guerre per conto proprio da moltissimi anni, costituito com'era da truppe raccogliticce, prive di comandanti e di precise autorità interne, era in grave affanno. E mentre alcuni proponevano di uscire allo scoperto e altri di difendere l'accampamento, la maggior parte fremeva al pensiero delle campagne devastate e delle città distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni armate. E così, quando tra le molte proposte se ne sentì una che lasciava da parte la causa comune invitando i singoli a preoccuparsi del proprio interesse particolare (e cioè a uscire, col calar della notte, dall'accampamento e portar via ogni cosa, rientrando nelle rispettive città per mettersi al riparo delle mura), venne accolta da un grande applauso collettivo. Quando i nemici si erano già sparsi per le campagne, all'alba i Romani si schierarono in ordine di battaglia. Ma dato che nessuno si faceva avanti, si diressero sùbito verso l'accampamento nemico. Quando videro che lì non c'erano sentinelle alle porte né gente di guardia dietro la trincea, e che non si sentiva il brusio tipico degli accampamenti, preoccupati da quel silenzio anomalo si fermarono per paura di finire in un'imboscata. Scavalcata poi la trincea e avendo trovato tutto deserto, cercarono di mettersi sulle tracce dei nemici. Ma le orme che portavano in tutte le direzioni (come sempre succede nel corso delle ritirate inconsulte), in un primo tempo sviarono i Romani. Quando poi vennero a sapere da informatori le vere intenzioni dei nemi-ci, cominciarono ad attaccare le città una dopo l'altra. In cinquanta giorni ne espugnarono trentuno fortificate, la maggior parte delle quali venne rasa al suolo e data alle fiamme, mentre quasi l'intera etnia degli Equi andò distrutta. Per il successo sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il loro annientamento servì da esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e ai Frentani, che inviarono a Roma delegati per chiedere pace e amicizia. E a questi popoli che ne facevano richiesta venne concesso un trattato di alleanza.
( XLVI )
Nello stesso anno, lo scrivano Gneo Flavio, figlio di un liberto (uomo per altro in gamba e ottimo parlatore) e di condizione molto umile, venne eletto edile curule. In alcuni annali ho trovato che, quando faceva ancora lo scrivano al servizio degli edili, vedendo che le tribù lo stavano designando edile ma che il suo nome non era tenuto in considerazione per la sua occupazione, depose la tavoletta giurando che non avrebbe mai più fatto quel lavoro. Ma Licinio Macro sostiene che Flavio doveva aver smesso molto prima di fare lo scrivano, perché era già stato tribuno della plebe e triumviro per due volte, la prima addetto alla vigilanza notturna, la seconda alla deduzione di una colonia. È comunque assodato che lottò con grande fermezza contro i nobili i quali ne disprezzavano le umili origini. Rese di pubblico dominio le formule del diritto civile, custodite negli archivi segreti dei pontefici, e fece affiggere nel Foro il calendario dei giorni fasti, perché tutti fossero al corrente dei giorni nei quali potevano adire le vie legali. Consacrò il tempio della Concordia nell'area di Vulcano, suscitando grande indignazione tra i nobili, perché in quell'occasione il pontefice massimo Cornelio Barbato fu costretto dal consenso unanime del popolo a suggerirgli le formule del rituale, non ostante continuasse a ripetere che per tradizione i soli autorizzati a consacrare un tempio erano il console o il comandante in capo delle forze armate. In séguito a quell'episodio, su proposta del senato, venne presentata al popolo una legge in virtù della quale nessuno poteva consacrare un tempio o un altare senza l'autorizzazione del senato o della maggioranza dei tribuni della plebe. Riferirò poi un episodio che di per sé non avrebbe alcuna importanza, ma che risulta essere una prova tangibile del senso di libertà della plebe davanti alla tracotanza nobiliare. Poiché Flavio era andato a fare visita a un collega malato, e i giovani nobili seduti intorno non si erano alzati di proposito al suo arrivo, egli fece portare laggiù la sedia curule e dall'alto di quel simbolo della sua autorità rimase a guardare i suoi avversari che si consumavano di rabbia. A eleggere Flavio era stata la fazione del Foro, divenuta potente grazie alla censura di Appio Claudio, che era stato il primo a contaminare la purezza del senato immettendovi figli di liberti. Ma poiché nessuno aveva considerato valida quella scelta ed egli non era riuscito a ottenere in senato quel potere politico che intendeva raggiungere, divise fra tutte le tribù i cittadini di più umile estrazione, corrompendo così il Foro e il Campo Marzio. E l'elezione di Flavio suscitò un tale sdegno, che la maggior parte dei nobili abbandonò l'anello d'oro e il medaglione da cavalieri. Da quel momento la città risultò divisa in due partiti: da un lato la parte di popolo che non era ancora corrotta e che sosteneva e rispettava i cittadini di estrazione più elevata, mentre dall'altro c'era la feccia del Foro, fino a quando vennero nominati censori Quinto Fabio e Publio Decio, e Fabio - vuoi per evitare che i comizi finissero in mano alla canaglia più abietta, vuoi per ristabilire la concordia - separò tutta la plebaglia del Foro, concentrandola in quattro tribù cui diede il nome di "urbane". A quanto si racconta i cittadini avrebbero avuto per lui una gratitudine tale da attribuirgli, in relazione a questo assennato riordinamento delle classi, il soprannome di Massimo, che non era riuscito a ottenere pur con tutte le vittorie sul campo. Sembra che sia stato ancora Fabio ad avere introdotto l'usanza di passare in rassegna i cavalieri alle idi di luglio.
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