LA MORTE PER I ROMANI




"SII ALLEGRO E GODITI LA VITA" ammonisce uno spensierato scheletro affiancato da una forma di pane e una bottiglia di vino. Il mosaico è stato reperito in Turchia, è scritto in greco ed è del III secolo a,c., ma sembra appartenga a una villa romana.

Per i Romani, nell’età più antica, la rappresentazione della morte si identificava con Mors, ovvero Orcus. Essi pensavano che quando la vita si spegneva, l’anima usciva liberandosi e discendeva nel regno di Ade; alle anime veniva poi consentito di tornare sul mondo dei viventi in precise occasioni, per aiutarle con qualche avvertimento o per avversarle se avevano ricevuto torti.
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Pertanto, come dichiara lo scheletro dall'alto della sua saggezza da defunto, la vita per alcuni poteva essere più godibile da vivo che da morto, ma per i romani l'anima piangeva alla nascita quando doveva incarnarsi e rideva alla morte del corpo perchè sapeva di tornare a un mondo più felice, e avvertiva pure: "Hodie mihi, cras tibi", (Oggi a me, domani a te)

Secondo i romani più antichi le anime, liberate dal corpo, si tramutavano in essenze divine, i Manes (Mani), o Dei Mani, che con la loro presenza rendevano sacro il luogo dove il defunto era sepolto. Nella comunità familiare i Manes rappresentavano la comunità dei defunti ed il loro rapporto con i vivi era regolato da comportamenti rituali. 


Si riteneva che l’anima del defunto non potesse godere del riposo al quale aveva diritto fino a che il cadavere non fosse stato sepolto, e celebrate le esequie. Pertanto i legionari ci tenevano a seppellire i compagni caduti e credevano che dall'oltretomba li proteggessero. 

In tutte le antiche religioni si pensava che i morti proteggessero i vivi a loro cari, sia che fossero discendenti diretti o indiretti, poi il cristianesimo ha cancellato tutto e siamo noi vivi a dover proteggere i defunti dalle pene, con le preghiere o pagando le messe.

Per i Romani la morte aveva un forte impatto civile: c'era il testamento con le sue clausole e, se il defunto era famoso, il suo funerale doveva avere un impatto pubblico. I riti funebri romani avevano una complessa organizzazione e i cittadini, per assicurarsi una sepoltura adatta al loro rango, si iscrivevano ai collegia funeraria o funeratica o funeraticia, ma non mancavano poi i libitinarii (impresari di pompe funebri). 


COLLEGIA FUNERATICA

Fin dal periodo repubblicano esistevano collegi di artigiani che condividevano il sepolcro come ad esempio:
- collegium anularium, CIL, I, 1107; CIL, VI, 9144;
- collegium restionum, CIL, VI, 9856;
- collegium tibicinum, CIL, VI, 3877).
collegium Salutare - sia religioso che funerario “Bull. arch. com.”, 1885, p. 51, tav. 6;
- collegium Sanctissimum, CIL, VI, 404;
- collegium Victoriae Augustae, CIL, III 1365, ecc.).
- collegia tenuiorum (Marciano, Dig., XLVII, 22),

Trattavasi grosso modo di una «cassa mutua di previdenza» (arca communis) per le spese di culto e della sepoltura dei membri (sodales), tramite un contributo fisso mensile. Il collegio, alla morte di uno dei suoi membri, avrebbe sostenuto gli eredi per le spese del funerale e della sepoltura, talvolta anche per le spese di viaggio. 

Come tutti i collegi autorizzati, anche potevano disporre di un locale o di un luogo di riunione (schola, templum) e di un luogo di sepoltura o di un monumento sepolcrale comune per tutti i loro membri, talora anche per le donne ed i bambini della loro famiglia (CIL, VI, 9484, 9569; IX, 584, ecc.). Dei collegi facevano parte anche schiavi, se autorizzati dai padroni (Dig., VI, 6).

IMMAGINE EPICUREA DELLA MORTE

LA VITA OLTRE LA MORTE

Nella civiltà romana antica i riti funebri erano strettamente collegati con le credenze dell’oltretomba, e la sepoltura dei defunti è la condizione essenziale per la pace del loro spirito. Alcuni collegi esercitavano un culto a determinate divinità come: collegium Aesculapii, collegium Iovis e collegiium Cerneni. I soci defunti vengono onorati in determinate solennità annuali mediante l’ornamento delle tombe ed i banchetti commemorativi, detti convivii o simposii.

La massima diffusione di questi collegia funeraticia avviene, in Italia e nelle province latine dell’Impero, nel II secolo d.c. In Africa se ne conoscono pochi esempi, in Oriente e nelle province greche sono sconosciuti. Durante l’età imperiale, vi sono collegi di legionari che provvedevano anche alle spese di viaggio, e così via. I collegia funeraria spariscono con il cristianesimo, giacché la Chiesa stessa provvede direttamente alla sepoltura dei poveri. Al tempo di Giustiniano i collegia funeraticia erano già spariti.



IL RITO FUNEBRE

Dopo la morte, i suoi familiari lo chiamavano più volte gridando ad alta voce il suo nome (conclamatio), veniva poi profumato e vestito a nuovo e profumato dai pollinctores. Posto sul letto funebre, il defunto veniva esposto nell'atrio della casa. In bocca gli veniva messa una moneta, per pagare il il viaggio per gli Inferi al traghettatore Caronte. Dopo otto giorni iniziavano le exsequiae, proclamate da un banditore.

Al momento del decesso era il pater familias (o il suo successore), ad organizzare il trasporto funebre delle funzioni sacrali necessarie; se era uomo della plebe, alla sepoltura seguiva un convito come offerta simbolica del defunto, e i funerali dei bambini e dei poveri si celebravano di notte, se invece era un gentilizio, si passava dall’esposizione in casa per più giorni del defunto, alla processione e alla commemorazione nel foro e infine la deposizione nella tomba.

Tra il I sec. a.c. e il I d.c., la diffusione del pensiero stoico ed epicureo aveva minato la convinzione della sopravvivenza dell'anima, che sarebbe stata riassorbita da un'energia universale e privata di ogni individualità. Lo stoico e l'epicureo affrontavano serenamente questa realtà.



I FUNERALI DEI FAMOSI

I funerali dei personaggi più prestigiosi a livello sociale o appartenenti a una famiglia prestigiosa, avvenivano sempre di giorno e con molto sfarzo. 

A1 corteo funebre prendevano parte, oltre ai parenti e ai congiunti del defunto, anche altri personaggi: suonatori, portatori di fiaccole, lamentatrici pagate appositamente (le piagnone, dato che per le matrone non era fine abbandonarsi a gemiti, pianti e lamenti), in più avevano mimi e attori che recitavano scene di vita del defunto. I parenti indossavano delle maschere rappresentanti i volti degli illustri antenati della famiglia.

Giunti al Foro, un parente maschio prendeva la parola e pronunciava un discorso di commemorazione, importante perché sottolineava il legame tra famiglia e città. Ottaviano a 12 anni fece la commemorazione funebre di sua nonna Giulia stupendo alquanto i suoi uditori. 

Poi seguiva la cremazione, a Roma e nel Lazio tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro era assai frequente, praticata soprattutto nell'età arcaica e repubblicana; in età imperiale lasciò progressivamente posto alla tumulazione.  In entrambi i casi le ceneri o il corpo venivano posti in una tomba che recava un'iscrizione, al di fuori della Cinta muraria.      
                                                                                                                                                                    Nel Lazio nei primi decenni del VI secolo a.c. termina l’uso di deporre il corredo funerario nelle tombe (che permetteva di distinguere il sesso del defunto e la classe sociale di appartenenza. Verso la metà circa del IX secolo si diffonde il rito inumatorio che coesiste con quello inceneritorio per poi soppiantarlo in poche decine d’anni.

LARVA CONVIVIALIS
                                                                                                                                       
LEMURI

Per scongiurare l’arrivo dei Lemuri ogni 9, 11 e 13 maggio i romani celebravano i Lemuria: verso mezzanotte, a piedi nudi, il capo famiglia si lavava tre volte le mani e metteva in bocca una fava nera, per nove volte, sputandola poi dietro di sé in direzione dell’uscio ma senza guardarlo.

Doveva poi recitare la frase “con queste fave io riscatto me e i miei” con la credenza che i Lemuri le raccogliessero. Dopo un’altra lustrazione delle mani diceva “Manes exìte paterni!” (Ombre dei miei antenati, andatevene!). I Lemuri erano così placati per un anno. 

I manes erano in realtà spiriti protettori, ma alcuni erano ritenuti poco benevoli, per il loro carattere o per il rapporto che avevano avuto da vivi coi vivi. Ma col rituale del pater familias nulla poteva accadere. 


LARVA CONVIVIALIS

La larva convivialis era il piccolo scheletro che i Romani mostravano durante i banchetti, come monito a cogliere i piaceri della vita:

“Mentre noi stavamo bevendo e ammirando con grandissima attenzione quel lusso, un servo portò uno scheletro d'argento costruito così che le articolazioni e le vertebre snodate si potessero piegare in ogni parte. Avendolo gettato una prima volta e una seconda sulla tavola, e assumendo quel congegno mobile pose diverse, Trimalchione aggiunse: Ahi! Come siamo miseri, che nullità è l'ometto! Così saremo tutti, dopo che l'Orco ci porterà via. Quindi viviamo finché è possibile stare bene."
(Petronio, Satyricon)

Anche nei banchetti degli Egizi “Quando si è finito di mangiare, un uomo porta in giro una statua di legno in una bara, scolpita e dipinta in modo da imitare alla perfezione un cadavere, lunga in tutto uno o due cubiti; e mostrandola a ciascuno dei convitati dice: Guardalo e bevi e divertiti: da morto sarai così.”
(Erodoto, Storie)

La larva convivialis era uno scheletro in miniatura snodabile che aveva la funzione, durante il banchetto romano, di ricordare la brevità della vita e di esortare quindi i convitati a non dolersi dei contrattempi della vita e a godere dei suoi piaceri. Contemporaneamente il padrone di casa da un lato stupiva i suoi ospiti con pietanze strabilianti ed esotiche, dall'altro li colpiva con l’immancabile memento mori (“ricordati che devi morire”).
Non solo faceva giocare gli ospiti con gli innumerevoli scheletrini riprodotti in bronzo o argento, oppure faceva portare scheletri veri più impressionanti ma c'era pure un fattore di moda. Infatti andava molto la filosofia epicurea che nel I sec. d.c. aveva preso piede nelle classi alte della società romana. 
Pertanto parlare di morte era accettare coraggiosamente la visione della morte come un bravo epicureo, ed essere epicureo era sinonimo di saggezza, perchè l'accettazione della morte era alla base della saggezza dell'uomo.
LUCERNA COC SCHELETRI A COLLOQUIO

Una chiara testimonianza di come doveva avvenire la presentazione della larva, sotto forma di marionetta, durante il banchetto si ha nel Satyricon di Petronio quando il padrone di casa, Trimalcione, fa gettare su tavolo dei suoi ospiti questi scheletrini e accompagna l’esibizione con motti sulla brevità della vita:

"Larvam argenteam sic aptatam, ut articuli eius vertebraeque laxatae in omnem partem flecterentur"
(trad.: “uno scheletro d’argento costruito in modo tale che lo snodo delle vertebre e delle giunture permetteva qualunque tipo di movimento.”
 (XXXIV, 8).

Qui sopra uno scheletro in miniatura in bronzo o "Larva Convivalis", un "memento mori" consegnato agli ospiti durante le feste, articolato ma con la parte inferiore della gamba destra mancante e il braccio sinistro sostituito dalla parte inferiore della gamba destra.
Memento mori si traduce dal latino come "Ricordati che devi morire". Si tratta di un tipo speciale di memento mori, chiamato larva convivialis, dato agli invitati a un banchetto o a una festa. Anche quando i Romani si divertivano, si ricordavano della loro mortalità.

Lo scheletro di bronzo è alto poco più di 110 mm. Per uno strano motivo, la gamba destra dello scheletro articolato è stata sostituita dal braccio sinistro, in un modo che ha del tragicomico. Si tratta di un esemplare estremamente raro dove i resti del defunto devono far ridere anzichè commuovere o far riflettere.

BIBLIO

- R. Del Ponte - La religione dei romani - Rusconi - Milano - 1992 -
- Lo spettacolo della morte - Breve storia del funerale - L'ornitorinco Edizioni - Milano - 2010 -
- Michel Ragon - L'espace de la mort: essai sur l'architecture, la décoration et l'urbanisme funéraire - Albin Michel - 1981 -
- J. Bodel - Death on display: looking at Roman funerals - in The art of ancient spectacle - eds. B. Bergmann, C. Kondoleon - Washington - 1999 -


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