III GUERRA FIDENATE (426 a.c.)



BATTAGLIA DI FIDENE


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Fidenae fu una città del Latium vetus, nella Valle del Tevere, secondo alcuni fondata da coloni provenienti da Alba Longa, ma secondo altri era di origine etrusca e distava circa 30 stadi da Roma. Al tempo di Strabone era ormai ridotta a un semplice villaggio o ad una vasta proprietà privata. La battaglia di Fidene del 426 a.c. avvenne tra l'esercito romano, guidato dal Mamerco Emilio Mamercino (inizio del V secolo a.c. - dopo il 426 a.c.) alla sua III dittatura, ed una coalizione nemica, formata da Fidenati ed Etruschi di Veio.

Eletti consoli Lucio Papirio Crasso e Lucio Giulio, i senatori ricevettero dai Volsci un trattato d'alleanza, che il senato trasformò in una proposta di resa, ottenendo infine una tregua di otto anni. I consoli successivi furono Lucio Sergio Fidenate, console per la seconda volta, e Ostio Lucrezio Tricipitino a cui seguirono Aulo Cornelio Cosso e Tito Quinzio Peno, al secondo mandato.

QUUADRIGA DEI VEIENTI

I VEIENTI SCONFINANO

I Veienti fecero razzie nel territorio romano, senz'altro più ricco del loro stesso territorio, forse appoggiati da alcuni Fidenati. Pertanto Lucio Sergio, Quinto Servilio e Mamerco Emilio vennero incaricati di procedere per dissuaderli con ogni mezzo. Alcuni Fidenati furono confinati a Ostia e venne aumentato il numero dei coloni ai quali venne assegnata la terra dei caduti in guerra. Intanto venne la siccità, il bestiame moriva di sete e di scabbia, e infine la malattia passò agli uomini. 

Perciò gli edili controllarono che non si venerassero divinità al di fuori di quelle romane e la vendetta contro i Veienti fu rimandata all'anno successivo, in cui furono consoli Gaio Servilio Ahala e Lucio Papirio Mugillano. Ma per scrupolo religioso, prima di dichiarare guerra, affinchè fosse una justum bellum, si decise di mandare prima i feziali a chiedere soddisfazione, ma questi non vennero neppure ricevuti.

Si discusse allora se la guerra andava dichiarata su decisione del popolo o solo su decreto del senato. Il console Quinzio portò la decisione di fronte al popolo, votarono tutte le centurie e vennero nominati quattro tribuni militari con potere consolare: Tito Quinzio Peno, già console, Gaio Furio, Marco Postumio e Aulo Cornelio Cosso.

AULO CORNELIO COSSO E MARCO CLAUDIO MARCELLO


AULO CORNELIO COSSO

Aulus Cornelius Cossus fu un politico e militare romano del V secolo a.c. che nella battaglia di Fidene uccise il re di Veio, Tolumnio, e per questo fu insignito delle spoglie opime, la più alta onorificenza romana rilasciata ai comandanti che uccidevano in battaglia il comandante nemico. In tutta la storia di Roma, solo tre persone ebbero le spoglie opime: Romolo, Cornelio Cosso e Marco Claudio Marcello, che uccise in battaglia un re dei Galli

L'episodio è narrato da Tito Livio nella sua Ab urbe condita:

«Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del Senato e per volontà del popolo, il dittatore rientrò a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu Cosso che avanzava con le spoglie opime del re ucciso. In onore di Cosso, i soldati cantavano rozzi inni, paragonandolo a Romolo. 

Con una solenne dedica rituale, egli appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle di Romolo, le prime, e fino a quel momento le uniche, a essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal carro del dittatore, così che quasi da solo raccolse il frutto della solennità di quel giorno. 

Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. 

Ma, a parte il fatto che tradizionalmente sono considerate opime solo le spoglie prese da un comandante a un altro comandante e che il solo comandante che noi riconosciamo è quello sotto i cui auspici si fa una guerra, la stessa iscrizione posta sulle spoglie confuta gli altri e me, dimostrando che Cosso era console quando le prese. 

Avendo io sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i templi, raccontare di aver letto lui personalmente quest'iscrizione su un corsaletto di lino quando entrò nel santuario di Giove Feretrio, che lui aveva fatto riparare dai danni del tempo, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. 

Ma è giusto che ciascuno abbia un'opinione personale in merito alla questione se vi sia o meno un errore, dato che sia gli annali antichi sia i libri lintei dei magistrati, depositati nel tempio di Moneta, che Licinio Macro cita continuamente come fonte), riportano solo nove anni dopo il consolato di Aulo Cornelio Cosso, insieme a Tito Quinzio Peno. 

Ma un altro valido motivo per non spostare una battaglia così famosa in quell'anno è che all'epoca del consolato di Aulo Cornelio per circa un triennio non ci furono guerre a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali, quasi in segno di lutto, riportano solo i nomi dei consoli. Due anni dopo il suo consolato, Cosso compare come tribuno militare con poteri consolari e nello stesso anno anche come magister equitum. 

E mentre ricopriva tale carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. In merito è possibile fare molte ipotesi, che per me sono però tutte inutili, dato che il protagonista del combattimento si sottoscrisse Aulo Cornelio Cosso console, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo, testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera.»

(Livio, Ab Urbe Condita, IV 20)
  
A tale Aulo Cornelio Cosso venne dunque dato il governo della città, mentre gli altri partirono alla volta di Veio ma poichè non andavano d'accordo, i Veienti ne approfittarono e li assalirono facendo fuggire i Romani nel loro accampamento, il che generò un grande disonore. 

La città costernata odiò i tribuni e chiese un dittatore, ma potendo questi essere nominato solo dal console, si consultarono gli auguri che tolsero quello scrupolo. Aulo Cornelio nominò dittatore Mamerco Emilio che a sua volta lo scelse come maestro della cavalleria.
 
FIDENE ALLE PORTE DI ROMA

 
MAMERCO EMILIO MAMERCINO

I più antichi membri della gens Aemilia avevano il cognome di Mamerci o Mamercini tra i quali ricordiamo: 
- Lucio Emilio Mamerco che sconfisse i Veienti, l'anno prima della strage dei Fabii; 
- Mamerco Emilio Mamercino, dittatore nel 437, 434 e 426, che sottomise Fidene; 
- Lucio Emilio Mamercino Privernate, console nel 341 e 329, che costrinse i Sanniti a chieder pace e poi trionfò sui Privernati;
- Tiberio Emilio Mamercino, che, console nel 339, sconfisse ì Latini ai campi Fenectani. 

Così, quando il paese ebbe veramente bisogno di un uomo di qualità superiori, si ricorse a Mamerco Emilio, eletto tribuno consolare nel 438 a.c. con Lucio Quinzio Cincinnato, il figlio di Cincinnato, dittatore l'anno precedente, e con Lucio Giulio Iullo.



VEIENTI E FIDENATI

Intanto i Veienti mandarono messaggeri in Etruria ad annunciare la vittoria su tre comandanti romani in una sola battaglia. Pur non ottenendo alcuna alleanza ufficiale dalla confederazione, attirarono molti volontari mossi dalla speranza del bottino. 

Soltanto i Fidenati decisero di riaprire le ostilità e, come già prima con gli ambasciatori così ora si macchiarono del sangue dei nuovi coloni. Quindi si unirono ai Veienti e scelsero Fidene come teatro di operazioni. Pertanto i Veienti, attraversato il Tevere, trasferirono l'esercito a Fidene. 

Roma era ora in grave pericolo, il senato richiamò da Veio l'esercito demoralizzato per la sconfitta, si pose l'accampamento di fronte alla porta Collina, si distribuirono uomini armati sulle mura, si sospese l'attività giudiziaria nel foro e si chiusero le botteghe. I cittadini Romani erano disperati.

CAPANNA PROTOSTORICA A FIDENE


ADLOCUTIO DI MAMERCO

Mamerco Emilio, il nuovo dittatore, convocò allora in assemblea i cittadini e li rimproverò di essersi persi d'animo per un così lieve mutamento della sorte. I Romani avevano subito un piccolo scacco, oltretutto non per il valore dei nemici nè per l'ignavia dell'esercito romano, ma per la mancata intesa tra i generali. Ora non dovevano temere i Veienti, da loro in passato già sconfitti ben sei volte, nè Fidene, città più spesso espugnata che assediata. 

I Romani e i loro nemici erano gli stessi di sempre e anche lui era lo stesso dittatore Mamerco Emilio che, poco tempo prima, aveva sbaragliato a Nomento gli eserciti di Veienti, Fidenati e Falisci alleati; come maestro della cavalleria in battaglia ci sarebbe stato quello stesso Aulo Cornelio che nella guerra precedente, come tribuno militare, aveva ucciso davanti a due eserciti il re dei Veienti Larte Tolumnio, e ne aveva portato poi le spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio. 

Dunque gli uomini stessero tranquilli e prendessero le armi, ricordandosi che dalla parte loro c'erano i trionfi, le spoglie e la vittoria, mentre da quella del nemico l'orrendo assassinio degli ambasciatori uccisi contro il diritto delle genti, il massacro in tempo di pace dei coloni di Fidene, la rottura della tregua e la settima ribellione destinata a fallire. 

Pronunciati poi solenni voti agli Dei, uscì e si accampò col suo esercito non lontano da Fidene, protetto dalle colline e dal Tevere. Fece occupare da Quinzio Peno le alture e pure un colle situato alle spalle dei nemici e fuori dalla loro vista. La mattina dopo, quando gli Etruschi avanzarono in ordine di battaglia, ormai certi della vittoria, il dittatore attese finché le vedette gli riferirono che Quinzio stava sul colle dietro a Fidene. 

LA CAPANNA RICOSTRUITA


L'ESERCITO DI FUOCO

Poi guidò lui stesso a passo di carica la fanteria contro il nemico, con i Romani inferociti contro i traditori Fidenati e i predoni Veienti. Dopo aver già fiaccato un po' la resistenza dei nemici, si spalancarono d'improvviso le porte di Fidene e ne uscì uno strano esercito, armato di torce e lanciato a una corsa folle. I Romani si bloccarono sbigottiti. Allora il dittatore chiamò il maestro della cavalleria coi suoi uomini e Quinzio dalle alture. Quindi si precipitò all'ala sinistra che aveva cominciato a ripiegare e gridò: 

"Vinti dal fumo come uno sciame di api, cacciati dalla vostra posizione, cederete a un nemico senz'armi? Non volete spegnere il fuoco con la spada? Se c'è da combattere col fuoco e non con le armi, perché non andate a strappare tutte quelle torce e non attaccate il nemico con le sue stesse armi? Avanti! Memori del nome di Roma e del coraggio dei vostri padri e vostro: deviate quest'incendio sulla città nemica e distruggete con le sue stesse fiamme Fidene, che con i vostri benefici non siete riusciti a placare! Vi spingono a farlo il sangue dei vostri ambasciatori e dei coloni e la vostra terra messa a ferro e fuoco!

I legionari raccolsero le torce che erano state lanciate, o le strapparono ai nemici, poi il maestro della cavalleria fece togliere il morso ai cavalli, e per primo a briglia sciolta si gettò in mezzo alle fiamme; e gli altri cavalli trascinano i cavalieri contro il nemico, seminando morte e devastazione ovunque. 



LA CONQUISTA DI FIDENE

Intanto il luogotenente Quinzio aveva attaccato il nemico alle spalle, gli Etruschi vennero circondati, mentre la maggior parte dei Veienti scappò verso il Tevere, e i Fidenati superstiti cercarono di rifugiarsi a Fidene, ma vennero uccisi sulla riva o furono travolti dalla corrente, solo pochi raggiunsero a nuoto la riva opposta. 

L'esercito nemico riparò in città ma vi entrarono pure i Romani, e gli uomini di Quinzio salirono sulle mura dando il segnale che la città era conquistata. 

Infine i nemici, gettate le armi, si consegnarono al dittatore, chiedendo di aver salva la vita. Città e accampamento vennero messi a sacco. Il giorno dopo, tra cavalieri e centurioni venne sorteggiato un prigioniero a testa. Due ne toccarono a quanti avevano dato prova di grandissimo valore. Il resto dei nemici venne venduto all'asta e il dittatore ricondusse in trionfo a Roma l'esercito vincitore e coperto di prede. 

Dopo aver ordinato al maestro della cavalleria di dimettersi dalla carica, Mamerco Emilio abdicò anche lui, restituendo dopo quindici giorni in pace, quel potere che aveva accettato in guerra, quando la situazione era critica. Il popolo lo adorò.

TEATRO OVVERO ANFITEATRO DI FIDENE


IL TEATRO DI FIDENE

Sotto il consolato di Marco Licinio e Lucio Calpurnio, un’improvvisa sciagura assunse le proporzioni della sconfitta in una grande guerra, ma al contrario della guerra se ne videro contemporaneamente  sia l’inizio che la fine. Svetonio e Tacito narrano di un certo Atilio, figlio di due liberti, che volle portare lo sfarzo romano in città e creare un edificio dove rappresentare lo spettacolo dei gladiatori.

Atilio era un uomo ambizioso e si era gettato in quell’impresa “non per dovizia di mezzi” e neppure per “ambizione municipale”, ma solamente per ottenere un “sordido guadagno”. Costruì un anfiteatro ligneo capace di contenere migliaia di persone le quali, all’inaugurazione, si riversarono occupando ogni posto libero. 

L’anfiteatro stracolmo di persone iniziò a vacillare sotto il loro peso. Il teatro si spostò verso l’interno e poi verso l’esterno, finché crollò all’interno. Il 27 d.c. fu segnato da questa catastrofe civile dove furono coinvolte circa 50.000 persone tra morti e feriti.

(Tacito -  Annales ) Suet., Tib., 40, e Oros., Hist., VII, 4, 11)

Atilio non aveva realizzato delle fondamenta abbastanza solide per sostenere le persone e non aveva legato correttamente le strutture lignee tra di loro, innescando così il drammatico crollo.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita - I e IV -
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VII-VIII -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
- Svetonio - Vita dei Cesari - Tiberio -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -
- Plutarco - Vita di Romolo - XXIII -
- Andrea Carandini - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
- Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Sansoni - Milano - 2001 -


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