BATTAGLIA DEL FIUME ALLIA (390 a.c.)


DIES ALLIENSIS

Il 18 luglio del 390 a.c., è indicato dai Romani nel loro calendario come Dies Alliensis (giorno dell’Allia), a memoria della data in cui ricorreva la terribile sconfitta subita presso il Fiume Allia, un piccolo affluente del Tevere, per mano dei temibili Galli.

I Galli Senoni, penetrati nella pianura Padana nel VI e V sec. a.c. e stanziatisi nelle Marche agli inizi del IV sec. a.c., attratti dalle ricchezze dei centri costieri tirrenici, attraversarono l’Etruria, passarono il Tevere ove era più facilmente guadabile, a nord di Roma, e scesero nel Lazio per la Via Salaria per abbattere Roma.

Nel 390 a.c., ad undici miglia dall’Urbe, lungo le rive dell’Allia (oggi Fosso Maestro) in prossimità di Crustumerium, avvenne la indimenticabile  e dolorosa battaglia tra i Galli guidati da Brenno e i Romani. Nonostante la discesa dei Galli fosse stata ripetutamente annunciata, l’esercito romano fu messo insieme tardivamente e in gran fretta, arruolando una leva di appena 15.000 uomini a contrastare i 30.000 guerrieri Galli.

L'esercito romano era il cosiddetto falangitico, cioè ordinato sul campo di battaglia con un rigido e compatto schieramento frontale, formato dai velites, giovani fanti armati alla leggera e, in seconda linea, come estremo fronte difensivo, una lunga fila di veterani.

La notevole superiorità numerica dei Galli, la staticità dello schieramento romano, che per risultare impenetrabile aveva ridotto al minimo lo spazio tra i legionari per formare un muro con gli scudi e le lance, unitamente alla sorpresa dei Romani per l'audacia impetuosa e per il modo di combattere dei barbari, portarono i capitolini ad una disfatta che si tramutò presto in massacro, tanto grande che, quello stesso giorno, venne ricordato nei calendari romani come nefastus, ossia infausto.



LA BATTAGLIA SULL'ALLIA

I Tribuni dispiegarono lo schieramento al di qua dell’Allia, all’XI miglio della Salaria, con l’ala sinistra vicina al Tevere, il centro dell'esercito posto all’imbocco del passo della Marcigliana e l’ala destra sulle pendici del colle presso Crustumerium. Proprio lo schieramento di destra fu sorpreso da un primo attacco a cuneo dei Galli che, passato l’Allia, avevano travolto facilmente i velites. 

Brenno, infatti, temendo che le riserve romane disposte sull’altura lo avrebbero impegnato nel mezzo della battaglia scagliandosi contro il suo esercito in pianura, anticipò le iniziative romane attaccando direttamente le riserve di destra che, sorprese dalla strategia nemica, retrocessero dandosi alla fuga per i boschi di Fidenae. I Galli quindi si riversarono sugli schieramenti di centro e di sinistra dell’esercito romano ormai scoperto che, per sottrarsi alla carneficina, si ritirò attraversando il Tevere per rifugiarsi a Veio.

Il dies fu dunque proclamato religiosus, giorno in cui si riteneva nefasto svolgere qualsiasi cosa e per controbilanciare la ricorrenza negativa, i Romani istituirono un'importante festa nei giorni 19 e 21 luglio dedicandola alle divinità dei boschi che avevano consentito la salvezza dei soldati in fuga (Lucarie).

Precedentemente, nel 391 a.c., accusato dal popolo romano per una ragione non chiara, il generale Marco Furio decise di andare in esilio volontario ad Ardea, proprio quando i Galli Senoni, guidati da Brenno, cingono d'assedio Chiusi, che invia degli ambasciatori a Roma per chiedere aiuto contro i Galli che hanno attraversato le Alpi e si sono stanziati nelle terre un tempo coltivate dagli Etruschi. 

A invitare i Galli all'invasione sarebbe stato Arrunte di Chiusi per vendicarsi di Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, nonostante ne fosse stato il tutore. Comunque, a onor di cronaca, i Galli erano scesi in Italia duecento anni prima dell'assedio di Chiusi e della presa di Roma, scontrandosi varie volte con gli Etruschi delle Alpi e degli Appennini. 

I GALLI

I GALLI SENONI

I Senoni, furono gli ultimi Galli a invadere la penisola, riversandosi su Chiusi e poi su Roma. Gli abitanti di Chiusi, atterriti, pur non avendo coi Romani alcun vincolo di alleanza e di amicizia, come "ultima ratio" inviarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuto al senato. Il senato mandò solo i tre figli di Marco Fabio Ambusto a trattare coi Galli, a nome del senato e del popolo romano, affinché questi ultimi non attaccassero gli alleati e gli amici del popolo romano, dai quali non avevano ricevuto alcun torto. 

Se le circostanze lo richiedevano, i Romani erano pronti a difendere alleati e amici, anche a costo di affrontare un conflitto. i Galli risposero che, pur non avendo mai sentito prima il nome dei Romani, li ritenevano dei guerrieri valorosi perché gli abitanti di Chiusi ne avevano invocato l'intervento nel pieno dell'emergenza. 

E, siccome i Romani avevano scelto di difendere i propri alleati attraverso un'ambasceria piuttosto che con la spada, non avrebbero disprezzato la pace offerta dai legati, a patto che gli abitanti di Chiusi, i quali possedevano più terra di quanta non ne coltivassero effettivamente, ne avessero ceduta una parte ai Galli che invece ne avevano bisogno. 

Aggiunsero che desideravano una risposta in presenza dei Romani perché, se veniva loro negata la concessione di appezzamenti di terra, avrebbero combattuto sotto gli occhi dei Romani stessi, affinché potessero tornare in patria a raccontare quanto i Galli fossero superiori per valore a tutti gli altri esseri umani. In breve si passò alle armi e fu subito battaglia. 



IL TRADIMENTO DI QUINTO FABIO

Ma Quinto Fabio, violando le regole sacre degli ambasciatori e spintosi al galoppo al di là delle prime linee, uccise trafiggendolo nel fianco con l'asta il comandante dei Galli che si stava lanciando impetuosamente contro le schiere etrusche. Soprattutto nelle famiglie più nobili vi era l'ossessione dei giovani di mostrarsi all'altezza dei loro avi compiendo gesti di valore, ma talvolta avventati. 

Mentre Fabio raccoglieva le spoglie del nemico abbattuto, i Galli lo riconobbero e la notizia che si trattava dell'ambasciatore romano fece il giro delle truppe. Lasciata da parte l'ira contro gli abitanti di Chiusi, i Galli fecero suonare la ritirata, proferendo minacce all'indirizzo dei traditori Romani. 

Ciò che era accaduto era gravissimo, gli ambasciatori avevano nella consuetudine dei popoli l'immunità di coloro che l'accoglievano in quanto avevano l'obbligo di comportarsi nel modo più neutrale possibile. Violando la regola chiunque avrebbe potuto attaccare gli ambasciatori di qualsiasi paese. l'azione era riprovevole per qualsiasi popolo.



IL TRADIMENTO DEL SENATO

Alcuni Galli volevano marciare immediatamente contro Roma. Ma prevalse la tesi dei più anziani di mandare prima degli ambasciatori a Roma col compito di protestare per le offese subite e di chiedere la consegna dei Fabii in quanto colpevoli di aver violato il diritto delle genti.

il senato si trovò a disapprovare la condotta dei Fabii e riteneva che le richieste avanzate dai barbari fossero di pieno diritto. Ma il desiderio di non dispiacere a una famiglia di alta nobiltà impedì loro di agire. Pertanto onde non responsabilizzarsi di un'eventuale sconfitta nella guerra contro i Galli, i senatori affidarono al popolo la decisione, popolo che per tutta risposta, e in piena incoscienza, elesse i Fabii tribuni militari con potere consolare per l'anno successivo. 

Allora i Galli  tornarono inferociti dai compagni lanciando prima esplicite minacce di guerra. I tribuni militari eletti insieme ai tre Fabii furono Quinto Sulpicio Longo, Quinto Servilio (per la quarta volta) e Publio Cornelio Maluginense.

GALLI SENONI

METUS GALLICUS

I Galli partirono in marcia a tappe forzate. Il terrore dei Galli, o "Metus Gallicus" a Roma fu così forte che molti romani non parteciparono, convinti di andare a morte certa. Così ad affrontare i Galli venne inviato ad appena undici miglia dalla città, dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in una gola profonda, si getta nel Tevere poco sotto la strada, un esercito più o meno improvvisato e raccolto in fretta e furia.

Quanto al numero dei combattenti, si dice che i Romani erano 40.000; ma non potevano essere più di 10 o 15.000 uomini, e non più di 10.000 di fanteria pesante. Dei Galli si dice che erano 70.000, ma sembra fossero 30.000.
 
 

LA BATTAGLIA CHE NON AVVENNE

I tribuni militari privi di intuito e di esperienza, senza aver scelto uno spazio per il campo nè scavato una trincea, schierarono l'esercito scegliendo una disposizione ad ali molto allargate per evitare di essere circondati dalla massa dei nemici, ma il fronte non raggiunse l'estensione di quello avversario, mentre l'assottigliarsi dei ranghi nella parte centrale dell'esercito rese debole e poco compatto quel settore. 

Sulla destra c'era un piccolo rilievo del terreno: i Romani decisero di occuparlo con truppe di riserva, ma Brenno, il capo dei Galli, temendo che l'esiguo manipolo di nemici mascherasse uno stratagemma, e pensando che i Romani avessero occupato quell'altura per permettere a ipotetiche e vaste riserve di assalire il nemico al fianco e alle spalle non appena i Galli avessero attaccato frontalmente, operò una conversione e si diresse contro i riservisti. 

Il terrore e la fuga spinsero le truppe romane, nonostante l'ostacolo del Tevere, verso Veio (una città nemica) anziché fuggire direttamente a Roma che lasciarono così sguarnita di difese. In battaglia non ci furono vittime. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nel disordine della fuga, si intralciarono reciprocamente combattendo gli uni contro gli altri. 

Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu un immenso massacro: moltissimi, non sapendo nuotare o stremati, gravati dal peso delle corazze e dal resto dell'armamento, annegarono nella corrente. Il grosso dell'esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno la notizia della disfatta. 

I GALLI SI DIRIGONO A ROMA

A ROMA

Gli uomini schierati all'ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più vicino alle pendici del monte, invece si diressero in massa a Roma e lì, terrorizzati e senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, ripararono nella cittadella. 

Ma anche i Galli, attoniti di fronte a quella vittoria miracolosa ottenuta in maniera così repentina, rimasero sulle prime immobili per lo stupore e cominciarono a temere l'eventualità di un'imboscata. E infine si misero a spogliare i caduti, accatastando, com'era loro abitudine, le armi che trovavano. Alla fine, dopo aver rilevato che negli immediati dintorni non c'erano tracce del nemico, si misero in marcia e poco prima del tramonto raggiunsero la periferia di Roma.



IL SEGUITO

Vinta la battaglia, i Galli si spinsero fino a Roma saccheggiandola e incendiandola. Assediarono il Campidoglio ma, avendo ancora retaggi nomadi, non erano interessati ad occupare la città, per cui dopo il saccheggio si ritirarono. Tuttavia la tradizione romana attribuisce la liberazione della città al dittatore Camillo, il Pater Patriae che sconfisse i Galli recuperando l’oro.

Comunque il Metus Gallicus sarà sempre vivo nei romani, fino a quando. oltre tre secolo dopo non comparirà il genio del più grande generale della storia, Giulio Cesare, che metterà in otto anni tutte le Gallei in ginocchio, asservite al potere di Roma.

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